Paul Mattick 1971

Divisione del lavoro e coscienza di classe


 

 

4. L'abbondanza capitalistica

Così, il lavoro produttivo, mentre concedeva alla scienza uno spazio sempre maggiore, ha descritto una parabola discendente, non senza nutrire nuove illusioni. E' un fatto ormai acquisito che, a causa di progressi tanto spettacolari nella produttività del lavoro, la problematica del capitalismo si è spostata dalla sfera della produzione a quella della distribuzione. Perciò, si attribuiscono gli ostacoli contro i quali si urta il sistema non a una mancanza, ma a un'abbondanza di plusvalore, abbondanza che renderebbe sempre più ardua la realizzazione di quest'ultimo all'interno dell'economia di mercato[8]. Di qui la necessità di utilizzare improduttivamente tale surplus irrealizzabile per mantenere a un livello socialmente accettabile le capacità di produzione e d'impiego. Da questo punto di vista il problema del lavoro produttivo e improduttivo va ricondotto allo spreco del lavoro a fini improduttivi, cioè distruttivi. In tal senso, il lavoro improduttivo in quanto tale si vede definito come un tipo di lavoro che perde ogni necessità all'interno di una "società razionalmente organizzata".

Questa definizione ha sostanzialmente in comune con il pensiero borghese la riduzione della distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo a considerazioni di carattere politico ed etico mentre essa è determinata essenzialmente dalla produzione di plusvalore. Poiché ogni forma di società ha una sua propria razionalità, si può opporre alla società capitalistica soltanto un altro tipo di società che abbia una diversa razionalità, e non una "società razionalmente organizzata". In un sistema capitalistico - soggetto alla concorrenza o ai monopoli - è razionale ogni attività che mira a creare del plusvalore e, quindi, tutto ciò che mira a salvaguardare e a riprodurre le condizioni proprie alla creazione di quest'ultimo. A questa razionalità si riconducono dunque tutti gli elementi "irrazionali" del sistema: le imprese improduttive e quelle che producono per la distruzione; la penuria come l'abbondanza; la disoccupazione e l'arresto delle capacità di produzione; le crisi in quanto condizioni preliminari di alte congiunture che preludono a loro volta a nuove crisi; l'arricchimento di una parte della popolazione a spese dell'altra; il depauperamento di intere regioni a vantaggio delle grandi potenze capitalistiche; le devastazioni provocate dalle guerre e dall'imperialismo che servono come base per nuovi incrementi della produzione; la distribuzione del plusvalore come preliminare obbligatorio per un accrescimento del plusvalore estratto dai lavoratori.

Per ritornare al problema dibattuto all'inizio di questo saggio, si può osservare che Altvater e Huisken rifiutano decisamente di porre il problema dei lavoro produttivo e del lavoro improduttivo sul piano di una supposta contraddizione tra razionalità e irrazionalità, pur giustificando che si possa fondare su questa contraddizione una critica della società monopolistica[9]. Infatti, la contestazione studentesca ha preso di mira in questi ultimi anni soprattutto gli aspetti "irrazionali" del potere capitalista, senza quasi preoccuparsi dei rapporti di produzione che lo presuppongono come se bastasse considerare le manifestazioni esteriori delle contraddizioni interne del capitalismo in un modo anch'esso puramente esteriore! Altvater e Huisken hanno certamente ragione a sottolineare che "fino a quando non si è fatta un'analisi del proletariato in funzione delle condizioni della produzione, e delle condizioni della comparsa della coscienza di classe in funzione dei movimenti oggettivi della lotta di classe, non si possono comprendere i conflitti tipici del capitalismo e, invece di vedere gli effetti della contraddizione che oppone il lavoro salariato al capitale, si vedono quelli della contraddizione tra razionalità e irrazionalità, tra possibilità tecniche e ostacoli sociali"[10].

Secondo Altvater e Huisken, è senz'altro deplorevole (ma non e un caso) che le teorie di Marcuse e quelle di Baran e di Sweezey abbiano ricevuto così buona accoglienza nelle file del movimento studentesco. Questi autori hanno contribuito particolarmente ad approfondire la distanza ideologica che separa il movimento socialista dal movimento operaio. Non contenti di nutrire l'illusione secondo cui il capitalismo riuscirebbe a risolvere i suoi problemi economici con mezzi politici, non sostengono forse che è ormai inconcepibile che il proletariato faccia la rivoluzione? Tuttavia, essi dicono, il mondo ha pur sempre bisogno di una rivoluzione per porre termine alla miseria in cui si trovano immerse le masse dei paesi sottosviluppati e le minoranze emarginate dal benessere dei paesi avanzati, per scongiurare il pericolo di una nuova guerra e per realizzare il progetto di una società finalmente degna dell'uomo, progetto che già esiste allo stato di virtualità. Sempre secondo questo punto di vista, se è impossibile precisare quali saranno esattamente gli agenti di questa rivoluzione, una cosa e sicura: gli operai non ne saranno i protagonisti. Queste considerazioni, limitate come sono agli aspetti più superficiali della società, non meritano di essere confutate, ma esigono alcune spiegazioni che necessitano a loro volta di un'analisi dei rapporti di produzione.

Quest'esame Marcuse lo intraprende partendo dai concetti di lavoro produttivo e di lavoro, improduttivo. Le trasformazioni strutturali del capitalismo, come egli sottolinea, hanno a tal punto coinvolto le classi e la loro situazione che gli operai dell'industria non trovano più niente a ridire sullo sfruttamento. Se è ancora legittimo domandarsi "se i milioni d'impiegati, che lavorano nel settore pubblicitario, creano o no del plusvalore, questi stessi impiegati sempre secondo Marcuse scambiano il loro lavoro immediato con capitale, come vuole il concetto marxiano di sfruttamento. I loro salari non rappresentano soltanto delle spese generali, dato che essi assolvono delle funzioni assolutamente indispensabili al buon andamento della produzione capitalistica. Non solo, ma la produzione commerciale non potrebbe fare a meno dei loro servizi, poiché essi predeterminano la forma delle merci, e anche la loro qualità e quantità. Lo stesso si può dire, ovviamente, dei tecnici, degli ingegneri, dei ricercatori scientifici, degli psicologi e dei sociologi impegnati nel processo di produzione, il cui numero è in costante e rapido aumento. Tutto ciò determina trasformazioni strutturali all'interno della classe operaia. E poiché sappiamo che il numero degli impiegati d'ufficio è destinato ad aumentare a detrimento di quello degli operai dell'industria, che il rapporto tra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali continuerà ad evolvere, dato che questi ultimi costituiranno sempre di più la base umana del processo di produzione, sarà bene trattare con cautela i concetti di proletariato e di dittatura del proletariato"[11].

Gli avvenimenti di questi ultimi anni - i grandi movimenti di sciopero che si sono verificati in tutti i paesi capitalistici e i sintomi di crisi che si moltiplicano negli Stati Uniti - hanno modificato un poco le concezioni di Marcuse, la sua visione di una "società a una dimensione" capace di risolvere il problema delle classi all'interno della società di classe. Egli parlava fino a ieri di "società dei consumi", oggi anche lui parla della "cosiddetta società dei consumi", delle barriere immanenti contro le quali si urta il modo di produzione capitalistico, cioè "la saturazione del mercato degli investimenti e delle merci. Il lavoro 'improduttivo' aumenta a detrimento del lavoro produttivo. L'inflazione, che significa l'abbassamento dei salari reali, fa ormai parte della dinamica del sistema"[12]. In realtà è finito l'imborghesimento degli operai, diretta conseguenza del miglioramento della loro condizione.

Se non si può fare a meno di rallegrarsi nel constatare che Marcuse cerchi di tener conto del cambiamento della situazione, bisogna però osservare che si tratta nel caso specifico non di una "saturazione del mercato" ma, al contrario, di ostacoli che, sulla base della produzione capitalistica del plusvalore, si oppongono a una "saturazione" effettiva del mercato e forse anche la rendono impossibile. L'abbassamento dei salari reali, assunto come "dinamica del sistema", dimostra che la causa delle difficoltà che assillano il capitalismo è da ricercarsi in una mancanza di plusvalore a cui questa famosa "dinamica" si sforza di rimediare. Il plusvalore può essere estratto solo nella produzione; esso può essere accresciuto solo per mezzo di nuovi investimenti e di un aumento della produttività. Il ristagno relativo del capitalismo va dunque messo in relazione ai rapporti di produzione, che si esprimono sotto forma di rapporti capitalistici di valore, al tasso di sfruttamento in rapporto al capitale totale o al tasso di profitto da cui dipende l'accumulazione. Un tasso di accumulazione insufficiente, se sul mercato assume l'aspetto di una sovrapproduzione di capitale, in realtà deriva dai rapporti di produzione, la quale non può essere allargata se non a condizione che il capitale sia stato valorizzato, senza di che si verifica una crisi di sovrapproduzione.

Quando le esigenze della valorizzazione del capitale entrano in conflitto con quelle del suo rendimento, si registra un abbassamento del tasso di accumulazione e, al tempo stesso, la fermata di una certa quantità di lavoratori e di mezzi di produzione che riprenderanno la loro attività solo al momento in cui lo consentirà un'accumulazione accelerata. Se si ha l'impressione di vivere sotto il segno dell'abbondanza dei beni di consumo e dei mezzi di produzione, è perché in realtà c'è una mancanza di plusvalore, ed e questa penuria a esercitare un'influenza preponderante sul corso della produzione. Il capitale, lo ripetiamo, produce merci e mezzi di produzione solo a condizione di creare in tal modo plusvalore e capitale. La sua forza o la sua debolezza derivano dalla sua capacità o incapacità di produrre plusvalore, non da una penuria o da un'abbondanza di beni utili. Di per se l'abbassamento del tasso di profitto vieta che in un sistema capitalista esista una "saturazione" assoluta del mercato; al massimo si può verificare una "saturazione" relativa legata ad una mancanza di rendimento, a cui bisogna rimediare anzitutto nella sfera della produzione per rilanciare l'economia, cioè per consentire al "mercato degli investimenti e delle merci" di conoscere un nuovo incremento.

Pur interessandosi ai rapporti interni della società capitalistica, Marcuse non resta tuttavia in superficie. La contraddizione fondamentali del capitale non è altro, secondo lui, che la contraddizione "tra una prodigiosa ricchezza sociale e l'uso deplorevole e distruttore che se ne fa"[13]. In realtà questa "prodigiosa ricchezza sociale" semplicemente non esiste, poiché una minoranza privilegiata può disporne e, se dovesse essere distribuita tra tutti i membri della società, sarebbe tutt'altro che "prodigiosa". E' proprio l'impiego di una parte di questa "ricchezza" per dei fini distruttivi che permette ai lavoratori di beneficiarne, in una misura molto ristretta a dire la verità. Secondo Marcuse, le masse lavoratrici non ignorano "dove si trova il loro interesse e il loro interesse immediato, qual è la posta in gioco che li riguarda. Esse sanno benissimo per esempio che il giorno in cui la guerra del Vietnam sarà veramente finita, decine di migliaia di lavoratori perderanno il loro posto. Esse sanno benissimo donde provengono le loro vacche grasse"[14]. Tuttavia questa "certezza" gli operai la condividono con tutte le altre categorie della popolazione, e tutto ciò significa in sostanza che le condizioni di lavoro sono fissate dal capitale. All'interno dei rapporti di produzione capitalistici, la qualità e il volume della produzione dipendono dal capitale e da esso solo. Ciò che spinge i lavoratori a produrre per la guerra non è il loro "interesse immediato", ma la necessità immediata di vendere la loro forza-lavoro, senza poter controllare l'uso che ne viene fatto, necessità che deriva dalla loro situazione di classe. Poiché essi non hanno la possibilità di scegliere, è assurdo attribuire a loro una parte di responsabilità nella politica capitalistica, benché si possa loro rimproverare con maggiore correttezza di non pensare all'abolizione del capitalismo.

Marcuse vede nell'impiego di una frazione della "prodigiosa ricchezza" a fini di sterminio uno spreco improduttivo di lavoro produttivo. Secondo lui, quasi tutti i tipi di lavoro sono diventati lavori produttivi, poiché si scambiano con lavoro. Ma ciò significa dimenticare che se, dal punto di vista del singolo capitalista, il lavoro scambiato con capitale crea del plusvalore - è dunque è produttivo - dal punto di vista del capitale nel suo insieme, esso resta in parte improduttivo, poiché le spese di circolazione devono essere prelevate dal plusvalore globale, il che riduce il tasso di profitto medio. E ciò non cambia nulla al fatto che i salari operai servano in parte a pagare il lavoro improduttivo e, inoltre, una parte delle imposte e delle tasse. Un'analisi astratta del valore può certamente lasciare da parte tutte queste complicazioni e considerare il prodotto sociale come eguale al valore della forza-lavoro - in quanto suo costo necessario di riproduzione - e al plusvalore del capitale, dedotte le spese di circolazione. In realtà, queste ultime sono incluse nel prezzo delle merci e dunque sono parzialmente a carico del consumatore operaio. Si può anche andare più oltre e definire il salario come ciò che resta al lavoratore dopo che ha pagato le tasse, considerando al tempo stesso il plusvalore come oggetto esclusivo d'imposta, benché in realtà sia la tassazione del lavoratore che diminuisce il profitto e contribuisce, quindi, ad avvicinare il salario al valore astratto.

La produzione di materiale bellico, a cui è adibita una parte dei lavoratori nelle industrie capitalistiche, permette a queste ultime di ricavare dei profitti e d'ingrandire il proprio capitale. Il lavoro eseguito su questa base è quindi un lavoro produttivo. Tuttavia, è lo Stato ad acquistare la produzione con il denaro proveniente dalle imposte e dai prestiti, cioè prelevato dai salari e dai profitti collegati alla produzione sociale globale. Il plusvalore estratto nel settore della produzione bellica può essere "realizzato" solo diminuendo il plusvalore estratto nell'altro settore. Dal punto di vista sociale il lavoro speso nella produzione bellica viene scambiato non con capitale, ma con salari e profitti e, quindi, rimane improduttivo dal punto di vista capitalistico. Indipendentemente dal tasso di profitto medio determinato dalla concorrenza, il lavoro improduttivo modifica di conseguenza la distribuzione del plusvalore sociale globale a favore dei produttori di materiale bellico, cosa che gli altri produttori accusano sotto forma di un abbassamento dei loro profitti che essi cercano di mascherare con un aumento dei prezzi. A mano a mano che aumenta la porzione del lavoro improduttivo, in seguito al rialzo della produttività relativa al lavoro produttivo, e in particolare sotto l'effetto della produzione addizionale indotta dallo Stato, cioè della frazione della produzione che eccede le esigenze abituali dello Stato, il plusvalore globale diminuisce in rapporto al capitale sociale ed è sempre più difficile valorizzare quest'ultimo. La ricchezza capitalistica, che può consistere unicamente di plusvalore, segue nello stesso tempo una curva declinante; così, i capitalisti si sforzano di risalire la china con tutti i mezzi. Quanto poi a sapere se tali sforzi saranno efficaci, questa è un'altra questione che il capitale non è in grado di porsi.

Sarebbe un errore pensare, con Altvater e Huisken[15], che lo spreco a cui il lavoro improduttivo è destinato moderi la tendenza all'abbassamento del tasso di profitto, quando proprio la parte del plusvalore suscettibile di essere accumulata si trova secondo loro ridotta. Se il tasso di accumulazione diminuisce, il tasso di profitto deve a sua volta abbassarsi, poiché esso può mantenersi a un livello determinato solo in caso di accumulazione accelerata. La valorizzazione e l'ampliamento del capitale vanno sempre di pari passo, e quindi anche l'accumulazione; quindi, se la possibilità di valorizzazione o il tasso di accumulazione diminuiscono, il capitalismo si vede precipitare in una crisi che provoca un abbassamento effettivo del tasso di profitto. La tendenza di quest'ultimo a scendere in seguito alle trasformazioni strutturali subite dal capitale nel suo insieme può trovarsi controbilanciata da un'accumulazione accelerata, il che non esclude un ristabilimento di questa tendenza sotto l'effetto di un ristagno relativo del capitale. In quest'ultimo caso, al contrario, cioè quella che era solo una tendenza diventerà realtà, poichè la crisi che ne segue diminuisce i profitti e ne annulla una parte.

Se si deve credere ad Altvater e Huisken, i lavori improduttivi aprono nuovi campi alla realizzazione di plusvalore, poiché essi rappresentano un consumo nel senso economico, che viene ad aggiungersi alla capacità di consumo delle masse. "Essi hanno quindi l'effetto di allargare campo in cui il capitale ha la possibilità di realizzare il plusvalore estratto. II lavoro improduttivo del soldato è di conseguenza diventato una condizione preliminare del lavoro produttivo dell'operaio degli arsenali. E' proprio questo rovesciamento del rapporto tra lavoro pro duttivo e lavoro improduttivo che impedisce la comparsa di una coscienza di classe tra i lavoratori produttivi dell'industria bellica. Qualificare questo atteggiamento come irrazionale - come fa Marcuse - o classificare questi operai come lavoratori improduttivi - come fanno Baran e Sweezy dimostra ancora una volta che non si è capito nulla del principio che regola i rapporti economici della valorizzazione del capitale e della sua realizzazione. L'ingrossamento dell'apparato statale si rivela utile al capitale allorché le sue possibilità di investimento produttivo sembrano restringersi e il sistema entra contemporaneamente in una fase di declino"[16].

Se è esatto dire che l'espansione della produzione provocata dallo Stato aiuta la borghesia a uscire da una crisi acuta e a creare per un pezzo le condizioni di una congiuntura apparentemente favorevole, riuscendo cioè ad ampliare i risultati di ogni iniezione di crediti nell'economia, ciò non toglie che essa lascia sussistere interamente il problema della valorizzazione del capitale e della sua realizzazione, soggiacente alla crisi. Per essere valorizzato, il capitale deve pervenire a realizzare il plusvalore attraverso l'accumulazione, poiché soltanto l'eccedenza di prodotti non consumati - quale che sia il tipo di consumo a cui sono destinati - può essere valorizzata. Perciò, l'abbassamento del tasso di accumulazione significa che la valorizzazione del capitale è sempre più difficile, che si può sempre di meno realizzare il plusvalore in quanto capitale. Così continua nascostamente un processo che alla luce del giorno appare come un periodo di crisi, e che consiste nelle difficoltà di conversione del plusvalore in capitale. Ciò che durante le crisi del passato si manifestava con la disoccupazione e la cessazione dello sfruttamento delle risorse produttive, assume oggi l'aspetto di un incremento del lavoro improduttivo, della produzione non redditizia, che è tollerabile economicamente solo nella misura in cui il ritmo a cui assurge la produttività del lavoro è più rapido del ritmo a cui il plusvalore è consumato in lavoro improduttivo.

Note

8. Cfr. ad esempio Joseph Gitman, Prosperity in Crisis, New York, 1965 e The Falling Rate of Profil, Londra 1957; Patti Barati e Paul Sweezy, Le Capitalistne monopoliste, Parigi 1969; Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione, Torino 1968.

9.Sozialislische Politik, n. 8, pp. 52-53.

10.Sozialislische Politik, n. 8, p. 53.

11.Cfr. Franhfurter Rundschau, 5 dic. 1970, p. 4.

12.Cfr. Franhfurter Rundschau, 5 dic. 1970, p. 4.

13. Frartkfurler. Runtlschau, cit.

14. Frartkfurler. Runtlschau, cit.

15.Sozialislische Politik. n. 8, pp. 78-79.

16.Sozialislische Politik. n. 8, pp. 78-79.


5. Lavoratori e studenti
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