Anti-Dühring

Terza Sezione: Socialismo

 

III. Produzione

 

Dopo tutto ciò che precede, il lettore non si meraviglierà di apprendere che lo sviluppo dei principi del socialismo esposto nell'ultimo capitolo non si accorda affatto con il modo di vedere di Dühring. Al contrario. Egli dovrà buttarli nell'abisso in cui giace tutto ciò che è condannato, a far compagnia agli altri "prodotti bastardi della fantasia storica e logica", alle "concezioni arruffate", alle "idee confuse e nebulose" ecc. Per lui il socialismo non è affatto uno sviluppo necessario dello sviluppo storico, né, tanto meno, delle condizioni storiche del presente, grossolanamente materiali e indirizzate al semplice fine di procacciarsi da mangiare. Dühring ha qualcosa di molto meglio di questo. Il suo socialismo è una verità definitiva di ultima istanza: è "il sistema naturale della società", trova le sue radici in un "principio universale di giustizia" e se per migliorarlo non può fare a meno d'informarsi del vigente stato di cose creato dalla storia sinora peccaminosa, ciò deve piuttosto essere considerato come una disgrazia per il puro principio della giustizia. Dühring crea il suo socialismo, come ogni altra cosa, per mezzo dei suoi famosi due uomini. Queste due marionette, invece di rappresentare, come hanno fatto sin qui, le parti del padrone e del servo, rappresentano, tanto per cambiare, la commedia della parità dei diritti... e le basi del socialismo dühringiano sono già poste.

È evidente perciò che per Dühring le crisi industriali periodiche non hanno affatto quel significato storico che noi abbiamo dovuto attribuire loro. Per lui le crisi sono solo deviazioni occasionali dalla "normalità" e tutt'al più provocano "lo sviluppo di un ordinamento più regolato". La "maniera abituale" di spiegare le crisi per mezzo della sovrapproduzione non è affatto sufficiente alla sua "concezione più esatta". Certo una tale spiegazione sarebbe "ammissibile per crisi speciali in campi particolari". Così per es. "un ingorgo del mercato librario con edizioni di opere di cui sia improvvisamente scaduta la proprietà riservata e che si prestano ad uno smercio in massa". Certo Dühring può andare a letto con la gradevole convinzione che le sue opere immortali non procureranno mai al mondo una tale disgrazia. Ma per le grandi crisi "ciò che rende così criticamente vasta la voragine tra scorta e smercio" non sarebbe la sovrapproduzione, ma sarebbero invece "l'inadeguatezza del consumo popolare (...) il sottoconsumo artificialmente prodotto (...) l'ostacolo incontrato dal bisogno popolare (!) nella sua crescita naturale". Ed ha avuto anche la fortuna di trovare un discepolo per questa sua teoria delle crisi.

Ma disgraziatamente il sottoconsumo delle masse, la limitazione del consumo delle masse a ciò che è necessario per il mantenimento e la riproduzione, non è affatto un fenomeno nuovo. Esso esiste da quando sono esistite classi sfruttatrici e sfruttate. Si ha sottoconsumo delle masse anche nei periodi storici in cui, come per es. nel XV secolo in Inghilterra, la condizione delle masse era particolarmente favorevole. Esse erano assai lontane dall'avere la disponibilità di tutto il loro prodotto annuo per il consumo. Or dunque, se il sottoconsumo è un fenomeno stabile da millenni, mentre l'ingorgo generale degli sbocchi che scoppia nelle crisi in seguito a sovrapproduzione si è potuto vedere solo da cinquant'anni, ci vuole tutta la banalità dell'economia volgare di Dühring per spiegare la nuova collisione, non già col fenomeno nuovo della sovrapproduzione, ma col sottoconsumo, vecchio di millenni. Sarebbe come se in matematica si volesse spiegare la variazione del rapporto di due grandezze, una costante ed una variabile, non già col fatto che la variabile varia, ma col fatto che la costante è rimasta la stessa. Il sottoconsumo delle masse è una necessità di tutte le forme sociali poggianti sullo sfruttamento è quindi anche della forma sociale capitalistica; però solo la forma capitalistica conduce a delle crisi. Il sottoconsumo delle masse è dunque anch'esso una condizione preliminare delle crisi ed in esse rappresenta una parte riconosciuta da molto tempo; ma tanto poco essa ci dice dell'esistenza attuale delle crisi, quanto poco ci dice sulle cause della loro assenza nel passato.

Dühring ha in generale strane idee sul mercato mondiale. Abbiamo visto come egli, da genuino letterato tedesco, cerchi di spiegare effettive crisi speciali dell'industria ricorrendo a crisi immaginarie del mercato librario di Lipsia, che è come spiegare la tempesta sul mare con la tempesta in un bicchier d'acqua. Immagina inoltre che la moderna produzione d'impresa debba "aggirarsi col suo sbocco prevalentemente nella cerchia delle classi possidenti", la qual cosa non gli impedisce, solo 16 pagine dopo, di presentare, nella maniera che gli è familiare, le industrie del ferro e del cotone come industrie moderne decisive, quindi precisamente i due rami della produzione i cui prodotti solo per una parte minima sono consumati nella cerchia delle classi possidenti e sono diretti, più di ogni altro, al consumo delle masse. Dovunque ci volgiamo, in Dühring non troviamo altro che chiacchiere vuote e contraddittorie per dritto e per rovescio. Ma prendiamo un esempio nell'industria del cotone. Se nella sola, relativamente piccola, città di Oldham, una delle dodici città intorno a Manchester, con una popolazione da 50.000 a 100.000 abitanti, che esercitano l'industria cotoniera, se in questa sola città il numero dei fusi che filano solo il numero 32 nei quattro anni dal 1872 al 1875 è aumentato dai due milioni e mezzo a cinque milioni, cosicché in una sola città media dell'Inghilterra filano un solo numero tanti fusi quanti in generale ne possiede tutta la Germania insieme all'Alsazia, e se l'espansione nelle altre branche e altre località dell'industria cotoniera dell'Inghilterra e della Scozia ha avuto luogo in proporzioni approssimativamente eguali, ci vuole una buona dose di radicale sfrontatezza per spiegare l'odierna stagnazione totale degli sbocchi dei filati e dei tessuti di cotone col sottoconsumo delle masse inglesi e non con la sovrapproduzione dei cotonieri inglesi [*12].

E basta. Non si disputa con gente che in economia è ignorante quanto basta per considerare il mercato libraio di Lipsia, in generale, per un mercato nel senso dell'industria moderna. Constatiamo quindi semplicemente che Dühring non sa dirci altro sulle crisi, se non che esse sono soltanto "un semplice giuoco di ipertensione e di rilassamento", che la superspeculazione "non proviene solamente dall'accumularsi disordinato di imprese private", ma che "bisogna contare, tra le cause che originano l'eccesso di offerta, anche la precipitazione dei singoli imprenditori e la mancanza di circospezione dei privati". E, a sua volta, che cosa è la "causa che origina" la precipitazione e la mancanza di circospezione? Proprio quella stessa mancanza di un piano della produzione capitalistica che appare nell'accumularsi disordinato delle imprese private. Vedere nella traduzione di un fatto economico in un rimprovero morale la scoperta di una nuova causa, è anch'essa "precipitazione".

E con ciò abbandoniamo le crisi. Dopo aver mostrato nel capitolo precedente il loro necessario prodursi nel modo di produzione capitalistico e il loro significato come crisi di questo stesso modo di produzione, come mezzo che spinge alla rivoluzione sociale, non abbiamo più bisogno di opporre su questo soggetto una sola parola sulla superficialità di Dühring. Passiamo alle sue creazioni positive, al "sistema naturale della società".

Questo sistema costruito su un "principio universale di giustizia", quindi libero di ogni preoccupazione di fastidiosi fatti materiali, consiste in una federazione di comunità economiche tra le quali esiste "libertà di movimento e accettazione obbligatoria di nuovi membri, secondo leggi e norme amministrative determinate". La comunità economica stessa è anzitutto "un ampio schematismo di portata storica e umana" e molto superiore alle "aberranti mezze misure" per es. di un certo Marx. Essa significa "una comunità di persone associate grazie al loro diritto pubblico di disporre di un'estensione determinata di suolo e di un gruppo di imprese di produzione, in vista di un'attività comune e di una comune partecipazione agli introiti". Il diritto pubblico è "un diritto reale (...) nel senso di un rapporto puramente pubblicistico verso la natura e verso le istituzioni della produzione". I futuri giuristi della comunità economica si rompano pure la testa per saper che cosa ciò voglia significare, noi rinunziamo ad ogni tentativo. Quanto veniamo a sapere e che ciò non è affatto tutt'uno con la "proprietà corporativa di società operaie", le quali non escluderebbero né la concorrenza reciproca e neppure lo sfruttamento salariale. Di passaggio viene poi fatta cadere l'osservazione che l'idea di una "proprietà comune", quale si trova anche in Marx, sarebbe "per lo meno oscura e dubbia, poiché questa idea avventuristica ha sempre l'aria di non poter significare altro che una proprietà corporativa di gruppi operai". È questo ancora una volta uno dei molti "vili mezzucci" di insinuazione abituali di Dühring e "al cui carattere di volgarità" (come egli stesso dice) "si adatterebbe perfettamente solo il termine volgare di insolente"; è una menzogna tanto campata in aria quanto l'altra invenzione di Dühring che per Marx la proprietà comune sia una "proprietà ad un tempo individuale e sociale".

In ogni caso una cosa sola appare chiara, e cioè che il diritto pubblicistico di una comunità economica sui suoi strumenti di lavoro è un diritto di proprietà esclusivo, almeno di fronte ad ogni altra comunità economica e anche di fronte alla società e allo Stato. Ma questo diritto non avrebbe il potere "di agire in modo esclusivistico (...) verso l'esterno, infatti tra le diverse comunità economiche esiste libertà di movimento e accettazione obbligatoria di nuovi membri secondo leggi e norme amministrative determinate (...) analogamente (...) come oggi l'appartenenza ad una formazione politica e la partecipazione alle spettanze economiche di una comunità". Ci saranno dunque comunità economiche ricche e povere e il livellamento ha luogo mediante l'afflusso di popolazione nelle comunità ricche e il suo deflusso dalle comunità povere. Mentre quindi Dühring vuole eliminare mediante l'organizzazione nazionale del commercio la concorrenza tra le singole comunità riguardo ai prodotti, lascia sussistere indisturbata la loro concorrenza riguardo ai produttori. Le cose si sottraggono alla concorrenza, gli uomini restano sotto il suo controllo.

Ma ancora noi siamo molto lontani dall'aver chiaro che cosa sia il "diritto pubblicistico". Due pagine più oltre Dühring ci spiega che la comunità commerciale si estende "anzitutto a quell'area politico-sociale i cui membri sono riuniti in un'unica persona giuridica e in tale qualità hanno la disponibilità di tutto il suolo, delle abitazioni e delle istituzioni della produzione". Dunque non è ancora la singola comunità ad avere questa disponibilità, ma la nazione tutta quanta. Il "diritto pubblicistico", il "diritto reale", il "rapporto pubblicistico verso la natura" ecc. non è quindi semplicemente "almeno oscuro e dubbio", ma è in contraddizione diretta con se stesso. In effetti, almeno nella misura in cui ogni singola comunità economica è del pari una persona giuridica, c'è "una proprietà ad un tempo individuale e sociale" e quest'ultima "forma ibrida e nebulosa" si può quindi, ancora una volta, incontrare solo in Dühring.

In ogni caso la comunità economica dispone dei suoi strumenti di lavoro al fine della produzione. Come avviene questa produzione? Dato tutto ciò che Dühring ci dice, tutto procede alla vecchia maniera, tranne che al posto del capitalista subentra la comunità. Tutt'al più veniamo a sapere che per la prima volta la scelta della professione è ora libera per ciascuno ed esiste pari obbligo di lavoro.

La forma fondamentale di tutta la produzione sinora è la divisione del lavoro, da una parte all'interno della società, dall'altra all'interno di ogni singola azienda di produzione. Come si comporta la "socialità" dühringiana rispetto alla divisione del lavoro?

La prima grande divisione sociale del lavoro è la separazione tra città e campagna. Questo antagonismo è, secondo Dühring, "inevitabile per la stessa natura delle cose". Ma "in generale è pericoloso (...) immaginare incolmabile (...) l'abisso tra agricoltura e industria. Infatti in certa misura c'è già un costante passaggio che promette di accentuarsi ancora considerevolmente nel futuro". Nell'agricoltura e nella produzione agricola si sarebbero sin da ora introdotte due industrie: "in prima linea la distillazione e in seconda linea la preparazione dello zucchero da barbabietola (...) la produzione degli alcolici è di significato tale da essere piuttosto sottovalutata che sopravvalutata". E "se fosse possibile che in conseguenza di alcune scoperte si costituisse una notevole cerchia di industrie di tal genere da imporsi la necessità di localizzarne l'esercizio nelle campagne e di poggiare immediatamente sulla produzione delle materie prime", si indebolirebbe perciò l'antagonismo tra città e campagna e "sarebbero acquisite le basi più larghe per lo sviluppo della civiltà". Tuttavia

"qualcosa di simile potrebbe pure aversi per una via ancora diversa. Oltre che sulle necessità tecniche la questione verte sempre più sui bisogni sociali, e se questi ultimi sono decisivi per il raggruppamento delle attività umane, non sarà più possibile trascurare quei vantaggi che risultano da uno stretto legame sistematico tra le occupazioni della campagna vera e propria e le operazioni di lavoro tecnico di trasformazione".

Ora, nella comunità la questione verte precisamente sui bisogni sociali, e quindi essa non si affretterà forse ad appropriarsi nella misura più completa dei surricordati vantaggi della riunione di agricoltura e industria? Dühring non farà a meno di comunicarci, con l'ampiezza che egli predilige, le sue "più esatte conclusioni" sulla posizione che assume la comunità economica riguardo questo problema? Il lettore che credesse a tutto questo sarebbe deluso. I luoghi comuni di cui abbiamo parlato sopra, striminziti, impacciati, che tornano sempre ad aggirarsi nel campo della distillazione dell'acquavite e dello zucchero di barbabietola, campo in cui vige il Landrecht prussiano, sono tutto ciò che Dühring sa dirci dell'antagonismo di città e campagna per il presente e per l'avvenire.

Passiamo alla divisione del lavoro in particolare. Qui Dühring è già un po' "più esatto". Egli parla di "una persona che deve consacrarsi esclusivamente ad un genere di attività". Se si tratta di introdurre un nuovo ramo di produzione la questione consiste semplicemente in questo: se, cioè, si possano, per così dire, creare un certo numero di esistenze che debbano dedicarsi alla produzione di un articolo ed insieme al consumo (!) che per essi è necessario. Un qualsiasi ramo di produzione nella socialità "non impegnerà una popolazione molto numerosa". Anche nella socialità ci sono "varietà economiche" di uomini "che si distinguono l'uno dall'altro per il modo in cui vivono". Conseguentemente nella sfera della produzione tutto resta pressappoco nel vecchio ordine. Certo sinora regna nella società una "falsa divisione del lavoro"; ma quanto a sapere che cosa questa consista e da che cosa debba essere sostituita nella comunità economica, apprendiamo solo questo:

"Per quel che si riferisce alla stessa divisione del lavoro, abbiamo già detto sopra che essa può considerarsi risolta non appena si tenga conto delle opportunità naturali e delle capacità personali diverse".

Accanto alle capacità risalta anche l'inclinazione personale:

"Lo stimolo ad elevarsi ad attività che mettano in giuoco migliori capacità e maggiore preparazione poggerebbe esclusivamente sull'inclinazione che si sente per l'occupazione di cui si tratta e sulla gioia dell'esercizio precisamente di questa cosa" (esercizio di una cosa!) "e di nessun'altra".

Ma così nella socialità viene stimolata l'emulazione e

"la produzione stessa acquisterà un interesse, e quello stupido sfruttamento che la apprezza solo come mezzo per il profitto non sarà più l'impronta dominante dello stato delle cose".

In ogni società nella quale la produzione si sviluppa con spontaneità naturale, e la società odierna è di questo genere, non sono i produttori a dominare i mezzi di produzione, ma i mezzi di produzione a dominare i produttori. In una società siffatta ogni nuova leva della produzione si muta necessariamente in un nuovo mezzo per l'asservimento dei produttori ai mezzi di produzione. Questo vale anzitutto per quella leva della produzione che sino all'introduzione della grande industria è stata di gran lunga la più potente: la divisione del lavoro. La prima grande divisione del lavoro, la separazione di città e campagna, ha immediatamente condannato la popolazione rurale all'istupidimento per migliaia di anni e i cittadini all'asservimento di ogni individuo al proprio mestiere individuale. Essa ha distrutto le basi dello sviluppo spirituale degli uni e dello sviluppo fisico degli altri. Se il contadino si appropria il suolo e il cittadino si appropria il suo mestiere, nella stessa misura il suolo si appropria del contadino e il mestiere si appropria l'artigiano. Essendo diviso il lavoro, anche l'uomo è diviso. Tutte le altre capacità fisiche e spirituali sono sacrificate alla formazione di una sola attività. Questa minorazione dell'uomo cresce nella stessa misura in cui cresce la divisione del lavoro, che raggiunge il suo più alto sviluppo nella manifattura. La manifattura scompone il mestiere nelle sue singole operazioni parziali, assegna ciascuna di queste stesse operazioni ad ogni singolo operaio come compito della sua vita e così lo incatena vita natural durante ad una determinata azione parziale e ad un determinato strumento.

"Storpia l'operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, l'abilità di dettaglio, mediante la soppressione di un mondo intero di impulsi e di disposizioni produttive (...) L'individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico di un lavoro parziale" (Marx) [188],

un motore che in molti casi raggiunge la sua perfezione solo mediante un letterale storpiamento spirituale e fisico dell'operaio. Il macchinismo della grande industria degrada l'operaio, da macchina, a semplice accessorio di una macchina.

"Dalla specialità di tutt'una vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutt'una vita, consistente nel servire una macchina parziale. Del macchinario si abusa per trasformare l'operaio stesso, fin dall'infanzia, nella parte di una macchina parziale" (Marx) [189].

E non solo gli operai, ma anche le classi che sfruttano direttamente o indirettamente gli operai vengono, dalla divisione del lavoro, asservite allo strumento della loro attività: il borghese dallo spirito squallido, al proprio capitale e alla propria avidità di profitto; il giurista alle sue incartapecorite idee giuridiche che lo dominano come un potere per sé stante; i "ceti colti" in generale alle molteplici meschinità o unilateralità del proprio ambiente, alla loro miopia fisica e spirituale, al loro storpiamento prodotto dall'educazione impostata secondo una specializzazione e dall'incatenamento vita natural durante a questa specializzazione stessa, anche se poi questa specializzazione è il puro far niente.

Gli utopisti si erano già resi perfettamente conto degli effetti della divisione del lavoro, della minorazione, da una parte, dell'operaio e, dall'altra, della stessa attività lavorativa, che viene ridotta ad una ripetizione che dura tutta la vita, monotona, meccanica di un solo e medesimo atto. La soppressione dell'antagonismo di città e campagna è reclamata, tanto da Fourier quanto da Owen, come la prima e fondamentale condizione della soppressione della vecchia divisione del lavoro in generale. Per entrambi la popolazione deve esser spezzettata, per il paese, in gruppi che vanno da milleseicento a tremila, ogni gruppo abita, nel centro del proprio distretto, un palazzo gigantesco con comune amministrazione. È vero che Fourier parla qua e là di città, ma anche esse constano, a loro volta, solo di quattro o cinque di tali palazzi, situati vicini l'uno all'altro. In entrambi ogni membro della società partecipa tanto all'agricoltura quanto all'industria; in Fourier nell'industria hanno la parte principale l'artigianato e la manifattura, in Owen invece questa parte è rappresentata già dalla grande industria ed in lui viene già reclamata l'introduzione del vapore e delle macchine nel lavoro domestico. Ma anche all'interno, sia dell'agricoltura che dell'industria, entrambi esigono per ciascun individuo la massima variazione dell'occupazione, e corrispondentemente l'assuefazione della gioventù ad un'attività tecnica quanto più possibile multilaterale. Per entrambi l'uomo deve svilupparsi in tutti i lati mediante un'attività pratica universale, e il lavoro deve recuperare quello stimolo dell'attrazione che la divisione gli ha tolto, anzitutto mediante questa variazione di attività e la corrispondente breve durata delle "sedute" dedicate ad ogni singolo lavoro, per servirci di un'espressione di Fourier [190]. Entrambi hanno di gran lunga sorpassata la mentalità delle classi sfruttatrici ereditata da Dühring, la quale ritiene l'antagonismo di città e campagna inevitabile per la natura stessa delle cose, è prigioniera di quella veduta limitata per cui un certo numero di "esistenze" dovrebbero, in ogni caso, essere condannate a produrre solo un articolo e vorrebbe eternare quelle "varietà economiche" di uomini che si dividono tra loro per il modo in cui vivono, gente che ha la propria gioia nell'esercizio precisamente di questa e di nessun'altra cosa e che quindi è tanto degradata da gioire del proprio asservimento e del proprio unilaterale immiserimento. Di fronte alle idee fondamentali contenute nelle pur stravaganti fantasie di quell'"idiota" di Fourier, di fronte anche alle più meschine idee del "rozzo, piatto e meschino" Owen, Dühring, ancora interamente asservito alla divisione del lavoro, fa la figura di un nano presuntuoso.

La società, impadronendosi di tutti i mezzi di produzione per usarli socialmente e secondo un piano, distrugge il precedente asservimento degli uomini ai loro propri mezzi di produzione. Evidentemente la società non si può emancipare senza che ogni singolo sia emancipato. Il vecchio modo di produzione deve quindi essere rivoluzionato sin dalle fondamenta e specialmente deve sparire la vecchia divisione del lavoro. Al suo posto deve subentrare un'organizzazione della produzione in cui, da una parte nessun singolo può scaricare sulle spalle di altri la propria partecipazione al lavoro produttivo, fondamento naturale dell'umana esistenza, in cui, dall'altra, il lavoro produttivo, anziché mezzo per l'asservimento, diventa mezzo per l'emancipazione degli uomini, poiché fornisce ad ogni singolo l'occasione di sviluppare e di mettere in azione tutte quante le sue capacità sia fisiche che spirituali in tutte le direzioni: e in cui così il lavoro, da peso diverrà gioia.

Tutto questo oggi non è più né una fantasia né un pio desiderio. Con il presente sviluppo delle forze produttive, l'incremento della produzione determinato dalla socializzazione delle stesse forze produttive, l'eliminazione degli ostacoli e dei turbamenti derivanti dal modo di produzione capitalistico, e l'eliminazione dello sciupio dei prodotti e dei mezzi di produzione, sono già sufficienti per ridurre, posta una partecipazione generale al lavoro, il tempo di lavoro ad una misura che, secondo le idee odierne, è minima.

Né egualmente la soppressione della vecchia divisione del lavoro è un'esigenza che potrebbe attuarsi solo a spese della produttività del lavoro. Al contrario. Essa è diventata una condizione della stessa produzione, mediante la grande industria.

"Il funzionamento a macchina elimina la necessità di consolidare questa distribuzione come accadeva per la manifattura, mediante l'appropriazione permanente dello stesso operaio alla stessa funzione. Siccome il movimento complessivo della fabbrica non parte dall'operaio ma dalla macchina, può aver luogo un continuo cambiamento delle persone senza che ne derivi un'interruzione del processo lavorativo (...) Infine, la velocità con la quale il lavoro della macchina viene appreso nell'età giovanile, elimina anche la necessità di preparare una particolare classe di operai esclusivamente al lavoro delle macchine." [191]

Ma mentre il modo con cui il capitalismo impiega il macchinario perpetua necessariamente la vecchia divisione del lavoro con le sue specializzazioni fossilizzate, malgrado queste siano diventate tecnicamente superflue, lo stesso macchinismo si ribella a questo anacronismo. La base tecnica della grande industria è rivoluzionaria.

"Con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente, oltre alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione all'altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell'operaio in tutti i sensi (...) Si è visto come questa contraddizione assoluta (...) si sfoghi nell'olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall'anarchia sociale. Questo è l'aspetto negativo. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l'effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi la maggiore versatilità possibile dell'operaio come legge sociale generale della produzione e l'adattamento delle circostanze all'attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita o di morte. Per essa diventa una questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con l'altro" (Marx, "Capitale") [192].

La grande industria, insegnandoci a trasformare il movimento di molecole, che più o meno si può realizzare dovunque, in un movimento di masse per fini tecnici, ha in notevole misura emancipato la produzione dai limiti di luogo. La forza idraulica era legata ad un luogo, la forza del vapore è libera. Se la forza idraulica appartiene necessariamente alla campagna, la forza del vapore non appartiene affatto necessariamente alla città. È la sua utilizzazione capitalistica a concentrarla prevalentemente nella città e a trasformare i villaggi industriali in città industriali. Ma con ciò essa distrugge ad un tempo le condizioni del suo proprio sfruttamento. La prima esigenza della macchina a vapore, e l'esigenza principale di quasi tutti i rami di sfruttamento della grande industria, è un'acqua relativamente pura. Ma la città industriale trasforma qualsiasi acqua il fetido liquido di scolo. Quindi nella misura in cui la concentrazione urbana è la condizione fondamentale della produzione capitalistica, nella stessa misura ogni singolo capitalista industriale tende costantemente ad abbandonare le grandi città, create dalla produzione capitalistica, per andare ad esercitare lo sfruttamento industriale in campagna. Questo processo si può studiare nei suoi particolari nei distretti dell'industria tessile del Lancashire e dello Yorkshire; la grande industria capitalistica crea in quei luoghi sempre nuove grandi città, perché costantemente fugge dalla città verso la campagna. Lo stesso accade nei distretti dell'industria metallurgica, dove, talvolta, cause diverse producono gli stessi effetti.

Ancora una volta, solo la soppressione del carattere capitalistico dell'industria moderna permette la soppressione di questo nuovo circolo vizioso, di questa contraddizione costantemente riproducentesi dell'industria moderna, solo una società che faccia ingranare, armoniosamente, le une nelle altre le sue forze produttive, secondo un solo grande piano, può permettere all'industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e alla sua conservazione, ovvero allo sviluppo, degli altri elementi della produzione.

Conseguentemente la soppressione dell'antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è divenuta una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell'igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l'attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti saranno adoperati per produrre le piante e non le malattie.

L'industria capitalistica si è già resa relativamente indipendente dai limiti locali dei luoghi di produzione delle sue materie prime. La sua industria tessile elabora materie prime importate in gran quantità. Minerali ferrosi spagnoli vengono lavorati in Inghilterra e in Germania, minerali di rame spagnoli e sudamericani vengono lavorati in Inghilterra. Ogni giacimento carbonifero rifornisce di combustibile molto al di là dei suoi confini un distretto industriale, che si accresce ogni anno. Su tutte le coste europee macchine a vapore vengono messe in azione da carbone inglese ed in parte da carbone tedesco e belga. La società emancipata dai limiti della produzione capitalistica può andare ancora molto più avanti. Producendo una generazione di produttori provvisti di un'educazione sviluppata in tutti i sensi, i quali intendano le basi scientifiche di tutta la produzione industriale e ognuno dei quali abbia praticamente percorso da cima a fondo tutta una serie di rami della produzione, essa crea una nuova forza produttiva che compensa largamente il lavoro richiesto per il trasporto a grandi distanze di materie prime e di combustibili.

La soppressione della separazione di città e campagna non è dunque un'utopia, neanche sotto l'aspetto per cui essa ha come sua condizione la distribuzione più omogenea possibile della grande industria in tutto il paese. La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città un'eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica. Ma esse debbono essere e saranno eliminate, anche se questa eliminazione sarà un processo molto laborioso. Qualunque sia il destino riservato all'impero tedesco della nazione prussiana, Bismarck potrà discendere la tomba con la fiera coscienza che il desiderio del suo cuore, il tramonto delle grandi città, sarà certamente appagato [193].

Ed ora si veda quanto sia puerile l'idea di Dühring che la società possa prender possesso della totalità dei mezzi di produzione senza rivoluzionare dalle fondamenta il vecchio modo di produrre e, anzitutto, senza abolire la vecchia divisione del lavoro; che tutto sia apposto non appena "si tenga conto delle opportunità naturali e delle capacità personali", mentre poi intere masse di uomini restano come prima asservite alla produzione di un solo articolo, intere "popolazioni" vengono impiegate in un singolo ramo di produzione e l'umanità continua a dividersi come prima in un numero di differenti "varietà economiche" storpiate, quali, ad es., "carrettieri" e "architetti". La società dovrebbe diventare padrona dei mezzi di produzione in toto, perché ogni individuo non resti schiavo del suo mezzo di produzione. E si veda del pari come Dühring consideri la separazione di città e campagna "inevitabile per la stessa natura delle cose" e come possa scoprire solo un piccolo palliativo nei due rami che insieme costituiscono un binomio tipicamente prussiano: la distillazione dell'acquavite e la produzione dello zucchero di barbabietola. Si veda come egli faccia dipendere la dislocazione dell'industria nel paese da qualche scoperta futura e dalla necessità di far poggiare l'industria direttamente sull'estrazione delle materie prime -delle materie prime che già ora sono usate a distanza sempre maggiore dal loro luogo d'origine!- e come finalmente cerchi di coprirsi le spalle con l'assicurazione che i bisogni sociali imporranno, alla fine, il legame tra l'agricoltura e l'industria sia pure contro le considerazioni economiche, come se così si compiesse un sacrificio economico.

Certo, per capire che gli elementi rivoluzionari, i quali elimineranno la vecchia divisione del lavoro insieme con la separazione di città e campagna e rivoluzioneranno tutta la produzione, sono già contenuti in germe nelle condizioni della produzione della grande industria moderna e che il loro sviluppo viene ostacolato dall'attuale modo di produzione capitalistico; per capire questo, bisogna avere un orizzonte un po' più vasto di quello del dominio in cui vige il Landrecht prussiano, il paese nel quale grappa e zucchero di barbabietola sono i prodotti-base dell'industria e le crisi commerciali si possono studiare sul mercato librario. Per questo bisogna conoscere la grande industria reale nella sua storia e nella sua realtà attuale, specialmente in quel paese in cui solo essa ha la sua patria e in cui solo ha raggiunto il suo classico sviluppo; e allora non si potrà neppure pensare di impoverire il socialismo scientifico moderno e di avvilirlo al livello del socialismo tipicamente prussiano di Dühring.

 

Note

*12. La spiegazione delle crisi mediante il sottoconsumo deriva da Sismondi e in lui ha ancora un certo senso. Rodbertus l'ha presa a prestito da Sismondi e a sua volta Dühring l'ha copiata da Rodbertus nella abituale maniera che tutto rende banale.

188. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 404.

189. Ibid. p. 466.

190. Charles Fourier, "Le nouveau monde...", capp. II, V, VI.

191. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 465.

192. Ibid. pp. 533-535.

193. Con ogni probabilità Engels allude al discorso pronunciato il 20 marzo 1852 da Bismarck alla Camera dei deputati della Dieta prussiana (nella quale era deputato dal 1849). Bismarck espresse l'odio dei grandi proprietari fondiari prussiani contro le grandi città, quali centro del movimento rivoluzionario, dicendo che diffidava di esse città poiché in esse non viveva il vero popolo prussiano. "Questo, anzi, se le grandi città dovessero sollevarsi di nuovo, saprà ridurle all'obbedienza, e dovrebbe cancellarle dalla faccia della terra."

 


Ultima modifica 16.10.2002