La filosofia è per Dühring lo sviluppo della forma più alta della coscienza del mondo e della vita, e abbraccia, in un senso alquanto lato, i principi di tutto il sapere e di tutto il volere. Laddove una serie qualsiasi di conoscenze o di impulsi o un gruppo di forme di esistenza si pongono problematicamente alla coscienza umana, i principi di queste forme costituiscono necessariamente un oggetto della filosofia. Questi principi sono le parti costitutive semplici, o che sinora si sono presupposte semplici, da cui si fa risultare il sapere e il volere nella loro complessità. Analogamente alla costituzione chimica dei corpi, anche la concezione generale delle cose può essere ridotta a forme ed elementi fondamentali. Queste ultime parti costitute, o principi, una volta che siano state acquisite, sono valide non semplicemente per ciò che è immediatamente noto e accessibile, ma anche per il mondo a noi ignoto e inaccessibile. Conseguentemente i principi filosofici costituiscono l'ultima integrazione di cui abbisognano le scienze per diventare un sistema unitario di spiegazione della natura e della vita umana. Oltre alle forme fondamentali di ogni esistenza, la filosofia ha solo due oggetti peculiari di indagine, ossia la natura e il mondo umano. Conseguentemente, per disporre ordinatamente la nostra materia, ci si offrono in modo assolutamente spontaneo tre gruppi, cioè la schematizzazione generale del mondo, la dottrina dei principi della natura e finalmente quella dell'uomo. Questa successione contiene ad un tempo un ordinamento logico interno; infatti, i principi formali, che sono validi per tutto l'essere, hanno la precedenza, e i campi oggettivi, a cui essi devono applicarsi, seguono in ordine discendente, secondo il loro rapporto di subordinazione. Sin qui Dühring, e quasi completamente alla lettera.
In lui si tratta, quindi, di principi, di principi formali, dedotti dal pensiero e non dal mondo esterno, i quali devono essere applicati alla natura e al regno dell'uomo, e ai quali, quindi, devono conformarsi la natura e l'uomo. Ma da dove prende il pensiero questi principi? Da se stesso? No, infatti Dühring stesso dice che il campo puramente ideale si limita a schemi logici e a formulazioni matematiche (la quale ultima cosa, per giunta, come vedremo, è anche falsa). Gli schemi logici si possono riferire solo a forme di pensiero; qui si tratta invece, solo di forme dell'essere, del mondo esterno, e queste forme il pensiero non può mai crearle né dedurle da se stesso, ma precisamente solo dal mondo esterno. Ma con ciò tutto il rapporto si inverte: i principi non sono il punto di partenza dell'indagine, ma invece il suo risultato finale; non vengono applicati alla natura e alla storia dell'uomo, ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il regno dell'uomo si conformano ai principi, ma i principi, in tanto sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia. Questa è l'unica concezione materialistica dell'argomento e quella di Dühring, ad essa contrapposta, è idealistica, sovverte completamente le cose e costruisce il mondo reale partendo dal pensiero, da schematismi, schemi o categorie esistenti dall'eternità in qualche luogo prima del mondo, precisamente come un Hegel.
Infatti, raffrontiamo l'"Enciclopedia" di Hegel, con tutti i suoi deliri febbrili, e le verità definitive di ultima istanza di Dühring. In Dühring abbiamo in primo luogo la schematizzazione generale del mondo, che in Hegel si chiama Logica. Abbiamo poi l'applicazione di questi schemi, ovvero categorie logiche, alla natura: Filosofia della natura, e infine la loro applicazione al regno dell'uomo, che è ciò che Hegel chiama Filosofia dello spirito. L'"ordinamento logico interno" della successione dühringiana ci riporta dunque "in modo assolutamente spontaneo" all'Enciclopedia di Hegel da cui è stata desunta con una fedeltà che muoverebbe alle lacrime l'ebreo errante della scuola hegeliana, il professor Michelet di Berlino [24].
Questo è il risultato che si ha, se si accetta "la coscienza", "il pensiero", in modo assolutamente naturalistico, come qualche cosa di dato, di contrapposto a priori all'essere, alla natura. Si deve trovare allora sommamente strano che coscienza e natura, pensiero ed essere, leggi del pensiero e leggi della natura coincidano tanto. Ma se ci si chiede ulteriormente che cosa siano allora pensiero e coscienza, e da dove essi traggono origine, si trova che essi sono prodotti dal cervello umano e che l'uomo stesso è un prodotto della natura che si è sviluppato col e nel suo ambiente; da ciò si intende allora senz'altro che i prodotti del cervello umano, i quali in ultima istanza sono anch'essi prodotti naturali, non contraddicono il restante nesso della natura, ma invece vi corrispondono [25].
Ma Dühring non si può permettere una trattazione così semplice della cosa. Egli pensa non solo in nome dell'umanità, il che sarebbe già un bell'affare, ma in nome degli esseri coscienti e pensanti di tutti i corpi celesti.
In effetti sarebbe "una degradazione delle forme fondamentali della coscienza e del sapere, il volere, con l'epiteto di umane, escludere o anche solo mettere in dubbio la loro sovrana validità e il loro incondizionato diritto alla verità".
Poiché, quindi, non sorga il sospetto che in qualche altro corpo celeste due e due non facciano cinque, Dühring non può dare al pensiero la qualifica di umano, e deve conseguentemente separarlo dall'unica base reale su cui esso esiste per noi, ossia dall'uomo e dalla natura; e con ciò piomba senza scampo in un'ideologia che lo rivela epigono dell'"epigono" Hegel. Del resto incontreremo ancora spesso Dühring su altri corpi celesti.
Si intende facilmente che su una siffatta base ideologica non si può fondare nessuna dottrina materialistica. Vedremo più tardi che Dühring più di una volta è costretto a sostituire alla natura un modo di agire cosciente, e dunque ciò che in linguaggio comune si chiama dio.
Ma il nostro filosofo della realtà ha ancora un altro motivo per trasferire la base di tutta la realtà dal mondo reale al mondo del pensiero. Invero, la scienza di questo schematismo generale del mondo, di questi principi generali dell'essere, è precisamente la base della filosofia di Dühring. Se non facciamo poggiare lo schematismo del mondo sulla testa, ma semplicemente deduciamo per mezzo della testa i principi dell'essere dal mondo reale, da ciò che è, non abbiamo bisogno per far questo di alcuna filosofia, ma di conoscenze positive del mondo e di ciò che avviene in esso, e parimente ciò che ne risulta non è filosofia, ma scienza positiva. Ma così tutto il volume di Dühring non sarebbe che una fatica d'amore perduta.
Inoltre: se non è più necessaria una filosofia come tale, allora non sarà più necessario neanche un sistema e neppure un sistema naturale di filosofia. L'aver compreso che la totalità dei fenomeni della natura sta in un nesso sistematico, spinge la scienza a dimostrare questo nesso sistematico dappertutto, così nel particolare come nell'insieme. Ma un'esposizione adeguata, esauriente, scientifica di questo nesso, la costruzione di un'immagine concettuale esatta del sistema del mondo in cui viviamo resta impossibile per noi come per ogni altra epoca. Se in un qualsiasi momento dello sviluppo umano fosse portato a compimento un tale sistema definitivamente conclusivo dei nessi del mondo, tanto fisici che spirituali e storici, il regno della conoscenza umana sarebbe così concluso, e dal momento in cui la società si fosse organizzata in accordo con quel sistema, sarebbe troncato il futuro sviluppo storico progressivo: la qual cosa sarebbe un assurdo, un puro controsenso. Gli uomini si trovano quindi davanti a questa contraddizione: da una parte di aver da conoscere in modo esauriente il sistema del mondo in tutti i suoi nessi, dall'altra, sia per la propria natura che per la natura del sistema del mondo, di non poter mai assolvere completamente a questo compito. Ma questa contraddizione non è insita solo nella natura dei due fattori, mondo e uomo, ma è anche la leva principale di tutto il progresso intellettuale e si risolve giornalmente e continuamente nell'infinito sviluppo progressivo dell'umanità, precisamente come certi problemi matematici trovano la loro soluzione in una serie infinita o in una frazione continua. In effetti ogni immagine concettuale del sistema mondo è e resta limitata oggettivamente dalla posizione storica, e soggettivamente dalla costituzione fisica e spirituale del suo autore. Ma Dühring proclama a priori che la sua maniera di pensare è tale da escludere ogni velleità di rappresentare il mondo in modo soggettivamente limitato. Abbiamo visto prima che egli è onnipresente in tutti i corpi celesti. Ora vediamo anche che è onnisciente. Ha risolto i problemi ultimi della scienza e così ha sprangato il futuro di ogni scienza.
Come le forme fondamentali dell'essere, Dühring ritiene di poter far nascere bella e pronta dalla testa anche tutta la matematica pura, aprioristicamente, cioè senza servirsi dell'esperienza che il mondo esterno ci fornisce. Nella matematica pura l'intelletto deve occuparsi "delle sue proprie libere creazioni ed immaginazioni"; i concetti di numero e di figura sono "un oggetto adeguato ad essa e che da essa stessa può essere prodotto", e conseguentemente essa ha una "validità indipendente dall'esperienza particolare e dal reale contenuto del mondo".
Che la matematica pura abbia una validità indipendente dall'esperienza particolare di ogni singolo individuo è certamente giusto e vale per tutti i fatti stabiliti di ogni scienza, anzi per tutti i fatti in generale. Il fatto che l'acqua è composta di idrogeno e di ossigeno, il fatto che Hegel è morto e Dühring vive, hanno una validità indipendente dall'esperienza mia o di altri singoli individui e persino indipendente dall'esperienza di Dühring, non appena egli dorme il sonno del giusto. Ma non è affatto vero che nella matematica pura l'intelletto si occupi semplicemente delle creazioni e delle immaginazioni sue proprie. I concetti di numero e di figura non sono presi assolutamente da altro che dal mondo reale. Le dieci dita con cui gli uomini hanno imparato a contare e quindi a compiere le prime operazioni aritmetiche sono tutto quel che si vuole fuorché una libera creazione dell'intelletto. Per contare occorrono non solo oggetti numerabili, ma anche la capacità di prescindere, nella considerazione di questi oggetti, da tutte le altre loro proprietà tranne che dal loro numero: e questa capacità è il risultato di un lungo sviluppo storico fondato sull'esperienza. Come il concetto di numero, così il concetto di figura è preso a prestito esclusivamente dal mondo esterno e non è nato nella mente per opera del puro pensiero. Prima che si sia potuto arrivare al concetto di figura, ci dovevano essere delle cose che avevano una forma e le cui forme sono state raffrontate. La matematica pura ha per oggetto le forme spaziali e i rapporti quantitativi del mondo reale, è quindi una materia molto reale. Il fatto che questa materia si presenti in una forma estremamente astratta, solo superficialmente può nascondere la sua origine dal mondo esterno. Ma per potere indagare queste forme e questi rapporti nella loro purezza è necessario separarli completamente dal loro contenuto e accantonare questo contenuto come cosa irrilevante; così si perviene al punto senza dimensioni, alle linee senza spessore e senza lunghezza, agli a e b e x e y, alle costanti e alle variabili e poi proprio solo alla fine di tutto questo si arriva alle vere e proprie libere creazioni e immaginazioni dell'intelletto, ossia alle grandezze immaginarie. Anche l'apparente deduzione delle grandezze matematiche l'una dall'altra non prova la loro origine a priori, ma solo il loro nesso razionale. Prima di arrivare all'idea di dedurre la forma di un cilindro dalla rotazione di un rettangolo intorno ad uno dei suoi lati, si son dovuti esaminare un buon numero di rettangoli e cilindri reali, se pure in una forma tanto imperfetta. Come tutte le altre scienze la matematica è sorta dai bisogni degli uomini: dalla misurazione di terre e dalla capacità dei vasi, dal computo cronologico e dalla meccanica. Ma, come tutti i campi del pensiero, ad un certo grado di sviluppo le leggi, astratte dal mondo reale, vengono separate dal mondo reale e contrapposte ad esso come qualche cosa di indipendente, come leggi che vengono dall'esterno e a cui il mondo deve conformarsi. Così avviene nella società e nello Stato e così non altrimenti la matematica pura viene applicata al mondo posteriormente, sebbene proprio da questo mondo essa sia presa a prestito e rappresenti solo una parte delle sue forme di composizione e proprio solo per questo possa in generale avere applicazione.
Ma Dühring, come immagina di poter dedurre, senza alcuna aggiunta sperimentale, degli assiomi matematici, i quali, "anche secondo l'idea puramente logica che se ne ha, non sono né suscettibili né bisognevoli di una dimostrazione", tutta la matematica pura e di poterla poi applicare al mondo, del pari immagina di potere far prima sorgere dalla testa le forme fondamentali dell'essere, le parti costitutive semplici di tutto il sapere, gli assiomi della filosofia, di poter poi dedurre da essi tutta la filosofia o schematizzazione del mondo, e di poter finalmente, da sovrano, elargire questa sua concezione alla natura e al mondo umano. Disgraziatamente la natura non è per nulla costituita dalla Prussia di Manteuffel del 1850 e il mondo umano lo è solo per una parte infinitesima [26].
Gli assiomi matematici sono espressioni di quel contenuto concettuale estremamente povero che la matematica deve prendere a prestito dalla logica. Essi si possono ridurre a due:
1. Il tutto è maggiore della parte. Questo principio è una pura tautologia, giacché l'idea quantitativamente concepita di parte si riferisce a priori precisamente all'idea di tutto, di guisa che "parte" dice, senz'altro, che il "tutto" quantitativo consta di più "parti" quantitative. Constatando semplicemente questo fatto, il cosiddetto assioma non ci fa avanzare di un passo. Questa tautologia può in certo modo essere dimostrata dicendo: un tutto è ciò che consta di più parti; una parte è una delle cose la cui pluralità costituisce un tutto, conseguentemente la parte è minore del tutto. E qui lo squallore della ripetizione fa emergere ancora più vivamente lo squallore del contenuto.
2. Se due grandezze sono eguali a una terza esse sono eguali tra loro. Questo principio, come ha già dimostrato Hegel, è una conclusione della cui esattezza è garante la logica [27]: esso è dunque provato, anche se provato fuori dalla matematica pura. Gli altri assiomi sull'eguaglianza e sulla disuguaglianza sono semplici estensioni logiche di questa conclusione.
Questi magri principi roncavano un ragno dal buco né nella matematica né altrove. Per andare avanti dobbiamo introdurre rapporti reali, rapporti e forme spaziali che sono tratti da corpi reali. Le rappresentazioni di linee, piani, angoli, poligoni, cubi, sfere, ecc. sono tutte prese a prestito dalla realtà e ci vuole un bel po' di ingenuità ideologica per prestar fede ai matematici secondo cui la prima linea si sarebbe generata dal movimento di un punto nello spazio, il primo piano dal movimento di una linea, il primo corpo dal movimento di un piano, ecc. Perfino la lingua vi si ribella. Una figura matematica di tre dimensioni si dice corpo, corus solidum, quindi in latino perfino corpo tangibile; essa dunque porta un nome che non è affatto preso a prestito dalla libera immaginazione, ma dalla solida realtà.
Ma perché tutta questa prolissità? Dopo avere, a pp. 42 e 43 [28], cantato entusiasticamente l'indipendenza della matematica pura dal mondo sperimentale, la sua apriorità, il suo occuparsi delle libere creazioni e immaginazioni intellettive che le sono proprie, Dühring dice a p. 63:
"È certo facile scorgere che quegli elementi matematici" ("numero, grandezza, tempo, spazio e movimento geometrico") "sono ideali solo per la loro forma (...) che le grandezze assolute sono perciò qualcosa di assolutamente empirico, a qualunque specie esse appartengono"... ma "gli schemi matematici sono suscettibili di una caratterizzazione che, pur avulsa della esperienza, è tuttavia sufficiente",
la quale ultima affermazione vale più o meno per ogni astrazione, ma non dimostra affatto che essa non sia astratta dalla realtà. Nella schematizzazione del mondo la matematica sorge dal puro pensiero, nella filosofia della natura è qualcosa di assolutamente empirico, tratto dal mondo esterno e poi separato da esso. A chi dunque dobbiamo credere?
"L'essere che tutto abbraccia è unico. Nella sua autosufficienza esso non ha niente accanto a sé. Associargli un secondo essere significa farlo diventare ciò che non è, cioè una parte o un elemento costitutivo di un tutto più ampio. Poiché noi distendiamo il nostro pensiero unitario, per così dire, come una cornice, niente di ciò che deve rientrare in questa unità di pensiero può contenere in sé una dualità. Ma niente può neppure sottrarsi a questa unità di pensiero (...) l'essenza di tutto il pensiero consiste nella riunione degli elementi della coscienza in una unità (...) Proprio l'unità puntuale della sintesi fa sorgere il concetto del mondo indivisibile e riconoscere l'universo, come dice la parola, come qualcosa in cui tutto è riunito come in una unità".
Sin qui Dühring. Il metodo matematico per cui "ogni questione deve risolversi assiomaticamente in forme fondamentali semplici, come se si trattasse di semplici... principi della matematica", questo metodo è qui applicato per la prima volta.
"L'essere che tutto abbraccia è unico." Se una tautologia, semplice ripetizione nel predicato di ciò che è già espresso nel soggetto, costituisce un assioma, qui ne abbiamo uno della più bell'acqua. Nel soggetto Dühring ci dice che l'essere che tutto abbraccia è unico e nel predicato afferma intrepido che allora niente è fuori di esso. Che colossale idea "creatrice di un sistema"!
Creatrice di un sistema, infatti. Non son ancora passate altre sei righe ed ecco che Dühring, per mezzo del nostro pensiero unitario, ha trasformato l'unicità dell'essere nella sua unità. Poiché l'essenza di tutto il pensiero consiste nell'attività sintetica unitaria, l'essere, tosto che viene pensato, viene pensato come unitario: il concetto del mondo è un concetto indivisibile; e poiché l'essere pensato, il concetto del mondo, è unitario, l'essere reale, il mondo reale, è parimente una unità indivisibile. Conseguentemente, "una volta che lo spirito abbia imparato a concepire l'essere nella sua omogenea universalità, non c'è più luogo per le trascendenze".
È questa una campagna di fronte alla quale scompaiono completamente Austerlitz e Jena, Königgrätz e Sedan [29]. Con poche frasi, appena una pagina dopo che abbiamo mobilitato il primo assioma, abbiamo già abolito, eliminato, annientato ogni trascendenza, dio, le schiere celesti, il cielo, l'inferno e il purgatorio, insieme all'immortalità dell'anima.
Come arriviamo dall'unicità dell'essere alla sua unità? In generale col pensarlo nella mostra mente. L'essere unico diventa nel pensiero un essere unitario, una unità ideale, non appena intorno ad esso tendiamo il nostro pensiero unitario come una cornice; infatti l'essenza di tutto il pensiero consiste nella riunione di elementi della coscienza in una unità.
Quest'ultima proposizione è semplicemente falsa. In primo luogo il pensiero consiste tanto nella scomposizione degli oggetti della coscienza nei loro elementi, tanto nella riunione di elementi omogenei in una unità. Senza analisi non c'è sintesi. In secondo luogo, il pensiero non può, se non vuol prendere un granchio, che raccogliere in una unità quegli elementi della coscienza nei quali, o nei prototipi reali dei quali, questa unità esisteva già da prima. Se si assume una spazzola da scarpe sotto l'unità mammifero, ci vuol altro perché le crescano le mammelle. L'unità dell'essere, ossia la legittimità del fatto che esso venga concepito nel pensiero come unità, è quindi proprio ciò che si doveva dimostrare, e se Dühring ci assicura che egli pensa nella sua mente l'essere unitariamente e non già come dualità, con ciò non ci racconta altro che la sua non autorevole opinione.
Se vogliamo presentare nettamente la linea del suo pensiero, essa è la seguente: Io comincio con l'essere. Quindi io penso nella mia mente l'essere. Il pensiero dell'essere è unitario. Ma pensare ed essere devono armonizzare; essi sono in corrispondenza l'uno con l'altro: "coincidono". Quindi l'essere è unitario anche nella realtà. Quindi non ci sono "trascendenze". Ma se Dühring avesse parlato così scopertamente invece di regalarci le sentenze oracolari che abbiamo riportate sopra, l'ideologia sarebbe stata chiaramente visibile. Voler dimostrare, partendo dall'unità di pensiero ed essere, la realtà di qualsiasi prodotto del pensiero: questo è stato precisamente uno dei più folli deliri febbrili di un Hegel.
Anche se il suo procedimento dimostrativo fosse giusto, Dühring non avrebbe guadagnato sugli spiritualisti neanche un pollice di terreno. Gli spiritualisti gli risponderebbero in breve: il mondo è semplice anche per noi; la divisione in al di qua e al di là esiste solo per il nostro punto di vista specificamente terreno, inficiato dal peccato originale; di sé e per sé, cioè in dio, tutto l'essere è uno. E accompagnerebbero Dühring sugli altri corpi celesti a lui cari e gliene mostrerebbero uno e più in cui non ha avuto luogo nessun peccato originale; in cui quindi non esiste antitesi tra al di qua e al di là e in cui l'unità del mondo è un postulato della fede.
L'elemento più comico della cosa è che Dühring per dimostrare la non esistenza di dio partendo dal concetto dell'essere, applica la prova ontologica dell'esistenza di dio. Essa suona così: se noi immaginiamo dio, lo immaginiamo come la somma di tutte le perfezioni. Ma alla somma di tutte le perfezioni è inerente prima di tutto l'esistenza, infatti un essere inesistente è necessariamente imperfetto. Quindi tra le perfezioni di dio dobbiamo annoverare anche l'esistenza. Quindi dio deve esistere... Precisamente nella stessa maniera ragiona Dühring: se noi pensiamo nella nostra mente l'essere, lo pensiamo come un concetto. Ciò che è compreso in un concetto è unitario. L'essere dunque non corrisponderebbe al suo concetto se non fosse unitario. Conseguentemente dio non esiste, ecc.
Se noi parliamo dell'essere, e semplicemente dell'essere, l'unità può consistere solo nel fatto che tutti gli oggetti di cui si tratta sono, esistono. Essi sono raccolti nell'unità di quest'essere e in nessun'altra, e l'espressione comune che, essi tutti, sono, non solo non può dar loro nessun'altra proprietà comune o non comune, ma esclude, per il momento, dalla nostra considerazione ogni altra proprietà. Infatti appena ci allontaniamo anche solo di un millimetro dal semplice fatto fondamentale che tutte queste cose hanno in comune l'essere, cominciano a balzarci agli occhi le differenze di queste cose, e se queste differenze consistono nel fatto che di queste cose le une sono bianche e le altre sono nere, le une sono animate e le altre inanimate, le une sono, diciamo, dell'al di qua, le altre dell'al di là, è cosa che non possiamo decidere partendo dal fatto che ad esse tutte egualmente è attribuita la semplice esistenza.
L'unità del mondo non consiste nel suo essere, sebbene il suo esser sia un presupposto della sua unità, poiché esso deve anzitutto pur essere, prima di poter essere uno. Invero l'essere è in generale una questione aperta a partire da quel limite oltre il quale cessa il nostro orizzonte visivo. L'unità reale del mondo consiste nella sua materialità, e questa è dimostrata non da alcune frasi cabalistiche, ma da uno sviluppo lungo e laborioso della filosofia e delle scienze naturali.
Andiamo avanti nella lettura del testo. L'essere, sul quale ci intrattiene Dühring,
"non è quel puro essere che, eguale a se stesso, sarebbe privo di ogni determinazione particolare ed effettivamente rappresenta solo un riflesso del nulla di pensiero o dell'assenza di pensiero".
Ma vedremo ora molto presto che il mondo di Dühring in verità prende l'inizio da un essere che è privo di ogni distinzione interna, di ogni movimento e di ogni cambiamento e quindi è effettivamente solo un riflesso del nulla di pensiero, dunque un reale nulla. Solo da questo essere-nulla si sviluppa l'attuale stato del mondo, differenziato, pieno di cambiamenti e che presenta uno sviluppo, un divenire; e solo dopo aver compreso questo, arriveremo a "tener fermo il concetto dell'essere universale eguale a se stesso", pur in questo eterno cambiamento. Noi quindi abbiamo ora il concetto dell'essere a un grado superiore, grado in cui comprende in se stesso il permanere quanto il mutare, tanto l'essere quanto il divenire. Arrivati a questo punto troviamo che "genere e specie o, in generale, universale e particolare, sono i più semplici mezzi di differenziazione, senza i quali non può essere compresa la costituzione delle cose". Ma questi sono mezzi di differenziazione della qualità; e avendone trattato, possiamo dire "di fronte ai generi sia il concetto della grandezza, come concetto di quell'omogeneo nel quale non si trova più nessuna differenza specifica"; cioè dalla qualità passiamo alla quantità, e questa è sempre "misurabile".
Confrontiamo ora questa "distinzione precisa degli schemi generali d'azione" e il suo "punto di vista realmente critico" con le crudezze, le confusioni, i deliri febbrili di un Hegel. Troveremo che la logica di Hegel comincia dall'essere, come Dühring; che l'essere risulta come il nulla, come in Dühring; che da questo essere-nulla si passa al divenire, il cui risultato è l'esistenza, cioè una forma più alta, più piena dell'essere, precisamente come in Dühring. L'esistenza porta alla qualità, la qualità alla quantità, precisamente come in Dühring. E perché non manchi nessun elemento essenziale, ecco che cosa ci racconta Dühring in un'altra occasione:
"Dal regno della insensibilità non si entra in quello della sensazione, malgrado ogni gradualità quantitativa, che con un salto qualitativo del quale noi (...) Possiamo affermare che si differenzia infinitamente dalla semplice gradazione di una medesima proprietà".
Questa è precisamente la linea nodale dei rapporti di misura di Hegel, nella quale un incremento o una diminuzione semplicemente quantitativi causano, in certi particolari punti nodali, un salto qualitativo; il che si ha per es. nel caso dell'acqua riscaldata o raffreddata in cui il punto di ebollizione e il punto di congelamento sono quei nodi nei quali si compie, a pressione normale, il salto in un nuovo stato di aggregazione, nei quali, quindi, la quantità si converte repentinamente in qualità.
La nostra indagine ha tentato, anch'essa, di andare sino alle radici e ha trovato, quali radici di quegli schemi fondamentali dühringiani che vanno alle radici... i "deliri febbrili" di un Hegel, le categorie della "Logica" hegeliana, Parte prima, Dottrina dell'essere, con la "sequenza" rigorosamente conforme al vecchio hegelismo e con un timido tentativo di occultare il plagio!
E non contento di rubare al più calunniato dei suoi predecessori tutta la schematizzazione dell'essere, Dühring, dopo aver portato egli stesso l'esempio surriferito della conversione repentina, a salti, della quantità alla qualità, ha la faccia tosta di dire di Marx:
"Come è comico per esempio l'appello" (di Marx) "alla confusa è nebulosa idea hegeliana che la quantità si muta in qualità!".
Confusa e nebulosa idea! Chi si converte qui repentinamente e chi è comico, signor Dühring?
Tutte queste belle cosette, quindi, non solo non sono "assiomaticamente risolte", secondo le prescrizioni, ma sono semplicemente riportate dall'esterno, cioè dalla "Logica" hegeliana. E precisamente, in modo tale che in tutto il capitolo non figura mai, neppure una volta, neanche la parvenza di un nesso interno, se non nella misura in cui anch'esso è preso in prestito da Hegel, e finalmente il tutto va a finire in un vuoto sottilizzare sullo spazio e il tempo, sul permanere e il cambiare.
Dall'essere, Hegel passa all'essenza, alla dialettica. Qui egli tratta delle determinazioni della riflessione, delle loro opposizioni e contraddizioni interne, come per es. positivo e negativo, arriva poi alla causalità o rapporto di causa ed effetto e chiude con la necessità. Non diversamente Dühring. Ciò che Hegel chiama dottrina dell'essenza, Dühring lo traduce in proprietà logiche dell'essere. Ma queste consistono anzitutto nell'"antagonismo di forze", in opposizioni. La contraddizione, per contro, Dühring la nega radicalmente. Ritorneremo più tardi su questo argomento. Egli passa poi alla causalità e da questa alla necessità. Se dunque Dühring dice di se stesso: "Noi che non filosofiamo da una gabbia", probabilmente intende che filosofa in gabbia, cioè nella gabbia dello schematismo hegeliano delle categorie.
Passiamo ora alla filosofia della natura. Qui Dühring ha ancora una volta tutte le ragioni di essere insoddisfatto dei suoi predecessori. La filosofia della natura "è caduta così in basso da essere diventata un'arida pseudopoesia fondata sull'ignoranza" e "da esser toccata in sorte alla prostituita filosofastreria di uno Schelling e simili piccoli barattieri del sacerdozio dell'assoluto e mistificatori del pubblico". La stanchezza ci ha salvato da queste "deformità", ma sino ad ora essa ha fatto posto solo all'"inconsistenza"; "e per quel che concerne il gran pubblico, è notorio che la scomparsa di un ciarlatano più grande spesso non è stata, per un successore minore, ma più esperto negli affari, che l'occasione per ripetere, sotto mutata insegna, le produzioni dell'altro". Gli stessi naturalisti sentono poco "gusto per una escursione nel regno delle idee che abbracciano l'universo" e perciò non compiono, in campo teorico, che delle "improvvisazioni sconclusionate". C'è qui da fare un urgente salvataggio, e fortunatamente è presente Dühring.
Per apprezzare giustamente le rivelazioni che ora seguiranno sul dispiegamento del mondo nel tempo e sulla sua limitazione nello spazio, dobbiamo rifarci ad alcuni passi della "schematizzazione del mondo".
In perfetta concordanza con Hegel ("Enciclopedia", par. 93) all'essere viene attribuita l'infinità, quella che Hegel chiama la cattiva infinità, e questa infinità viene ora sottoposta a indagine.
"La forma più evidente di una infinità che debba essere pensata senza contraddizioni è l'indefinito accumularsi dei numeri nella serie matematica (...) come ad ogni numero noi possiamo sempre aggiungere un'altra unità, senza mai esaurire la possibilità di un'ulteriore numerazione, così anche ad ogni stato dell'essere succede uno stato ulteriore; e nell'illimitato prodursi di questi stati consiste l'infinità. Anche questa infinità, pensata con esattezza, non ha perciò che una sola forma fondamentale con una sola direzione. Cioè, sebbene per il nostro pensiero sia indifferente tracciare una direzione opposta nell'accumulazione degli stati, tuttavia l'infinità regressiva non è, con precisione, che una affermazione ideale concepita affrettatamente. Invero. Poiché essa dovrebbe aver percorso la realtà in direzione inversa, in ognuno dei suoi stati avrebbe dietro di sé una serie infinita di numeri. Ma con ciò si andrebbe incontro alla contraddizione inammissibile di una serie numerica infinita e numerata; e così si dimostra assurdo il postulare ancora una seconda direzione dell'infinità".
La prima conclusione che si trae da questa concezione dell'infinità è che il concatenamento di cause ed effetti nel mondo deve, una volta, aver avuto un principio: "un numero infinito di cause, che debbano essersi già allineate in serie una accanto all'altra, è impensabile, non fosse altro per il fatto che esso postula come numerato l'innumere". Quindi l'esistenza di una causa ultima è dimostrata.
La seconda conclusione è "la legge del numero determinato: l'accumulazione di ciò che hanno di identico cose indipendenti di qualsiasi genere reale è pensabile solo come formazione di un numero determinato". Non solo il numero attuale dei corpi celesti deve in ogni istante essere un numero in sé determinato, ma lo deve essere anche il numero reale di tutte le più piccole parti di materia esistenti nel mondo. Quest'ultima necessità è la vera ragione per cui non può pensarsi nessun composto senza atomi. Ogni divisione reale ha sempre un limite finale, e deve averlo se non ha da presentarsi la contraddizione dell'innumere numerato. Per la stessa ragione, non solo il numero delle rivoluzioni che sino ad ora la terra ha compiuto intorno al sole deve essere un numero determinato, sebbene non possa essere indicato, ma tutti i processi naturali periodici debbono avere avuto un qualche principio, e tutte le forme differenti e le varietà della natura che si susseguono devono avere le loro radici in uno stato eguale a se stesso. Questo stato può, senza contraddizione, essere esistito sin dall'eternità, ma anche quest'idea sarebbe esclusa se in sé il tempo stesso fosse costituito da parti reali e non fosse invece diviso in modo meramente arbitrario mediante le possibilità ideali che il nostro intelletto pone. La cosa è diversa quando si tratta del contenuto reale ed in se stesso differenziato del tempo; questo tempo realmente riempito di fatti per loro natura distinguibili e le forme di esistenza di questa sfera appartengono precisamente, per via del loro essere distinto, all'ambito del numerabile. Immaginiamo uno stato che sia senza cambiamenti e che, nella sua eguaglianza con se stesso, non offra alcuna distinzione e alcuna successione di nessun genere; in questo caso anche il concetto più specifico di tempo si trasforma nell'idea più generale di essere. Che cosa possa significare l'accumularsi di un durare vuoto, non si può assolutamente pensare. Sin qui Dühring: ed egli è non poco entusiasta dell'importanza delle sue scoperte. Dapprima spera che esse "almeno non saranno prese per una verità di poco conto"; ma più tardi dice:
"Ci si ricordi di quei procedimenti della più grande semplicità con i quali noi abbiamo reso possibile ai concetti di infinità e alla loro critica di raggiungere una portata sinora sconosciuta (...) gli elementi della concezione universale dello spazio e del tempo che, dalla precisazione e dall'approfondimento presenti, hanno avuto una forma tanto semplice".
Noi abbiamo reso possibile! Precisazione e approfondimento presenti! Ma chi siamo noi, e quando ha luogo il nostro presente? Chi approfondisce e precisa?
"Tesi. Il mondo ha un principio nel tempo e, per quanto concerne lo spazio, è anche incluso in limiti. Dimostrazione: Infatti, se si ammette che il mondo non abbia un principio nel tempo, fino ad ogni istante dato sarà trascorsa una eternità, e conseguentemente nel mondo sarà trascorsa una serie infinita di stadi successivi delle cose. Ma ora, l'infinità di una serie consiste precisamente nel fatto che essa non può mai essere completata da una sintesi successiva. Dunque una serie infinita di mondi passati è impossibile, e con ciò un principio del mondo è condizione necessaria della sua esistenza; come dovevasi dimostrare. Riguardo al secondo punto, si ammetta, ancora una volta, il contrario; il mondo sarà un tutto dato e infinito di cose coesistenti. Ora, noi non possiamo pensare la grandezza di un quantum, che non sia dato ad ogni intuizione entro certi limiti, in nessun'altra maniera che mediante la sintesi delle due parti e non possiamo pensare la totalità di un tale quantum se non per mezzo della sintesi completa o per mezzo del ripetuto aggiungersi dell'unità a se stessa. Di conseguenza, per pensare il mondo che riempie tutti gli spazi, come un tutto, la sintesi successiva delle parti di un mondo infinito dovrebbe ritenersi completata, cioè dovrebbe ritenersi trascorso, nella enumerazione di tutte le cose coesistenti, un tempo infinito, il che è impossibile. Per conseguenza un aggregato infinito di cose reali non può ritenersi come un tutto dato e conseguentemente nemmeno come dato nello stesso tempo. Ne consegue che un mondo, per quel che concerne l'estensione nello spazio, non è infinito, ma incluso nei suoi limiti; ciò che era il secondo punto" (da dimostrare).
Queste proposizioni sono copiate letteralmente da un libro ben noto, che apparve per la prima volta nel 1781 ed è intitolato "Critica alla ragion pura", di Immanuel Kant, dove ognuno può leggerle nella prima parte, seconda sezione, secondo libro, secondo capitolo, secondo paragrafo: Prima antinomia della ragion pura. A Dühring spetta perciò solamente la gloria di avere applicato il nome di legge del numero determinato ad un'idea espressa da Kant e di avere fatto la scoperta che una volta c'era un tempo nel quale non c'era tempo, sebbene ci fosse un mondo. Per tutto il resto, quindi per tutto ciò che nella disquisizione di Dühring ha ancora qualche senso, "noi" è Immanuel Kant e il "presente" non ha che novantacinque anni. "Semplicissimo", in verità! Notevole "portata sinora sconosciuta"!
Ma invero Kant non sostiene affatto che i teoremi surriferiti siano esauriti dalla sua dimostrazione. Al contrario: nella pagina di fronte egli afferma e dimostra l'opposto: che il mondo non ha un principio nel tempo e non ha un termine nello spazio; e fa consistere l'antinomia, la contraddizione insolubile, proprio nel fatto che delle due proposizioni l'una è altrettanto dimostrabile quanto l'altra. Gente di minore statura sarebbe probabilmente rimasta perplessa vedendo come "un Kant" trova qui una difficoltà insolubile. Non così il nostro valoroso manipolatore "di conclusioni e di vedute originali sin dalle fondamenta": di una antinomia di Kant costui copia intrepidamente ciò che gli può servire e il resto lo butta via.
Il problema per se stesso si risolve in modo molto semplice. Eternità nel tempo e infinità nello spazio consistono, già originariamente e secondo il semplice senso letterale delle parole, nel non aver un termine in nessuna direzione, né avanti né indietro, né su né giù, né a destra né a sinistra. Questa infinità è una cosa assolutamente diversa da quella di una serie infinita, infatti questa comincia a priori sempre da uno, da un primo membro. L'inapplicabilità di questa idea della serie al nostro oggetto diviene immediatamente evidente se la applichiamo allo spazio. La serie infinita, tradotta in linguaggio spaziale, è la linea tirata da un punto determinato, in una direzione determinata e prolungata all'infinito. È con ciò espressa, sia pure solo lontanamente, l'infinità dello spazio? Al contrario; per concepire le dimensioni dello spazio, si devono avere giusto sei linee tirate da questo unico punto in tre dimensioni opposte; e conseguentemente di queste dimensioni ne avremmo sei. Kant comprese così bene tutto questo, che solo indirettamente, per una via traversa, trasportò la sua serie numerica anche nella spazialità del mondo. Dühring, invece, ci costringe ad ammettere sei dimensioni nello spazio e subito dopo non trova parole sufficienti per esprimere la sua indignazione contro il misticismo matematico di Gauss, che non intendeva accontentarsi delle solite tre dimensioni dello spazio [30].
Applicata al tempo, la linea, o serie di unità, infinita nelle due direzioni ha un certo senso metaforico. Ma se ci rappresentiamo il tempo come numerato a partire da uno, o come una linea che parta da un punto determinato, con ciò diciamo in anticipo che il tempo ha un principio: diamo come presupposto precisamente ciò che dobbiamo dimostrare. Diamo all'infinità del tempo un carattere unilaterale, dimezzato; ma un'infinità unilaterale, un'infinità dimezzata, è una contraddizione anche in se stessa, il contrario esatto di una "infinità pensata senza contraddizioni". Da questa contraddizione possiamo venir fuori solo se ammettiamo che l'uno con cui cominciamo a numerare la serie, che il punto dal quale partiamo per misurare la linea, sia un qualunque uno della serie, un punto qualunque nella linea, riguardo ai quali, per la linea o per la serie, non ha alcuna importanza dove li poniamo.
Ma la contraddizione della "serie numerica infinita e numerata"? Saremo in grado di indagarla da vicino non appena Dühring ci avrà esibito il pezzo di bravura di numerarla. Ne riparleremo quando sarà riuscito a contare da -∞ (meno infinito) a zero. È chiaro invero che dovunque egli comincerà a contare, si lascerà sempre alle spalle una serie infinita e con essa il compito che doveva assolvere. Si provi solo a rovesciare la sua serie infinita 1 + 2 + 3 + 4... e tenti di contare da capo, partendo dal termine infinito sino ad uno: sarà evidentemente il tentativo di un uomo che non capisce affatto di che cosa si tratta. Ma c'è di più. Dühring, affermando che la serie infinita del tempo trascorso è numerata, afferma conseguentemente che il tempo ha un principio; infatti, diversamente non potrebbe, di certo, nemmeno cominciare a "numerare". Quindi ancora una volta introduce di soppiatto come presupposto ciò che deve dimostrare. L'idea della serie infinita e numerata, in altri termini, la legge dühringiana del numero determinato, legge che abbraccia l'universo, non è quindi che una contradictio in adjecto, contiene in se stessa una contraddizione, e invero una contraddizione assurda.
È chiaro che l'infinità che ha una fine, ma non ha un principio, non è più né meno infinita di quella che ha un principio ma non ha una fine. L'intuito dialettico più modesto avrebbe dovuto suggerire a Dühring che principio e fine sono necessariamente legati l'uno all'altra, come il polo nord e il polo sud, che, se si omette la fine, il principio diventa precisamente la fine, l'unica fine che la serie ha, e viceversa. Tutta l'illusione sarebbe impossibile senza la consuetudine propria della matematica di operare con serie infinite. Poiché nella matematica si deve partire dal determinato, dal finito, per arrivare all'indeterminato, all'infinito, tutte le serie matematiche, positive o negative, devono cominciare da uno, altrimenti sarebbe impossibile servirsene per calcolare. Ma l'esigenza ideale del matematico è molto lontana dall'essere una legge obbligatoria per il mondo reale.
Del resto Dühring non riuscirà a pensare senza contraddizione la reale infinità. L'infinità è una contraddizione ed è piena di contraddizioni. È già una contraddizione che una infinità debba essere composta puramente di cose finite, eppure questo avviene. La limitatezza del mondo materiale porta a contraddizioni non meno della sua illimitatezza, ed ogni tentativo di eliminare queste contraddizioni porta, come abbiamo visto, a nuove e peggiori contraddizioni. Precisamente perché l'infinità è una contraddizione, essa è un processo infinito che si svolge senza un termine nello spazio e nel tempo. La soppressione della contraddizione sarebbe la fine dell'infinità. Tutto questo Hegel lo aveva già compreso in modo assolutamente giusto e perciò egli tratta con meritato disprezzo anche quei signori che si stillano il cervello intorno a questa contraddizione.
Andiamo avanti. Dunque il tempo ha avuto un principio. Che cosa c'era prima di questo principio? Il mondo che si trovava in uno stato eguale a se stesso, immutabile. E poiché in questo stato non abbiamo mutamenti successivi, anche il concetto più specifico di tempo si trasforma nell'idea più generale dell'essere. In primo luogo, qui a noi non interessa affatto quali concetti si trasformino in testa a Dühring. Non si tratta del concetto di tempo, ma del tempo reale e di questo Dühring non si libererà tanto a buon mercato. In secondo luogo, per quanto il concetto di tempo possa trasformarsi nell'idea più generale dell'essere, non perciò noi faremo un passo avanti. Infatti, le forme fondamentali di tutto l'essere sono spazio e tempo, e un essere fuori del tempo è un assurdo altrettanto grande quanto un essere fuori dello spazio. L'"essere trascorso senza tempo" di Hegel, il neoschellingiano "essere impensabile in precedenza" [31] sono idee razionali in confronto a quest'essere fuori dal tempo. Perciò Dühring si mette all'opera anche con molta cautela: parlando con precisione, probabilmente c'è un tempo, ma è un tempo tale che in fondo non si può chiamare tempo: il tempo, invero, in se stesso, non consta di parti reali, e solo dal nostro intelletto viene arbitrariamente diviso, solo un tempo realmente riempito di parti distinguibili appartiene alla sfera del numerabile: che cosa possa significare l'accumularsi di un vuoto durare è cosa che non si può assolutamente pensare. Che cosa possa significare questo accumularsi è cosa qui assolutamente indifferente; ci si chiede se il mondo, nello stato che qui è presupposto, dura, ha una durata nel tempo. Che a misurare una tale durata priva di contenuto non si ricavi niente, precisamente come a misurare lo spazio vuoto senza scopo e senza meta, è cosa che sappiamo già da lungo tempo, e anzi, proprio per via dell'insulsaggine di questo procedere, Hegel questa infinità la chiama anche cattiva infinità. Secondo Dühring il tempo esiste solo in virtù del cambiamento e non esiste il cambiamento nel tempo e in virtù del tempo. Precisamente perché il tempo è diverso e indipendente dal cambiamento, lo si può misurare per mezzo del cambiamento, infatti il misurare implica sempre una cosa diversa da quella da misurare. E il tempo nel quale non avvengono cambiamenti avvertibili è molto lontano da non essere un tempo; esso è invece il tempo puro, non affetto da mescolanze estranee, e quindi il tempo vero, il tempo come tale. Infatti se noi vogliamo cogliere il concetto di tempo in tutta la sua purezza, separato da ogni mescolanza estranea e indebita, siamo costretti a metter da parte come indebiti tutti i veri avvenimenti che accadono simultaneamente o successivamente nel tempo, e conseguentemente a rappresentarci un tempo nel quale non avviene niente. Con ciò, dunque, noi non abbiamo fatto assorbire il concetto di tempo dall'idea generale dell'essere, ma siamo solo arrivati al concetto puro di tempo.
Ma tutte queste contraddizioni e impossibilità sono ancora un puro giuoco da bambino di fronte alla confusione in cui cade Dühring col suo stato iniziale eguale a se stesso del mondo. Se una volta il mondo era in uno stato in cui non avveniva assolutamente nessun cambiamento, come ha potuto passare da questo stato al cambiamento? Ciò che è assolutamente privo di cambiamento e che inoltre è in questo stato dall'eternità, non può da se stesso uscire da questo stato e passare a quello di movimento e di cambiamento. È necessario quindi che dall'esterno, dal di fuori del mondo, sia venuto un primo impulso che lo abbia posto in movimento. Ma è noto che il "primo impulso" non è che un'altra espressione per dire dio. Quel dio e quell'al di là che Dühring nella sua schematizzazione del mondo pretendeva di aver così bellamente liquidato, egli stesso li riporta tutti e due, precisati e approfonditi, nella filosofia della natura.
Inoltre Dühring dice:
"Laddove un elemento costante dell'essere ha una grandezza, questa rimarrà immutata nella sua determinatezza. Questo vale (...) per la materia e per l'energia meccanica".
Detto di passaggio, la prima proposizione fornisce un esempio prezioso della magniloquenza assiomatico-tautologica di Dühring: laddove una grandezza non cambia, resta la stessa. Quindi la quantità di energia meccanica che c'è nel mondo resta eternamente la stessa. Noi prescinderemo dal fatto che, nella misura in cui tutto questo è giusto, nella filosofia Descartes lo aveva già saputo e detto circa trecento anni fa [32], e che nella scienza della natura la dottrina della conservazione dell'energia da vent'anni è in voga dappertutto; prescinderemo anche dal fatto che Dühring, limitandola all'energia meccanica, non migliora in nessun modo questa dottrina. Ma dov'era l'energia meccanica al tempo dello stato d'immutabilità? A questa domanda Dühring ci rifiuta ostinatamente ogni risposta.
Signor Dühring, dov'era allora quell'energia meccanica che resta eternamente eguale a se stessa, e che cosa faceva? Risposta:
"Lo stato originario dell'universo o, più chiaramente, di un essere della materia privo di cambiamenti, non includente nessun accumularsi di cambiamenti nel tempo, è una questione che può essere respinta solo da quell'intelligenza che vede l'apice della saggezza nell'accumularsi della propria forza di procreazione".
Dunque: o accettate ad occhi chiusi il mio stato originario di immutabilità o io, il valido procreatore Eugen Dühring, vi dichiaro spiritualmente eunuchi. Certo più d'uno si spaventerà di tutto questo. Noi, noi che abbiamo visto qualche esempio della forza di procreazione di Dühring, potremo permetterci provvisoriamente di lasciare senza risposta l'elegante ingiuria e domandare ancora una volta: Ma, signor Dühring, per favore, come la mettiamo con l'energia meccanica?
Il sig. Dühring si confonde subito. In effetti, balbetta,
"l'assoluta identità di quello stato-limite iniziale non fornisce in se stessa nessun principio di transizione. Richiamiamoci tuttavia alla memoria che la situazione è, in fondo, eguale in ogni nuovo anello, per piccolo che sia, della catena delle esistenze che noi ben conosciamo. Chi, dunque, solleva difficoltà nel caso principale che ci sta davanti, stia attento a non dispensarsene in occasioni meno appariscenti. Inoltre la possibilità di inserire stati intermedi in gradazione progressiva sussiste, e con ciò si apre quel ponte della continuità che ci fa arrivare regressivamente sino all'estinzione del processo di cambiamento. In verità in sede puramente concettuale questa continuità non ci aiuta a superare la difficoltà dell'idea principale, ma essa è per noi la forma fondamentale di ogni regolarità e di ogni processo di transizione altrimenti noto, cosicché noi abbiamo il diritto di servircene come di un anello di congiunzione tra quel primo stato di equilibrio e la sua rottura. Invece, se noi pensassimo l'equilibrio cosiddetto (!) immobile secondo quei concetti che nella nostra meccanica odierna sono ammessi senza nessuna particolare presa di posizione (!), non sarebbe assolutamente possibile indicare in che modo la materia sia potuta arrivare al processo di cambiamento".
Oltre alla meccanica delle masse ci sarebbe ancora una trasformazione del movimento delle masse in movimento delle particelle più piccole, ma riguardo al modo in cui questo accade,
"per questo noi non abbiamo a disposizione sino ad ora nessun principio generale e non dobbiamo perciò affatto meravigliarci se questi fenomeni vanno a perdersi un po' nell'oscurità".
Questo è tutto ciò che Dühring ha da dire. E in effetti per farci pascere di questi sotterfugi e di queste circonlocuzioni veramente miserevoli, dovremmo vedere il culmine della saggezza non solamente nell'autolimitarsi della propria forza di procreazione, ma anche nella più cieca superstizione. Da se stessa, lo conferma Dühring, l'assoluta identità non può pervenire al cambiamento. Non esiste di per sé nessun mezzo per cui l'equilibrio assoluto possa passare nel movimento. Che cosa c'è allora? Ci sono tre argomentazioni false e miserevoli.
Primo: si afferma che è altrettanto difficile dimostrare il passaggio da ogni anello, per piccolo che sia, della catena dell'esistenza a noi ben nota, al successivo. Sembra che Dühring ritenga i suoi lettori dei lattanti. La dimostrazione dei singoli passaggi e dei singoli nessi dei più piccoli anelli della catena dell'esistenza costituisce appunto il contenuto della scienza della natura, e se qualche cosa non va, nessuno pensa, neanche Dühring, di spiegare dal nulla il movimento avvenuto, ma solo dalla trasmissione, dalla trasformazione o dalla propagazione di un movimento precedente. Qui invece si tratta, come ammette egli stesso, di far sorgere il movimento dall'immobilità e quindi dal nulla.
Secondo: abbiamo il "ponte della continuità". Questo, certamente, in sede puramente concettuale non ci aiuta a vincere la difficoltà, ma noi abbiamo pure diritto di usarlo come anello di congiunzione tra l'immobilità e il movimento. Disgraziatamente la continuità dell'immobilità consiste nel non muoversi; rimane più misterioso che mai. Il modo con cui si possa così generare il movimento. Dühring frazioni pure in particelle infinitamente piccole il suo passaggio dal nulla di movimento al movimento universale e attribuisca a questo nulla una durata temporale lunga quanto vuole, non avremo progredito comunque neppure di un decimillesimo di millimetro. Dal nulla non possiamo mai arrivare a qualcosa senza un atto creativo, fosse anche questo qualche cosa piccolo come una differenziale matematica. Il ponte della continuità non è quindi neppure un ponte dell'asino, è un ponte che solo Dühring può passare.
Terzo: sino a quando la meccanica odierna avrà validità, ed essa secondo Dühring è una delle leve essenziali per la formazione del pensiero, non si potrà assolutamente indicare come si arriva dalla immobilità al movimento. Ma la teoria meccanica del calore ci mostra che un movimento di masse si trasforma, in circostanze determinate, in un movimento molecolare (sebbene anche qui un movimento proceda da un altro movimento e mai da uno stato d'immobilità) e questo, accenna timidamente Dühring, potrebbe fornirci, eventualmente, un ponte tra ciò che è strettamente statico (in equilibrio) e ciò che è dinamico (in movimento). Ma questi processi "vanno a perdersi un po' nell'oscurità". Ed è proprio nell'oscurità che Dühring ci lascia.
Con tutto questo approfondimento e con tutta questa precisazione siamo arrivati al punto di esserci sempre più sprofondati in un assurdo sempre più precisato e di avere toccato terra alla fine dove necessariamente dovevamo toccar terra: "nell'oscurità". Ma tutto questo preoccupa poco Dühring. Proprio alla pagina seguente ha la faccia tosta di affermare che egli ha potuto "concordare il concetto del permanere immutabile di un contenuto reale tratto immediatamente dal comportamento della materia e dalle forze meccaniche". E quest'uomo dà del "ciarlatano" ad altri!
Fortunatamente in tutto questo disperato smarrimento, in tutta questa disperata confusione nell'"oscurità", resta ancora una consolazione, ed è certo edificante: "La matematica degli abitanti di altri corpi celesti non può poggiare su assiomi diversi da quelli della nostra!".
24. Karl Ludwing Michelet è detto "l'ebreo errante della scuola hegeliana" evidentemente perché egli non faceva che correre dietro a un hegelismo superficialmente inteso. Nel 1876 cominciò a pubblicare un "sistema di filosofia" in cinque volumi (l'ultimo risale al 1881) che nella struttura generale imitava il piano dell'"Enciclopedia" di Hegel (G. L. Michelet, "Il sistema della filosofia come scienza esatta comprendente logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito").
25. Nel 1885, mentre preparava la seconda edizione dell'"Anti-Dühring", Engels pensò di mettere a questo punto una nota, il cui abbozzo ("Sui prototipi dell'infinito matematico nel mondo reale") fu poi da lui incluso tra i materiali per la "Dialettica della natura".
26. Allusione alla sottomissione servile dei prussiani, che accettarono la costituzione "elargita" (oktroyert) loro il 5 dicembre 1848 da Federico Guglielmo IV, contemporaneamente allo scioglimento dell'Assemblea nazionale. Nell'elaborazione di questa "carta costituzionale per lo Stato prussiano" ebbe parte decisiva il ministro reazionario Manteuffel.
27. Vedi Hegel, "Encyklopädie der philosophischen...", par. 188, e "Wissenschaft der Logik", libro terzo, sezione prima, capitolo terzo, e sezione terza, capitolo secondo.
28. Nella prima sezione dell'"Anti-Dühring" tutti questi riferimenti senza ulteriore indicazione concernono il "Cursus der Philosophie..." di Dühring.
29. Ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, truppe russe e austriache si scontrarono con le truppe francesi di Napoleone, che riportò la vittoria. La battaglia di Jena, combattuta il 14 ottobre 1806 tra l'esercito francese di Napoleone e le truppe prussiane, si concluse con la disfatta di queste ultime e portò alla capitolazione della Prussia. La battaglia di Königgrätz, il 3 luglio 1866, decise la vittoria della Prussia nella guerra austro-prussiana; è ricordata anche come battaglia di Sedowa. Nella battaglia di Sedan il 1° e il 2 settembre 1870, scontro decisivo della guerra franco-tedesca del 1870-71, le truppe tedesche sconfissero l'esercito francese di Mac-Mahon e lo costrinsero alla capitolazione.
30. Il grande matematico Karl Friedrich Gauss fu un precursore della geometria non euclidea.
31. Cfr. Hegel, "Wissenschaft der Logik", libro secondo: "Das Wesen". Della categoria schellinghiana dell'"essere impensabile in precedenza" Engels parla nel suo opuscolo "Schelling e la Rivelazione" (1842).
32. La concezione del movimento come un quanto costante (conservazione della qualità di movimento) fu sviluppata da Cartesio nella sua trattazione sulla luce (parte prima dell'opera "De Mundo", scritta negli anni 1630-1633 ma pubblicata nel 1664, quattordici anni dopo la morte di Cartesio) e nella sua lettera a de Beaune del 30 aprile 1639. Più ampiamente essa è esposta nei suoi "Principia philosophiae", Amsterdam, 1644, parte seconda, par 36.
Filosofia: VI. Filosofia della natura. Cosmogonia, fisica, chimica.
Ultima modifica 16.10.2002