MIA >
Reference Archive
[ Archvio Marcos ]
«C'E' SPAZIO PER MOLTI MONDI NEL MONDO CHE VOGLIAMO».
Colloqui con il subcomandante Marcos, il maggiore Moisés e il
comandante Tacho dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale,
Messico.
La preistoria (il nucleo iniziale marxista-leninista)
Ultimo addio a
Che Guevara
L'incontro con le comunità indie
Marcos e i suoi
L'insurrezione
Dallo zapatismo armato allo zapatismo civile
Etica,
comunità e democrazia
Lo zapatismo oggi: urgenza di una definizione
Quali cambiamenti?
Una Vandea progressista?
Populismo, nazione,
marxismo
La caduta del muro di Berlino e Cuba, viste dal deserto
della solitudine
La guerra dei simboli e dell'informazione
«Marcos
deve sparire».
Avvertenza.
I colloqui con il subcomandante Marcos, con il maggiore Moisés e con
il comandante Tacho sono avvenuti separatamente. Tuttavia, abbiamo
deciso di riunirli in paragrafi tematici poiché i vari interventi
offrono talora interpretazioni diverse.
Le note sono di Yvon Le Bot. Per altre notizie sul contesto storico-
politico, il lettore potrà fare riferimento al saggio introduttivo.
Yvon le Bot (Y): Questo colloquio non è un'intervista, ma piuttosto
una discussione, una conversazione...
Marcos (M): Una riflessione...
Y: Una riflessione su temi che devono essere scelti con cura... Per
facilitare il dialogo, potremmo seguire una linea cronologica,
parlando innanzitutto di come gli zapatisti diventano zapatisti, e in
un secondo momento esaminando questioni come la nuova politica, il
tipo di democrazia, l'identità, il movimento sociale, cose di questo
genere. Se avremo tempo, per concludere potremo parlare delle
prospettive.
Ma innanzitutto come si forma questo grande crogiolo, questo strano
fenomeno che è lo zapatismo?
LA PREISTORIA
(IL NUCLEO INIZIALE MARXISTA-LENINISTA)
- La rivoluzione mondiale... salvo che in Messico. Y: Le insurrezioni della Rivoluzione [1], Pancho Villa, Zapata...
M: Eccetera eccetera. C'erano molti universitari, fra cui professori
che conoscevano bene la storia del Messico, incredibilmente bene,
persone con una cultura enciclopedica... Molti di loro, per esempio,
avrebbero potuto essere ottimi ricercatori in qualsiasi università del
mondo, e invece vivevano in clandestinità... Conoscevano a menadito
tutta la storia del paese dalla Conquista, anche prima della
formazione del Messico, l'epoca coloniale, la guerra d'Indipendenza.
Conoscevano bene soprattutto la storia militare del popolo messicano,
le strategie militari di Morelos, di Hidalgo [2], del conflitto contro
gli Stati Uniti nel 1847, della resistenza contro l'intervento
francese, della Rivoluzione e delle guerre durante il periodo
rivoluzionario quando gli Stati Uniti tentarono di occupare il paese,
e anche i movimenti armati che sono comparsi in Messico dopo l'attacco
della caserma Madera nel 1965 [3]. Y: Tuttavia riprendete dei simboli, un linguaggio, delle sigle che
provengono dalla tradizione rivoluzionaria di liberazione nazionale
castro-guevarista. Si ritrovano anche nella vostra divisa, nella
vostra bandiera, no?
M: E' l'eredità di cui ti parlo, la prossimità dell'organizzazione con
le organizzazioni politico-militari dell'America latina. Pensavamo che
il socialismo in Messico passasse necessariamente per la liberazione
nazionale. A grandi linee, vedevamo la situazione come quella di un
paese neocoloniale, dominato dall'impero nordamericano; e per poter
transitare alla democrazia e al socialismo ci voleva una rivoluzione
nazionale. Per questo i fondatori, le persone che hanno organizzato il
gruppo, hanno scelto il nome di Esercito zapatista di liberazione
nazionale, E.Z.L.N. E la contraddizione fra gli apporti esterni e la
storia nazionale si risolve ricorrendo ai nomi di Hidalgo, Morelos,
Guerrero, Zapata. Paradossalmente, il motto ereditato dall'E.Z.L.N.
non è «Patria o morte, vinceremo», e nemmeno «Proletari di tutto il
mondo unitevi», ma una frase di Vicente Guerrero, «Vivere per la
Patria. Morire per la Libertà», che in seguito è diventata il grido di
guerra dell'E.Z.L.N. Il simbolo della stella è più vicino alla
concezione india e alla concezione umanista, l'uomo e le sue cinque
parti, la testa, le braccia, le gambe, questo tipo di concezione delle
storie del mondo... Il rosso e il nero sì, sono il retaggio dei
movimenti rivoluzionari. Ma la stella è più vicina al contatto che
avverrà in seguito. Per ora ti sto parlando di prima che
l'organizzazione incontrasse il movimento indigeno. M: E spiegano anche le difficoltà incontrate dai servizi di sicurezza
governativi per individuarla. Ma significa soprattutto che nella sua
struttura interna è un'organizzazione politicamente sana. Molto
modesta, piccola da ogni punto di vista, un'organizzazione povera, e
tuttavia molto realista riguardo alle proprie possibilità, dal momento
che non ha praticamente soldi; e non solo perché decide di non
ricorrere a mezzi «criminali», come direbbe il governo, per
procurarsene, ma anche perché non riceve alcun sostegno dall'esterno.
- Il rifiuto di un atto di fondazione cruento. Y: Molti gruppi di guerriglieri rivoluzionari latinoamericani hanno
avuto un atto di fondazione cruento, l'assassinio di uno dei loro.
Senza parlare dei sistemi di esclusione molto duri contro i propri
membri. Ne parlo perché, come lei sa, c'è una polemica sul «caso
Glockner» [4], e a quanto ho capito gli zapatisti, gli ex appartenenti
alle Forze di liberazione nazionale, ci tengono molto ad affermare che
per quel che li riguarda ciò non corrisponde a realtà. E' una delle
differenze di cui parlava prima rispetto ad altri gruppi che hanno
questo genere di sistemi?
M: In generale, le organizzazioni politico-militari considerano nemici
tutti quelli che non stanno con loro, compresi i membri di altre
organizzazioni: è l'idea dell'organizzazione d'avanguardia unica e
vera. Non se ne può uscire senza diventare riformisti, traditori. Nel
nostro caso è stato diverso. ULTIMO ADDIO A CHE GUEVARA Y: Sono pochi gli indios che militano in questa formazione?
M: Sì, solo una decina, è una specie di élite che non ha niente a che
vedere con la logica dell'indio isolato, culturalmente emarginato,
inibito, "chingado" [5]. Persone con una cultura politica e una
coscienza nazionale sorprendenti, sorprendenti almeno per chi non
conosce questo tipo di mondo. Insomma, per una ragione o per l'altra
il gruppo militare e l'élite india, l'élite politica, entrano in
contatto, e concordano sulla necessità della lotta armata e sulla
necessità di cominciare a costituire un esercito. Non si tratta già
più di un gruppo di guerriglieri, è un esercito regolare.
- Il progetto di un esercito zapatista. La Pesadilla. Y: Ma poi siete passati dall'«incubo» a La Realidad!
M: Non dal sogno alla realtà, dall'incubo alla realtà! [7]
N: Come è nata l'idea di un esercito regolare?
M: Si trattava soprattutto di una fede, di una speranza: quando siamo
entrati in contatto con il gruppo di indios molto politicizzati,
quello che dicevano della loro specifica realtà ci ha fatto supporre
che il nostro progetto sarebbe stato accettato in massa, e quindi che,
invece di crescere molto lentamente come pensavamo, saremmo cresciuti
in fretta e in misura considerevole. Non esisteva niente di concreto,
solo la folle convinzione che le cose sarebbero andate così. In realtà
è successo soltanto molti anni dopo.
- Nicaragua, El Salvador, Guatemala... Chiapas. Y: All'epoca siete stati influenzati dall'esperienza guatemalteca?
M: No, niente affatto. L'U.R.N.G. [8] è l'organizzazione che criticava
qualsiasi progetto di lotta armata in Messico con più durezza, con
maggior diffidenza e ostilità di tutte le altre.
Y: Ripeto la domanda in un altro modo. Voi conoscete la storia
guatemalteca: vi è servito, se non come modello, almeno come esempio?
M: No. Noi facevamo riferimento al movimento di guerriglia del Che,
non a quello centroamericano. Sul piano militare, siccome pensavamo a
un esercito regolare, cercavamo l'esempio di grandi eserciti, di
grandi azioni. Anche l'U.R.N.G., come i sandinisti o i salvadoregni,
ha fatto questo genere di azioni, ma non ne sapevamo molto, avevamo
soprattutto i documenti, dove venivano spiegate le tattiche
antinsurrezionali dell'esercito guatemalteco e degli eserciti
nordamericani, e il loro modo di reagire, ma sempre in una logica di
guerriglia. Y: Nella formazione dell'E.Z.L.N. c'è qualche esperienza relativa al
Salvador, o al Nicaragua?
M: Sì, ma successiva. Quando si pensa a un esercito popolare, si fa
necessariamente riferimento a una massa di combattenti, mentre i
guerriglieri sono squadre di dieci, dodici, venti uomini, fino a
quaranta; il Che diceva che ottanta sono il massimo. Noi pensavamo a
unità di centinaia di combattenti, avevamo bisogno di altri punti di
riferimento. Guardavamo al Fronte sandinista alla fine
dell'insurrezione del '79 [9], quando avevano organizzato i grandi
attacchi alle città, pensavamo alle brillanti azioni militari del
F.M.L.N. [10] prima della firma degli accordi di pace. Ecco che cosa
ammiravamo. Ammiravamo enormemente l'offensiva a San Salvador, credo
che sia accaduto nell'89... [11].
Y: Novembre '89.
M: Sì, stavamo festeggiando il nostro anniversario in un villaggio con
delle manovre militari, e ascoltavamo le notizie dell'offensiva su
Radio Venceremos. Riuscivamo a prendere anche Radio Voz Popular
dell'U.R.N.G., ma era difficile, anche se siamo più vicini al
Guatemala.
Y: Dicono che lei sia stato in Nicaragua; è vero?
M: No. A noi sarebbe piaciuto, ma nessuno ci voleva: nessuno
desiderava sostenere una pazzia simile. Non poteva funzionare, e se
mai avesse funzionato sarebbe stato peggio. Non siamo mai stati
addestrati né a Cuba né in Nicaragua, e nemmeno in Salvador, in
Guatemala, a Mosca o in Corea. Eravamo dei veri pivelli.
Y: E non avete neanche partecipato alla campagna sandinista di
alfabetizzazione del 1980?
M: Può darsi che alcuni nostri compagni abbiano partecipato ad
attività di solidarietà, sì; forse il compagno che si è fatto uccidere
all'epoca ci era stato. Invece l'affermazione che siamo stati
addestrati a Cuba o in Nicaragua è falsa.
- Il deserto della solitudine. Y: Un po' astratto, no?
M: Nel gennaio del 1985 non eravamo niente, eravamo in otto, ma nel
nostro organigramma c'erano corpi d'armata di quindici o ventimila
uomini... Y: Il deserto della solitudine...
M: Esattamente. La solitudine fisica, nel cuore della giungla, e anche
la solitudine politica: ricevevamo notizie dal mondo esterno
attraverso le radio a onde corte (La Voz de América, Radio France
Internationale, la B.B.C., Radio Exterior de Espana, Radio Habana, La
Voz de los Andes), che descrivevano un mondo in cui tutto stava
crollando. Per le notizie dall'interno, sapevamo soltanto quello che
filtrava dai programmi stranieri, cioè quasi nulla. Ecco perché non
abbiamo avuto alcun sentore del cardenismo e degli avvenimenti storici
del Messico degli anni '85-88. Non abbiamo vissuto il fenomeno di
insurrezione civile del cardenismo [15], ci sembrava normale, banale,
solo anni dopo abbiamo saputo quali dimensioni aveva raggiunto e che
impatto aveva avuto sulle coscienze.
Y: E non vi siete accorti nemmeno che stava emergendo la società
civile messicana?
M: No. Abbiamo saputo del terremoto del Messico dalle radio straniere,
il terremoto del 1985, che a quanto pare è la prima grande
manifestazione della società civile organizzata nel paese. Uno dei
nostri è sceso dalla montagna e si è recato in città, per vedere se
tutto andava bene, se i compagni erano vivi o morti, se la loro casa
era crollata, ma nient'altro. Solo molto tempo dopo ci siamo resi
conto di quanto era veramente accaduto nel 1985.
L'INCONTRO CON LE COMUNITA' INDIE
- Lo shock culturale. N: In che cosa consiste all'epoca questo contenuto nuovo?
M: E' una specie di traduzione, resa più ricca dalla prospettiva della
transizione politica. L'idea di un mondo più giusto, più o meno tutto
quello cui aspira il socialismo ma ridigerito, arricchito di elementi
umanitari, etici, morali, più che propriamente indigeni. La
rivoluzione diventa un problema essenzialmente morale. Etico. Più che
un problema di ripartizione della ricchezza o di espropriazione dei
mezzi di produzione, la rivoluzione rappresenta la possibilità di uno
spazio di dignità per l'essere umano. La dignità incomincia a
diventare un concetto molto importante, e l'idea non viene da noi, dal
gruppo urbano, viene dalle comunità. La rivoluzione diventa la
garanzia che la dignità esiste, e che deve essere rispettata.
- La luce e le tenebre. Y: Quando siete entrati in contatto con le comunità vi rendevate conto
che avevano anche loro una storia, un'evoluzione propria, un modo di
cambiare, di prendere coscienza; che, al di là della lotta agraria,
della lotta economica, avevano un proprio movimento?
M: No, no, all'inizio no. All'inizio, nella nostra prospettiva di
guerriglieri, si trattava di gente sfruttata che andava organizzata,
cui bisognava mostrare la via. Mettiti al nostro posto: eravamo la
luce del mondo!
Y: E loro erano nelle tenebre?
M: Ciechi a cui bisognava aprire gli occhi! No, le cose sono
incominciate a cambiare quando è comparso l'altro traduttore, il loro,
il vecchio Antonio. Quest'uomo anziano, che può sembrare un
personaggio letterario ma è esistito realmente, diventa il legame con
le comunità, il loro mondo, la sua componente più india. Attraverso di
lui, e attraverso i capi politici del gruppo di mediazione e i capi
dei villaggi indigeni, l'esercito zapatista incomincia a comprenderne
meglio la coscienza, la tradizione storica di lotta politica. Ci
rivolgevamo a un movimento indio che non stava aspettando il salvatore
ma, anzi, era portatore di una grande tradizione di lotta, una grande
esperienza; un movimento molto solido, anche molto intelligente, cui
noi servivamo semplicemente, diciamo, da braccio armato.
- La prima «sconfitta» dell'E.Z.L.N. Y: Immagino che nemmeno gli indios politicizzati avessero la risposta.
M: No, nemmeno loro avevano acquisito una distanza sufficiente per
questo. L'organizzazione politico-militare, che resta ancora nella
tradizione marxista-leninista, diciamo, scopre d'un tratto l'esistenza
di una realtà che non riesce a spiegare, di cui non può rendere conto,
e insieme a cui deve lavorare. N: La «sconfitta» è stata accettata anche dall'altra componente
dell'organizzazione politico-militare, quella che non era nel Chiapas,
la componente urbana?
M: No, certo che no. Loro, semplicemente, non la vedevano. E' molto
difficile, sai, se hai uno schema teorico che ti spiega tutta la
società, arrivare nella società e scoprire che il tuo schema teorico
non spiega niente. Quando si è dedicata tutta la vita a un progetto, è
duro riconoscere che esso non funzionava sulle cose essenziali. Che
non riusciva nemmeno a spiegare la realtà in cui era destinato a
innestarsi. Era una faccenda molto seria, non erano contrari, ma non
coglievano neanche il problema; dal loro punto di vista riguardava il
movimento di guerriglia: «Tocca ai guerriglieri stabilire che cosa c'è
da fare lassù, in montagna, il compito nostro è di organizzare gli
operai, gli studenti». Su questo punto avevano ragione, anche il resto
andava organizzato. Ma non hanno colto la violenza dell'impatto,
almeno non come noi.
Y: Questo fatto però non ha necessariamente prodotto una divisione,
almeno non subito, vero?
M: No, perché il contagio ha incominciato a raggiungere anche le
città. In città la situazione era molto grave, nelle sezioni urbane il
disincanto e la delusione erano enormi. La componente urbana
dell'organizzazione non si ampliava. Poi, d'un tratto abbiamo
incominciato a mandare in città i giovani indios che successivamente
tornavano in montagna e dovevano imparare la medicina, la
falegnameria, le comunicazioni, tutto quello di cui ha bisogno un
esercito per sopravvivere; e con loro mandavamo il virus. Anche la
componente urbana dell'E.Z.L.N. si è indianizzata; l'esercito era
costituito per la maggior parte da indios, e poiché la struttura
urbana era molto ridotta, poche decine di persone, è diventata
anch'essa per la maggioranza india. C'è stato il contagio, anche se
l'effetto è stato meno forte...
- Altri attori: i maoisti, le Chiese... M: No, in apparenza hai ragione, ma non è andata così. Le prime
comunità con cui entriamo in contatto, parlo della seconda metà degli
anni Ottanta, sono le più isolate; e i militanti della «linea di
massa», quelli di Politica popolare - linea proletaria [17], sono già
stati espulsi. Quanto alla Chiesa, organizza le comunità ma non sa o
non vuole sapere che il filtro funziona soltanto in un senso. Intendo
dire che sulla vita delle comunità la Chiesa sa soltanto quello che
gli indios vogliono farle sapere, quello che le lasciano vedere. Per
moltissimo tempo anche noi siamo rimasti invisibili per la Chiesa.
Quando la gente di qui decide che una cosa deve restare nascosta, la
nasconde anche a noi. Altrimenti non ci si può spiegare come siano
riusciti a mantenere il segreto per dieci anni. Davvero, si viene a
sapere solo quello che vogliono che si sappia, e niente di più. Non
c'è niente da fare, se non vogliono dire qualcosa non lo diranno
nemmeno sotto tortura. MARCOS E I SUOI Y: Ha detto che il vecchio Antonio è stato un personaggio chiave,
veramente esistito, e che non si tratta di una creazione letteraria.
Sembra che per lei sia stato il fautore di una specie di conversione.
E' così?
M: Sì... Il vecchio Antonio è morto nel '94, in giugno, ma io l'ho
conosciuto nel 1984. L'avevo visto nel marzo del '94, era già
gravemente ammalato, avevo parlato con lui mentre facevamo la
Consultazione [18]. In giugno suo figlio, che ha più o meno la mia
età, è venuto a dirmi che era morto di tubercolosi e non aveva voluto
farmi disturbare. Mi portava anche una storia, da parte sua: era il
suo testamento. E' la storia sull'origine del passamontagna, gli dèi
che si sacrificano per fare il sole e la luna, il carbone che è nero e
dà la luce eccetera. Mi manda questa storia, la racconto in un
postscriptum, e incomincio a ripensare a lui e ad altre storie che mi
aveva raccontato e che ho scritto in seguito... Y: Ha avuto un ruolo essenziale per comunicare con la cultura, con il
mondo indio.
M: Sì, e quando Marcos dovrà tentare di collegare il mondo indio con
il mondo urbano, ricorrerà al vecchio Antonio: è lui a fornire gli
elementi indigeni presenti nel linguaggio zapatista quando è
indirizzato all'esterno. Io sono un plagiario...
- Marcos: un ponte, una finestra. M: Penso che, in fondo, potrebbe avere un ruolo attivo. Ma Marcos è
stato obbligato dalle circostanze a diventare un personaggio che non
ha più nulla in comune con la sua persona, è uno strumento. Ho fatto
il paragone della finestra perché Marcos, in quanto traduttore, è una
finestra che consente di affacciarsi verso l'interno o di guardare
fuori. Solo che il vetro è sporco... Le persone si vedono riflesse
nella finestra, e per questo Marcos si trova trasformato in simbolo,
diventa quello che la gente vuole che sia. Ma non era questa la sua
funzione: il personaggio che si è formato a partire dal '94 doveva
servire da traghettatore fra le due sponde, in entrambe le direzioni.
A partire dal '94, perché fino al primo gennaio, e direi fino al
dialogo nella cattedrale [20], l'unico ruolo di Marcos è quello di
capo militare. I piani non prevedono affatto che Marcos sia il
portavoce.
Y: Il primo gennaio, a San Cristòbal, non è stato lei a parlare?
M: No, sono stati i comandanti David e Felipe, i compagni del
Comitato. Sono intervenuto quando si doveva tradurre per gli
stranieri. Naturalmente, ero il solo fra i presenti a non essere
indio, attiravo l'attenzione; perciò hanno incominciato a dire che ero
io a strumentalizzare il tutto. Ma fino al dialogo nella cattedrale
Marcos è solo un capo militare. Il nuovo Marcos, che è nato il primo
gennaio 1994, incomincia a prendere forma in seguito. Prima Marcos si
modella sulle esigenze delle comunità, poi sulle esigenze della
società civile e infine sulle esigenze di tutto il movimento, diffuso,
indefinito, ma fondamentale, che si crea intorno allo zapatismo.
- Marcos e le comunità. La solitudine di Marcos. M: Prima del '94, in linea di massima ci sono due processi. Prima, il
Marcos della montagna che conosce le comunità soltanto attraverso i
combattenti indigeni. In seguito, al momento dei primi contatti con i
villaggi - te lo ripeto -, è un meticcio che non viene dalla città,
scende dalla montagna...
Y: Ma meticcio.
M: Vero... un meticcio che parla già un pochino il dialetto,
soprattutto il tzeltal, quello della zona dove stavamo. In quel
momento, quando incominciamo a parlare, è un rapporto, possiamo dire,
fra maestro e allievo, ma a doppio senso, talvolta loro diventano i
maestri e noi gli allievi. Resta però un rapporto distaccato, ci è
voluto molto tempo. In realtà, fino al '94 non ho mai vissuto nei
villaggi. Nel '94 sì, era necessario esserci, ma dal febbraio del '95
ci siamo ritirati e non abbiamo più vissuto nelle comunità; vivevamo
invece in accampamenti nei dintorni. Y: Ma questo aggrava la solitudine, la solitudine del capo, in fondo.
M: Una solitudine voluta. Per esempio, quando arrivo in un villaggio,
non posso andare a mangiare dove voglio, da qualcuno. Prima era
soprattutto per non esporre chi mi accoglieva... ancora adesso, quando
arrivano i soldati: «Marcos veniva a mangiare qui, questi li facciamo
fuori». Ma ora il problema è di evitare i favoritismi, anche
involontari. Devo venire con una scorta che si occupi del cibo e
mangiare a parte, perché altrimenti all'interno del villaggio la
posizione della famiglia che ci accoglie potrebbe modificarsi. Devo
impormi per forza questa solitudine: non mi evitano gli altri, sono io
a evitare loro. Y: Ha avuto il tempo di approfondire le sue conoscenze linguistiche?
M: In montagna sì, era indispensabile per insegnare, per parlare. Poi,
nei villaggi, no: secondo il protocollo zapatista, quando si parla
alla comunità bisogna servirsi dello spagnolo. Tradurre è compito
dell'autorità del villaggio. Non puoi rivolgerti direttamente alla
popolazione, perché equivarrebbe a ignorare il protocollo. Quindi,
anche se conosci il dialetto, non puoi parlarlo, per via del
protocollo, e anche se capisci quello che dicono, devi aspettare che
le autorità traducano, sono loro il tramite. Talvolta è un po'
assurdo, ma è la regola delle comunità. Va rispettata.
- Una giornata della vita di Marcos. M: Dipende. Adesso c'è stato un periodo difficile [23], abbiamo dovuto
analizzare molte cose. Dovevamo tenerci aggiornati sulle informazioni
provenienti dall'esterno, restare a disposizione per le riunioni del
Comitato, produrre documenti, discutere con la dirigenza del
movimento, i comitati appunto. In questo momento devo essere sempre a
portata di mano. Per esempio, se c'è una riunione del Comitato,
chiedono come procede il dialogo. Tacho riferisce, racconta, loro
cercano di capire che cosa significa e fanno chiamare Marcos... Devo
andarci, o mandare un documento per spiegare come vedo le cose. Dopo
l'Incontro intercontinentale è la stessa cosa, il Comitato fa il
bilancio: chi è venuto, che tipo di persone, quante, e alla fine, per
valutare l'impatto politico, chiamano Marcos... Quando ci sono
movimenti dell'esercito bisogna tenersi aggiornati nei dettagli,
capire che cosa può significare.
- Marcos, Moisés, David e gli altri. M: Non da noi... No, nell'organizzazione politico-militare da cui
provengo esisteva la tradizione di non lasciar morire i compagni, e il
nostro modo di mantenerli in vita era prendere il nome di chi cadeva.
Perciò ho preso il nome del compagno che mi dava lezioni di storia,
che sapeva tutto, assolutamente tutto, sulla storia militare. Per
esempio, il gruppo di guerriglieri di Arturo G miz, l'attacco alla
caserma Madera, quello che in seguito sarebbe diventato la Lega del 23
settembre [24], queste cose le conosceva a fondo. Io viaggiavo con lui
da un capo all'altro del paese: sono percorsi molto lunghi in
macchina. Per non addormentarsi al volante si parla, e lui mi parlava
della storia del Messico. E' stato ucciso, e ho preso il suo nome.
Y: Ma fra gli zapatisti ci sono molti nomi biblici, Josué, Moisés,
David... E' semplice coincidenza?
M: Sì, sono molto comuni in Messico, sai... Ma ci sono altri nomi che
sono incredibili... I nuovi combattenti dovevano scegliersi il nome di
battaglia entro un termine stabilito, altrimenti lo decidevamo noi al
loro posto. Com'è logico, di fronte a una simile minaccia sceglievano
tutti, la prima volta in vita tua che puoi sceglierti un nome da solo
non ti lasci sfuggire l'occasione. Quindi ciascuno faceva di testa
sua, alcuni prendevano un nome dalla Bibbia, gli altri il nome di
compagni, persone che ammiravano... Ma ci sono anche persone molto
pratiche. Mi ricordo un tipo nel villaggio di Palo che si era scelto
il nome di Carlos Salinas de Gortari [25]. «Se mi arrestano saranno
costretti a rilasciarmi» diceva. «Con un nome del genere nessuno potrà
farmi niente.» C'era anche un'Angélica Marìa, una Gloria Trevi [26].
Insomma, ciascuno ha i suoi gusti, c'era chi cercava di proteggersi
con un nome che gli garantisse l'impunità. Eravamo nel '93, l'epoca in
cui i compagni sceglievano addirittura pseudonimi con nome e cognome.
Ci sono un Ronald Reagan, un Fidel Castro, un Fidel Vel squez... [27].
Si potrebbe scrivere un libro veramente comico sui nomi degli
zapatisti. Nel '93, quando stilavo le liste dei combattenti per
costituire le unità, mi ricordo di aver detto al maggiore Mario:
«Aspetta, questo non lo possiamo portare, come facciamo a dire che fra
i nostri combatte Carlos Salinas de Gortari? Che cosa facciamo?». «Ma
è un sergente veramente in gamba, combatte molto bene.» «Digli di
cambiare nome, non può combattere con quel nome lì.» Alla fine ha
mantenuto Carlos e le iniziali, C.S.G., si chiama Carlos Sierra
Gonz les. E via. E' uscito vivo dai combattimenti di Ocosingo [28].
Y: L'E.Z. ha le stesse iniziali di Ernesto Zedillo... [29].
M: C'eravamo prima noi!
- Comandante Tacho: come sono diventato zapatista. Y: E come è avvenuto il contatto con l'esercito zapatista?
T: Un giorno i compagni hanno letto su un giornale che qualcuno
l'aveva cantata chiara alle compagnie per lo sfruttamento delle
foreste. Hanno incominciato a cercarlo, a chiedere chi fosse, dove
abitasse. Qui nel Chiapas lo sfruttamento delle foreste era terribile,
le compagnie facevano quello che volevano. Abbattevano alberi a tutta
forza... dato che sapevo già avanzare richieste e cose del genere, mi
hanno proposto di andare a Città del Messico - era prima che Salinas
diventasse presidente -, ci sono andato e ho fatto la mia denuncia.
Fra l'86 e l'87 l'abbattimento degli alberi in Chiapas è stato
proibito [31]. Ho avuto molte esperienze di questo tipo, i compagni di
altre organizzazioni mi chiedevano se volevo andare a parlare:
d'accordo, andavamo a parlare con il funzionario, con il presidente,
con il governatore. Parlavamo con tutti quei personaggi, che allora
erano tanto grandi e ora sono tanto piccini. Anche con i generali. Ho
imparato molto, da un posto all'altro, ho battuto tutta la campagna, è
stata la mia scuola.
- Maggiore Moisés: incontro con alcuni «turisti». Y: Suo padre se n'era già andato da Las Delicias?
M.M.: Sì, dopo la morte dei miei nonni se ne sono andati, non volevano
più restare lì, il padrone era molto duro. Mio padre mi ha raccontato
che il padrone, invece di pagare in denaro, pagava in alcol quelli con
il vizio di bere, e gli altri con un po' di sapone, un chilo di
zucchero, ma soldi mai. A quanto pare, dopo quattro o cinque chili di
sale o di sapone, sosteneva che erano in debito, e passavano la vita
così; ma hanno incominciato a capire che non era vero, per questo se
ne sono andati.
Y: Dunque, lei torna per la seconda volta dalla città nella
comunità...
M.M.: Sì, ma l'organizzazione era già più avanzata, e sono scesi in
sciopero per chiedere una soluzione alla questione agraria. La
risposta è stata la repressione.
Y: Negli anni Settanta? Ottanta?
M.M.: A occhio e croce negli anni Settanta. Capivo, perché l'avevo
visto anch'io, l'avevo imparato dalla vita, e quindi ho incominciato a
partecipare alle riunioni, era gente che conoscevo. Discutevamo
insieme, ci dicevamo che non dovevamo più farci fregare così
facilmente, ci formavamo una coscienza insieme, come organizzazione.
Non era difficile accordare i nostri pensieri, per via dei
latifondisti, i "finqueros". E' una cosa molto concreta: se le nostre
due o tre bestie gli attraversavano il prato, il latifondista ci
trattava male, ma se erano le sue a entrare da noi, non potevamo fare
nulla, perché altrimenti incominciava a portarci via le terre. Secondo
il loro modo di pensare, fin dove arrivavano con lo sguardo tutto
apparteneva a loro. Erano i padroni. Y: C'è stata una scissione fra i contadini?
M.M.: Non nelle comunità, ma con i dirigenti: abbiamo dovuto chiedere
conto a quelli che lavoravano con i consiglieri, avvertirli che
sapevamo che cosa stava succedendo, e a poco a poco ci siamo
riorganizzati e abbiamo espulso gli "asesores".
Y: E' successo nell'ARIC?
M.M.: No, era prima, nella Quiptic ta lecubtesel [32].
Y: I consiglieri venivano dal nord?
M.M.: Sì, c'era Adolfo Orive che veniva da Torreòn, Marta Orantes, un
altro che si chiamava René [33]. E' stato Orive a farci una vera
carognata, a farci capire. Non ci ha ancora restituito i soldi, i
tredici pesos... diceva che chi dava dieci pesos ne avrebbe ricevuti
cento, chi ne dava mille ne avrebbe avuti diecimila, era molto bello,
trovavamo i soldi ed ecco fatto... stiamo ancora aspettando.
Y: Che cosa è successo da quel momento in poi? Vi siete organizzati in
maniera più autonoma?
M.M.: Sì, li abbiamo espulsi e abbiamo incominciato a riorganizzarci,
io mi sono dedicato alle riunioni, all'organizzazione, alla lotta. Un
giorno ho incominciato a sospettare qualcosa. C'era un gruppo di
uomini che affermavano di essere turisti, ma io conosco i turisti,
vanno dove vogliono... Quelli no, venivano ad ascoltare le
discussioni, avevano un'aria molto attiva, molto attenta, molto
educata. Y: Lei non era andato a scuola?
M.M.: No, solo un anno e basta. Quasi non parlavo [spagnolo], capivo
ma non sapevo rispondere, parlare come parlo con voi, impossibile...
Mi hanno portato in città, ma non mi piaceva. Comunque almeno ho
capito come si vive in una grande città. Mi hanno portato a conoscere
degli operai in una fabbrica. Per me è stata una grande scoperta: come
molti contadini, pensavo che gli operai fossero ricchi; visto che
stanno nella fabbrica, pensavo che la fabbrica fosse loro. Quando ho
visto come lavorano quelli che restano in piedi per otto ore di
seguito ho capito! Non potevamo nemmeno parlare, se li vedevano
parlare il padrone poteva cacciarli via. L'amministratore ci ha visti,
facevamo finta di aiutare ma si è accorto che non eravamo della
fabbrica e ci ha sbattuti fuori assieme all'operaio che parlava con
noi.
Y: E' successo a Città del Messico?
M.M.: Sì. C'era un gruppo dei nostri anche lì. Alla fine gli abbiamo
dato appuntamento un sabato e lui ci ha raccontato i loro problemi, le
sofferenze. Perché la sicurezza sociale esiste solo a parole. Y: C'erano degli indios?
M.M.: Sì.
Y: E nel gruppo dei «turisti»?
M.M.: Anche. Il primo che è venuto a cercarmi, il ragazzo, era indio,
ma poi quello che si è davvero preso cura di me, che mi ha spiegato,
quello era un meticcio. N: E a livello ideologico anche il socialismo...
M.M.: No, non esattamente. Incominciavamo a capire che il nostro
problema erano le carenze sanitarie, la mancanza di istruzione, la
mancanza di igiene, di libertà, di democrazia, di indipendenza, di
pace.
Y: E come ha scelto il suo nome, Moisés?
M.M.: Non l'ho scelto io... Nel gruppo in cui ero, avevamo deciso: tu
scegli un nome a me e io ne trovo uno a te! E' un modo democratico di
risolvere il problema... «Tu sei Moisés», «Tu ti chiami Tom s», e
l'ultimo, eravamo in tre, l'abbiamo chiamato Omar.
L'INSURREZIONE. Y: Quando si è verificato il ribaltamento?
M: Ti posso dire la data: 1989.
Y: E perché?
M: Non lo so, non posso spiegartelo, noi abbiamo pensato che fosse
accaduto perché avevamo fatto bene il nostro lavoro.
Adesso, a posteriori, mi rendo conto che il fenomeno ha coinciso con
avvenimenti esterni di cui non avevamo idea. In teoria il fatto che il
nostro programma di lotta armata, di cambiamento sociale, pur senza
dichiararsi socialista avesse tanta risonanza avrebbe dovuto farci
riflettere, in un momento in cui tutto sembrava dimostrare che la
lotta armata non aveva più alcun senso. Del resto la Chiesa lo
ripeteva sistematicamente, indicando l'esempio del Salvador per
dimostrare che dopo anni di lotta armata le cose non erano progredite
affatto. Y: Nello stesso periodo, Salinas ripartiva i sussidi tramite il
Pronasol.
M: Non sono mai arrivati alle comunità. E' rimasto tutto nelle tasche
degli agenti municipali, delle autorità dell'ARIC che erano corrotte,
dei funzionari locali. Le comunità non hanno ricevuto nulla. Come
sempre. Non ce ne siamo mai preoccupati, ai villaggi non arriva mai
niente. Nemmeno alle comunità priiste [38]. Finché il governo
messicano continuerà a essere corrotto a tali livelli, nessuna
campagna antinsurrezionale funzionerà mai... in questo momento succede
esattamente la stessa cosa [39].
Per finire, bisognerebbe analizzare più a fondo quello che è successo
allora, ma a distanza di tempo io la vedo così. Oltre al calo del
prezzo del caffè, alla repressione descritta così bene da Luis
Hern ndez Navarro [40], per esempio, ci sono senz'altro altri aspetti
locali che potrebbero spiegare perché l'Esercito zapatista si sviluppa
tanto in fretta, soprattutto negli Altos.
Y: Negli Altos?
M: Sì, nell'89, nel '90, incominciamo a essere migliaia anche negli
Altos, dove le condizioni erano molto più difficili, perché l'unica
foresta per nascondersi era la comunità. Non ci sono alberi, niente,
era solo la gente che ci nascondeva e ci aiutava.
Y: In precedenza avevate già dei contatti, dei nuclei? Dicono che
avevate un primo gruppo nella regione di Sabanilla [41].
M: No, non abbiamo mai avuto un gruppo armato nel Nord dello Stato.
Contatti politici sì, ne avevamo in tutto il Chiapas. Invece, negli
Altos abbiamo incominciato ad avere alcune unità di commandos alla
fine degli anni Ottanta. Il grosso dei combattenti restava nella
Selva, ovviamente, ma avevamo dei piccoli gruppi armati che facevano
un lavoro politico di organizzazione come qui. Y: Difficile restare clandestini in questa situazione.
M: No, perché eravamo a casa nostra in tutti i villaggi, in tutta la
"canada" [43], nelle tre vallate di Ocosingo. Come qui in questo
momento: nessuno sa se io sono qui o da un'altra parte, ma io so chi
c'è.
Y: E i servizi di controspionaggio dell'esercito?
M: Tanto per cominciare - ma l'abbiamo scoperto in seguito - non sono
poi così efficienti come si pensa; e soprattutto, chi poteva credere
che una cosa del genere fosse possibile? Ricevevano rapporti
sull'esistenza di gruppi armati nella Selva, ma probabilmente
supponevano che si trattasse di guatemaltechi.
- Attriti. M: In seguito, fra il '90 e il '93, hanno capito che eravamo un gruppo
armato. La fuga di notizie è stata causata dagli attriti con le
autorità ecclesiastiche locali. Nei contatti fra l'E.Z.L.N. e le
comunità gli scambi avvengono in entrambe le direzioni, l'Esercito
zapatista si trasforma, ma anche le comunità, e uno dei problemi
culturali è il modo in cui sono trattate le donne nei villaggi. Come
ben sai vengono comperate o vendute come mogli, e la Chiesa locale è
coinvolta direttamente in questo commercio.
Y: Che cosa intende per «Chiesa locale», i tradizionalisti o che
altro?
M: No, le autorità locali all'interno delle comunità: i "tuhuneles"
[44], i diaconi, i catechisti. Non parlo della Chiesa esterna, la
diocesi, il vescovo, la parrocchia, ma di quella presente nei
villaggi. Quando l'E.Z.L.N., soprattutto le donne dell'E.Z.L.N.,
incominciano a mettere in discussione direttamente o indirettamente la
condizione femminile, nelle comunità si creano disaccordi, soprattutto
da parte delle autorità religiose: dicono che inculchiamo cattivi
pensieri nella testa delle donne e dei giovani. Si sono create molte
tensioni per questo. Inoltre, incomincia a costituirsi una struttura
di potere parallela, che in un certo senso si pone in competizione con
l'autorità della Chiesa nella gestione delle comunità. L'autorità
ecclesiastica è anche un'autorità del villaggio; in certi posti
coesistevamo senza problemi, ma in altri c'erano scontri, attriti più
o meno forti, contrasti per il potere locale.
N: Avete avuto lo stesso problema anche con gli anziani, la forma di
potere tradizionale, i "principales"? [45]
M: Sì, nella zona tzeltal più interna della Selva (esiste un'altra
zona tzeltal intorno ad Altamirano, al confine della Selva Lacandona).
Lì le autorità tradizionali sono anche autorità religiose. Alcuni ci
accettavano o erano d'accordo, ma altri no. Talvolta le competenze si
sovrapponevano: le stesse persone rappresentavano l'autorità
ecclesiastica, il potere civile (commissari dell'"ejido" o agenti
municipali) e il comando zapatista. In quelle comunità tutto filava
liscio come l'olio, senza tensioni o conflitti. Ma c'erano pure
villaggi con due o anche tre diverse autorità: gli uomini dell'ARIC,
l'autorità ecclesiastica e l'autorità zapatista.
Y: Davvero non avevate problemi con la diocesi? Tello [46] cita una
frase di Samuel Ruiz che vi accusa di aver «inforcato un cavallo già
sellato», di avere sfruttato il lavoro degli altri.
M: Tello ha ascoltato la versione del CISEN... [47]. No, Samuel ha
pronunciato la frase in questione durante una grande festa a San
Miguel per l'anniversario della Quiptic ta lecubtesel, nel '92 o nel
'93. Parlava della storia della Quiptic e di come tale organizzazione
aveva rotto con quelli di Polìtica Popular, che volevano introdurre
nelle comunità il marxismo-leninismo e mettere in discussione il ruolo
della Chiesa, per cui si erano fatti espellere. Tello afferma che
Samuel parlava degli zapatisti, ma in realtà si riferiva a Polìtica
Popular, a Orive e agli altri.
- Dal fallimento dello sviluppo all'economia di guerra. M: E' difficile dirlo... Non so se abbiamo trasformato la vita delle
comunità, non so in che misura, né se sia stato in meglio o in peggio.
Per esempio, il contatto con gli zapatisti ha comportato
l'introduzione dei contraccettivi e un mutamento di prospettiva delle
donne, anche se in generale non è ancora un fenomeno consolidato.
Altri cambiamenti sono legati alla comparsa di risorse prima
inesistenti: producevamo elettricità con motori a benzina, e le
comunità hanno potuto accedere di punto in bianco a strumenti
culturali come le videocassette o le piccole radio locali che abbiamo
fondato. Y: E riguardo ai programmi di produzione che cosa avete fatto?
M: All'epoca abbiamo fatto programmi di formazione in agronomia,
tentavamo di migliorare la produzione, di diversificarla, d'introdurre
dei fertilizzanti. In certe zone abbiamo cercato di dare impulso alla
coltivazione di alberi da frutta... un fallimento completo!
Y: Perché?
M: Potevamo trovare qualcuno che tenesse le lezioni, che insegnasse,
ma non avevamo una struttura sufficiente per soddisfare le esigenze di
centinaia di comunità. Non dimenticare che stiamo parlando di
centinaia di villaggi.
Y: Ma avreste potuto lavorare con le agenzie per lo sviluppo, con le
organizzazioni non governative, no?
M: No, noi no. Abbiamo consigliato ai compagni di presentare dei
progetti. Nella maggior parte dei casi venivano respinti, le
organizzazioni internazionali di cooperazione allo sviluppo volevano
cose più concrete. Non sono interessati ai fertilizzanti, perché
spariscono nel terreno, chissà se servono a qualcosa o no.
Un'officina, un ambulatorio, una farmacia, ecco le cose che piacciono,
perché si vedono, si possono fotografare...
Y: Quelli dell'Uniòn del Pueblo [48] e di Polìtica Popular insistevano
molto più di voi sui programmi di produzione, l'aspetto economico.
M: Ma è proprio il fallimento di questa linea economicistica ad aver
spinto la gente verso di noi. In fondo si trattava di ottimizzare la
povertà, renderla più sopportabile, non di uscirne, e questo cozzava
contro i limiti imposti dalla crisi.
Y: Non è stato l'inizio della lotta armata a far fallire il progetto
di sviluppo economico?
M: Anzi, al contrario, è il fallimento di tale progetto che ci ha
gettati fra le braccia migliaia di membri di quell'organizzazione. In
ogni modo, da allora l'E.Z.L.N. ha cessato di essere per la maggior
parte tzeltal, la gente della Selva è in minoranza, la maggioranza è
costituita dai chol e dai tzotzil, la gente del Nord e degli Altos. Se
tutta la Quiptic, o tutta la Selva, avesse lasciato l'organizzazione,
avremmo avuto ancora migliaia di combattenti in altre zone del
Chiapas. Ma succede il contrario: quelli della Quiptic aderiscono in
massa al nostro movimento perché non vedono altra via di uscita. Y: Ma non potevate girare completamente le spalle al mercato,
nonostante tutto la gente ha...
M: Non esisteva mercato!
Y: Diciamo allora agli scambi con la città.
M: La città, i "coletos" [49], volevano solo caffè e betal. Al resto
non erano affatto interessati. Gli indios non potevano sfruttare
nemmeno la foresta, il governo aveva ritirato agli "ejidos" il
permesso di taglio per dare mano libera alla famiglia Castellanos [50]
nei suoi affari. I Castellanos invece tagliavano il legname a
tonnellate... I contadini non potevano commercializzare niente di
niente, a parte il betal, quando non era malato, e il caffè. Quando il
prezzo del caffè crolla, è finita. Nella Selva non c'erano altri
prodotti commerciabili.
- La decisione di insorgere. M: Allora, esistevano queste tre correnti: il gruppo politico-
militare, il gruppo di indios politicizzati e la massa india,
anch'essa politicizzata a suo modo, sebbene noi non lo sapessimo
ancora. Si produce la convergenza. Il gruppo indio «di
intermediazione» fa da ponte, e all'interno delle comunità nasce
l'altro ponte, il traduttore, il vecchio Antonio. Y: E la scelta viene fatta a maggioranza?
M: Sì, a maggioranza all'interno dell'E.Z.L.N.. Ma lasciando da parte
Los Altos e il Nord, nella Selva è la maggioranza della popolazione
totale a votare per la guerra. Y: Quelli che in seguito costituiranno il C.C.R.I.
M: Sì. Il C.C.R.I. nasce soltanto nel gennaio del '93. Dunque,
decidiamo di convocare nel gennaio del 1993 una riunione dei
rappresentanti dei militanti urbani, delle truppe regolari insorte e
delle comunità dei villaggi. Durante la riunione discutiamo di nuovo
la questione della guerra: era un'iniziativa delle comunità indigene
che ovviamente non aveva alcun seguito in città. Lasciava scettici già
noi, ma per loro che erano più informati riguardo alla situazione
generale si trattava di pura follia. La riunione si prolunga, e dopo
molti giorni di discussione si stabilisce che l'organizzazione
politico-militare deve cedere, che bisogna accettare un meccanismo
democratico in cui è la maggioranza dell'organizzazione a decidere
quale via seguire. La maggioranza dell'organizzazione è costituita
dalle comunità. Allora i rappresentanti indigeni ratificano il
risultato della consultazione e votano, in quanto dirigenti, la stessa
cosa per cui hanno già votato le comunità: la guerra. Assumono così
formalmente, ufficialmente, il comando dell'E.Z.L.N., e i responsabili
di etnia e di zona assumono il nome e il ritmo di lavoro del Comitato
clandestino rivoluzionario indigeno.
- Il cocktail zapatista del primo gennaio 1994. M: No, non parla di prendere il potere, ma di rovesciare il dittatore,
Salinas de Gortari, ed esige che il Congresso (cioè i deputati e i
senatori) nomini un governo di transizione per riorganizzare il potere
politico e poter indire, questa volta sul serio, nuove elezioni.
Y: Tuttavia verso il primo gennaio si parla ancora di mutamento totale
di regime, della caduta di Salinas ma anche di quella di una dittatura
vecchia di oltre sessant'anni; si parla di socialismo e in certe
dichiarazioni anche di dittatura del proletariato, no? Mi sembra che i
primi testi siano piuttosto classici, non riguardino soltanto
«democrazia, libertà, giustizia».
M: Il fatto è che al momento di uscire dall'ombra l'Esercito zapatista
è in piena ridefinizione. Essendo nato da una serie di confluenze,
avviene anche una confluenza di idee diverse: alcuni compagni erano
per il marxismo ortodosso, altri venivano da un marxismo più vicino al
trotzkismo, altri erano più vicini a Gramsci, «eurocomunisti», altri
ancora non erano marxisti ma socialdemocratici... La prima
Dichiarazione della Selva Lacandona è una specie di sintesi di questi
diversi modi di pensare. N: La riunione di gennaio del '93 è stata molto importante. Penso che
le decisioni prese dalla maggioranza india dell'organizzazione abbiano
provocato discussioni, rotture...
M: Nel gennaio del '93 alcuni militanti hanno preso le distanze,
dicevano che avremmo portato la gente alla sconfitta, al macello;
secondo altri bisognava incrementare il lavoro per organizzare gli
operai, e gli indios dovevano aspettare la crescita delle altre forze;
altri ancora sostenevano che non avevamo l'infrastruttura nazionale
per affrontare una guerra indicata come nazionale. La discussione è
stata molto accesa, soprattutto nel momento in cui il resto
dell'organizzazione si è reso conto che gli indios erano in
maggioranza e avevano il potere. Nel momento in cui abbiamo deciso di
rispettare una democrazia interna, la grande maggioranza
dell'organizzazione ha acquisito d'un tratto un potere che non le era
mai stato riconosciuto, la sua forza effettiva è diventata potere
ufficiale, ed esso si è fatto sentire sul resto dell'organizzazione.
Ora era la montagna, il Comitato clandestino rivoluzionario, a
decidere l'attività da svolgere nelle città. N: Però questo aspetto indio non appare molto chiaramente nella
Dichiarazione.
M: No, perché il testo è il prodotto dell'accordo di minima emerso
dallo scontro del '93. Dovevamo subire una specie di transizione
interna: l'organizzazione politico-militare urbana perdeva potere a
favore di un'organizzazione collettiva, democratica, india,
pluralista. Dopo la decisione del gennaio del '93, in cui tutti i
partiti sono arrivati a un accordo di minima, rispecchiato dalla prima
Dichiarazione, c'è stato un processo d'adeguamento: a poco a poco i
compagni del Comitato hanno assunto il controllo, sono diventati
veramente i capi, ma per farlo ci è voluto del tempo.
- Un esercito indio? Y: E' stato detto e ripetuto che in gennaio parlavate della questione
india solo in modo strumentale, e anch'io lo pensavo all'epoca. E'
stato il tema indio ad avere risonanza nazionale e anche
internazionale, ad assumere una dimensione simbolica. Adesso capisco
meglio che non ve ne stavate servendo, che veniva da lontano...
M: Per noi la prima Dichiarazione era molto chiara: «siamo il prodotto
di cinquecento anni di lotta». Non c'era possibilità di dubbio. Ma mi
ricordo la discussione del Comitato su questa dichiarazione, e come i
compagni volevano soprattutto evitare che la nostra guerra fosse
confusa con una guerra di indios: chi non era indio non doveva
sentirsi escluso, il nostro appello doveva essere abbastanza ampio per
comprendere tutti.
Y: Anche i comandanti, quelli di C.C.R.I., la pensavano così?
M: Certo. Secondo loro la nostra guerra rischiava di essere vista come
una cosa esclusivamente india, mentre noi sapevamo di avere bisogno di
una soluzione nazionale, una guerra nazionale. Dichiarando che
provenivamo da cinquecento anni di lotta, ci richiamavamo alla
tradizione della lotta india di resistenza, ma allargandola a tutti.
Hanno sempre insistito molto su questo punto. Si inquietavano ogni
volta che i nostri discorsi inclinavano più dalla parte degli indios:
«Sta' attento, crederanno che il nostro sia un movimento locale,
etnico». Inoltre, l'idea di una guerra a carattere etnico li faceva
pensare a un passato di sconfitte, di lotte intestine feroci e
cruente. Sono stati loro a esigere che nei testi cercassi una
posizione intermedia: «Se insisti troppo sull'aspetto indio ci isoli,
devi allargare il discorso. Se ci tieni a parlarne, prendi il lato
universale, insisti sull'elemento inclusivo». Y: Vuol dire che hanno questa prospettiva politica spiccatamente
nazionale già dal '93, dal '94?
M: Alcuni membri del Comitato vengono dal gruppo politico indio che
aveva già - da più di dieci anni - un obiettivo nazionale, lo stesso,
distruggere il sistema del partito di Stato, creare un sistema
politico democratico, libero, comprensivo eccetera eccetera.
Y: Ma quando tutta la comunità si mobilita, o quasi, come in questo
caso, non è proprio il fatto di essere india a darle forza? E
«messicani» non è il termine per indicare gli altri?
M: Dicono «cittadini», gente di città.
Y: Non è proprio l'esteriorità di quello che è «messicano» a
consolidare la solidarietà india, e in certa misura la solidarietà
maya? E' un esercito maya, no?
M: Sì, è vero. Nei fatti è così. Come faccio a spiegarti... esistono
due livelli di discorso, da una parte un discorso interno di coesione,
il concetto dello specchio: «Noi siamo noi, noi siamo degni, perciò ci
battiamo», e dall'altra parte il discorso esterno, molto attento al
problema, che cerca (ma non ci riesce sempre) di non escludere, di
evitare che gli altri, soprattutto i messicani, ci guardino
dall'esterno, di fare in modo che ci vedano dall'interno. Ma è vero
che c'è molto spirito di corpo, il grande orgoglio di essere un
esercito di indios, un esercito indio.
Y: Si considerano fratelli.
M: Sì, in fondo fra noi siamo fratelli, e gli altri sono gli altri,
che siano greci, russi o messicani della capitale...
Y: Questo non ha alcun rapporto con le difficoltà degli zapatisti nel
trovare reclute fra coloro che non sono indios? Parlo dell'Esercito
zapatista, non del Fronte.
M: Certo. Il problema è che per fare quello che facevamo noi bisognava
essere disperati. Nel 1994 i messicani in generale non avevano ancora
vissuto direttamente, personalmente, la crisi politica ed economica.
C'erano anche persone molto lucide, ma la maggioranza del paese vedeva
il Chiapas come uno Stato a parte, un caso eccezionale... «Poveri
indios, hanno ragione, per loro è intollerabile, ma io ho ancora dei
canali politici, un tenore di vita brillante, o almeno promettente...»
Nel '94 la crisi non era ancora scoppiata. Quanto al discorso
zapatista, esso stava appena incominciando ad articolarsi. Si era
concentrato innanzitutto sul punto fondamentale, la questione india.
In realtà, nel '94, quello che funziona meglio e che ci aiuta di più a
farci capire non sono i comunicati, e nemmeno le lettere o le storie
di Marcos, è il lavoro dei giornalisti che vanno nelle comunità e
mostrano che cosa c'è dietro ai passamontagna. Grazie a loro, la gente
di fuori scopre come dietro all'Esercito zapatista ci siano comunità
che vivono e si organizzano in un certo modo; capisce che si tratta di
un altro mondo, con la propria organizzazione politica, la propria
organizzazione sociale, un mondo che sopravvive resistendo. Per molti
messicani è un colpo, si rendono conto che, all'insaputa di tutti, in
un angolo del paese funziona un altro Stato. Uno Stato migliore di
quello che loro subiscono.
- Finalmente esistiamo. M: Dopo il 12 ottobre del '92, il secondo grande specchio per gli
indios è il primo gennaio: essi si rendono conto che possono fare la
guerra, dirigere un movimento da soli. Per tutto il '93 abbiamo
continuato a chiederci se ci saremmo riusciti, quanta gente avremmo
mobilitato. Naturalmente lo sapevamo che per le riunioni, le
consultazioni nei villaggi la gente rispondeva, ma in questo caso si
trattava di fare una guerra, di lasciare la propria comunità con il
rischio di non tornare più. Per tutto il '93 siamo rimasti nel dubbio,
in novembre e dicembre eravamo sui carboni ardenti. Abbiamo avuto
delle certezze solo il primo gennaio alle quattro del pomeriggio,
quando la guarnigione di Ocosingo si è arresa. E' il quarto capoluogo
a cadere, dopo San Cristòbal, che avevamo preso all'una del mattino,
Las Margaritas alle tre, Altamirano alle sei del mattino. Huixt n,
Chanal, Oxchuc cadono al passaggio delle truppe che avanzano verso
Rancho Nuevo per stringere la caserma in una morsa, e alla fine, alle
quattro o alle cinque del pomeriggio, mi avvertono per radio che la
guarnigione di Ocosingo si è arresa. Ci eravamo riusciti, avevamo
centrato l'obiettivo. Ci eravamo fatti conoscere, finalmente
esistevamo.
Y: Vorrei tornare un po' indietro. Lei ha parlato dello scontro di
Corralchén, nel 1993, come di una rottura importante...
M: Per le comunità indie, per i combattenti zapatisti e la gente di
città, questa battaglia d'un tratto ha reso reale la guerra. Fino a
quel momento era soltanto qualcosa che stavamo preparando... Sapevamo
che sarebbe scoppiata prima del 31 dicembre 1993 a mezzanotte, perché
il Comitato, assumendo il comando, aveva stabilito questa data come
termine ultimo. Le comunità ci avevano avvertiti che erano disposte a
darci un anno, non di più, per incominciare la guerra, e che se non
avessimo marciato con loro sarebbero avanzate da sole. Y: Come spiega che il governo, sapendo tutto quello che sapeva, non
abbia preso misure difensive e non abbia reagito più in fretta?
M: Un errore di valutazione. Da una parte, erano convinti come noi che
fosse impossibile per un movimento di guerriglia avere successo; in
seguito pensavano a un gruppo di guerriglieri, non a un esercito
numeroso; e dato che nella Selva c'erano problemi riguardo alla terra,
secondo loro le voci di mobilitazione che arrivavano dovevano
annunciare un'occupazione del palazzo municipale come ne accadevano
regolarmente, ma questa volta in grande stile. Il 30 dicembre, quando
abbiamo incominciato a requisire veicoli, alcuni passeggeri sono
scappati e hanno raccontato di essere stati intercettati da gente
armata, incappucciata, in uniforme marrone e nera. Il generale Godìnez
Bravo, che era il comandante della settima regione militare, si è
recato a Ocosingo, ha analizzato la situazione e ha concluso che
probabilmente si stava preparando un'occupazione di terre o del
municipio da parte di un gruppo paramilitare o di un gruppo di
contadini armati, armati male, del resto, perché abbiamo fatto vedere
soltanto dei «22 long rifle» o dei vecchi fucili da caccia. Nulla
lasciava immaginare un movimento di questa consistenza. Avevamo
infiltrato dei soldati nell'esercito federale e quando la guerra stava
per cominciare abbiamo detto loro di venire via; ci hanno spiegato
come dopo la battaglia di Corralchén l'esercito era giunto alla
conclusione che evidentemente c'era un gruppo di guerriglieri, e aveva
stabilito una strategia per eliminarli: circondarli, catturarli, e
farli passare per «narcoguerriglieri». La situazione stava in questi
termini, quando è arrivato un ordine dall'alto: proibito muoversi
prima di gennaio. Cioè prima dell'entrata in vigore del Trattato di
libero commercio. Perciò sapevamo che stavano preparando un'offensiva
contro i guerriglieri, nella Selva, fra il 6 e il 10 gennaio, contro
un gruppo che in base alle loro supposizioni doveva essere composto da
quaranta-sessanta uomini. L'abbiamo saputo alla fine di dicembre, fra
il 25 e il 28, e abbiamo deciso che dovevamo attaccare, ma in fretta,
altrimenti saremmo stati costretti a batterci nelle nostre zone. Dal
punto di vista militare, il primo gennaio il dado era tratto.
- La congiuntura politica. Y: La congiuntura politica ha influito sulla vostra decisione? Il
T.L.C., il sessennato in dirittura d'arrivo, la designazione del
candidato ufficiale alla presidenza, un momento in cui il governo era
fragile dal punto di vista politico...
M: A cose fatte abbiamo capito che era fragile, lì per lì invece aveva
un aspetto molto solido. Il candidato, Colosio [58], non sembrava
porre alcun problema, aveva l'appoggio del presidente, Salinas era
l'uomo forte del paese, teneva in mano tutte le fila. Nel '93 il
regime appariva perfettamente compatto e omogeneo, era una delle
argomentazioni avanzate nel corso del dibattito sulla guerra... ma i
compagni, comunque, volevano tentare. Abbiamo pensato che avremmo
dovuto cercare di resistere fino alle elezioni: usciamo e ci crolla il
mondo addosso. Cerchiamo di tenere duro combattendo fino ad agosto, e
allora sarebbero stati costretti a fare una tregua, a intavolare il
dialogo o un negoziato in modo che le elezioni potessero svolgersi
normalmente. Sapevamo che il principale partito di sinistra
all'opposizione, il P.R.D., non aveva grandi prospettive per il '94.
Usciva dal fallimento del '91 e si aspettava una dura sconfitta
elettorale, la vittoria certa del P.R.I. e uno scontro accanito con il
PAN [59] per il secondo posto.
- Il prezzo del sangue indio (i combattimenti di gennaio). M: Proprio per questo dovevamo colpire molto forte subito, attirare
l'attenzione, per ottenere che costasse loro molto caro attaccare la
popolazione civile. Prevedevamo una classica reazione
antinsurrezionale: braccare il gruppo armato, neutralizzarlo,
riprendere il controllo della loro base popolare e riconquistarla.
Pensavamo che avrebbero seguito il modello del Vietnam nei territori
non occupati, «la guerra delle teste e dei cuori». Ma se riuscivamo a
fare abbastanza rumore abbastanza in fretta, sarebbe stato più
difficile annientare o attaccare le comunità. Y: Soprattutto facendo appello all'opinione pubblica nazionale e
internazionale?
M: Sì, che si dicesse pure che il paese stava assassinando gli indios.
Volevamo quotare in Borsa il sangue indio...
Per farlo avevamo bisogno di un po' di tempo, le comunità dovevano
resistere il tempo necessario perché l'opinione pubblica cominciasse a
reagire e obbligasse il governo a preoccuparsi della popolazione
civile. Sapevamo che avrebbero attaccato in forza gli zapatisti, i
combattenti, come poi è accaduto effettivamente in gennaio.
N: Non avevate sognato anche che di fronte all'esempio del primo
gennaio tutto il Messico sarebbe insorto con voi?
M: Era una speranza, un sogno celato in fondo ai nostri cuori, ma non
esisteva nulla che lo giustificasse. Una parte di noi sperava contro
tutte le apparenze che la gente sarebbe insorta insieme con noi; non
solo gli indios, ma anche studenti, operai, insegnanti, impiegati, e
non soltanto nel Chiapas, ma in tutto il Messico, e che si sarebbero
lanciati fianco a fianco all'attacco del regime. Ma non ci credevamo
sul serio.
Y: In altre parole, quando dichiaravate che avreste marciato su Città
del Messico era più una speranza che una strategia.
M: No, era una strategia. Aspetta, ora capisci, ti faccio un disegno:
lì c'è il Chiapas, qui la Selva; a est la frontiera e il Guatemala, a
nord il Tabasco e più su Veracruz, a ovest lo Stato di Oaxaca... La
nostra idea era di cominciare sferrando un bel colpo per farci
conoscere, e poi di avanzare il più possibile. Bisognava portare la
guerra il più lontano possibile dalle zone zapatiste, concentrate
nella Selva Lacandona, nel Chiapas settentrionale e negli Altos, per
dare il tempo alle comunità di organizzare la resistenza. Prendere
innanzitutto le città e da lì marciare sulla capitale. Sapendo che per
strada ci avrebbero eliminati, ma che comunque in questo modo la
guerra si sarebbe allontanata dalle comunità. Y: Il 12 gennaio, ma voi avete incominciato prima a battere la
ritirata...
M: Le unità incaricate di proteggere i villaggi ripiegavano, ma una
parte consistente dei guerriglieri si teneva pronta ad avanzare,
eravamo in procinto di conquistare i paesi degli Altos, del nord del
Chiapas, e di marciare sul Tabasco. Un'altra colonna, quella di San
Cristòbal, marciava su Tuxtla e di là sarebbe avanzata verso La
Ventosa, Oaxaca e...
Y: Ma che cosa è successo il 2 e il 3 gennaio? Qualcosa vi ha fatto
cambiare i piani, ordinare la ritirata? Per esempio, perché non avete
preso Comit n, dopo Las Margaritas?
M: Nel caso di Comit n, la colonna che avanzava sulla città durante la
conquista di Las Margaritas ha perso un ufficiale di primaria
importanza. L'ufficiale doveva dirigere l'avanzata della colonna, e
quando cade è l'ufficiale incaricato della protezione delle comunità a
prenderne il posto. Prosegue verso Comit n, ma io mi rendo conto che i
villaggi rimarranno scoperti, e per radio gli ordino di fare
dietrofront. Erano a quattro chilometri appena, si vedevano già le
luci della città. La colonna fa dietrofront, ma le altre unità hanno
incominciato ad avanzare verso Tuxtla e in direzione nord, verso il
Tabasco. Poi l'esercito si mette a bombardare i villaggi a sud di San
Cristòbal, il 3, 4, 5 e 6 gennaio; in quel momento abbiamo abbattuto
tre elicotteri e tre aerei in montagna; l'unità incaricata di
attaccare la caserma di Rancho Nuevo, che doveva soltanto bloccare la
guarnigione, tenerla impegnata per obbligare i soldati a difendersi e
impedire loro di uscire, è costretta a ritirarsi per andare a coprire
le comunità, a proteggerle. Y: Già, che cosa è successo?
M: Il primo gennaio, a mezzanotte, do l'ordine a tutte le unità di
abbandonare le posizioni occupate prima dell'alba del 2. Una parte
della guarnigione di Ocosingo sarebbe partita verso nord, e l'altra
doveva tornare nella Selva a proteggere i villaggi. Ma l'ordine viene
eseguito solo in parte, uno dei battaglioni che dovevano ritirarsi
nella foresta, quello del maggiore Mario, acquista ritardo, resta
sulla piazza del mercato in attesa dei veicoli necessari per
trasportare i combattenti. Prima che possano partire, il 2, sono
attaccati da un'unità di paracadutisti che tagliano loro la via di
fuga. Una colonna motorizzata dell'esercito arriva allora dalla strada
di Palenque. Ci sono stati errori militari nella difesa delle vie
d'accesso, ma il problema principale è che il 2 gennaio l'unità doveva
essere già partita. Y: Molte centinaia?
M: I primi giorni credevamo di sì. Significava che la forza destinata
a difendere la Selva era indebolita, e pure la colonna che avanzava
verso nord: una parte di questa colonna torna indietro per accorrere
in aiuto di quelli di Ocosingo. Poi alcuni riescono a sfuggire alla
trappola, e ci dicono che il battaglione resiste, che non è stato
annientato. Grazie a un'azione eroica, i nostri scappano da Ocosingo e
le perdite, alla fine, non superano i quaranta-cinquanta combattenti.
L'esercito ha ucciso molti civili, anche se i nostri erano in
uniforme: i soldati tiravano su qualsiasi cosa si muovesse.
Y: Come ha fatto l'esercito a entrare tanto facilmente da Palenque?
M: Tutte le uscite erano protette, guarda, ci sono tre vie d'accesso a
Ocosingo, la strada di San Cristòbal, quella della Selva, controllata
dal distaccamento che doveva ritirarsi per difendere i villaggi, e a
nord la strada di Palenque. Ma il mattino del 2 incominciamo a
ritirarci. E' l'unità destinata a marciare verso il Tabasco ad avere
l'incarico di bloccare la strada di Palenque. Non fanno saltare il
ponte, si accontentano di sorvegliarlo, poi se ne vanno, convinti che
tutti abbiano lasciato Ocosingo, che la linea di difesa si sia
spostata verso la Selva. Il battaglione che si trova in piazza resta
solo, e i militari entrano senza alcun problema. Avrebbero dovuto
essere almeno ostacolati all'altezza del ponte, ma l'unità che lo
controllava ha pensato che se ne fossero andati tutti e non l'ha fatto
saltare.
Y: Non capisco molto bene. A quanto ha detto, pensavate che ci
sarebbero stati molti morti, ma avete cercato di fare di tutto perché
non ce ne fosse nemmeno uno.
M: Il piano era fatto perché uscissimo illesi dalla prima azione,
calcolavamo che l'inferno ci sarebbe caduto addosso dopo.
Y: Sulle comunità?
M: No, su di noi. Se aggredivano le comunità, avremmo dovuto attaccare
altrove, per attirarli su di noi e obbligarli a uscire dalla Selva.
Era tutto organizzato perché ci fossero meno perdite possibili, c'era
una linea di retroguardia per evacuare i morti e i feriti. A Ocosingo
i soldati erano furenti, avevano appena dieci o dodici zapatisti morti
da mostrare ai fotografi, in tutto quell'attacco a sorpresa non
dovevano esserci perdite, o il meno possibile, soltanto in seguito ci
sarebbe stata...
Y: ... l'azione suicida.
M: Sì, per impedire all'esercito di entrare nei villaggi, o almeno per
ritardarne l'arrivo.
- Maggiore Moisés: la scelta delle armi. Y: Come vi siete procurati le armi?
Maggiore Moisés: I compagni le hanno pagate con il loro lavoro.
Vendevano il caffè, un paio di animali, e mettevano qualcosa da parte
per le armi. Le compravamo addirittura dai poliziotti. Così, a poco a
poco, abbiamo formato le unità, l'esercito. Insegnavamo loro che nella
guerra ci sono delle leggi da rispettare, la Convenzione di Ginevra.
Andando avanti, abbiamo capito che dovevano assumere loro il comando,
decidere come continuare la lotta. Perché quando siamo diventati di
più, era molto difficile mantenere il controllo, alcuni non ce la
facevano, rischiavamo che andassero a dire ai militari che cosa
accadeva qui. Il solo modo era che il controllo provenisse dal popolo,
organizzato e armato. Siamo arrivati a una fase, una situazione molto
difficile, quando Salinas ha incominciato a parlare dell'Accordo di
libero scambio, dell'articolo 27, della privatizzazione dell'"ejido",
delle imprese, del cambio delle banconote. I compagni ci spiegavano
che cosa significava per il nostro paese, soprattutto per i contadini,
che l'articolo 27 avrebbe creato una situazione analoga a quella
esistente sotto Porfirio Dìaz. La gente ha incominciato a dire no,
adesso basta. Bisogna dichiarare loro guerra. Abbiamo chiesto a tutti,
e la decisione è stata questa. Perciò c'è stato un primo gennaio 1994.
Y: Quando avete deciso di insorgere?
M.M.: Nel 1993. Quando abbiamo incominciato a spiegare in tutte le
comunità zapatiste quello che ti ho appena detto. La gente capiva che
se volevamo lottare, soprattutto per la terra, era giunto il momento.
Y: Che cosa è accaduto con chi non accettava la decisione, chi era
contrario all'insurrezione, nel '93?
M.M.: Abbiamo consultato quelli che erano realmente in lotta, gli
zapatisti. Non chiedevamo il parere di chi era uscito
dall'organizzazione. Lo sapevano ma non potevano impedirlo. Era una
decisione delle comunità, e in pratica tutta la Selva era già
nell'organizzazione. Il comune di Ocosingo, il comune di Las
Margaritas. Non potevano fare niente. Certo, denunce ce ne sono state,
ma il governo non ci credeva.
Y: Non le prendeva sul serio?
M.M.: No. Minacciava di mandare i soldati, ma niente di più. Anche
dopo lo scontro di Corralchén, diceva che non era nulla, soltanto un
gruppo di guatemaltechi. Per questo il primo gennaio abbiamo scritto:
«Godìnez dice che non c'è un movimento di guerriglia!». Perché, in
effetti, Patrocinio [60] sosteneva che non c'era nulla.
Y: A quell'epoca sono state espulse delle persone dai villaggi della
Selva?
M.M.: No, se ne andavano perché non volevano obbedire alla
maggioranza. La maggioranza aveva detto "ya basta!", adesso basta, e
quando la maggioranza decide una cosa, noi la facciamo. Abbiamo
spiegato loro: «Comunque non c'è altro mezzo. Lo vedete che abbiamo
provato di tutto, le organizzazioni legali, pacifiche, tutto. Se non
volete, pazienza». Quando è arrivato il gran giorno, il primo gennaio,
lo sapevano. Hanno incominciato a rendersene conto nel momento in cui
è partita la mobilitazione in grande, ma non potevano farci nulla.
Hanno pensato: ci siamo! Non mentivano, quelli! E molti se ne sono
andati, a Comit n, a Las Margaritas, a Ocosingo. Per paura di ciò che
sarebbe successo.
Y: Poi alcuni sono tornati?
M.M.: Sì, sì.
N: Come è avvenuta la reintegrazione?
M.M.: Dopo aver concluso la ritirata, abbiamo dovuto riunire tutti i
compagni, tutti i rappresentanti delle comunità per vedere che cosa
fare. Ci hanno detto che era necessario mettersi d'accordo:
innanzitutto bisogna capire che i fratelli andati via per la maggior
parte sapevano dell'esistenza di un movimento di guerriglia e non
erano mai stati d'accordo; avevano paura, perciò se n'erano andati.
Allora abbiamo stabilito di sorvegliare i loro beni, le bestie, e se
fossero tornati avremmo chiesto loro di restituirci quanto avevamo
speso per accudirle e per il resto: «Abbiamo speso tot, sta a voi
decidere che cosa fare». E se tornano, spieghiamo loro che non
vogliamo litigare fra di noi, che il nemico è laggiù, e li invitiamo a
restare qui, a lavorare qui. Se vogliono partecipare alla lotta, bene,
se no fa lo stesso. E' così che sono tornati. Molti gruppi che sono
tornati sapevano di questo patto.
Y: Ma alcuni sono tornati anche nel febbraio del '95 o dopo, insieme
all'esercito, è vero?
M.M.: Sono tornati quasi tutti in quel momento, perché pensavano che
li avremmo cacciati, uccisi... Ma prima erano già rientrati in
parecchi. Come spiegarti... molti hanno degli zapatisti in famiglia.
Quando ci siamo messi d'accordo con i rappresentati dei villaggi,
questi ultimi hanno fatto dire alle loro famiglie che non c'erano
problemi. Sono tornati. Non si fidavano più di quelli che restavano
laggiù, perché erano stati loro a dire che gli zapatisti erano degli
stronzi, che li avrebbero ammazzati, che non li rispettavano. Quando
si sono resi conto di come andavano le cose, dicevano che era tutta
colpa di chi li aveva mal consigliati, e quelli lì non ritornano.
Y: Ne restano ancora molti che non sono tornati?
M.M.: No, pochissimi. Nell'unità che controllo io, cinque o sei. E
altri che hanno deciso di restare in città. Ma se volessero potrebbero
tornare.
N: Vi eravate preparati per una guerra. Nei primi comunicati dicevate:
«Andiamo fino a Città del Messico». Qualche giorno dopo, la strategia
è cambiata; che cosa è successo? E' cambiato anche il linguaggio dei
comunicati.
M.M.: Senti, noi per anni ci siamo preparati sul piano militare. In
questo ambito, secondo noi, siamo avvantaggiati, è la cosa che ci
riesce più facile. Lo dice anche il generale dell'esercito federale:
«Qui gli zapatisti hanno la meglio, conoscono il terreno come il palmo
della loro mano». E' la verità. E' un buon generale, si vede che
riflette sul modo di guidare i suoi combattenti. Era l'idea che
avevamo in testa a quell'epoca... combattere e combattere. Con la
speranza che si unissero a noi anche altri fratelli, perché facciamo
una vita impossibile!
N: Vi consideravate l'avanguardia?
M.M.: No, non è questo, ma piuttosto il fatto che nel nostro paese la
situazione era veramente terribile. Il Trattato di libero commercio,
l'articolo 27, la privatizzazione dell'"ejido" e delle imprese, tutto.
Pensavamo che altri magari sarebbero insorti. Ma mentre eravamo nel
pieno della battaglia abbiamo incominciato a ricevere notizie secondo
cui la gente protestava perché voleva che la guerra cessasse. Abbiamo
dovuto ammettere che si trattava della società civile, ed essa
chiedeva esattamente questo. E' uno dei motivi che ci hanno fermati;
abbiamo pensato: che cosa succede? Non ci vogliono? Non vedono che ci
battiamo per loro? Bisogna parlare fra noi. Abbiamo capito subito di
essere in debito verso di loro. Il debito che avevamo con il popolo
del Messico consisteva nel fatto che esso non sapeva chi fossimo, che
cosa chiedessimo, che cosa volessimo. Avevamo pubblicato la nostra
dichiarazione di guerra, la prima Dichiarazione, ma non era facile
diffonderla su tutto il territorio messicano. Proprio questo ci ha
fatto decidere di fermarci. Aspettando di sapere diffusamente che cosa
stava accadendo in realtà. Abbiamo capito che dovevamo parlare con la
gente, spiegarle che cosa vogliamo. In quel momento c'è stato
l'attacco sui giornali, sulle riviste, abbiamo saputo che ci
trattavano da banditi, da ladri di vacche, da bugiardi, dicevano che
ingannavamo i contadini, gli indios, che li manipolavamo, che eravamo
salvadoregni, guatemaltechi, russi o chissà che altro. Abbiamo pensato
che dovevamo parlare con il popolo messicano, fargli conoscere la
verità. Per questo abbiamo tentato di fare la Convenzione nazionale
democratica. Perché in realtà noi non vogliamo la guerra. Il governo
ha bisogno di qualcuno che gli ricordi i suoi obblighi. E' suo dovere
dare un lavoro dignitoso al popolo messicano. E' suo dovere dare una
buona istruzione ai compatrioti, fornire loro un buon sistema
sanitario. Perché dobbiamo dare il nostro sangue e la vita solo per
dire: «Senti, signor Salinas, signor Zedillo, questo è un tuo
dovere!»? A quanto si dice sono andati a imparare a governare chissà
dove, ma che cosa è servito studiare tanto, se hanno bisogno di un
gruppo di indios per farsi insegnare il loro dovere? Non vogliamo la
guerra. Ma se non ci trattano come esseri umani, noi l'abbiamo capito,
noi, che la nostra dignità è quello che siamo, quello che ci è dovuto,
quello che è nostro. Se non lottiamo per questo, nessuno lo farà per
noi. Perciò diciamo che se non ci vogliono rispondere, se dobbiamo
dare la vita, lo faremo.
Y: Come spiega l'attacco della caserma di Rancho Nuevo? Qual era
l'obiettivo?
M.M.: L'obiettivo era... procurarsi le armi, avevamo bisogno di
armamenti. E poi, dimostrare chi protegge gli interessi dei ricchi:
l'esercito. Per la ritirata, noi, essendo un esercito, essendo
soldati, dovevamo obbedire agli ordini. Gli ordini non si discutono,
si eseguono, senza ombra di democrazia. E' un esercito, è così. Stavo
preparando la conquista di Comit n, ci eravamo quasi. L'operatore
radio viene a dirmi: «Ci sono ordini». Stavo dando le ultime
disposizioni, mancava solo il segnale d'attacco. E arrivano gli
ordini. Era il 3. Ho dovuto trasmettere gli ordini che avevo ricevuto.
A Ocosingo è successo che il messaggio non è arrivato abbastanza in
fretta. Hanno ritardato. Per questo motivo c'è stata la sorpresa.
Y: A Ocosingo ci sono stati molti morti...
M.M.: Sono stati uccisi molti fratelli civili...
Y: Ma anche...
M.M.: Sono caduti anche dei combattenti, certo...
Y: Pensavate che avreste potuto essere annientati, che avrebbe potuto
essere più cruento di quanto è stato in realtà?
M.M.: Ne eravamo sicuri. I nostri nemici sono i più forti. Hanno la
forza delle armi. Ma non quella della dignità, perché da loro soffrono
soltanto i soldati, non quelli che danno gli ordini. I soldati non
sanno perché si battono, sono contenti quando si riempiono le tasche.
Ma quando capiranno che il denaro di cui hanno piene le tasche non
servirà loro a nulla, che alla fine forse sarò io, combattente del
popolo, a tenermelo, capiranno di sacrificare la vita per denaro. Non
hanno un'etica di combattimento, non hanno coscienza, non hanno una
ragione per battersi.
Y: Ma hanno le armi.
M.M.: Può darsi, però, al punto in cui siamo adesso, forse i nostri
fucili sono meno potenti, ma hanno la stessa efficacia di tutte le
loro armi.
N: Conoscendo la situazione dei soldati, per la maggior parte indios,
avete cercato di parlare con loro, di spiegare loro la vostra lotta?
M.M.: Certo. Non i combattenti, non possiamo, ma la gente dei villaggi
lo fa. Quando le donne sono andate al loro corteo, l'8 marzo, sono
passate a trovare i soldati dove stavano. Hanno detto loro: «Fareste
meglio a tornarvene a casa, dai vostri genitori, anche voi avete
moglie, figli. Io ho un nipote, un figlio, un cugino che è lontano,
che è stato costretto a partire, come te. Forse sei tu quel soldato.
Rendetevi conto che ci battiamo anche per voi, non vi lasciate
ingannare così, al punto da difendere persone che non hanno niente a
che vedere con noi. Sono loro che ci sfruttano, da 503 anni».
N: Ha funzionato? Ci sono stati disertori?
M.M.: Certo. Alcuni soldati ci hanno addirittura fatto sapere che gli
ufficiali fino al grado di sottotenente non li obbligavano ad andare
in montagna: erano quelli con gradi superiori. Dicevano: «Se prendete
un sottotenente, sappiate che non ci obbliga, ma se prendete un
capitano, quello sì». Quasi come a dirci: se prendete un capitano
ammazzatelo. Ma noi le conosciamo le leggi di guerra.
Y: Ha parlato dei guatemaltechi. Qui c'erano molti rifugiati, in che
rapporti eravate durante gli anni di preparazione?
M.M.: Nessuno di loro ha chiesto di entrare. Si tenevano in disparte,
forse non volevano neanche sapere che c'era un altro gruppo di
guerriglieri qui. Non abbiamo mai avuto problemi con i nostri fratelli
guatemaltechi.
Y: Non scambiavate opinioni sul modo di fare la guerra?
M.M.: No, no.
Y: Ma voi lo sapevate che cosa era successo in Guatemala?
M.M.: Sì, sapevamo come si comportavano i compagni e anche il nemico,
come entrava nei villaggi e si dava al massacro.
Y: Non avevate paura che succedesse lo stesso anche qui?
M.M.: Non a noi, eravamo armati. A quelli dei villaggi, che
rischiavano, lo spiegavamo, ma ci rispondevano che erano combattenti
del popolo, che morivano già di diarrea, di febbre, di vomito, di
parassiti, tanto valeva morire combattendo. Quando i compagni ci hanno
risposto così, abbiamo pensato che avessero deciso.
Y: Che cosa avreste fatto se il governo messicano avesse agito con la
stessa ferocia del governo guatemalteco?
M.M.: Avremmo fatto il nostro dovere: combattere, combattere
combattere. E chi vivrà vedrà.
- Comandante Tacho: «Siamo insorti per avere una vita dignitosa». Y: Eppure, all'inizio, parlavate anche di prendere il potere,
parlavate di socialismo, no?
T: All'inizio sì. In realtà avevamo incominciato a cambiare. Dovevamo
cercare un sistema. Se la via delle armi è servita anche soltanto a
fare in modo che ci ascoltassero, benissimo. E se abbiamo potuto
prendere noi la parola quando le armi hanno finito di parlare, di
nuovo benissimo. Abbiamo capito che si doveva fare la Convenzione
nazionale democratica affinché almeno ci ascoltassero. Cercavamo,
avevamo imboccato una strada, ma vedevamo che non era più quella
adatta. Abbiamo continuato in un altro modo. Non abbiamo deviato,
abbiamo fatto i cambiamenti via via necessari.
N: Con questi cambiamenti si sono modificati anche il vostro modo di
pensare, la vostra ideologia?
T: Sì. Ogni giorno facciamo un sogno, e per ogni sogno nuovo studiamo
come sia possibile realizzarlo. Non abbiamo soltanto un sogno. Un
sogno solo ci avrebbe indotti a tentare unicamente la via delle armi.
Ma non è stato così, quella era soltanto una parte, uno dei sogni. Gli
altri sogni sono venuti a mano a mano che li sognavamo.
Y: Quali altri sogni avete fatto?
T: C'è stato un secondo sogno, dopo l'insurrezione: creare il primo
Aguascalientes. Abbiamo realizzato una pazzia, abbiamo teso un telone
incredibile da una collina all'altra, dopo tutto è scomparso come un
sogno [61]. Non era previsto, e poi si è presentata la possibilità. Ci
siamo mossi immediatamente. Quindi, un giorno, ci siamo messi a
sognare che bisognava organizzare un incontro continentale americano,
e si è realizzato anche questo sogno. Abbiamo sognato delle cose...
sognato... sognato... e i sogni si realizzano. Abbiamo sognato che si
doveva organizzare un incontro intercontinentale, e siamo riusciti a
realizzare anche quello. Cose che non si vedevano nel primo sogno,
quello delle armi. Certo, in un primo momento avevamo pensato che un
giorno o l'altro avremmo dovuto parlare con gli intellettuali, gli
operai, i maestri, gli studenti, le madri di famiglia, i contadini, e
che ci saremmo uniti con altri indios, ma non sapevamo quando, se
sarebbe accaduto a breve o a lungo termine. E siamo riusciti a farlo,
servendoci di queste forme. Diciamo che lo faremo, e lo facciamo.
Quando stabiliamo di fare qualcosa, lo facciamo. Talvolta lo diciamo
anche noi che facciamo molte pazzie. Per essere pazzi, siamo veramente
pazzi. Pazzi furiosi.
N: Anche il linguaggio è cambiato, prima era una lingua un po'
stereotipata, il socialismo, la dittatura del proletariato, la
rivoluzione armata, ora parlate di democrazia, di giustizia,
dell'essere umano, non è un tradimento ma un grande cambiamento sì,
non le pare?
T: Cambiamo perché capiamo di che cosa c'è bisogno. Tutti i sogni che
abbiamo fatto erano necessari. Non sono sogni diversi da quelli che
avevamo quando abbiamo incominciato, ne fanno parte. Per esempio
l'idea di marciare su Città del Messico. Che cos'è? Una missione che
stiamo per realizzare [62].
Y: Non esattamente come l'avevate sognata...
T: Non nella stessa forma. Forse ci arriveremo senza le armi. Ci
arriveremo come persone, con le nostre parole vere. Per esempio,
andremo per dire: «Fratelli, la nostra missione è compiuta». Ci
adattiamo alla situazione, secondo le esigenze. A volte passiamo
momenti difficili. Siamo stati chiari fin dall'inizio della lotta. I
nostri compagni, da diversi anni, dicono con estrema chiarezza che la
lotta sarà molto lunga, molto difficile. Ma è giusta. Lunga,
difficile, ma giusta. Necessaria. Perciò dobbiamo abbinare tutte
queste forme di lotta. Se scegliamo la via pacifica, coraggio allora!
Incontri, dialoghi, e cerchiamo il sistema per fare una politica
nuova. Gli incontri di Aguascalientes, per esempio, li rendiamo
allegri, è un modo di fare politica, un modo nuovo. A volte ci
vogliono le armi, benissimo, le abbiamo, è una garanzia, non siamo
contrari. Ma se esiste un sistema diverso lo seguiamo. Ci inchiniamo
alla società civile, sia nazionale sia internazionale. Bisogna
dimostrarle che siamo sinceri, che la rispettiamo. Se non otterremo
risultati le diremo che a sua volta ci ascolti, che giudichi e dica se
abbiamo ragione e che cosa possiamo fare d'altro. Dobbiamo cercare il
momento buono, secondo le esigenze. Lo zapatismo lo creiamo così, a
poco a poco.
Y: E' questo che fate, create lo zapatismo...
T: Già, lo si crea a poco a poco.
Y: Qualcuno pensa che lo zapatismo sia cambiato solo a parole, che in
realtà voi continuiate a puntare sugli stessi obiettivi, che crediate
agli stessi principi dell'inizio...
N: Conquistare il potere con le armi, per dirla chiaramente...
Y: Qualcuno afferma che i vostri discorsi non sono sinceri.
T: Si rendono conto che la politica dello zapatismo è esattamente come
stavo dicendo, un modo nuovo di fare le cose, e che ha assunto un
ruolo di primaria importanza nella vita politica nazionale e
internazionale. Per questo dicono che non la pensiamo realmente così,
che abbiamo un'altra logica. Noi invece parliamo sul serio. Siamo seri
quando diciamo che se vogliono trovare una soluzione giusta e
dignitosa, d'accordo! Siamo disposti a firmare la pace, ma una pace
giusta, decorosa. Non la pace del silenzio, della morte, della povertà
di sempre, e nemmeno la pace dell'astuzia, della menzogna. Una pace
giusta e decorosa, soprattutto per i nostri compagni dei villaggi e
per tutti i messicani, e se fosse possibile anche a livello
internazionale, sì. Per avere la pace non basta dire di smetterla con
la guerra. Non significa niente. Bisogna risolvere i problemi, perché
non ci sia più ragione di combattere. Per noi la pace significa: le
richieste del popolo messicano sono soddisfatte.
Y: Quali sono i vostri sogni attuali, a livello regionale, per il
Chiapas?
T: Per il momento aspettiamo di vedere che cosa hanno sognato i nostri
compagni, tocca a loro sognare adesso [63].
N: Tornando al cambiamento di cui parlavamo, ho una piccola domanda.
Quando avete ricevuto la notizia della caduta del muro di Berlino, si
ricorda quello che ha pensato lei, personalmente?
T: No. Alcune persone che conoscevano il nostro movimento hanno
cercato di farci paura, di dirci che non era più possibile lottare.
Noi rispondevamo che era possibile: ci voleva una lotta giusta, una
guerra giusta, che valesse la pena. Bisognava fare qualcosa di nuovo,
non copiare le tradizioni altrui. Y: Quando avete incominciato a pensarla così? Dopo il primo gennaio, o
prima?
T: Per essere sincero, molti dei nostri, e io fra gli altri, erano
pronti a prendere le armi, ci eravamo preparati per questo, di
politica invece non sapevamo niente. Abbiamo incominciato a imparare
insieme a fare politica, una politica nuova, cercando le forme di una
politica di vita. Abbiamo incominciato a trovarle nel corso del 1994.
Prima no. Ci preparavamo a combattere, a difenderci, a morire o
uccidere. Non avevamo mai pensato che ci fosse bisogno di politica, se
no avremmo fatto altre cose! Avremmo fatto appello a un'altra pazzia,
chissà quale! No, ci preparavamo per la guerra, ci insegnavano i
nostri compagni insorti. Io facevo parte della milizia. In seguito
sono diventato responsabile locale, poi responsabile regionale, e
vedendo il lavoro che avevo fatto, a poco a poco i compagni mi hanno
dato delle cariche dove si deve cercare, pensare, parlare della lotta.
Ho incominciato così, non ero veramente preparato per la politica.
Y: Lei personalmente, come ha vissuto il primo gennaio? Dov'era?
T: Ero a Las Margaritas, con molti compagni. Ero nell'avanguardia,
proprio in testa, abbiamo combattuto lì, all'entrata principale della
cittadina.
Y: Ci sono stati molti morti?
T: No, abbiamo avuto pochissime perdite.
Y: Il subcomandante Pedro [64] è morto lì?
T: Sì, è caduto lì... Ha fatto il suo dovere, il dovere del
combattente, vincere o morire. Riconosciamo i nostri morti con molto
orgoglio. Ma la lotta continua, sapevamo che doveva succedere, avrei
potuto essere io, o qualsiasi altro dei combattenti.
N: Quanta strada! La milizia, le armi, la politica, ora parlare
davanti a tremila persone di quarantatré paesi diversi! Che effetto vi
fa?
T: Sì, è più che un sogno... Sai, tutti noi, compreso il compagno
subcomandante Marcos, siamo molto «naturali». Alcuni di noi sono
andati a scuola, ma io no, ho solo «il secondo anno di analfabetismo».
Non ho fatto né le elementari, né le medie, né la normale superiore.
Ho imparato tutto dalla vita quotidiana. Ho girato molto, questo sì,
dagli anni Settanta, dappertutto. Ho accumulato esperienza, a poco a
poco, a forza di vivere, di parlare, di protestare... Siamo andati
avanti, avanti, avanti... Come sapete, però, molti si stancano per
strada, si fermano. Ma chi continua va sempre avanti senza sapere
dove. C'è tanta strada...
N: Fino all'intergalattica!
T: Fino all'intergalattica. Tutta questa strada mi è servita molto. Se
si deve parlare davanti a una folla, bene: non mi fa paura, mi sento
come in un villaggio. Come tra fratelli. Non mi monto la testa. Se
tanti fratelli vengono a trovarci da così lontano, è perché anche la
loro vita è stata molto difficile, scopriamo cose ancora più grandi
insieme a loro, acquisiamo esperienza. Frequentiamo una scuola che non
esiste... DALLO ZAPATISMO ARMATO ALLO ZAPATISMO CIVILE Y: Come spiega la decisione delle autorità, la nomina di Camacho e
l'ordine del cessate il fuoco? [65] Vi aspettavate iniziative di
questo tipo da parte del governo? Y: Ci sono stati morti?
M: Fra i nostri no, fra i soldati sì: l'autista di un'autoblindo che
abbiamo fatto saltare nei pressi di San Miguel.
Con l'applicazione del cessate il fuoco, cominciamo a scoprire che
cosa succede fuori fra il 16 e il 20 gennaio, prima non lo sapevamo.
Allora capiamo che tutto il piano di cui ti ho detto è impraticabile.
E' comparsa un'altra forza, è quella a chiederci di dialogare, non il
governo: il popolo. Pensavamo che il popolo ci avrebbe ignorato,
oppure si sarebbe gettato in battaglia con noi. Ma non fa né una cosa
né l'altra. Tutte quelle persone, che sono migliaia, decine, centinaia
di migliaia di persone, milioni forse, non vogliono insorgere con noi,
e neanche lasciarci combattere. Ma non vogliono che ci annientino.
Vogliono che dialoghiamo. Questo sconvolge tutte le nostre idee
preconcette, e ridefinisce lo zapatismo, il neozapatismo.
- Maggiore Moisés. Y: Ma voi pensavate alla via delle armi, all'insurrezione in altre
regioni...
M.M.: Non c'è stata. Abbiamo capito che la gente non era disponibile.
C'erano solo gli zapatisti.
N: Vi è dispiaciuto o avete pensato che fosse meglio, che questo
avrebbe potuto consentire cambiamenti pacifici?
M.M.: Non ci è dispiaciuto. Sapevamo di doverci battere per tutti i
messicani. Abbiamo deciso di studiare se potevamo organizzarci con
loro, di capire se ci accettavano o no. Anche per questo abbiamo fatto
la Consultazione [66], per vedere se davvero le richieste per cui
siamo pronti a dare la vita coincidessero con quelle del popolo
messicano. I compagni del Comitato avevano ragione... Era un rischio;
se la gente avesse risposto di no che cosa avremmo fatto? Saremmo
andati in... chissà dove! Ma invece, come abbiamo potuto vedere, più
del 90 per cento ha risposto che la principale richiesta era proprio
quella. Esattamente quella.
- Il calcolo di Salinas («Quanto costano gli zapatisti?»). Y: Se ne parlava molto all'epoca.
M: Sì, dicevano che qualcuno tirava le fila...
Y: Fernando Gutiérrez...
M: Fernando Gutiérrez Barrios [67], o Manuel Camacho Solìs, oppure
qualcuno che aveva del rancore o era stato sfavorito dal regime... Il
governo ha pensato all'eventualità di dover affrontare un nemico
interno, non un nemico esterno, e aveva bisogno di tempo per
verificare chi fosse.
- La svolta. M: Di certo non l'ho detto così, ma l'idea era che l'esercito federale
non è un esercito messicano, è soltanto l'esercito del sistema
politico messicano e...
Y: Non intendeva dire che non era in grado di annientarvi?...
M: Dal punto di vista militare è senz'altro in grado di annientarci,
l'abbiamo sempre saputo. Ne conoscevamo la struttura interna e la
potenza di fuoco. Non credo, non ho mai creduto che potesse liquidarci
nel giro di pochi giorni, eliminarci, come dicono, con una sola
zampata. Ma la loro superiorità militare è evidente. Non possono
annientarci, ma possono respingerci e trattenerci sulle montagne: noi
non abbiamo la minima possibilità di batterli sul piano militare.
N: In quel momento il C.C.R.I. proibisce i contatti con gli altri
gruppi armati del paese. Era un pegno della vostra buona fede riguardo
al cessate il fuoco o che altro?...
M: No, questo è successo molto tempo dopo. In gennaio, invece, nel
momento peggiore della guerra, noi avremmo voluto metterci in contatto
con gli altri gruppi armati, ma l'unico a contattarci è stato il
PROCUP, e ne diffidavamo da molto tempo, dissentivamo da loro per via
delle azioni di gennaio, le bombe che hanno collocato [69].
- 1994: un anno caotico. M: Forse, quando si è formato il «cordone di pace» assurdo e
meraviglioso che ci ha colti completamente di sorpresa. Renditi conto
che quando abbiamo lasciato San Cristòbal andavamo a morire, eravamo
sicuri di farci uccidere lungo la strada. Ma ora tornavamo a San
Cristòbal, la gente ci aspettava, ci applaudiva, si accalcava per
vederci. Si erano organizzati persino per fare il cordone al freddo,
sotto la pioggia. Gente senza partito, senza organizzazione, che non
obbediva a un ordine, non seguiva una linea, non ci guadagnava niente
a essere lì. Avevano fame, correvano dei rischi, le fotografie,
potevano perdere il lavoro, e tutto semplicemente perché ci credevano.
Era il nostro primo contatto con loro, non ci aspettavamo nulla da
quell'incontro. Non lo chiamerei ancora zapatismo, era un movimento
che stava nascendo allora, persone di tutte le classi sociali, dalle
più alte alle più umili, favorevoli a certe idee dello zapatismo, che
venivano a vedere, volevano conoscerci. Y: In altre parole?
M: Il dialogo ha dato modo agli zapatisti di farsi conoscere, di
entrare in contatto con molta gente, soprattutto attraverso i mezzi di
informazione; in quel momento non avevamo contatti diretti. Inoltre,
il governo non è riuscito a comperarci e neanche a convincerci. Alla
fine, tutto il processo di dialogo è andato in malora il 23 marzo,
quando Colosio è stato assassinato.
Y: E' l'avvenimento decisivo?
M: Sì, dimostra che il governo è in crisi e non può negoziare. La
pallottola che uccide Colosio uccide la possibilità di un accordo di
pace con l'E.Z.L.N.. Non possiamo firmare un patto con qualcuno che
non è nemmeno in grado di garantire la vita del suo successore. Come
poteva garantire quella del suo nemico? Del resto, questo rispecchiava
una crisi politica talmente profonda che non si poteva ottenere alcun
risultato.
Y: Avete deciso in quel momento di aspettare le elezioni di agosto?
M: Di aspettare e di preparare la resistenza.
Y: Con questa decisione, avete ucciso Camacho dal punto di vista
politico, no? Se aveste accettato il progetto di accordo, la sua
posizione si sarebbe consolidata?
M: No, era impossibile. Il 23 marzo, assassinando Colosio, hanno
assassinato politicamente anche Camacho.
Y: E voi gli avete dato il colpo di grazia!
M: Per noi non era questo il problema. Non potevamo firmare perché di
fronte non avevamo nessuno in condizione di firmare. In quel momento,
il problema non era più se accettare o respingere gli accordi: siamo
stati obbligati a rifiutare. Il Comitato poneva un altro problema: che
cosa fare dopo? Attaccare? Aspettare? Y: A questo punto ormai entrate in uno stato di grande incertezza.
Secondo l'interpretazione di Jorge Castaneda [71], in quel momento
Marcos aveva l'occasione di entrare nel gioco politico; l'ha persa, e
da allora è incominciato il riflusso, che non è più cessato. E' vero
che in quel momento lo zapatismo aveva l'occasione di trasformare la
sua forza politico-militare simbolica in forza politica?
M: Può darsi, ma non ce ne siamo accorti. Non ce ne siamo accorti
perché improvvisavamo, e il nostro problema era decidere la mossa
successiva. La questione era di sapere come comportarci con quelli che
avevano chiesto di cessare la guerra. Erano disposti a fare qualcosa?
E che cosa? Dovevamo incontrarli e parlare. Erano gli stessi che
mandavano aiuti umanitari, avevano continuato anche dopo il dialogo
nella cattedrale. Y: Quali erano i vostri pronostici sulle elezioni del '94, pensavate
che il cardenismo potesse vincere, o no?
M: Pensavamo che avrebbe vinto il P.R.I., con brogli talmente gravi
che la gente si sarebbe ribellata. Non dico al punto da prendere le
armi, ma con un grande movimento di protesta. Abbiamo pensato che
bisognasse aspettare le elezioni: la gente si sarebbe resa conto che
il P.R.I., il sistema del partito di Stato, non intendeva suicidarsi.
Noi gli chiedevamo di suicidarsi, certo, ma non l'avrebbe fatto. Y: Il voto non è forse stato in parte dettato dalla paura, gruppi che
hanno votato per Zedillo temendo la destabilizzazione del regime?
M: E' una lettura possibile. Non ne sono tanto sicuro, il risultato
elettorale del 1994 è stato talmente perfetto da far riflettere.
Guarda le percentuali, per esempio: danno più o meno il 50 per cento
al P.R.I., il 30 al PAN, il 15 al P.R.D. e il 2 al P.T. [74].
Dappertutto. Per le elezioni presidenziali, si ha lo stesso risultato
nelle "lomas" di Chapultepec o a Polanco, dove risiedono persone molto
agiate, e nella Lagunilla, per esempio, nel Chiapas, nel Guerrero,
posti sperduti dove la gente riesce appena a sopravvivere. Le stesse
percentuali, che invece variano per le elezioni dei deputati, per le
elezioni locali. Y: Lo zapatismo magari no, ma l'assassinio di Colosio non faceva
paura?
M: Certo ha avuto il suo peso, la gente ha pensato che se il regime
era capace di una cosa simile era capace di tutto. Y: Ciò nonostante, non c'è stata la protesta di massa in cui
speravate.
M: Su questo ci siamo di nuovo sbagliati, come nel gennaio del '94. E
si poneva la stessa domanda: e adesso? Non c'è stata protesta di
massa, e la Convenzione nazionale, che era il nostro punto di contatto
con l'esterno, è entrata in un periodo di crisi a causa della
sconfitta elettorale. Ormai potevamo solo aspettare che Salinas se ne
andasse, per vedere che cosa avrebbe proposto il nuovo presidente. Il
Comitato ha deciso proprio questo. Il dialogo era a un punto morto;
nel momento in cui Ruiz Massieu è stato assassinato [75], abbiamo
interrotto il dialogo con Salinas e abbiamo aspettato per vedere che
cosa avrebbe fatto Zedillo. Zedillo si è messo in contatto con noi per
lettera, e ci ha promesso di risolvere la questione appena assunta la
carica. Noi gli abbiamo detto che per il momento non potevamo trattare
con lui, che saremmo stati disposti a intavolare il dialogo quando
fosse diventato presidente. Y: Magari la vostra azione ha fatto davvero da detonatore alla crisi,
no?... la crisi finanziaria, nazionale e forse internazionale. Il
governatore della Banque de France ha dichiarato che il sistema
finanziario internazionale è debole al punto che un pugno di indios
del Chiapas, nel cuore del Messico, può farlo tremare pericolosamente.
M: Dei poeti, un pugno di poeti, come direbbe l'E.P.R.!
Comunque vuol dire che la crisi covava già. Credo che la nostra azione
abbia aperto un buchino in una pentola a pressione e che sia scoppiato
tutto. Di colpo, la miseria degli indios si estende bruscamente a
milioni di messicani. Tutto cambia. Il governo, davanti a un vero
focolaio d'agitazione, decide di liquidarlo. Sceglie il tradimento
[78]. Capisci, non era più una lotta di indios, che si può sostenere
da lontano; c'era il rischio che molta gente, trovandosi d'un tratto
nella stessa situazione di miseria, ci considerasse possibili compagni
di lotta. Perciò c'è stato il colpo di mano del febbraio del '95.
- Nello zapatismo ci sono molti zapatismi. M: No, non ancora. Pensavamo ancora allo zapatismo, allo zapatismo
dell'E.Z.L.N., e a niente di più. Non ci eravamo ancora resi conto che
lo zapatismo incominciava a trasformarsi grazie al rapporto fra
zapatismo armato e zapatismo civile. Chi ritiene che la Convenzione
nazionale democratica sia stata un fallimento non lo capisce. Un
fallimento perché? Perché C rdenas non ha vinto? Perché la C.N.D. non
è diventata una forza politica? In realtà, solo con la Convenzione si
può incominciare a parlare di uno zapatismo civile accanto allo
zapatismo armato. Per consolidare questo rapporto l'E.Z.L.N. inizia
addirittura a modificare i suoi discorsi e le sue iniziative. Così
incomincia a maturare quello che diventerà il dialogo di San Andrés
[79], cui il movimento di guerriglia inviterà tutti a partecipare. E'
l'inizio di quello che in seguito darà origine alla Consultazione, la
quarta Dichiarazione, poi i Forum e gli Incontri [80]. A partire dalla
C.N.D. si incomincia a parlare di uno zapatismo che non è più limitato
esclusivamente all'E.Z.L.N..
Y: Sorge dunque la domanda: che cos'è lo zapatismo? Il neozapatismo?
La mia ipotesi è che ci siano tre componenti, una componente militare,
erede di tutto ciò di cui si è parlato precedentemente al primo
gennaio, una componente che potremmo definire sociale e una componente
politica. Lei è d'accordo?
M: Secondo me c'è una serie di intersezioni. C'è lo zapatismo
dell'E.Z.L.N., con le comunità e i combattenti. Distinguo le due cose
perché le comunità instaurano rapporti con l'esterno attraverso il
loro esercito, l'E.Z.L.N., che è una struttura militare. E'
importante, il discorso e la pratica zapatista sono ancora molto
caratterizzati da un certo autoritarismo militare, una certa
impazienza, diciamo.
Y: Economia di guerra, società di guerra...
M: Sì, ma anche l'abitudine a un'immediata realizzazione delle
iniziative, e l'esasperazione al minimo ritardo: abbiamo preso la tale
decisione, perché non reagiscono subito, siamo in guerra!
C è dunque l'E.Z.L.N. propriamente detto, con le comunità indie, lo
zapatismo delle origini, insomma. Poi lo zapatismo civile, che nasce
con il dialogo di San Cristòbal, e che è presente nella Convenzione
nazionale democratica e cerca di organizzarsi. Intendo dire che ha
inizio come una specie di comitato di solidarietà molto esteso,
incentrato su quanto accade qui, e si evolve per diventare
un'organizzazione politica.
N: Il Fronte zapatista?
M: Speriamo, vedremo... Possiamo dire che incomincia a svilupparsi uno
zapatismo civile organizzato. L'E.Z.L.N. prevede di unirsi a questa
organizzazione, un giorno, se ci saranno le condizioni perché possa
continuare a evolversi in tale direzione. Poi c'è il terzo zapatismo,
più diffuso, più disperso, fatto da quelli che provano simpatia per
l'E.Z.L.N. e sono pronti a sostenerlo ma non hanno intenzione di
organizzarsi, oppure fanno già parte di altre organizzazioni politiche
o sociali.
- La nebulosa internazionale. N: In sostanza, dopo quindici anni di crisi della sinistra, di
disgregazione, la gente vi considera un punto di partenza per
riaggregarsi. Non è soltanto una proiezione di sogni o di desideri...
M: Forse lo zapatismo li ha solo aiutati a ricordarsi che vale la pena
di lottare, che è necessario. Per noi è importante essere molto lucidi
su questo punto: non dobbiamo tentare di creare una dottrina
universale, di metterci alla guida di una nuova internazionale o cose
del genere. Ma soprattutto credo che in questo senso sia
particolarmente importante e vada mantenuto l'elemento di generalità,
di indeterminatezza dello zapatismo. Quanto alle comunità, bisogna
capire che il contatto con questo «zapatismo internazionale»
rappresenta soprattutto una protezione grazie alla quale esse sono in
grado di resistere. E' una protezione più efficace dell'E.Z.L.N.,
l'organizzazione civile o lo zapatismo nazionale perché, nella logica
del neoliberismo messicano, si punta moltissimo sull'immagine
internazionale. C'è una specie di tacito accordo, chi viene da fuori
trova qui un punto d'appoggio, lo stimolo di cui aveva bisogno per
riprendere slancio, e le comunità ottengono il sostegno che permette
loro di sopravvivere.
Y: E' un modo di vedere interessante: se l'attenzione internazionale
avesse soltanto la funzione di fare da scudo, potrebbe nascere la
tentazione di assumere atteggiamenti un po' paternalistici, di
protezione e di assistenza, ma io credo che lo zapatismo possa evitare
questo rischio in quanto crea una possibilità di ricomposizione.
M: Francamente, non ho visto paternalismo. Le critiche che ci fanno
quelli degli accampamenti per la pace [82] o dell'Incontro
intercontinentale sono critiche molto severe, dirette ma fraterne, di
persone che ti chiedono conto da pari a pari. Talvolta anche critiche
ingiuste, si dimenticano che siamo ancora in guerra, e che questo come
minimo limita le possibilità di incontro e di discussione.
Ecco, grosso modo, come la vediamo noi. Credo che l'E.Z.L.N. dovrà
definire i suoi rapporti con queste quattro componenti: lo zapatismo
militare, ovvero l'E.Z.L.N. stesso e le comunità, lo zapatismo
organizzato del Fronte, lo zapatismo sociale e lo zapatismo
internazionale. Tutto sta nel sapere quando guardare il dito e quando
la stella, come diceva il vecchio Antonio [83]. Alain Touraine diceva
di non confondere i vari livelli, universale, internazionale,
nazionale e indio: la sua è una versione più sociologica, il vecchio
Antonio lo esprimeva in forma poetica; in questo momento è il problema
più grave dello zapatismo. Sarà questo a decidere del suo avvenire,
più che i soldati, la rottura del dialogo, gli aeroplani e i tank.
Tentando di definirsi, lo zapatismo corre il rischio di diventare
un'organizzazione fra le tante, o invece può introdurre qualcosa di
veramente nuovo.
ETICA, COMUNITA' E DEMOCRAZIA Y: Quando lei dice che non avete rinunciato ad andare a Città del
Messico, parla di entrarvi nel modo di Emiliano Zapata,
dell'insurrezione del primo gennaio, o pensa a un altro sistema, un
altro obiettivo?
M: Innanzitutto è un modo per riaffermare il carattere nazionale della
nostra lotta. Le nostre richieste riguardano il centro del potere
politico ed economico di questo paese, e noi non rinunciamo ad andare
a Città del Messico per difenderle. L'E.Z.L.N. rifiuta di considerarsi
un movimento territorialmente limitato, e indio dal punto di vista
sociale. Y: In fondo, si tratta più di prendere lo Zòcalo [84] che di prendere
il Palazzo nazionale?
M: Certo. C'è un solo problema: metti che andiamo a Città del Messico,
ci presentiamo allo Zòcalo, riempiamo la piazza (oppure no); e poi?
Che cosa diciamo? Fare come ha fatto a inizio secolo l'esercito di
Zapata, arrivare a Città del Messico, visitarla e ritirarsi poi in
montagna senza alcuna alternativa politica? Sarebbe molto bello, molto
romantico, ma completamente inutile...
Y: Belle immagini nella storia del paese.
M: Fotografie per gli archivi e per la stampa, che ne sarebbe
entusiasta... Resta da calcolare se per l'E.Z.L.N. e i partecipanti
valga la pena di correre questo rischio politico e fisico. Che cosa ci
guadagneremmo? Una manifestazione di massa per dire che ci siamo,
gridare degli slogan, senza alcuna conseguenza politica? Il gioco non
vale la candela. Comunque, per tornare alla tua domanda, non pensavamo
a prendere il potere ma ad affermare la nostra presenza nel centro
nevralgico della politica, dell'economia e della lotta sociale in
Messico.
Y: Se non vi interessa prendere il potere, come va interpretato il
fatto che continuate a rivendicare la vostra discendenza dalla lotta
di Che Guevara? L'altro giorno, lei ha risposto a un giornalista che
se tornasse il Che gli lascerebbe il posto. Non pare molto coerente
con il cambiamento di cui abbiamo parlato; in realtà il Che e tutti i
movimenti guerriglieri che si richiamano a lui, in sostanza si
definiscono tramite questo punto essenziale: la presa del potere
attraverso la lotta armata.
M: E' uno degli aspetti del Che, ma l'Esercito zapatista di
liberazione nazionale fa riferimento piuttosto al Che che lascia Cuba
e va in Bolivia. Il Che che continua la lotta, che sceglie di
continuare a essere ribelle, che decide di abbandonare tutto e di
ricominciare da zero, altrove, nonostante le difficoltà, le sconfitte
e gli errori. Per noi il lato umano - la resistenza, la ribellione, la
percezione del «tutto per tutti, niente per noi» presente nel progetto
di Che Guevara - è più importante del suo programma politico o del suo
manuale sulla presa del potere [85]. Il nostro rispetto per il Che
viene da lontano, da dieci anni di vita in montagna: era il nostro
riferimento storico. Non tanto su come impostare la guerriglia,
ovviamente. Noi volevamo arrivare a un esercito regolare; e ci siamo
allontanati ancora di più quando lo zapatismo è diventato un cocktail,
la mistura che oggi chiamiamo neozapatismo... No, del Che noi
rispettiamo il lato umano, lo spirito di sacrificio, la devozione a
una causa, e soprattutto la coerenza, la fede. Era un uomo che viveva
in armonia con quello che pensava. Non se ne trovano tanto spesso. Che
le idee siano giuste o no, persino con idee sbagliate... è difficile
incontrare persone coerenti. Non penso soltanto alle persone note, ma
anche ai normali cittadini come ce ne sono dappertutto, gli specchi
che lo zapatismo trova nel resto del mondo, esseri umani come gli
altri che vivono in accordo con quello che pensano. Guevara è uno di
loro, il più noto, e poi è un guerrigliero come noi, un guerrigliero
che, quando tutto è contro di lui, si dedica a difendere un sogno,
un'utopia.
Y: Ma finisce male.
M: Sì, e il problema è proprio questo. Ma sarebbe difficile trovare al
mondo un movimento rivoluzionario che non sia finito male. Nel caso di
Guevara, la sconfitta finale è la morte, il 9 ottobre del '67. Ma per
noi l'etica è più importante dell'efficacia politica. La nostra
ammirazione per Guevara non dipende dalle sue vittorie politiche e
nemmeno dai suoi successi militari, anche se la presa di Santa Clara
[86] è un capolavoro come operazione militare portata a buon fine con
un effettivo ridotto. Noi ammiriamo quei valori etici che sembrano
dover restare nei libri, in una dottrina religiosa, e invece diventano
realtà negli esseri umani, e vengono vissuti in modo coerente.
- Il sacrificio e la disperazione. M: Tutto quello che dici è vero. Nel 1993 anche noi abbiamo espresso
la stessa valutazione, ma devi capire che la logica delle comunità era
dettata dalla disperazione. Anche altri ci hanno detto la stessa cosa
che hai appena detto tu: non dovevamo, era necessario aspettare o
incominciare più in sordina, non in un modo così stravagante, così
folle come quello che abbiamo scelto il primo gennaio del '94. Ma
avevamo di fronte una disperazione assoluta, mortale, di tutto un
settore della popolazione, gli indios. Nella logica della disperazione
non c'è spazio per la vita, rimane solo da scegliere la morte: se
morire in silenzio o morire da eroi. Era la logica del gennaio 1994.
Nel '96 non è più così, ma all'epoca avevamo davanti decine di
migliaia di persone condannate alla morte del silenzio, la morte
dell'oblio, persone che hanno deciso di farsi ammazzare, sì, ma in un
altro modo. Ci aspettavamo una reazione militare sul genere del
Guatemala, comunità rase al suolo... c'era soltanto una cosa da fare,
tentare di ritardare il più a lungo possibile l'impatto sulle
comunità, e provocare molto rumore, per farla pagare quanto più cara
possibile allo Stato, sul piano sociale e politico. Non avevamo
scelta. Le comunità dicevano: «In tutti i casi moriamo già, nessuno se
ne accorge, nessuno dice niente. Almeno non moriremo solo noi. E a
loro procureremo guai seri».
Y: La violenza antinsurrezionale serve anche a dividere le comunità e
a isolare il movimento di guerriglia. In seguito, nel Guatemala, i
guerriglieri non sono più riusciti a ristabilire i contatti. Quando
non si riesce a proteggere la popolazione, oltre al costo umano c'è
anche un costo politico.
M: Nel caso dell'E.Z.L.N. non abbiamo la forza combattente da un lato
e la popolazione dall'altro, sono una cosa e una cosa soltanto. In
questo momento, per esempio, come esercito l'E.Z.L.N. non esiste, è
disperso nelle comunità. Si riunisce e si ristruttura militarmente per
le operazioni militari o per alcuni lavori, come costruire le
Aguascalientes. E' esattamente la concezione dell'Ejército Libertador
del Sur di Zapata: nell'esercito c'è una percentuale minima di
professionisti, solo alcuni ufficiali che radunano i combattenti al
momento di agire e poi li disperdono. E' un esercito povero, ma non
costa quasi niente, perché i suoi soldati sono anche produttori.
Produttori in crisi, ovviamente, come tutti gli altri!
- Intolleranze ed errori zapatisti.
- La democrazia o le armi. M: Non si discute nello stesso modo di differenze politiche - non
parlo neanche di decisioni di governo, solo di differenze politiche -
con una persona armata: il rapporto cambia. Anche se non ti servi
delle armi come argomento, le armi esistono. Nel caso specifico,
quando gli zapatisti parlano con altri gruppi politici nelle comunità,
possono essere tolleranti e comprensivi, ma le armi hanno comunque il
loro peso. E' la contraddizione di un'organizzazione armata, su cui
insistiamo sin dall'inizio: se lo scopo è la democrazia, lo zapatismo
armato non è un'alternativa di governo. Se volessimo la dittatura del
proletariato o l'omogeneità di un'etnia o di una razza, sarebbe
semplice. Ma lo zapatismo ha l'obiettivo opposto. Y: Senza avere cambiato il sistema politico.
M: Esatto, senza niente in cambio.
Per passare alla lotta pacifica, abbiamo bisogno di condizioni di
minima che consentano all'E.Z.L.N. di trasformarsi in una forza
politica in modo dignitoso. Ma questo il governo non lo vuole.
Y: Alla lunga, non esiste il rischio di una militarizazione delle
istituzioni comunitarie? In una società di guerra, un'economia di
guerra, anche la tradizione del consenso, dell'unanimità, vigente
nelle comunità, può militarizzarsi, no? Gli zapatisti sono tutti
convinti che lo zapatismo debba diventare un attore democratico?
Davvero nessuno pensa di militarizzare le comunità per un progetto più
a lungo termine?
M: Non è impossibile, non lo so, non ne abbiamo mai avuto sentore...
Ma rispondo prima all'altra domanda. Siamo un esercito indio, e perciò
molto interessato alla vita civile, un esercito i cui membri non hanno
voglia di trasformarsi in militari di carriera. Non abbiamo intenzione
di diventare l'esercito che difenderà il nuovo Stato dopo la presa del
potere...
Y: Però all'inizio dicevate proprio questo.
M: Che dopo aver distrutto l'esercito federale avremmo formato,
insieme ad altre forze, l'esercito incaricato di difendere le
conquiste della rivoluzione eccetera eccetera... sì. Per noi
l'esercito zapatista dovrà continuare a esistere per garantire che le
richieste delle comunità siano soddisfatte, che il governo mantenga la
parola. Ma anche in questo caso, supponendo che conservi il ruolo di
garante, di autorità per controllare che le cose vengano fatte, i
combattenti non avranno più un'attività militare, resteranno nelle
loro comunità, come prima. Nel caso in cui si manifestasse la tendenza
alla militarizzazione di cui parlavi, non credo che funzionerebbe,
perché l'influenza dei combattenti di professione è minima rispetto
alla massa di combattenti dei villaggi. Un progetto di questo tipo non
avrebbe la forza, la potenza di fuoco per imporsi alle comunità, che
non l'accetterebbero.
- Lo zapatismo divide le comunità. M: Il progetto democratico dell'E.Z.L.N. è nuovo, dopo il gennaio del
'94 si articola con la comparsa di concetti come tolleranza e capacità
di includere diverse realtà, che fino a quel momento quasi non
comparivano nel discorso zapatista. Si struttura nel confronto con
l'esterno. Le comunità apportano la loro pratica, la risoluzione dei
problemi collettivi per mezzo del consenso, con tutti i suoi limiti.
Si discute in assemblea, e non si prende una decisione fino a quando
tutti non sono d'accordo. Non si vota nemmeno. Nella maggior parte dei
villaggi non si vota, non si decide a maggioranza, o si raggiunge
l'unanimità o niente. Questo comporta una certa logica di discussione
interna, e funziona per i problemi che riguardano davvero tutti. Per
esempio, decidere dove collocare le latrine, tracciare la linea di
demarcazione tra i terreni di due villaggi eccetera. Su queste cose
tutti si esprimono, è normale. Ma esistono problemi diversi, per i
quali si dovrebbe tenere conto di quello che pensa la maggioranza, ma
anche di quello che pensa la minoranza. E' un'esperienza nuova per le
comunità, perché finora tutti i problemi che dovevano risolvere
riguardavano la sopravvivenza. Di fronte al rischio di annientamento
da cui sono minacciate da anni, l'unico modo di sopravvivere era
unirsi e rendere quanto più forte possibile il collettivo.
- La questione delle «espulsioni». M: E' una bugia. Quando le comunità hanno deciso la guerra e fissato
il limite di tempo, i non zapatisti l'hanno saputo e hanno detto che
non erano d'accordo. Gli zapatisti hanno risposto loro che la guerra
si sarebbe fatta comunque, e gli altri hanno spiegato che non era
giusto, perché ne avrebbero subito le conseguenze come gli altri. Gli
zapatisti hanno detto che si trattava della decisione della
maggioranza e che perciò il discorso era chiuso. Allora quelli che non
erano d'accordo se ne sono andati. Dove c'erano gli zapatisti la gente
sapeva che la repressione si sarebbe riversata su tutto il villaggio
indistintamente, e quelli che non erano d'accordo si riunivano da
un'altra parte, costituivano villaggi formati esclusivamente da non
zapatisti. Non abbiamo mai espulso nessuno, né obbligato nessuno a
entrare nell'organizzazione, al contrario di quanto dice la Chiesa. Ci
limitavamo a dire la verità: chi restava nei villaggi zapatisti, che
lo volesse o no doveva affrontare la guerra. Chi non voleva se ne
andava, e durante l'offensiva militare del gennaio del '94, e
soprattutto quella del febbraio del '95, metteva un telo bianco sul
villaggio o sulla propria casa perché i soldati non bombardassero,
perché si limitassero a bombardare le case senza telo bianco. Proprio
secondo la logica della Quiptic. Y: Si parlava di ventimila persone...
M: ... di venticinquemila. Ma nessuno parla di chi se n'è andato da
Guadalupe Tepeyac, e ormai è più di un anno: quelli il governo non li
nutre, e non paga nemmeno l'affitto per le loro terre.
Y: Ci sono stati davvero ventimila «sfollati»?
M: No, la cifra è gonfiata, ma soprattutto nei primi mesi se n'è
andata molta gente, quindicimila persone e più durante gli allarmi.
Nel momento peggiore, nel periodo di allarme rosso seguito
all'assassinio di Colosio, secondo i nostri calcoli erano
diciottomila. In seguito la cifra è scesa di nuovo a dodicimila, poi è
risalita verso i quindicimila nel giugno del '94, dopo la
Consultazione, quando sono stati respinti gli accordi ed è stata
convocata la Convenzione. Per finire, altre persone sono sfollate,
dopo l'arrivo dell'esercito, nel febbraio del '95, ma il governo le ha
costrette a rientrare volenti o nolenti, per evitare che si dicesse
che era l'esercito federale a provocare l'esodo. Non volevano tornare,
avevano paura della guerra che arrivava con i soldati. Ma il governo
li ha costretti.
- Democrazia, consenso ed elezioni. M: Credo che sia una forma di democrazia possibile soltanto nella vita
comunitaria. Funziona nelle comunità indie perché la loro
organizzazione sociale lo consente, ma non può essere generalizzata,
trasferita altrove come modello, per esempio in città, e nemmeno a
livello di uno Stato o di tutto il paese. Secondo noi va conservato il
principio del controllo della collettività sull'autorità. Y: Non si arriverebbe mai a una decisione!
N: Il discorso zapatista parla anche di democrazia diretta, sociale,
di democrazia di partecipazione; ma come? A che livello? E in che
rapporto con la democrazia rappresentativa?
M: Per l'E.Z.L.N. la democrazia non può essere solo elettorale; la
democrazia elettorale ci vuole, ma non è sufficiente. L'idea di
democrazia deve comprendere molti altri aspetti della vita democratica
del paese. Ci vuole di sicuro una riforma elettorale, o piuttosto una
vera rivoluzione che apra sul serio lo spazio elettorale. Ma bisogna
anche riconoscere l'esistenza di forme di democrazia non
rappresentative che svolgono una funzione di controllo e di governo
nelle comunità. Le leggi messicane non riconoscono la democrazia
comunitaria. Ci sono altri tipi di democrazia, che si praticano nei
sindacati, nelle università, nei quartieri, nei villaggi... Lo Stato
deve riconoscere che non esiste un tipo di democrazia superiore, ma
molte forme diverse, ci vuole un concetto di democrazia aperto, ampio.
Per il governo, la democrazia rappresentativa è politicamente
superiore alla democrazia diretta o alla democrazia assembleare.
N: Perché rappresenta l'interesse generale.
M: Secondo noi la democrazia rappresentativa funziona a certi
livelli... anzi, funzionerebbe, se esistesse davvero. Ad altri
livelli, ci vuole invece la democrazia comunitaria, la democrazia
diretta o la democrazia sociale.
- Ma la democrazia è compatibile con la comunità? M: Sì, su questo siamo d'accordo. Io intendo dire che questo genere di
democrazia è utile per certi problemi, non per tutti, mentre la
comunità lo applica fino all'esasperazione a ogni livello. Ti faccio
un esempio: Rich si sposa con una ragazza del villaggio. Innanzitutto
deve chiedere il permesso all'assemblea del villaggio prima di
parlarne con lei. Nell'attesa che l'assemblea decida, tutti sanno che
è innamorato, salvo la ragazza. Poi parla alla famiglia, gli danno il
permesso e finalmente può parlarne a lei... funziona così. Y: Si impara a conoscere l'eterogeneità e la diversità di forme?
M: Soprattutto il dibattito politico. Nella comunità il confronto
politico è un rapporto personale. Qualcuno si alza e parla, poi
qualcun altro, e tutti sanno chi è. Quando tutti si conoscono, la tua
idea politica viene recepita in funzione della tua storia personale.
Il tuo discorso può essere giusto, ma vieni valutato prima di tutto
dal punto di vista morale, e non sul piano politico: ti ascoltano in
modo diverso a seconda se sei un ubriacone, un donnaiolo, se sei stato
in prigione. Una buona idea politica può essere scartata per questo
motivo, ecco perché ti dicevo che nello zapatismo esiste
un'interconnessione fra morale e politica, e spesso la prima è
dominante. Credo che le aperture del '94, del '95, del '96 siano
servite ai compagni delle comunità per comprendere i vantaggi, ma
soprattutto i limiti, del loro tipo di democrazia. Y: L'ho visto anche in altre comunità, in Guatemala era la stessa
cosa, dovevano andare a cercarli in montagna e riportarli a forza...
M: L'autorità zapatista può essere criticata presso i suoi superiori:
se la comunità non è soddisfatta del suo responsabile locale, lo
denuncia al responsabile regionale. Viene fatta un'inchiesta, lo
destituiscono, si fa un'assemblea e se ne nomina un altro. Lo stesso
avviene se sono gli eletti locali che hanno dei problemi con
l'autorità regionale, e così via fino al vertice.
Y: Insisto perché è molto importante. Nel mondo esistono diverse forme
di resistenza al neoliberismo, quasi tutte autoritarie. Il rifiuto non
solo del neoliberismo, ma della forma rappresentativa «occidentale»
esiste a Singapore, fra i fondamentalisti islamici, fra gli indù
integralisti. Le contrappongono un autoritarismo comunitario. Fra le
cose importanti dello zapatismo c'è il fatto che tenta di abbinare
forme comunitarie con elementi di democrazia rappresentativa o
partecipativa. Fa propri alcuni elementi culturali, religiosi, etici,
non per difendere la comunità contro l'Occidente, ma per tentare di
inventare nuove forme di politica che siano democratiche. Che, in
realtà, fanno la democrazia.
M: Sì, penso che sia un problema fondamentale, anche per la
sopravvivenza dello zapatismo nelle comunità. Questo processo di
omogeneizzazione interna che comporta il predominio dell'interesse
collettivo sull'individuo, sulla minoranza, ha permesso alle comunità
di sopravvivere, ma effettivamente oggi può divenire la loro tomba.
Credo tuttavia che l'apertura rappresentata dalla guerra abbia
ampliato l'orizzonte della gente, che siano pronti a lasciarsi
permeare da idee di questo tipo. Il problema centrale oggi è la
tolleranza dell'altro, quando l'altro è una minoranza. Non ha ancora
trovato soluzione all'interno delle comunità, ma tutti stanno facendo
uno sforzo. Prima dicevano: «Chi non è d'accordo, fuori». In questi
ultimi tempi chi non è d'accordo resta con il suo disaccordo, e si
cerca un modo per integrarlo. E' avvenuto un processo lento e davvero
meraviglioso, e lo si deve in larga parte agli influssi esterni. La
gente venuta da fuori, dall'estero, ma anche dal resto del paese, ha
parlato delle proprie esperienze e ha manifestato alcune critiche al
modo in cui funziona lo zapatismo. Gli zapatisti sono molto sensibili
alle critiche, non dico che reagiscano bene e nemmeno che ringrazino,
ma le prendono sul serio, le analizzano e cercano di cambiare.
- Maggiore Moisés: la vita delle comunità in tempo di «né guerra né
pace». Y: Il governo vi ha sottratto della gente con questo sistema, dando
aiuti a chi passa dalla sua parte?
M.M.: No, no. I compagni sono restati. Anzi, arrivano sempre nuove
adesioni. Perché il governo si concentra su questa zona, su quelli che
sono dalla sua parte qui nella Selva. E intanto dimentica gli altri, i
contadini indios della C.N.C. [91] delle altre zone. La gente si rende
conto che in realtà il governo non si interessa al suo destino.
Arrivano nuovi combattenti, e un numero sempre crescente di zapatisti.
E' questo il problema del governo: gli zapatisti sono sempre di più.
ll guaio è che non vogliono essere zapatisti per dover uccidere e
morire. Non vogliono la guerra, lo dicono chiaro e tondo. Ma quel
signore che si chiama Zedillo, non si riesce a farlo ragionare, a
farlo cedere. Fanno come hanno sempre fatto. Di buono, i nostri hanno
ottenuto la libertà di organizzarsi come vogliono. Non interviene più
nessuno, né il giudice, né il procuratore, né il sindaco, né il
governatore, né il governo federale: nessuno interviene negli affari
civili, qui.
Y: Chi si occupa della giustizia, della scuola, della sanità?
M.M.: I compagni consiglieri municipali. Si sono organizzati per
adempiere il mandato conferito dalla comunità. E' molto bello il modo
in cui esercitano la democrazia. Nelle comunità si riuniscono in
assemblea ed eleggono un rappresentante, la persona che vogliono.
Quando lo hanno nominato, gli chiedono di manifestare la sua volontà.
Se il compagno, o la compagna, accetta la carica, registrano l'accordo
della comunità secondo cui in avvenire il compagno dirigerà, ma
obbedendo all'assemblea. In questo modo si rendono conto
dell'esistenza di alcune cose che riguardano anche altre comunità...
Y: Sì, ma i soldi? Il governo i soldi li ha, ma voi?
M.M.: Noi abbiamo la collaborazione... Per esempio, qui, in questo
momento, c'è un gruppo per la formazione di istruttori. Hanno un
laboratorio di conceria, perché muoiono delle bestie e bisogna
recuperarne le pelli. Un laboratorio di sartoria. C'è un gruppo di
apprendisti, e una volta che hanno imparato, portano quello che sanno
fare in un'altra regione. Si va avanti così.
Y: D'accordo, ma non è pericoloso non accettare alcun servizio che
provenga dallo Stato? Le comunità sono piuttosto povere. Per loro è un
prezzo molto alto... per esempio, chi paga i maestri? I servizi
sanitari? Non è chiedere uno sforzo eccessivo alle comunità?
M.M.: Sono state le comunità a decidere. La gente ha detto: i nostri
compagni combattenti sono andati a battersi, e noi dobbiamo lottare
per dimostrare che siamo ribelli. Quindi non accetteremo niente da
loro. Y: Non sarebbe più logico chiedere al governo che fornisca i servizi
affidandone il controllo alla comunità?
M.M.: Sì, è esattamente questo il punto. Nell'accordo di San Andrés...
che tra l'altro è stato firmato... E' quello che vogliamo, proprio
quello che diciamo noi. Ma non hanno fatto niente. La gente vede bene
che il governo non vuole risolvere niente, dare niente.
Y: Dà qualcosa a condizione che si entri nel suo gioco.
M.M.: Vuole mantenere il controllo. E la gente dice: perché? Hanno già
visto, hanno già detto di sì, hanno già accettato. E poi non si tratta
solo di noi, è per tutto il Messico. A San Andrés abbiamo stabilito
che cosa ci vuole per lo Stato del Chiapas, e che va bene anche a
livello nazionale.
Y: In una situazione del genere, le comunità possono reggere un anno,
due, ma alla lunga la gente si stanca. Si stanca e si isola. Non
correte il rischio di restare tagliati completamente fuori dalla
società e di mantenere soltanto delle piccole sacche zapatiste isolate
dal resto del paese, e sostenute solo dagli aiuti internazionali,
dalle ONG e organismi simili?...
M.M.: L'eventuale pericolo è che il governo agisca in modo brutale, se
non vuole davvero cedere niente. Il rischio è che dia l'ordine al suo
esercito di agire, è facile, si trova già sul posto. Forse accadrà
presto, perché qui l'esercito sta facendo molti danni, e quando i
soldati cambiano un po' vengono sostituiti. Ci sono posizioni molto
diverse, e la decisione dei compagni dipenderà da questo...
Comandante Tacho: sulla «democrazia comunitaria». Y: Questo modo di scegliere i responsabili esiste ancora qui nella
Selva?
T: Sì, soprattutto nella zona zapatista, in questa zona della Selva.
E' così in tutti i villaggi zapatisti, dove ci siamo formati noi.
Faccio parte di una comunità insieme alla quale ho vissuto questo modo
di eleggere e questo modo di rispettare: è una cultura politica, che
si tramanda da molto tempo. Il nemico non può distruggerla, come non è
riuscito a distruggere noi, gli indios. E' sempre viva. Questa ricca
cultura democratica si conserva nei villaggi e da essa si deve
attingere per altre zone, per i comuni. Diciamo anche che le autorità
devono rendere conto al popolo, qui si fa così. Questa cultura
politica viene dalla base dei villaggi indigeni.
Y: Nella tradizione però esistono forme non molto democratiche di
eleggere i capi e di amministrare il potere.
T: Sì, è vero. Ma quando nei villaggi arriva lo zapatismo si
incomincia a far partecipare le compagne, per esempio. Prima non
prendevano parte alle decisioni. Lo zapatismo comprende tutti, le
donne, i giovani. Prima gli uomini erano i soli a governare, e tutti
dovevano obbedire alle loro decisioni. Ora non più. Adesso il
rappresentante rappresenta gli altri, per esempio di fronte alle
istituzioni, ma nel villaggio il suo unico lavoro è di organizzare
quello che va fatto, non comanda.
Y: Come don Tacho quando ha organizzato l'Incontro intergalattico!
T: Organizzare le cose perché gli altri vengano, stiano bene, possano
riposarsi... Esattamente. Le autorità ci sono per gestire, per
proporre al popolo: «Bisognerebbe fare una scuola, avremmo bisogno di
una stanza, d'accordo?». Propongono, ma è la gente a decidere, a dire
se l'edificio deve essere costruito a nord o a sud. Noi vediamo le
necessità e proponiamo, ma poi deve decidere il popolo.
Y: Ci sono villaggi in cui a decidere, a comandare, sono invece gli
anziani o i cacicchi? [92].
T: In ogni regione, in ogni zona, abbiamo diverse forme di
organizzazione e di governo. Una negli Altos, un'altra nel Nord, una
nella Selva di Ocosingo e un'altra ancora nella Selva de Las
Margaritas. In certi luoghi ci sono ancora le maggiordomie degli
anziani [93]. Rispettiamo anche queste forme, è una cultura diversa, e
non si può imporre loro di cambiare. Se funziona va benissimo,
facciano pure a modo loro. Noi rispettiamo le loro scelte. Per noi,
l'importante è che l'autorità sia eletta e si metta al servizio del
popolo; e che lo informi. Abbiamo l'abitudine di dare una piccola
somma per le esigenze della collettività, la chiamiamo «contributo» e
la paghiamo tutti i mesi per i servizi, per i trasporti... C'è un
tesoriere, un commissario, un segretario, un consiglio di
sorveglianza. Devono comunicare se questo mese abbiamo speso
quattromila pesos o tremila, giustificare le spese. E' un modo per
evitare la corruzione. Bisogna diffondere questa forma di democrazia
dei villaggi, allargarla alla vita nazionale del paese, rispettando le
diverse forme di organizzazione, di decisione, i modi diversi di fare
politica. Teniamo conto di queste cose. Non vogliamo essere
l'avanguardia, soltanto diventare una forza politica in più nella vita
del paese, dare il nostro contributo.
Y: Tuttavia possono esserci dei problemi. Per esempio con i
tradizionalisti. Prendiamo il caso di San Juan Chamula: lì hanno le
proprie usanze religiose e politiche, respingono ed espellono chiunque
la pensi diversamente. Che cosa si fa in una situazione di conflitto
come quella?
T: Il problema è che in quel comune hanno certa gente... come posso
dire, è un villaggio indio molto corrotto, sono cacicchi che hanno
imparato dal sistema. Non cambiano. Quest'idea è penetrata nella loro
testa, nel loro cuore. Ci sono pochi villaggi simili. Se fossero tutti
così non sapremmo che cosa fare. Ma la maggior parte non si comporta
in questo modo. LO ZAPATISMO OGGI: URGENZA DI UNA DEFINIZIONE Y: In questo contesto che cosa pensa degli accordi di Bucareli? [95]
Sono un modo per chiudere ulteriormente il gioco ed escludere gli
esclusi?
M: Sì. Il governo allarga un po' il cerchio di quelli che decidono,
conglobando quattro partiti politici e altri elementi «satellitari».
Se si vuole fare politica in Messico bisogna farla con loro,
accettandone le regole, e chi non entra nel gioco non viene ammesso.
Y: Fuori Marcos, fuori Camacho...
M: Fuori il centro, le forze sociali, le organizzazioni non
governative, l'Alleanza civica [96], tutto quello che non fa il loro
gioco. Fuori tutto quello che non si può cooptare. In questo senso, la
riforma politica è una riforma del potere per il potere, dove la
società resta assente. Non soltanto è antidemocratica, ma nella
situazione di crisi attuale è anche inefficace. Il governo e il
sistema politico, compresi i partiti, vivranno in un paese che non
esiste, costruiranno la propria realtà politica mentre il resto del
paese si muoverà in un'altra direzione. E secondo noi il resto del
paese tenderà spontaneamente o verso il caos - ciascuno per sé, tutti
contro tutti - o verso la costruzione di forme di governo proprie. Fra
il caos e il sistema esistente, noi proponiamo di costruire altre
forme di governo; c'è l'esperienza dell'Esercito zapatista che può
ampliarsi, per organizzare non più la guerra, quanto piuttosto la
resistenza.
Y: E in questa ricomposizione, non escludete il sistema
rappresentativo, il voto individuale, i partiti politici?
M: Certo che no. Ma vediamo che i partiti imboccano una direzione e la
gente un'altra. E comunque ci sono le elezioni. Nel processo
elettorale, il sistema politico deve confrontarsi con la società per
legittimarsi, i partiti sono obbligati a rivolgersi alla gente. Sono
previste delle elezioni nel '97, poi le presidenziali nel 2000, se nel
2000 il paese esisterà ancora! E' un momento di convergenza obbligata,
in cui la società dovrà esigere che vengano prese in considerazione
queste forze politiche, esigere l'apertura di uno spazio per le forme
di democrazia che pur non avendo un calendario elettorale esistono, le
forme di democrazia che dobbiamo sostenere se non vogliamo il caos.
Alleanza civica, per esempio, è un fenomeno molto interessante. E'
un'organizzazione nata per sorvegliare lo svolgimento delle elezioni e
si è guadagnata un'autorità morale impressionante. Quando fa il
bilancio delle elezioni, la gente le crede. Non crede al governo, ma
crede ad Alleanza civica. E' riuscita anche a organizzare
consultazioni e referendum su diversi aspetti della vita nazionale, e
anche a dialogare con un'organizzazione armata. E' l'unica alleanza
dell'E.Z.L.N. con un'organizzazione esterna che abbia dato risultati.
Con il P.R.D., il P.T., le ONG, ci siamo visti non so quante volte, ci
hanno fotografati insieme, ma non c'è nulla di concreto. Con Alleanza
civica non abbiamo mai fatto foto, ma abbiamo fatto insieme la
Consultazione [97].
- «Siamo un casino». M: Noi diciamo che siamo un allegro casino! Rispetto alla nostra
composizione sociale siamo un movimento armato indio, o a maggioranza
india; politicamente, siamo un movimento armato di cittadini con
esigenze da cittadini. Quando un cittadino si lamenta della polizia
non si propone di diventare poliziotto, chiede solo che la polizia
faccia il proprio lavoro. E' un po' l'idea dell'E.Z.L.N.. Noi
critichiamo il potere ma non per soppiantarlo, vogliamo semplicemente
un potere che faccia il suo lavoro, che sia al servizio della società
come i pompieri o i dipendenti di una pubblica amministrazione. Quando
la gente protesta contro un impiegato a uno sportello, non pensa
«datemi il suo posto», ma «metteteci qualcuno che faccia il suo
lavoro». Sono esigenze civiche, ma molto radicali.
- Resistenza e apertura. M: Lo zapatismo, come qualsiasi altra forza, deve prendere
continuamente iniziative per conservare la propria presenza politica e
ampliare il proprio orizzonte. Resistere non significa «chiudersi e
aspettare». Resistere isolati significa rinunciare alla vita. Noi non
possiamo obbligare il governo a comandare obbedendo, ma possiamo
prendere iniziative, e per farlo bisogna allargare lo spettro delle
forze politiche. Régis Debray ci diceva che qualsiasi forza politica,
tanto in Messico quanto altrove, deve aprirsi a rapporti con tutto
l'arco politico, inclusi i suoi nemici, perché questo le dà la
possibilità di resistere. Ha perfettamente ragione. Non si tratta di
abbandonare una linea politica, ma di costruire dei rapporti.
- Una «locanda spagnola». M: Sì, ma bisogna pensare al processo avvenuto nel '94, all'incontro
fra lo zapatismo armato e lo zapatismo civile, fra lo zapatismo e il
mondo nuovo che abbiamo scoperto nel '94. All'epoca abbiamo ritenuto
fosse necessario dare accesso a idee di tutti i generi perché non
capivamo che cosa stesse succedendo. Ripetevamo a dieci anni di
distanza quello che avevamo fatto nel 1984 di fronte alla realtà
india: non capiamo, dobbiamo imparare. E per imparare bisogna aprirsi
a tutti. Ovviamente questa indeterminatezza non può durare molto a
lungo. Y: E' una posizione estetica difficile da sostenere politicamente.
M: Impossibile! Sono cose che non durano a lungo. Mi ricordo come
nell'ottobre del '94 dicevo a Carmen Castillo che quello che vedeva,
il territorio zapatista protetto, non poteva durare. Non potevamo
mantenere il potere su un frammento di territorio all'interno dello
Stato messicano. O ci facevano a pezzi, o si sarebbe diffuso
altrove... e non sembrava doversi diffondere. Attualmente abbiamo
questa indeterminatezza che non può durare in eterno: una forza armata
clandestina che fa un lavoro politico; un esercito che non fa la
guerra, impegnato nel processo di pace; un'organizzazione con un piede
nell'illegalità e l'altro nella legalità grazie alla legge per il
dialogo [98], un piede nella clandestinità con l'E.Z.L.N. e l'altro
nella lotta aperta con il Fronte zapatista. E' così. Solo che le due
barche incominciano ad allontanarsi l'una dall'altra. Dovremo
scegliere, passare in una delle barche o finire in acqua. Y: Praticamente tutti, dentro e fuori, vi chiedono di definirvi! Nel
«tutti» includo l'estrema sinistra, e anche la ricomparsa di gruppi
come l'E.P.R. vi impone di definirvi.
M: Sì, tutto indica che dobbiamo definirci, ma nulla ci dice come, per
andare dove. La politica seguìta dal governo durante il dialogo ci fa
pensare che scegliere la via della lotta politica sia un'illusione, un
tranello. E la politica dell'estrema sinistra, dei gruppi armati, ci
fa pensare che non dobbiamo nemmeno orientarci verso la lotta armata,
che le azioni militari di un tempo non hanno più alcun consenso e
alcuna risonanza, a parte lo scalpore immediato. In fondo a fare
rumore non sono le prese di posizione dell'E.P.R. rispetto al governo,
quanto piuttosto le domande: «Che cosa dice l'E.P.R. dell'E.Z.L.N.?» o
«Che cosa dice l'E.Z.L.N. dell'E.P.R.?». Come progetto politico non ha
alcun impatto sulla gente. O almeno non ancora, forse bisogna
aspettare. In ogni caso, non possiamo scegliere di tornare a essere
una forza militare come prima, come l'E.P.R. Non possiamo neanche
trasformarci in una forza politica come il P.R.D. E allora che
facciamo?
- Un movimento, non un partito. Y: Avete tentato di farlo nel Forum sulla riforma dello Stato e anche
nel quadro del dialogo, ma forse in modo un po' diluito. No?
M: In modo molto aperto. Abbiamo detto: ecco il tavolo, chi vuole
partecipare si accomodi. Non è stato inutile, hanno avanzato proposte
nuove, o nuove per noi, ma non abbiamo messo insieme una proposta di
accordo, anche perché esiste la paura dell'egemonia, e l'unica forza
riconosciuta da tutti come autorità morale è l'E.Z.L.N., che è armato
e clandestino. Per le organizzazioni sociali, specialmente le ONG, è
un problema: vorrebbero discutere con noi, ma non possono venire a
incontrarci, creerebbe loro difficoltà con l'esercito... Y: Il Fronte è un tentativo di superare questo limite?
M: Sì, con lo stesso problema d'indeterminatezza. La posizione
fondamentale del Fronte è che non esiste organizzazione politica,
bisogna costruirla insieme. Il P.D.R.P., Partito democratico popolare
rivoluzionario [99], o l'E.P.R. hanno un progetto, una organizzazione
con il suo organigramma, eccetera. Il Fronte invece non dice: «Questa
è la nostra dottrina, questi siamo noi. Chi vuole entrare?». Dice:
«Noi non vogliamo il potere. Perciò riflettiamo sul tipo di
organizzazione che vogliamo e costruiamola tutti insieme». E' di nuovo
la «locanda spagnola» che deve definirsi.
Y: Magari un movimento anziché un partito. O no?
M: Esattamente, un movimento che ben presto dovrà definirsi. Per il
momento il Fronte sa quello che non è, ma non quello che è. E' alla
ricerca della propria identità. Noi pensiamo che in ultima analisi né
il Fronte né l'E.Z.L.N. potranno mai avere identità distinte. Uno darà
identità all'altro e viceversa, un'identità nuova e congiunta.
Y: Quindi per il momento siete costretti a combinare l'elemento
militare, il fatto di essere armati, con quello sociale e politico.
Sul piano militare siete una forza simbolica, le armi e i
passamontagna vi conferiscono una certa legittimità di fronte al
paese. Sul piano sociale non sembra che le battaglie sociali siano
confluite verso lo zapatismo, e sul piano politico c'è
l'indeterminatezza di cui parlavamo. Non potete rinunciare a nessuno
dei tre aspetti.
M: No, e con il passare del tempo diventerà anche peggio. Per esempio,
c'è stato il Forum; è politica, l'E.Z.L.N. riesce a dialogare con
forze sociali di tutto il ventaglio, con il centro e tutta la
sinistra. Anche la destra ha parlato con noi, alcuni deputati del
P.R.I. e del PAN, ma non hanno reso pubblica la questione. Sono venuti
a vedere perché erano interessati alla transizione, alla democrazia...
Poi c'è San Andrés, dove il governo riprende la sua politica del
disprezzo, come se ripartissimo da zero. Non presenta alcuna proposta
sulla questione della democrazia, adducendo il pretesto che l'E.Z.L.N.
è un'organizzazione «locale». Nemmeno una proposta per risolvere i
problemi del Chiapas o dei comuni della «zona di guerra», niente. QUALI CAMBIAMENTI? M: Credo di sì. Si è indebolita perché non ha ottenuto alcun
risultato. Le forme d'azione sono sempre le stesse, manifestazioni,
marce, comizi, occupazioni, lettere, dichiarazioni alla stampa. Il
governo ha sviluppato una specie di cinismo, possono esserci migliaia
di persone in piazza e lascia correre, non le reprime ma le ignora. In
fondo queste mobilitazioni vengono organizzate per presentare
richieste al governo, e se il governo non ascolta o non ne tiene conto
si esauriscono. In due anni e mezzo il movimento sociale ha subito un
logoramento enorme. La società civile, secondo me, è sempre scontenta
come prima, altrettanto insoddisfatta e ancora meno fiduciosa. Non si
è ancora fatta luce sull'assassinio di Colosio, hanno detto un sacco
di bugie riguardo alla crescita economica e al resto... Mancano
iniziative che approdino a qualcosa, che ottengano un risultato
concreto. Almeno qualcosa che dia la vera misura del malcontento
sociale, un referendum contro il neoliberismo, una consultazione in
cui ciascuno possa esprimersi sulla politica neoliberista.
- Rivendicazioni e volontà d'autonomia. M: Ma noi non rifiutiamo quello che proviene dal governo: sappiamo
però che non arriverà niente. Il governo ci darà soltanto quello che
riusciremo a strappargli per mezzo della pressione sociale. E' il
motivo per cui dialoghiamo: dare impulso allo sviluppo di un movimento
che lo obblighi a cedere, per esempio su programmi relativi alla
sanità. Non rifiutiamo niente, ci limitiamo a servirci della
resistenza come strumento di pressione, secondo la tradizione che
abbiamo ereditato. In fondo sono sessant'anni che sopravviviamo senza
programmi sanitari; siamo sempre sopravvissuti, non solo in questi
ultimi tre anni di guerra, e abbiamo resistito. E' vero che il tasso
di mortalità non è calato, salvo forse nel '94, quando gestivamo le
cose direttamente. Negli ultimi tre anni la mortalità infantile non è
diminuita, ma non si è nemmeno aggravata... possiamo mantenerla
stabile. Quel che è certo è che il governo non darà niente alle
comunità indie se non ci è costretto. Perché non sono redditizie.
Costruisce l'ospedale di Guadalupe Tepeyac, ma nel momento in cui
Salinas conclude l'inaugurazione, tutte le attrezzature ripartono...
Perché se si cura la gente di qui i giornali non ne parlano e non se
ne ricava nulla. Che senso avrebbe per il governo investire in
programmi sociali se il destino della Selva è lo sfruttamento
petrolifero o l'apertura di miniere di uranio?
Y: Per ottenere voti, hanno sempre fatto una politica clientelare...
M: Sì, ma dato che ragionano, sanno che se non firmano un accordo con
gli zapatisti possono perdere le elezioni anche se spendono tutti i
soldi del mondo, perché la popolazione è zapatista. Perciò ci vuole un
movimento sociale che imponga al governo di investire, di spendere in
servizi sociali pur sapendo fin dall'inizio che non ne otterrà alcun
vantaggio economico o elettorale. Ci vogliono programmi sanitari e di
approvvigionamento efficaci, ma tutto dipende dalla pressione sociale.
Per il momento, spendono milioni, ma ogni funzionario preleva la sua
parte, e quando i fondi arrivano ai villaggi, in pratica non è rimasto
niente.
Y: Tuttavia, benché abbiate imboccato la strada opposta rispetto ai
guatemaltechi, rischiate di ricadere nella trappola delle «comunità
delle popolazioni in resistenza» [102] dell'Ixc n, dall'altra parte
della frontiera, ed è molto pericoloso. Rifiutando di dipendere dallo
Stato si rimane isolati e si finisce per dipendere dagli aiuti
internazionali, ma questo non risolve niente perché la soluzione
politica sarebbe quella di rivendicare i propri diritti.
M: La resistenza mira soprattutto a fare pressione sulla società
perché essa faccia a sua volta pressione sul governo. Direttamente, il
governo non cederà niente.
- Lontano dal mondo operaio. M: Lo zapatismo fatica ad attecchire sul movimento operaio in
generale, non solo sulle "maquiladoras". Ha un forte impatto nelle
comunità indie, fra gli impiegati, gli insegnanti, gli intellettuali,
gli artisti, ma non nella classe operaia messicana. Immagino che ciò
dipenda dalla mancanza di una tradizione operaia nello zapatismo.
Abbiamo radici indie e radici urbane, manca invece l'eredità operaia,
non possiamo costruire un discorso artificiale per la classe operaia.
Non abbiamo mai trovato il modo di entrare in contatto con la classe
operaia, né con i settori regolari né tantomeno con gli altri,
dissidenti, radicali, disorganizzati o supersfruttati come le
"maquiladoras". E' un fallimento evidente.
N: Magari dipende dal fatto che il discorso zapatista è postclassista?
Nazione, umanità, società civile, un nuovo tipo di gruppi sociali.
M: Non siamo nemmeno riusciti a fare in modo che i soldati
riprendessero quella parte del discorso che li riguarda, le idee della
patria, della nazione. Y: Anche Ruta 100? [104].
M: Soprattutto Ruta 100. E' uno dei sindacati che ci criticano più
aspramente. Fa parte dell'M.P.I. [105]., non gradivano affatto i nostri
rapporti con C rdenas. Ci accusavano di essere dei riformisti...
N: Anche gli elettricisti?
M: Il sindacato degli elettricisti ci ha fornito questo generatore,
sono venuti loro a installare l'elettricità. E' il nostro primo
contatto, ma non passa attraverso l'E.Z.L.N., proviene dal Fronte
zapatista. Alcuni comitati di elettricisti, di operai dei telefoni, si
organizzano nel tempo libero per venire a lavorare all'infrastruttura
produttiva delle comunità. Installano le linee di comunicazione, le
linee elettriche, ci forniscono un supporto tecnico, riparano i
motori. E' un'iniziativa del sindacato, non dei singoli individui. Ma
è il risultato del lavoro del Fronte, passa per suo tramite.
- La rivolta delle donne. M: Per prima cosa i compagni hanno dovuto ammettere che le donne sono
diverse, che hanno esigenze diverse, particolari. All'inizio, nel '90,
nel '92, le richieste zapatiste erano generali, i bisogni delle donne
erano assimilati a quelli degli uomini. Nel momento in cui si è votato
in favore della guerra, nel '92, abbiamo deciso di creare delle leggi,
le «leggi rivoluzionarie di guerra», e il Comitato, al massimo
livello, ha chiesto alle donne di fare una proposta. E' il risultato
di una lotta intestina condotta dagli ufficiali zapatisti-donne. E' la
prima scaramuccia al vertice. Gli uomini non ne vedevano la necessità,
ma le donne avevano validi motivi. Dicevano: «Quante volte hai avuto
le mestruazioni? Quante volte hai partorito? Lo vedi che non è la
stessa cosa? E' così, abbiamo problemi diversi». C'erano anche
argomentazioni più complesse: facevamo raccontare a ciascuno come
fosse arrivato a decidere di entrare nella lotta, e abbiamo constatato
che le donne avevano seguito un percorso completamente diverso. Quindi
per prima cosa hanno ottenuto il riconoscimento del diritto di avere
rivendicazioni proprie, poi hanno aperto una consultazione. Era molto
difficile, non solo bisognava che le donne si riunissero in ogni
villaggio per discutere questi problemi, ma a fare la consultazione
dovevano andare per forza loro; e poi era continuamente una rissa per
lasciarle uscire dal villaggio e andare in altre comunità. Una donna
che esce è malvista, è equivoca, è una puttana. UNA VANDEA PROGRESSISTA? M: Permetti innanzitutto che ti spieghi la riluttanza degli zapatisti
e di Marcos ad affrontare la questione religiosa. Y: Gli indios lo hanno sempre fatto, dalla Conquista in poi.
M: Esatto. La religiosità è vissuta così, e accade lo stesso con gli
evangelici, i Testimoni di Geova, gli avventisti e gli altri. Prima la
regione era totalmente, esclusivamente cattolica, poi si sono creati
degli spiragli che sono stati occupati dagli evangelici e da altre
sette protestanti. Soprattutto i testimoni di Geova, la Chiesa del
settimo giorno, gli avventisti... Con l'eccezione degli Altos, dove
sono più chiusi, là ci sono soltanto i cattolici e gli evangelisti.
Y: I cattolici tradizionalisti.
M: Ormai non più... Nella parte zapatista degli Altos, verso Bochil,
Pantelhò, Simojovel, San Andrés, i cattolici sono divisi fra
tradizionalisti e liberali. I liberali sono zapatisti, i
tradizionalisti sono legati ai cacicchi, alle autorità.
- Smetterla con i piagnistei dell'uomo bianco. M: Una parte della società messicana si sente in colpa verso lo
zapatismo, e vorrebbe aiutare gli indios per espiare il proprio
passato. Ma chi entra in contatto con lo zapatismo capisce che le
comunità non gli chiedono alcuna espiazione, che non lo considerano
colpevole. Per gli indios, i bianchi o i meticci non sono nemici, non
hanno un peccato da espiare. Y: Lo trovo molto positivo. Speriamo che lo zapatismo riesca a
liberare dal senso di colpa anche certi europei...
POPULISMO, NAZIONE, MARXISMO M: Certo che no. Senti, per noi il cardenismo, come anche lo
zapatismo, è un sintomo... Lo zapatismo non è l'E.Z.L.N., e il
cardenismo non è C rdenas. Sono due forme di resistenza civile, di
partecipazione della società, due definizioni della stessa cosa,
l'esigenza della società civile di avere un ruolo autentico nelle
decisioni politiche ed economiche. Il cardenismo ha un apparato
politico, il P.R.D., che lotta per il potere, lo zapatismo ha un
apparato politico-militare, l'E.Z.L.N., che ha una sua logica
anch'esso; secondo me questi due apparati portano loro rispettivamente
più problemi che vantaggi. La gente del P.R.D. vede che il cardenismo
esiste, lo zapatismo anche, e che bisogna farli convergere. Secondo
noi non convergeranno, perché sono la stessa identica cosa sotto due
nomi diversi. Gli uni guardano a C rdenas, gli altri all'E.Z.L.N., ma
hanno uguali esigenze e uguali forme di lotta. Y: Intende dire che le richieste popolari hanno parecchi punti in
comune ma le risposte politiche si differenziano molto? La cultura
politica del cardenismo si mantiene nei limiti del sistema politico
ereditato dall'istituzionalizzazione della Rivoluzione...
M: Sì, secondo noi le nostre strade divergono, pur coincidendo per
quanto riguarda la base sociale, o piuttosto in questo sintomo, questa
«malattia» della protesta, della rivolta, della resistenza della
società messicana. L'E.Z.L.N. o il cardenismo hanno successo quando
sanno interpretarla.
N: Il nuovo gruppo dirigente del P.R.D. forse renderà possibile
trasformare questo rapporto fra voi.
M: Non credo. Il rapporto con l'E.Z.L.N. cambia per forza se qualcuno
che è dirigente regionale, o leader di un movimento sociale, diventa
dirigente di un partito istituzionale. L'apparato di partito plasma le
persone. Lòpez Obrador [111], presidente del P.R.D., non è più il
Lòpez Obrador che dirigeva l'occupazione dei pozzi di petrolio nel
Tabasco. Deve tenere conto di altri fattori, stringere altri rapporti.
Deve stabilire rapporti diretti con il potere, non più come
oppositore, ma come capo di un partito politico che è almeno il terzo
del paese e tutto questo lo trasformerà. E' comunque meglio di
Porfirio Munoz Ledo... ma non conto molto su un riavvicinamento fra
l'E.Z.L.N. e il P.R.D., hanno progetti politici diversi.
Y: Nella prima dichiarazione della Selva Lacandona parlavate di
«settant'anni di dittatura», includendovi perciò anche il governo di
L zaro C rdenas, 1934-1940. Nello zapatismo si riscontra una critica
abbastanza radicale a una certa cultura politica verticistica,
statalista, corporativa, ma in alcuni comunicati talvolta si trovano
tracce di populismo. Penso a una frase...
N: ... «Nella nostra concezione della democrazia, quando qualcuno
vince, vuol dire che ha promesso qualcosa e deve tener fede
all'impegno.» Credo che sia nel discorso di chiusura del Forum sulla
riforma dello Stato. Non è un po' clientelare?
M: Se l'ho detto, avevo torto... non credo di aver detto così. L'idea
era che il potere, e nel caso specifico il governo, deve fare quello
che la società esige da lui. Mi sono espresso male, o c'è stato un
errore di trascrizione, non parlavo di promesse materiali.
Semplicemente, chiunque arrivi al potere deve rispettare i voleri
della società, deve renderle conto. Deve governare obbedendo alla
società. Non intendevo dire che se ha promesso di costruire una strada
deve fare una strada, sarebbe un modo di vedere clientelare. Y: E' un terreno scivoloso anche a livello latinoamericano? Il gruppo
di Sao Paulo si è appena riunito a San Salvador [113]. Nemmeno il loro
rapporto con lo zapatismo è molto chiaro... C'è una cultura populista
latinoamericana che si sente giudicata dallo zapatismo, che non vi si
riconosce, ma che gradirebbe molto attirarlo a sé per fare una cura di
giovinezza...
M: Una dose di sangue fresco a un cadavere!
Y: Ma talvolta si può morire...
M: ... contenti!
Y: ... soffocati dai propri amici...
M: Si può morire contenti, si può morire tristi, come dicono da noi!
- Che nazione in un mondo globale? M: Paradossalmente, il gruppo di indios molto politicizzati di cui
abbiamo parlato e la maggior parte dei capi indigeni delle comunità
non guardavano all'America centrale ma al centro, a Città del Messico.
Il gruppo indio con cui abbiamo incominciato a lavorare aveva
aspirazioni messicane, non centroamericane. In quanto maya avrebbe
dovuto intendersi con gli altri maya, invece il suo punto di
riferimento era il Messico. Nella zona settentrionale, chol e tzotzil,
spesso gli uomini vanno a lavorare per qualche anno nel Tabasco come
braccianti agricoli o anche come operai della Pemex [114], è una
cultura politica più aperta. Quelli degli Altos che non hanno terra
devono prenderla in affitto, cedono una parte del raccolto e si
portano a casa l'altra, è gente abituata a uscire dai villaggi. Nella
zona più isolata, che è la Selva, c'era già la Quiptic e c'era
soprattutto la minaccia di espulsione. Il governo aveva decretato
l'esproprio della Selva Lacandona e l'esercito federale stava per
cacciarli, avevano dei problemi con il governo federale, non con
l'America centrale, e dovevano difendersi... Y: Non c'è stata soluzione di continuità? Siete dei meticci, venite
dal Messico settentrionale... Incontrate il gruppo che fa da ponte...
M: Ricordati che il nostro gruppo non viene dal Nord e nemmeno dalla
città. Arriva nelle comunità attraverso la montagna. Questo ha
facilitato le cose.
Y: E voi vi definireste ancora una rivoluzione nazionale? Firmereste
di nuovo quella lettera a Carlos Fuentes in cui salutate «il
messicano»? Vi considerate portatori del valore della «nazione»?
M: Ci consideriamo piuttosto il sintomo della necessità urgente di
ridefinire questo concetto nel processo di globalizzazione. Siamo di
fronte a un paradosso: per sopravvivere, le nazioni devono
mondializzarsi, e quindi cessare di essere nazioni. Questo implica una
perdita di identità culturale e un costo sociale enormi. Nel corso del
processo le nazioni devono ridefinire la propria storia, e lo
zapatismo segnala che la gente si preoccupa per il Messico perché teme
che il paese scompaia a causa della globalizzazione. Non è solo una
questione culturale, ma anche sociale e politica, il paese rischia di
cessare di esistere, di trasformarsi in un frammento perduto fra una
miriade di frammenti schierati gli uni contro gli altri. La nostra
storia ha reso i messicani molto sensibili all'idea di nazione, che è
stata seriamente intaccata negli ultimi anni. Gli eroi sono nei musei
e nelle scuole; e la storia nazionale insegnata nelle scuole era
ridicola.
N: Quando si leggono i documenti zapatisti, si ha l'impressione che il
concetto di nazione, di patria, abbia un ruolo strategico. Appare come
uno scenario su cui articolare le diverse lotte, una bandiera per
chiamare a raccolta la gente in un mondo che sta frammentandosi, in
cui i movimenti sociali non possono più raggrupparsi come prima
intorno all'asse della classe operaia. La nazione come spazio di
resistenza, quest'espressione ricorre diverse volte.
M: Credo di sì. Ricordati che si tratta di un movimento indio che
aspira a cessare di essere tale, un movimento fiero di essere a
maggioranza india, ma che rifiuta di essere limitato a questo. Il
concetto di nazione è il suo modo di aprirsi, di diventare nazionale,
di allargarsi, è fondamentale per gli zapatisti. E' quello che
accomuna l'operaio di Città del Messico o del porto di Veracruz, il
clandestino che attraversa la frontiera a Tijuana, l'indio dello
Yucat n, l'impiegato di un'agenzia turistica di Canc£n, o la lavorante
di un salone di bellezza di Città del Messico... parlo di persone che
esistono realmente, che ci scrivono. Che cosa le chiama a raccolta
intorno a noi? Un ponte, un punto in comune, la speranza di
partecipare. Non dicono «poveri indios, hanno ragione», ma «anche noi
vogliamo costruire questo paese insieme, accoglieteci perché dite che
in questo progetto di nazione anche noi abbiamo il nostro posto. Non
vogliamo più restare spettatori della storia, vogliamo fare la nostra
parte». E' questo che attira la gente di diversi ambienti sociali.
Tutto richiama continuamente il carattere indio dello zapatismo,
quindi lo zapatismo deve insistere continuamente sulla questione
nazionale.
- Zapatismo e marxismo. M: Sì, ma era una cosa che stava maturando da molto tempo, da quando è
incominciato il processo di traduzione del marxismo-leninismo
universitario nella cultura india. Una traduzione che andrebbe
chiamata piuttosto trasformazione. Ho letto da qualche parte che chi
traduce poesia in realtà è un poeta; nel nostro caso, i veri creatori
dello zapatismo sono stati i traduttori. I teorici dello zapatismo
sono persone come il maggiore Mario, il maggiore Moisés, il maggiore
Ana Marìa, tutti coloro che hanno dovuto tradurre in dialetto, Tacho,
David, Zevedeo... Hanno costruito un nuovo modo di vedere il mondo.
Y: L'ex professore di filosofia di un certo Rafael Guillén dice che
Marcos non ha più nulla di marxista, o comunque di un marxista
althusseriano, che non ha più nulla di rivoluzionario... che ne pensa
Marcos?
M: Magari Marcos non è più marxista, ma non so se bisogna
rimproverarglielo o ascriverglielo a merito. Penso che Marcos, sempre
il personaggio, per ora sia riuscito a essere uno strumento al
servizio delle comunità, che sia stato utile perché le comunità
potessero esporre i loro problemi e portare a buon fine l'impegnativa
traversata avviata con la guerra del 1994. Il problema riguardo a
Marcos è di sapere se egli può restare uno strumento, e per quanto
tempo. O se sta arrivando il momento in cui il personaggio dovrà
sparire. Y: Castaneda dice «riformismo armato»...
M: Pubblica "La utopia desarmada" e, zac!, arriva l'E.Z.L.N.. Aggiunge
un postscriptum, «d'accordo, sono riformisti armati» e zac! arriva
l'E.P.R. che dice: «Noi siamo rivoluzionari, vogliamo prendere il
potere e siamo armati!». Secondo me è tutta una campagna contro il
libro di Castaneda, per far calare le vendite. Altrimenti è
inspiegabile!
LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO E CUBA, VISTE DAL DESERTO DELLA
SOLITUDINE M: Per noi significava il deserto assoluto. Eravamo in montagna, in
totale solitudine. Ci ha costretti a mettere in discussione l'idea che
una concezione del mondo potesse imporsi pur senza essere
costantemente messa in discussione da quanti erano destinati a
beneficiarne. A colpirci nella caduta del muro di Berlino, anzi di
tutto il blocco socialista, era soprattutto il beneplacito delle
popolazioni che in teoria il socialismo aveva liberato e che ora
venivano liberate dal socialismo. Era un grave ammonimento... Non
potevamo spiegarlo semplicemente, da lontano, come i mezzi di
informazione, accontentarci di dire: è un palese fallimento, la gente
era asservita... Y: E Cuba?
M: Cuba è un'altra storia: il governo cubano segue verso l'E.Z.L.N. la
stessa politica dei movimenti di liberazione nazionale
latinoamericani, ma in peggio, perché è un governo e tiene
particolarmente ai suoi rapporti con il Messico. Quindi, non ci pensa
nemmeno ad aiutare un movimento in Messico, e nel caso specifico non
noi. L'idea era sempre la stessa, il Messico aveva la funzione di
sostenere la Rivoluzione cubana. Ma per molti compagni Cuba era, e per
alcuni è ancora, un'isola solitaria di dignità. Nonostante tutto,
secondo loro, che lo si voglia o no, il governo ha il sostegno della
maggior parte della popolazione, c'è una guerra interna e devono
essere i cubani ad attuare il processo di decantazione, di
trasformazione, di cui la società cubana ha bisogno. N: Un partito unico, niente sindacati liberi, sono problemi di
principio, no? Forse la rivoluzione cubana è un'altra cosa ma il
regime attuale di Cuba è in piena contraddizione con tutto quello che
dite sulla democrazia, il pluralismo, i movimenti sociali.
M: Per forza. Qualsiasi forma di potere è in contraddizione con quello
che diciamo. Non c'è paese al mondo che corrisponda alle aspettative
degli zapatisti... Ma nel caso specifico, con la scelta
dell'isolamento, abbiamo deciso di mantenere le distanze, esattamente
come i cubani hanno fatto con noi. Non parlano di noi, né in bene né
in male, noi facciamo lo stesso. Diciamo che ci osserviamo... a buona
distanza socialista, e nulla più.
N: Per tornare alla caduta del blocco cosiddetto socialista, oggi
l'analizzate come una sconfitta o come un'apertura? Senza la caduta
del muro, lo zapatismo sarebbe stato possibile?
M. Non lo so. Per noi è una sconfitta perché lo analizziamo dal punto
di vista militare, intendo dire in termini di conflitto politico. Si
affrontavano due grandi forze, e una delle due ha perso. Perché?
Evidentemente perché l'altra era più forte. Bisognerebbe sapere perché
il blocco socialista non è riuscito a farle fronte, e comunque la
prova che si tratta proprio di una sconfitta la fornisce quanto è
accaduto dopo: un'ascesa generale della destra in tutto il mondo. Con
la scomparsa dell'Unione Sovietica non si instaura un potere
democratico e aperto, ma Eltsin, e subito dopo scoppia la guerra in
Cecenia. In altre parole, dopo la caduta del muro si verifica una
serie di altre guerre e frammentazioni, anziché la comparsa di un
mondo aperto, più pluralistico. Non voglio dire che quanto è scomparso
fosse buono, ma che la sua scomparsa non ha risolto niente. Inoltre,
la sinistra mondiale è prostrata dal pentimento, dal senso di colpa,
oppure sceglie il cinismo, la fuga a destra, tutto questo processo di
decomposizione... Y: Ma forse il neozapatismo non sarebbe stato possibile in una
situazione di scontro fra i due blocchi. Sarebbe stato possibile
inventare qualcosa di nuovo?
M: No, non credo. Lo zapatismo non sarebbe esistito. Avrebbe seguito
la via degli altri movimenti di guerriglia tradizionale e avrebbe
fallito, o saremmo ancora in montagna ad aspettare il momento
propizio. No, di certo lo zapatismo non esisterebbe, e nemmeno Marcos,
niente. Una buona ragione di più per dispiacersi! Maledetti
socialisti! Non saremmo a La Realidad a chiacchierare di tutte queste
cose e a sopportare il fango, la pioggia e le zanzare...
- Il marxismo-leninismo può essere accolto nello zapatismo? M: Mi ricordo che la biblioteca di Aguascalientes, a Guadalupe
Tepeyac, che era molto più grande di questa, aveva una collezione
estremamente ricca di marxismo-leninismo. La gente ci mandava tutto
quello che non voleva più, le opere complete di Engels, di Marx,
Lenin, Mao, Castro, c'era tutto... ma in pratica niente romanzi,
poesia o teatro...
Y: Non c'è molto nemmeno sullo zapatismo.
M: Sparisce tutto! Scherzavo con le ragazze che facevano le
bibliotecarie: «Quando arriverà l'esercito, andrà sul sicuro!»,
c'erano gli scaffali pieni, nient'altro che libri logori e talvolta
vecchi di vent'anni... La gente se ne sbarazzava, ne arrivano ancora.
Y: I servizi segreti hanno dedotto sicuramente che eravate degli
«albanesi»!
M: Probabilmente si arrovellano per capire se siamo trotzkisti,
castristi, maoisti, guevaristi, stalinisti di Tirana... Avevamo anche
le opere complete del compagno e grande dirigente Kim Il Sung...
LA GUERRA DEI SIMBOLI E DELL'INFORMAZIONE M: Gurrìa, sì, il commesso viaggiatore del governo messicano...
Y: E' vero che la comunicazione è molto importante, la comunicazione,
le immagini, i simboli, è anche per questo che si è parlato di
guerriglia postmoderna. Non è una guerra di pallottole, quanto
piuttosto una guerra di comunicati, di parole. Che ne pensa?
- Una guerriglia postmoderna? Y: Uno dei suoi figli si chiama Emiliano...
M: E il suo aereo si chiamava Emiliano Zapata... Perciò insorge subito
una disputa sull'immagine storica di Zapata, che consente un primo
incontro grazie al quale l'E.Z.L.N. ripensa il suo linguaggio
politico. Non si tratta di inventare una lingua nuova, ma di dare un
senso nuovo alle parole, e soprattutto alla storia, all'interno del
discorso politico. Per questo rinnovamento torniamo indietro,
attingiamo alla tradizione culturale india per ritrovare antichi
personaggi, antiche idee, e confrontarli con quelli nuovi costruendo
così il nuovo linguaggio zapatista. Una lingua postmoderna, possiamo
dire, che paradossalmente si alimenta di premodernità storica. Cerca i
propri terreni di lotta, la stampa, i simboli, e occupa gli spazi a
mano a mano che compaiono. Y: Quali?
M: Per esempio, abbiamo criticato la sinistra in blocco e poi abbiamo
dovuto rettificare, sfumare. In politica le sfumature sono importanti,
è pericoloso generalizzare. Lo zapatismo è molto brusco, precipitoso,
maldestro, non conosce distinzioni, fa di ogni erba un fascio, dà una
sola etichetta alla gente per bene e a quella che lo è meno... Per
esempio, con il P.R.D., il cardenismo, altre forze sociali... Y: E' il rischio che si corre, no? Il politichese protegge da questo
genere di scivoloni...
M: Sì, gli schemi proteggono da queste cose, tutto sommato. Il
discorso zapatista è troppo morbido, questo gli ha permesso di
ruotare, ma anche di scivolare...
Il nostro discorso, il discorso zapatista, ha due basi portanti, la
tolleranza e la necessità di abbracciare molte componenti diverse.
Perciò subisce anche questo genere di pressioni: tutto quello che
appare irrispettoso, o intollerante, anche solo nella scelta delle
parole, viene subito criticato con durezza.
N: Nella creazione di questa lingua, i postscriptum di Marcos hanno un
ruolo a parte; il Comitato non ha mai protestato, criticato alcune
pazzie?
M: Certo! Prima del dialogo nella cattedrale c'è stato un postscriptum
che chiedeva: «Quanto per un passamontagna? Quanto per la foto
segnaletica di Marcos dalla cintura in giù?». Non è piaciuto ai
compagni del Comitato. Io non avevo capito, dicevano, che il
passamontagna era diventato il simbolo dello zapatismo, che non potevo
parlarne così. Per noi, all'inizio, il simbolo era il "paliacate"
[116], il passamontagna aveva solo una funzione pratica... Mi hanno
convocato per rimproverarmi: «Non hai capito che il passamontagna è
diventato il simbolo dello zapatismo al posto del "paliacate". Non
puoi svilirlo in questo modo, credi di scherzare su te stesso e invece
scherzi sul simbolo dello zapatismo, e noi non siamo d'accordo».
N: E i riferimenti al movimento gay o lesbico - frequenti nei discorsi
di Marcos - come vengono accolti?
M: Paradossalmente, nelle comunità indie i gay non vengono
perseguitati. Si fanno battute, si scherza, ma non sono né esclusi né
perseguitati. Inoltre, sin dal primo momento la gente ha visto che il
movimento gay, soprattutto quello messicano, mandava aiuti: si sono
fatti spiegare che movimento fosse, e sono rimasti colpiti non tanto
dall'aspetto sessuale, quanto dall'emarginazione sociale: «Devono
nascondersi per essere ciò che sono, proprio come noi dovevamo
nasconderci per essere zapatisti...».
- Parlare al cuore. M: Quando eravamo in montagna abbiamo dovuto trovare un modo di
spiegare le nostre analisi politiche che risultasse comprensibile per
un'altra cultura, far capire che cosa vuol dire sistema produttivo,
lotta di classe, dittatura del proletariato, gruppo al potere... Non è
una questione di analfabetismo. La cultura india assimila tutto
attraverso i simboli, ed era impossibile indottrinare la gente senza
cadere nel totale dogmatismo, nella militarizzazione, farle imparare a
memoria la dottrina marxista-leninista al posto del catechismo.
Bisognava creare dei ponti, adattare i simboli. Il discorso si è
trasformato senza che ce ne rendessimo conto. Davamo una spiegazione
schematica tipica di un'organizzazione politico-militare: noi, i
buoni, da una parte, e loro, i cattivi, dall'altra; i combattenti
indios la traducevano e quando il discorso arrivava ai villaggi non
era più lo stesso, i simboli lo avevano arricchito di elementi nuovi,
l'avevano decantato, l'avevano fatto diventare un'altra cosa. Nel '94,
quando abbiamo incominciato a parlare, abbiamo usato lo stesso
sistema, ma in senso opposto. Il vecchio Antonio aveva tradotto il
mondo indigeno per Marcos, e Marcos riprendeva il suo linguaggio per
trasmetterlo al mondo esterno. Y: E' una critica al «guerrigliero eroico»...
M: Sì, quando Durito racconta come cado nel fango, quando il vecchio
Antonio ride a proposito delle nostre manovre in montagna... La
derisione serve anche a mostrare che non siamo così eroici, che non
siamo poi dei superuomini... E' il lavoro di Durito, impedire che gli
zapatisti si considerino quello che a volte qualcuno ha detto di
loro... Ci sono persone che ci considerano dei modelli, dei grandi
eroi, chissà che altro... E' importante ricordare che gli zapatisti
sono persone come le altre, che il caso li ha messi dove sono ma che
non hanno niente di speciale.
«MARCOS DEVE SPARIRE»
Maggiore Moisés: quali sono le prospettive?
Y: Che alternative ci sono oggi? Togliersi il passamontagna?
Continuare come ora? Tornare alla lotta armata? Esistono altre
possibilità? Y: Cioè abbandonare le armi?
M.M.: Le comunità hanno deciso: potremo deporre le armi soltanto
quando non ci sarà più niente da fare. Potremo lasciare le armi quando
avremo la sanità, gli alloggi, l'istruzione, il lavoro, la terra.
N: E' la garanzia estrema?
M.M.: Sì. Il problema non sono tanto le armi. Le armi spariranno
quando non ci sarà più nulla da fare per i contadini, per i fratelli
delle città. Ma senza le armi non si ottiene nulla, per questo sono
comparse.
Y: Ma con le armi potete gettarvi nella lotta pubblica, nel dibattito,
nelle comunità indie, nelle piazze di città e villaggi, in altri
Stati?
M.M.: No, certo... Finora abbiamo sempre cercato di mantenere la
parola, abbiamo sempre fatto quello che promettevamo: il dialogo nel
'94, la Convenzione, la Consultazione, l'Incontro continentale... E'
la stessa cosa. Manterremo la parola. Dipenderà dalla situazione.
Y: Non è facile immaginare che riprendiate la via delle armi, un po'
come l'E.P.R. Sembra difficile una ripresa della guerra, no?
M.M.: Potrebbe capitare benissimo, perché il governo dimostra in tutte
le occasioni di volere proprio questo. Noi diciamo che non vogliamo la
guerra, ma che dall'altra parte alcuni la vogliono. Non sarebbe poi
così strano, ci provocano continuamente in questo senso.
Y: Ma significherebbe cadere nel tranello.
M.M.: Dipende dalla gravità della situazione, e dalla decisione dei
nostri compagni. E' soprattutto questo, se non fai quello che decide
il popolo, il popolo ti sfugge di mano... Non tocca a noi soldati
decidere. Faremo quello che dirà la gente. E' bello fare quello che
dice il popolo.
Y: A parte le manipolazioni e le provocazioni provenienti dallo Stato,
si potrebbe pensare che vi provochino anche gruppi come l'E.P.R...
M.M.: Sì, ma come posso dire... Si tratta di vedere come vuole lottare
il popolo messicano. Si renderanno conto se il popolo messicano vuole
seguirli. Come è successo a noi. Abbiamo visto che con le armi non ci
avrebbero seguito. Abbiamo dovuto lavorare con il popolo, è quello che
facciamo, e continueremo a farlo. E con esso moriremo, se necessario.
Sarà il popolo a dirci se siamo sulla buona strada. Se non rimane
altra soluzione. Come dicevamo nei primi giorni: siamo dovuti
insorgere perché non c'era più altro sistema. Avevamo tentato di
lavorare nelle organizzazioni controllate dal governo, poi siamo
passati alle organizzazioni indipendenti, ma in cambio avevamo sempre
e soltanto torture, omicidi, incarcerazioni, persone scomparse. E'
stato questo a farci decidere di impugnare le nostre lance, come
dicevamo, e quel po' di armi che avevamo.
Y: Vorrebbe aggiungere qualcosa?
M.M.: Secondo me su questo pianeta che si chiama Terra esistono due
modi di vivere: ci sono gli sfruttati e gli altri, quelli che
sfruttano. Molte cose devono cambiare... Tutte le furberie, gli
inganni, le cose che permettono loro di mantenere il dominio sui
poveri. N: E' consapevole della responsabilità che vi siete assunti verso
tutti quelli che vedono in voi una speranza per il loro avvenire?
M.M.: Il problema è che noi zapatisti non siamo in molti. Essere
zapatista è semplicissimo, vuol dire soltanto essere cosciente. Capire
che cosa succede e che cosa vogliamo. La responsabilità consiste nel
prendere le cose sul serio. Lavorare per davvero. Quelli che
saccheggiano i paesi lo fanno sul serio. Allora anche noi dobbiamo
fare le cose seriamente. Fare tutto il possibile perché la vita sia
giusta, degna e pulita.
- Che cosa diventerà lo zapatismo dopo Marcos? Y: Avete previsto l'aspetto pratico, ma dal punto di vista simbolico,
politico, che succede se lo zapatismo perde il suo ponte verso
l'esterno?
M: Sì, capisco. Senti, abbiamo tentato di preparare altre persone per
mantenere questo ponte, i delegati al dialogo di San Andrés, quelli
che fanno dichiarazioni pubbliche, che concedono interviste. E' come
la distruzione di Aguascalientes: ne hanno raso al suolo uno, ne
abbiamo ricostruiti cinque. Se distruggono Marcos, che è un portavoce,
ci saranno cinque, dieci portavoce diversi che parleranno
contemporaneamente della stessa cosa. Tacho, David, Zevedeo. Dovranno
far cadere molte teste per liquidare lo zapatismo. N: Ci sarebbe un rischio di balcanizzazione del movimento...
M: Se pensi al rischio di scontri interni no, ma potremmo veder
nascere iniziative differenziate, questo sì. Per etnie, per esempio:
potrebbe esserci un esercito chol, un esercito tzotzil, un esercito
tzeltal, o un esercito tojolabal e ciascuno prenderebbe iniziative
autonome su come condurre i negoziati, e decisioni politiche o
militari. Potrebbe accadere. Abbiamo tentato di controllare questo
rischio attraverso i comitati, il Comitato principale è interetnico.
Ma il rischio c'è. - Che cosa diventerà Marcos dopo Marcos? M: Sì, non ci tengo affatto a diventare un martire. Preferisco vivere.
Preferiamo tutti Marcos vivo, giusto? Quando facciamo qualcosa, in
generale, cerchiamo di farlo bene, che non ci siano né morti né
feriti. La temerarietà non serve a niente; azioni coraggiose sì, ma
ben fatte.
Y: L'ipotesi migliore, ed è quello che desideriamo anche noi, è che
Marcos resti vivo. Ma quando Marcos non sarà più Marcos, che
personaggio vorrebbe essere? Rafael Guillén, un filosofo, un gesuita,
un antropologo, un giornalista, il figlio "desaparecido" della Rosario
Ibarra, un alto funzionario?... O, come ha detto un giorno, qualcuno
che resterebbe nelle comunità con i suoi, con quelli che hanno creato
Marcos? O qualcos'altro ancora?
M: Ritengo che Marcos, il personaggio Marcos, debba morire, non so
quando, ma è certo che morirà. Se resta vivo, dovrà trasformarsi in
una cosa completamente diversa, confrontarsi con il personaggio e
decidere. O meglio, le comunità, i compagni dovranno decidere con lui.
Quando verrà il momento, se possibile vorrei tornare alla vita in
comunità. Non credo che potrei riprendere la mia vita di prima della
montagna, ma mi piacerebbe ritrovare, se non l'anonimato, almeno la
vita quotidiana di prima del '94... un contatto più diretto con la
gente, senza questo gioco di simboli con tutte le sue implicazioni. E
fare quello che facevo prima, scrivere, chiacchierare, imparare. Ma
non ritornare in città, non credo che sarebbe possibile.
Y: Lo preferirebbe?
M: No, a dire la verità no. Quello che ho visto fuori non mi è
piaciuto. Il sistema si impadronisce di tutto e lo riplasma, si sente
subito, tutto quello che gli può servire. Il clima è molto... parlo
del clima politico, è difficile immaginare Marcos che torna alla vita
civile per ritirarsi nel privato, non credo che glielo
permetterebbero. In città dovrebbe entrare in politica, e a quanto ho
visto puzza; o quanto meno il sistema politico messicano: puzza di
marcio.
Y: Comunque lei si è assunto certi impegni, e poi Marcos è un animale
politico, mi riesce difficile immaginarlo rinunciare all'ambizione di
cambiare la politica.
M: Vuoi dire alla maledizione!
Dovrà decidere come. Non penso che cadrà nell'errore di tentare di
cambiare la politica dall'interno. E' un'illusione. Credo che la
politica si cambi facendo un'altra politica. E in questo senso è
importante l'attività politica delle personalità, dell'élite, di
vertice, che ha tentato di integrare Marcos. Y: Diciamo che gli zapatisti ci hanno reso ottimisti, penso che
abbiate fatto molto e che potrete fare ancora di più in questo senso.
M: Anch'io credo che abbiamo fatto molto, ma il potere ce la farà
pagare. Un giorno ci presenteranno il conto. E se Marcos concentra su
di sé riflettori e microfoni, concentra anche i mirini telescopici. Il
potere non lascerà impunito questo affronto. Noi non offriremo i
nostri petti valorosi alle pallottole degli assassini! Ci nasconderemo
con cura!
Y: E' di nuovo la sindrome di Chinameca e di Tlatelolco. La storia
messicana non può sfuggire alla tragedia?
M: La dissidenza messicana non ancora... facciamo tutto quello che
possiamo. Non aspiriamo a fecondare con il nostro sangue la
liberazione del Messico. Francamente preferiremmo fecondarla vivendo!
Recentemente qualcuno, ma non un combattente, ha scritto su un
giornale: «Gli zapatisti si batteranno fino all'ultimo uomo»; abbiamo
riso di gusto io e il maggiore: che ne sa, lui, pensavamo! - L'ultima domanda... M: Perché non sono io... Intanto è un problema estetico, non ricevo
più lettere dalle donne! E' vero, non scherzo, avevo molto più
successo prima che venisse fuori questa storia. La campagna di stampa
ha fatto dei danni, ricevo sempre lettere, ma non più lettere d'amore
come nel '94! Y: La Brigitte Bardot da cui aspetta una lettera non esiste più da
molto tempo...
M: Allora da Jane Fonda...
NOTE
1. La Rivoluzione messicana (1910-1920).
2. Miguel Hidalgo, José Marìa Morelos e Vicente Guerrero sono eroi
dell'Indipendenza messicana.
3. Il gruppo di guerriglieri diretto da Arturo G miz fu decimato
all'epoca dell'attacco alla caserma Madera, nello Stato di Chihuahua,
il 23 settembre 1965. In seguito uno dei molti gruppi politico-
militari messicani degli anni Settanta ha scelto come nome questa
data.
4. Napoleòn Glockner, membro delle Fuerzas de Liberaciòn Nacional,
fu arrestato nel 1974, poco prima che la polizia e l'esercito
incominciassero le operazioni contro le basi di questa organizzazione
a Nepantla, nello Stato del Messico, nel territorio El Diamante e
nello Stato del Chiapas. Nel 1976 Napoleòn Glockner e la sua compagna,
Nora Rivera, furono assassinati a Città del Messico in circostanze
rimaste oscure. In "La rebeliòn de las Canadas" (Ciudad de México, Cal
y Arena, 1995) Carlos Tello Dìaz afferma che furono giustiziati dai
guerriglieri per tradimento.
5. "Chingado": passivo, umiliato, vessato. «"Chingar" comporta
l'idea della sconfitta, dello scherno e dell'umiliazione, di cui si è
vittima» (Octavio Paz, "Il labirinto della solitudine", Milano, Il
Saggiatore, 1982).
6. Confronta prima parte, par. "Il Chiapas".
7. L'attuale quartier generale degli zapatisti si chiama La
Realidad. Ma contrariamente a La Pesadilla, non hanno scelto loro il
nome di questo paese, dove si sono ritirati a seguito dell'offensiva
dell'esercito, nel febbraio del 1995.
8. Uniòn Revolucionaria Nacional Guatemalteca; unione delle
organizzazioni di guerriglia guatemalteche, costituitasi nel 1982.
9. L'offensiva del fronte sandinista di liberazione nazionale si
conclude il 19 luglio con la presa di Managua e la caduta di Somoza.
10. Frente Farabundo Martì de Liberaciòn Nacional: unione delle
organizzazioni di guerriglia salvadoregne.
11. L'offensiva lanciata dalla guerriglia salvadoregna fallisce
dopo un combattimento all'ultimo sangue nella capitale.
12. Organizaciòn del Pueblo en Armas: una delle componenti
dell'U.R.N.G., diretta da Rodrigo Asturias, alias Gaspar Ilom, figlio
del premio Nobel per la letteratura Miguel Angel Asturias.
13. Il Comité Clandestino Revolucionario Indìgena (C.C.R.I.)
fondato nel 1993: organo direttivo dell'E.Z.L.N.
14. Rangers, marines, seals: unità speciali delle forze armate
statunitensi, con il compito di intervenire in altri Stati.
15. Il termine deriva dal nome di Cuauhtémoc C rdenas, figlio di
L zaro C rdenas (presidente dal 1934 al 1940) di cui prosegue la
tradizione populista.
16. Secondo l'uso messicano, Marcos utilizza il termine «dialetti»
per indicare le lingue indie.
17. Polìtica Popular (P.P.), organizzazione maoista che si è scissa
in Lìnea de Masas e Lìnea proletaria. I "pepes" si sono insediati nel
Chiapas a partire dal 1977, con l'aiuto di gruppi progressisti
all'interno della Chiesa cattolica. Vi erano noti come "los de
Torreòn" oppure "los Nortenos", perché venivano dal Messico
settentrionale. All'inizio degli anni Ottanta sono entrati in urto con
la diocesi, e i loro principali dirigenti si sono ritirati dal
Chiapas.
18. Nel marzo del 1994 l'E.Z.L.N. ha consultato la propria base
sugli esiti del dialogo di pace.
19. Vot n e Ik'al sono figure mitiche maya. Confronta E.Z.L.N.,
"Documenti e comunicati dal Chiapas insorto", vol. 2, cit., p. 160.
20. Il primo dialogo fra zapatisti e rappresentanti governativi si
svolge tra febbraio e marzo del 1994 nella cattedrale di San Cristòbal
de Las Casas, in presenza del vescovo, monsignor Samuel Ruiz, che
riveste il ruolo di mediatore.
21. "El Sup" o "el Sub", diminutivi di subcomandante.
22. Il Comité Clandestino Revolucionario Indìgena raccoglie i
rappresentanti dei comitati di base, composti a loro volta dai
rappresentanti delle comunità zapatiste.
23. Questi colloqui avvengono in un momento di intermediazione
(siamo nella seconda metà dell'agosto del 1996): gli zapatisti
consultano la loro base riguardo al fallimento della fase dei
negoziati di San Andrés Larr inzar sulla riforma dello Stato, ed
esprimono una valutazione dell'Incontro intercontinentale per
l'umanità e contro il neoliberismo (27 luglio - 3 agosto).
24. Vedi "La preistoria", nota 3.
25. Carlos Salinas de Gortari è stato presidente della Repubblica
dal 1988 al 1994.
26. Angélica Marìa, cantante messicana di pop-rock molto famosa
negli anni Sessanta, oggi attrice di telenovelas. Gloria Trevi,
cantante di varietà e sex symbol.
27. Fidel Vel squez, che attualmente ha superato i novantacinque
anni di età, dirige da parecchi decenni l'organizzazione sindacale
ufficiale (Confederaciòn de los Trabajadores de México, CIM).
28. Ocosingo, una delle città conquistate dagli zapatisti nel
gennaio del '94, è stata teatro di scontri cruenti.
29. Il presidente Ernesto Zedillo, eletto il 21 agosto 1994, ha
assunto la carica il primo dicembre dello stesso anno.
30. Uniòn de Uniones e Asociaciòn Rural de Interés Colectivo
(ARIC), organizzazioni contadine.
31. La distruzione della Selva Lacandona diventa un tema di
dibattito pubblico a partire dal 1986, ma è l'amministrazione Salinas
che, dal 1988, attuerà i provvedimenti più importanti contro
l'abbattimento degli alberi.
32. Confronta prima parte, par. "Il movimento degli indios,
dall'unione alla disunione".
33. Adolfo Orive, Marta Orantes, René Gomez, dirigenti maoisti, si
sono stabiliti nel Chiapas nella seconda metà degli anni Settanta,
alla guida della Uniòn de Ejidos-Quiptic ta lecubtesel, e vi sono
rimasti fino al 1983, quando sono stati espulsi.
34. L'E.Z.L.N. distingue tre livelli di partecipazione: gli insorti
o truppe regolari, i miliziani, che sono riserve mobilitabili in seno
alle comunità, e le basi d'appoggio, costituite dalla popolazione
civile delle comunità aderenti allo zapatismo. Ma in questi colloqui,
come in altri testi degli zapatisti, i confini fra le categorie
restano vaghi e le cifre corrispondenti a ciascuna imprecise.
35. 10 aprile: anniversario dell'assassinio di Emiliano Zapata
(1919). 17 novembre: anniversario della fondazione dell'E.Z.L.N.
(1983). 16 settembre: festa nazionale messicana, anniversario del
«grido di dolore», l'appello all'insurrezione che dà inizio alla
Rivoluzione messicana (1810).
36. All'epoca delle elezioni del 1988, Cuauhtémoc C rdenas del
Partido de la Revolucion Democr tica mette in difficoltà il candidato
ufficiale, Carlos Salinas de Gortari. Quest'ultimo risulta vincitore
dopo un «guasto» del sistema computerizzato di conteggio dei voti.
37. Nel 1992 il governo Salinas fa promulgare una rettifica
dell'articolo 27 della Costituzione, chiave di volta della riforma
agraria dalla Rivoluzione.
38. Comunità priiste: comunità controllate dal P.R.I.
39. Il governo tenta di dividere le comunità e di allontanare la
popolazione dallo zapatismo concedendo titoli di proprietà,
promettendo servizi e aiuti.
40. Luis Hern ndez Navarro, "Chiapas: La Guerra y la Paz", Ciudad
de México, A.D.N., 1995.
41. Sabanilla: comune nel Nord del Chiapas.
42. Aguascalientes: gli zapatisti hanno dato questo nome ai diversi
luoghi allestiti per tenervi la Convenzione nazionale democratica
(agosto 1994) e l'Incontro intercontinentale di luglio-agosto 1996.
Aguascalientes è una città nella parte settentrionale del paese, dove
nel 1914 i diversi capi della Rivoluzione tentarono invano di
accordarsi e di porre fine alla guerra civile.
43. "Canada": il termine significa valle profonda. Las Canadas
formano una regione di colonizzazione, che è diventata la culla dello
zapatismo.
44. "Tuhunel" (in tzeltal: «servitore»): diacono, titolo e status
concesso dalla Chiesa cattolica ad alcuni catechisti indigeni nati
all'interno della comunità.
45. Confronta nota 27 della prima parte.
46. Carlos Tello Dìaz, op. cit.
47. CISEN: Servizio militare di controspionaggio.
48. L'Uniòn del Pueblo è un altro gruppo maoista presente in
Chiapas negli anni Settanta.
49. "Coletos" è il termine che indica i bianchi e i meticci di San
Cristòbal de Las Casas.
50. La famiglia Castellanos è una delle famiglie più importanti
dell'oligarchia chiapaneca. Uno dei suoi membri, Absalòn Castellanos,
è stato governatore dello Stato dal 1982 al 1988.
51. E.Z.L.N., "Documenti e comunicati da Chiapas insorto", vol 1.,
cit., p. 46.
52. Qui come più avanti, nei colloqui, si fa riferimento alla parte
settentrionale del Chiapas, e non al Nord del Messico.
53. PROCUP-P.D.L.P.: Partido Revolucionario Obrero Campesino-Uniòn
del Pueblo (fondato nel 1971) e Partido de los Pobres (fondato nel
1967 da Lucio Cabanas, che negli anni Sessanta e all'inizio degli anni
Settanta era a capo di un movimento di guerriglia nel Guerrero).
P.R.D.: Partido de la Revoluciòn Democr tica (fondato nel 1989,
raccoglie l'opposizione di sinistra mobilitata intorno alla
candidatura alla presidenza di Cuauhtémoc C rdenas); OCEZ:
Organizaciòn Campesina Emiliano Zapata.
54. Su insorti e miliziani, confronta sopra la nota 34.
55. Il comandante Tacho dà una versione notevolmente diversa del
modo in cui è entrato a far parte dell'organizzazione.
56. Si veda più avanti par. "Finalmente esistiamo".
57. Il For Nacional Indìgena (ottobre 1995 - gennaio 1996) è stato
organizzato dall'E.Z.L.N. in concomitanza con le trattative di San
Andrés Larr inzar sul tema dei diritti e della cultura degli indios.
58. Alcuni osservatori hanno interpretato la sollevazione zapatista
come una reazione indiretta di alcuni ambienti del P.R.I.,
insoddisfatti per la designazione di Luis Donaldo Colosio a candidato
ufficiale per la successione di Carlos Salinas (novembre 1993).
Colosio è stato assassinato il 23 marzo del 1994. Le elezioni
presidenziali, legislative e dei governatori di diversi Stati, fra cui
il Chiapas, si sono svolte il 21 agosto 1994.
59. Il Partido de Acciòn Nacional (PAN), partito di destra fondato
nel 1939, è diventato negli ultimi anni il principale gruppo
d'opposizione, superando il Partido de la Revoluciòn Democr tica
(P.R.D.), partito d'opposizione di sinistra.
60. Il generale Godìnez era comandante della regione militare del
Chiapas nel 1993. Patrocinio Gonz lez Garrido, governatore del Chiapas
dal 1988 al gennaio del 1993, poi ministro degli Interni del governo
federale, è stato silurato immediatamente dopo la sollevazione del
gennaio del 1994.
61. Nell'agosto del 1994, per ricevere la Convenzione nazionale
democratica, gli zapatisti hanno costruito nei dintorni di Guadalupe
Tepeyac, dove era situato in quel periodo il loro quartier generale,
un luogo denominato Aguascalientes (vedi sopra nota 42).
62. Alcune settimane dopo questo colloquio, nell'ottobre del 1996,
la comandante Ramona si è recata a Città del Messico come
rappresentante dell'E.Z.L.N. al Congresso nazionale indigeno.
63. Il comandante Tacho si riferisce alla consultazione in corso
nelle comunità al momento in cui si sono svolti questi colloqui
(agosto 1996).
64. Il subcomandante Pedro, di cui Marcos parla come di un
fratello, era uno dei pochi meticci fondatori dell'E.Z.L.N.
65. Il 10 gennaio, Manuel Camacho Solìs, sconfitto da Colosio nella
candidatura alla presidenza e ministro degli Esteri di Salinas, viene
nominato da quest'ultimo commissario per la pace nel Chiapas. Il 12
gennaio Salinas decreta unilateralmente il cessate il fuoco.
66. Nell'agosto del 1995 l'E.Z.L.N. ha indetto una grande
consultazione nazionale e internazionale riguardo al suo orientamento
futuro e al suo avvenire.
67. Fernando Gutiérrez Barrios, uno dei «dinosauri» del P.R.I., a
lungo responsabile dei servizi segreti, nel gennaio 1993 è stato
sostituito al ministero dell'Interno da Patrocinio Gonz lez. E'
considerato uno dei principali fautori di una politica messicana
tradizionalmente favorevole al regime castrista e ai movimenti
rivoluzionari nel resto dell'America latina.
68. Escuela de las Américas: per decenni, in questa istituzione
della zona del canale di Panama, gli Stati Uniti hanno istruito e
addestrato alla lotta antinsurrezionale militari di diversi paesi
dell'America latina. E' stata chiusa negli anni Ottanta.
69. Nei giorni successivi all'insurrezione zapatista alcuni gruppi
di estrema sinistra, fra cui il PROCUP, hanno provocato numerosi
attentati in diversi luoghi della capitale.
70. E.P.R.: Ejército Popular Revolucionario, organizzazione
guerrigliera nata nello Stato del Guerrero il 28 giugno 1996.
71. Jorge Castaneda, messicano, è un esperto della politica del suo
paese.
72. La Convenzione nazionale democratica si è riunita a Guadalupe
Tepeyac nell'agosto del 1994 su iniziativa dell'E.Z.L.N. Su Rosario
Ibarra confronta la nota 7 della prima parte.
73. Come abbiamo visto, Marcos afferma che alla fine del 1993, sei
mesi prima, il P.R.D. non si faceva alcuna illusione sulle proprie
possibilità di vittoria.
74. P.T.: Partido del Trabajo, piccolo partito d'opposizione.
75. José Francisco Ruiz Massieu, il segretario generale del P.R.I.,
viene assassinato il 28 settembre 1994. Ra£l Salinas, fratello del
presidente Carlos Salinas, è in carcere dal 1995 perché sospettato,
anche se non accusato ufficialmente, di essere il mandante
dell'omicidio.
76. Nell'agosto del 1994 Robledo Rincòn è stato eletto
ufficialmente governatore del Chiapas.
77. Il 19 dicembre 1994 l'E.Z.L.N. ha sferrato un'offensiva fuori
dalla «zona di guerra» che non ha provocato alcuno scontro con le
forze armate.
78. Marcos ritiene che l'offensiva sferrata dall'esercito nel
febbraio del 1995 costituisca un «tradimento», da parte delle
autorità, con cui l'E.Z.L.N. era in trattative.
79. Il dialogo di San Andrés Larr inzar si apre nell'aprile del
1995.
80. Qui Marcos fa riferimento fra l'altro anche alla Consultazione
nazionale e internazionale (agosto-settembre 1995), al Forum sui
diritti e la cultura degli indios (gennaio 1996), al Forum sulla
riforma dello Stato (luglio 1996) e all'Incontro intercontinentale
(luglio-agosto 1996).
81. "Chicano", bracciante messicano che emigra negli Stati Uniti;
"mapuche", indio cileno.
82. A La Realidad e in altri villaggi zapatisti esistono
«accampamenti per la pace» formati da giovani simpatizzanti
provenienti da diversi paesi.
83. «El viejo Antonio vuelve a tender la mano hacia la estrella. Se
mira la mano el viejo Antonio y dice: "Cuando se suena hay que ver la
estrella all arriba, pero cuando se lucha hay que ver la mano que
senala la estrella. Eso es vivir. Un continuo sube y baja de la
mirada"» («Ponencia a 7 voces 7»). «Il vecchio Antonio tende di nuovo
il braccio verso la stella. Il vecchio Antonio si guarda la mano e
dice: "Quando si sogna si deve guardare la stella lassù, ma quando si
combatte si deve guardare la mano che indica la stella. La vita è
questa: un continuo va e vieni dello sguardo"» («Comunicazione a 7
voci 7», letta da Marcos durante l'Incontro intercontinentale nel
luglio del 1996).
84. A Città del Messico, il palazzo presidenziale dà sulla piazza
centrale, che si chiama Zòcalo.
85. Ernesto Che Guevara, "La guerra di guerriglia e altri scritti
politici e militari", trad. it., Milano, Feltrinelli, 1967.
86. La conquista della città di Santa Clara è uno dei principali
fatti d'arme della Rivoluzione cubana.
87. Nel febbraio del 1995, nel momento in cui entrava l'esercito,
la popolazione dell'ex quartier generale zapatista, Guadalupe Tepeyac,
è stata costretta a rifugiarsi in montagna dove ha allestito un
accampamento provvisorio.
88. Il termine «salinismo» designa il pensiero politico informato a
quella «controrivoluzione liberale» avviata da Carlos Salinas,
presidente della Repubblica dal 1988 al 1994.
89. Nel sistema maya-cattolico, i "capitanes" erano incaricati del
culto dei santi.
90. La ARIC-Uniòn de Uniones si è scissa in filogovernativi e
«indipendenti», più o meno filozapatisti.
91. La Confederatiòn Nacional Campesina (C.N.C.), il centro
sindacale ufficiale dei contadini, che è uno degli assi portanti del
P.R.I.
92. Confronta nota 28 della prima parte.
93. Come i "capitanes", i "mayordomos" detengono delle cariche nel
sistema tradizionale delle comunità, dirette dagli anziani (i
"principales").
94. In occasione delle trattative di San Andrés Larr inzar, nel
luglio del '96, l'E.Z.L.N. ha organizzato un Forum nazionale sulla
riforma dello Stato.
95. Nel luglio del 1996, dopo lunghe trattative, il P.R.I., partito
di governo, e i partiti d'opposizione PAN, P.R.D. e P.T. si sono messi
d'accordo su una riforma elettorale. In dicembre il governo, forte
della maggioranza detenuta dal P.R.I. al Congresso, ha fatto votare un
testo respinto dall'opposizione.
96. Confronta la nota 79 della prima parte.
97. Nell'agosto del 1995 Alianza Cìvica ha organizzato, a livello
nazionale, la consultazione organizzata dall'E.Z.L.N.
98. Legge per il dialogo fra l'E.Z.L.N. e il governo, votata dal
Congresso nel marzo
99. P.D.P.R., che comprende il PROCUP e altre organizzazioni, si
presenta come la sezione politica dell'E.P.R..
100. Il Distretto federale (D.F.) è l'unità amministrativa
corrispondente alla capitale del paese. Nel luglio del '97 la più alta
autorità del D.F. verrà eletta a suffragio universale, anziché
nominata dal presidente.
101. Coaliciòn Obrera, Campesina y Estudiantil de Istmo:
organizzazione degli indios zapotechi dello Stato di Oaxaca
(confinante con il Chiapas) che negli anni Ottanta si è battuta
ottenendo riconoscimenti economici, sociali, politici e culturali a
livello locale e regionale.
102. Dei C.P.R. facevano parte coloro che si erano rifugiati nelle
montagne e nelle foreste all'interno del Guatemala per sfuggire alla
repressione.
103. Le "maquiladoras" sono officine di montaggio che lavorano
grazie ai subappalti; operano soprattutto per l'esportazione e per la
maggior parte sono collocate lungo la frontiera con gli Stati Uniti.
104. Ruta 100: sindacato dei dipendenti degli autotrasporti di
Città del Messico, noto per la sua combattività e le sue posizioni
radicali.
105. M.P.I.: Movimiento Proletario Independiente.
106. Confronta la nota 33 della prima parte.
107. Garrido Canabal, governatore del Tabasco e negli anni Venti e
Trenta capo delle «camicie rosse». Dell'episodio parla il famoso libro
di Graham Green "Il potere e la gloria", trad. it. Milano, Mondadori,
1986.
108. La Comisiòn Nacional de Intermediaciòn (CONAI) si occupa della
mediazione fra l'E.Z.L.N. e le autorità. E' presieduta da monsignor
Samuel Ruiz.
109. Emilio Chuayffet: ministro degli Interni del governo Zedillo.
110. Ofelia Medina: attrice molto nota in Messico, che si è
schierata per lo zapatismo.
111. Andrés Manuel Lòpez Obrador è succeduto nel 1996 a Porfirio
Munoz Ledo alla testa del P.R.D.
112. Elezioni amministrative del Chiapas.
113. Il Forum di Sao Paulo raccoglie i principali partiti di
sinistra e di centrosinistra dell'America latina che, come il P.R.D.
in Messico, uniscono spesso elementi populisti a elementi socialisti.
Ha tenuto una riunione nel Salvador nello stesso momento in cui si
svolgeva l'Incontro intercontinentale organizzato dagli zapatisti.
114. Pemex: Petròleos Mexicanos, società petrolifera nazionale.
- Tutto incomincia come un movimento di guerriglia universitario.
M: Quello che posso fare è una specie di riflessione dall'interno su
che cosa è stata la nostra storia fino al 1994. Certo sarà un'analisi
molto indulgente, molto tollerante, non si è mai eccessivamente
critici quando si parla di se stessi.
Lo zapatismo del 1994 nasce dalla confluenza di tre componenti
essenziali: un gruppo politico-militare, un gruppo di indios
politicizzati e molto esperti e il movimento indio della Selva.
Il primo elemento in pratica è un'organizzazione politico-militare
marxista-leninista, molto simile nelle scelte operative ai movimenti
guerriglieri di liberazione nazionale dell'America del Sud e
dell'America centrale. Secondo questa organizzazione, non è più
possibile contrapporsi al potere costituito con mezzi pacifici:
bisogna affrontarlo con una guerra popolare, batterlo, e creare poi un
governo che lavori all'edificazione del socialismo, alla dittatura del
proletariato, al comunismo e così via. In fondo, il suo scopo è un
tipo di guerriglia analogo a quello tipico del "foco", il nucleo
guerrigliero: creare la coscienza tramite la propaganda armata, e
indurre altri gruppi a scegliere la lotta armata, per giungere poi a
una guerra popolare. All'inizio era un'organizzazione clandestina
prevalentemente urbana, composta soprattutto da persone della classe
media. In pratica non aveva operai fra i suoi membri, i contadini
erano pochissimi e non ne faceva parte nemmeno un indio.
La maggioranza degli appartenenti proveniva dalla classe media:
professori, universitari, ingegneri, medici, era un gruppo molto
ridotto, una dozzina di persone, forse due. La loro analisi politica
prevedeva una radicalizzazione e una polarizzazione della società
messicana, lo Stato da una parte e il popolo dall'altra, e riteneva
che tale polarizzazione avrebbe provocato una guerra civile. Sul piano
militare, questo fatto li ha indotti a contemplare una nuova
possibilità: prepararsi, non per iniziare una guerra, ma per poter
intervenire allo scoppio delle ostilità, uscire allo scoperto nel
momento opportuno. L'idea è che quando giungerà l'ora il popolo avrà
bisogno di un gruppo armato per difendersi, per combattere, per
resistere all'azione dell'esercito.
In tale ottica non c'è un termine preciso per la guerra, e questo ci
distingue dalla concezione dei movimenti di guerriglia
latinoamericani: invece di preparare un'insurrezione per una certa
data, ci organizziamo per un giorno non definito, quando la lotta
armata diventerà necessaria.
Nella sua analisi politica sul regime messicano il gruppo prende le
distanze dalle posizioni del blocco socialista: quest'ultimo ha sempre
mantenuto nei confronti del Messico una linea vaga, indefinita, che
favoriva la politica estera ufficiale. Tutte le organizzazioni armate
dell'America latina con cui siamo entrati in contatto prima del 1994
ci ripetevano lo stesso ragionamento: la rivoluzione è possibile
ovunque, salvo che in Messico. Il Messico aveva il compito di essere
solidale con gli altri movimenti di liberazione, ma nel nostro paese
non si doveva fare niente. Il risultato (chiedo scusa per la
digressione) è che nessuna organizzazione aiuta lo zapatismo, lo
zapatismo armato, né per gli armamenti, né per i finanziamenti, né per
l'addestramento. Non solo il progetto sembrava una follia, ma era in
contrasto con tutta la linea politica di tali organizzazioni:
sostenere un movimento armato qui, voleva dire distruggere la loro
base strategica. Impossibile. Nessuno ci ha aiutati. Anzi, abbiamo
ricevuto critiche severe.
Parlo di cose che mi hanno raccontato, non facevo ancora parte
dell'organizzazione. Ma ho visto accadere lo stesso in seguito.
Soprattutto nei contatti con le rivoluzioni centroamericane. In
Messico non si poteva fare niente perché era la sede delle loro
retrovie, e questo rischiava di influenzare il resto dei movimenti di
liberazione dell'America latina. Il contesto della politica estera
messicana e della politica estera del blocco socialista, soprattutto
dell'Unione Sovietica e di Cuba, che erano gli esempi più vicini,
indusse l'organizzazione a elaborare una concezione teorica e politica
molto indipendente, molto particolare, in cui si dava rilievo
soprattutto alla situazione nazionale e alla storia del Messico. Si
tratta di un marxismo-leninismo più pratico che filosofico, più
preoccupato dell'analisi della situazione concreta che del problema
teorico dello Stato o della lotta armata. Il gruppo politico-militare
incomincia ad analizzare la situazione dello Stato messicano, delle
classi sociali in Messico e la storia del paese...
Insomma, quest'organizzazione elabora la sua teoria politica, la sua
teoria della rivoluzione, facendo riferimento più al Messico, alla
situazione messicana, che alla dottrina del comunismo internazionale.
Eravamo soli sul piano materiale, e ancora più soli sul piano teorico.
Perciò abbiamo dovuto elaborare una teoria della rivoluzione in
Messico che evidentemente, come il marxismo, lasciava molti vuoti, i
vuoti che possono avere persone di quell'origine. E uno dei più gravi
era la questione india.
In ogni caso, l'organizzazione pensa che un giorno o l'altro scoppierà
la guerra, per una ragione o per l'altra, senza essere provocata da
nessuno, e che sia necessario prepararsi per quel giorno.
Dunque, l'organizzazione stabilisce una strategia: raccogliere le
forze in silenzio, senza azioni pubbliche. Decide anche che la sua
crescita militare deve essere proporzionale alla crescita politica.
Intendo dire che rinuncia a creare un apparato logistico-militare
fittizio, con molte armi, molto equipaggiamento e nessuno che se ne
serva, sceglie di ampliarsi soltanto in proporzione alle persone che
riesce a mettere insieme. Le sue risorse economiche proverranno
esclusivamente da queste persone. Niente sequestri, niente rapine in
banca, niente «espropri», come si dice, no, nessun atto di
delinquenza. Anche in questo si distingue dagli altri movimenti di
guerriglia.
Maurice Najman (N): Sembrano aneddoti, ma a posteriori rivelano una
rottura con certo avanguardismo tradizionale.
L'organizzazione originaria (che in seguito si è unita ai resti di
molti altri gruppi dispersi e ha costituito l'E.Z.L.N.), aveva già
l'idea di vari livelli di partecipazione e di diverse forme di lotta.
Fra «dentro» e «fuori» esistevano numerose possibilità intermedie. Se
qualcuno non riusciva a sopportare la clandestinità e voleva
andarsene, non per questo diventava un disertore, un potenziale
traditore; cambiava semplicemente livello, e poteva cambiarlo ancora
prima di lasciare definitivamente il movimento.
Sul «caso Glockner» bisognerebbe informarsi dai membri delle Forze di
liberazione nazionale dell'epoca, io sono arrivato molto tempo dopo.
Ma ciò che mi hanno raccontato corrisponde a quanto ho vissuto io
stesso; nel suo genere si trattava di un'organizzazione poco
militarizzata, molto flessibile. Credo che ciò dipendesse dal suo
orientamento politico: dato che l'azione militare era prevista a
lunghissimo termine, si attribuiva maggiore importanza all'aspetto
politico. Le decisioni avevano forma militare, è ovvio, ma la
struttura interna era davvero poco militarista.
Tutti questi aspetti conferiscono un carattere particolare
all'organizzazione: essa si espande lentamente, non ha mai fatto
ricorso ad azioni armate per finanziarsi o per epurarsi, e non si
propone seriamente la creazione di un "foco" d'avanguardia. Nel corso
degli anni, il gruppo entra in contatto con altre realtà e cambia.
Comunque, avendo queste caratteristiche, è un gruppo politicamente
sano, militarmente sano e molto modesto. Il motivo per cui è riuscito
a sopravvivere alle repressioni subite dagli altri gruppi armati
attivi all'epoca, è il fatto di essere stato, diciamo, sotterraneo.
Ma non conosco bene questo aspetto della storia, io sono arrivato
parecchio tempo dopo, nel momento in cui cominciava la trasformazione;
ti riferisco quello che mi hanno raccontato.
- Gli indios del gruppo fondatore.
Poi viene la fase che conosco io, un movimento indigeno con due
componenti: da una parte il movimento indio della Selva, molto
isolato, e dall'altra un gruppo che si potrebbe definire d'élite, gli
intellettuali organici. Si tratta di indios politicizzati con grande
capacità organizzativa e una vasta esperienza di lotta politica, che
in pratica avevano fatto parte di tutte le organizzazioni politiche di
sinistra presenti in Chiapas all'epoca, e che avevano conosciuto tutte
le prigioni del paese. Si rendono conto che per i loro problemi
relativi alla terra, alle condizioni di vita e ai diritti politici
l'unica soluzione è la violenza.
Non esiste ancora nulla di concreto, ma si incomincia a pensare a
quello che sarà un esercito regolare, alla sua struttura di comando,
alla sua articolazione, il territorio, l'organico; e gli indios
propongono di trovare un luogo in cui incominciare senza rischiare di
essere scoperti. E' un'ipotesi conforme all'idea politico-militare di
partenza: prepararsi senza che nessuno lo sappia. E a quel punto
dicono: «Perché non la Selva Lacandona? Ci sono dei posti in cui non
va mai nessuno, né il governo né le "guardie bianche" [6], né i
proprietari terrieri, non ci sono strade, non ci va nessuno, nemmeno
gli indios, è troppo isolato. Non ci entra nessuno, nemmeno Dio! Lì
sarebbe possibile, se siete davvero decisi, ma è una zona molto
difficile, nemmeno noi riusciremmo a viverci».
Insomma, ci voleva gente molto risoluta, molto preparata o molto
convinta per andare a stabilirsi in un posto del genere. Il gruppo
fonda l'Esercito zapatista di liberazione nazionale nel novembre del
1983, quando decide di stabilirsi nella Selva Lacandona, in un campo
chiamato paradossalmente «La Pesadilla», l'incubo. Il nome degli
accampamenti si ispirava a qualcosa che vi era accaduto. Credo che in
quel caso avessero mandato qualcuno in avanscoperta; lui era tornato
dicendo «L'ho trovato», e gli avevano chiesto com'era. «E' molto
bello, molto piacevole, ci sono alberi, un fiume, e c'è da mangiare,
si può cacciare» (vivevamo di caccia). «E' un sogno» aveva detto.
Quando siamo arrivati, l'abbiamo visto e abbiamo detto: «Un sogno
questo? E' un incubo!». E gli è rimasto il nome.
Dal momento che non intendevamo essere un gruppo di guerriglieri,
prendevamo gli esempi militari come fonte d'informazione ma non come
modello. Del resto, in termini politici, non c'era niente in comune;
questa generazione di «zapatisti» teneva già enormemente alla propria
messicanità, alla propria originalità, a mantenere una certa distanza
da tutti gli altri movimenti. I gruppi guerriglieri guatemaltechi, da
parte loro, erano molto prudenti nei contatti con il Messico, molto
riservati. Io non li ho mai visti, ma a quanto pare ci sono stati
alcuni incontri durante i quali il nostro progetto ha ricevuto aspre
critiche. Loro si limitavano a prenderci in giro, perché combattevano,
mentre noi dei guerriglieri avevamo soltanto il nome e le aspirazioni.
Non avevamo mai combattuto, non avevamo armi... Non eravamo nemmeno in
montagna. Com'è ovvio, ci trattavano dall'alto in basso, con
disprezzo.
Ma per tornare all'83, alla nascita dell'E.Z.L.N., l'altro gruppo
continua a considerare gli indios un settore della popolazione senza
alcun tratto specifico. Eppure esisteva l'ORPA [12] in Guatemala,
costituita per la maggioranza da indios, e anche altre organizzazioni;
questo avrebbe dovuto farci riflettere. Invece no, ci pareva normale:
la maggior parte della popolazione è india, è logico che ci siano più
indios. Non pensavamo a una specificità india, era il popolo sfruttato
dei contadini, andavano trattati come contadini.
Insomma, ci siamo stabiliti nella foresta, alla Pesadilla, che era un
incubo nel vero senso della parola, senza avere alcun sostegno da
parte dei villaggi, solo con il piccolo gruppo di indios
politicizzati, dieci appena, e senza la minima possibilità di appoggio
dalle comunità. La nostra linea di approvvigionamento era clandestina
e si estendeva, in quel periodo, dalle città fino agli accampamenti,
comunità incluse. Passavamo accanto ai villaggi di notte, di nascosto,
e la gente ci prendeva per ladri di vacche, banditi o stregoni. In
quel periodo, molti di coloro che adesso sono compagni, o addirittura
comandanti del Comitato [13], ci davano la caccia come a dei
malfattori.
Quei primi anni, dall'83 all'85, sono anni di grande solitudine.
Dovevamo imparare a vivere in montagna, a combattere e ad aspettare il
giorno in cui la rivoluzione sarebbe scoppiata in Messico. Già allora
ritenevamo che la rivoluzione non ci appartenesse. L'avrebbero fatta
altri, e il nostro compito sarebbe stato di aiutarli. In quegli anni
di montagna non avevamo né aiuto dall'esterno, né consiglieri, e c'era
soltanto un modo per acquisire una formazione militare: studiare i
libri sulle esperienze di guerriglia latinoamericane, ma soprattutto i
manuali di guerriglia e antiguerriglia dell'esercito nordamericano.
Noi siamo autodidatti. Abbiamo conosciuto la guerriglia nei manuali
dei "rangers", dei "marines", dei "seals" [14], di tutti i tipi di
commandos dell'esercito nordamericano e dell'OTAN. Per quanto riguarda
l'esercito regolare, ci siamo serviti di manuali di storia militare
sull'epoca della guerra di Indipendenza, soprattutto su Morelos, e
sulla Rivoluzione, la Divisiòn del Norte di Villa e l'Ejército
Libertador del Sur di Zapata. Da essi deriva la strutturazione
dell'esercito zapatista in squadre, plotoni, compagnie, battaglioni,
reggimenti, brigate, divisioni, corpi d'armata, e anche la struttura
del comando. E' uno schema molto simile agli eserciti di Villa o
Zapata...
Comunque, la nostra preoccupazione principale, era imparare a vivere
in montagna. Qui è l'ambiente a respingerti, e ritenevamo che sarebbe
stato lo stesso per i soldati. Riuscire a integrarci in montagna,
questa sarebbe stata la nostra arma più potente. Perciò dedicavamo la
maggior parte del tempo a sopravvivere, e siamo riusciti a resistere
per lunghi periodi senza alcun aiuto dall'esterno. Eravamo costretti a
farlo, perché talvolta bisognava attendere mesi per i rifornimenti che
dovevano arrivare dalla città. Vivevamo di frutti selvatici, di
caccia, abbiamo aperto una rete di sentieri che ci consentivano di
spostarci da una montagna all'altra senza essere visti. E' un periodo
di grande solitudine: nulla nella situazione mondiale o nazionale
faceva pensare che valesse la pena di fare quel sacrificio e che
avessimo qualche possibilità di vincere, anzi, al contrario, tutto
sembrava dire che stavamo andando diritti verso il totale fallimento.
- Primi contatti
Eravamo un movimento di guerriglia completamente isolato, l'esempio
estremo della solitudine. Ci trovavamo nell'isola di Robinson Crusoe,
ma non c'era nessuno cui lanciare bottiglie, nessun Venerdì, non c'era
niente. I guerriglieri erano soli. Anche per questo non si sono resi
conto di che cosa stava incominciando a maturare nella zona:
l'aggravarsi della repressione, della miseria, le cose per cui il
movimento indio, la massa degli indigeni che oggi vediamo, poteva
accettare di entrare in contatto con un movimento di guerriglia.
Bisogna sottolineare un fatto: quando finalmente si stabilisce un
contatto fra le comunità e il gruppo armato (il gruppo d'origine
urbana, il movimento di guerriglia universitario, come lo chiami tu),
i guerriglieri non vengono più dalla città, vengono dalla montagna, ci
sono già vissuti tre, quattro, cinque anni. Per gli indios è molto
importante perché la montagna è un territorio dove neppure loro osano
addentrarsi, salvo che per la caccia, e dove si fermano il meno
possibile. Nessuno resta a dormirci, per paura del pericolo, ma
soprattutto a causa di tutto quello che la notte e la montagna
rappresentano nella tradizione culturale india.
Insomma, all'epoca i due gruppi, l'organizzazione politico-militare e
l'élite politica india, sono un po' isolati. Quelli che definirei del
gruppo di mediazione, gli indios politicizzati diventati in seguito il
ponte fra l'esercito zapatista e le comunità, incominciano a parlare
della lotta armata con certi capi villaggio indigeni che conoscono.
Questo fatto coincide con un'ondata di violenza delle guardie bianche
e l'intensificarsi della repressione, soprattutto nella Selva e nel
Nord del Chiapas, perciò gli indios tendono spontaneamente
all'autodifesa. Nel momento in cui viene proposta loro la lotta
armata, dicono che, se è possibile addestrarli a combattere e aiutarli
a ottenere delle armi, ci stanno, perché a loro mancano proprio queste
cose; è un interesse molto concreto, una questione di sopravvivenza
immediata a consentire il primo contatto fra le comunità indie e il
gruppo militare, l'impatto da cui nascerà poi lo zapatismo che noi
conosciamo. Be', non lo zapatismo di adesso, perché ci sono altri
ingredienti più recenti, ma quello che sarebbe sorto nel gennaio del
1994.
Incominciamo allora a contattare le comunità indie, e si stabilisce
una specie di accordo tacito di mutua assistenza, un patto di non
aggressione fra il gruppo armato e i capi delle comunità. Non è più
soltanto un gruppo politicizzato, sono già i capi dei villaggi. E' una
specie di "do ut des": «Insegnateci a batterci e vi aiuteremo a
ottenere delle provviste [era il nostro problema principale] e a
trasportare le vostre cose». E' incominciata così: noi li addestravamo
e fornivamo loro un'istruzione militare; loro, in cambio, ci aiutavano
a trasportare le provviste, ci vendevano granturco, fagioli, riso,
zucchero, mastelli, quello di cui avevamo bisogno. Davamo loro dei
soldi, e facevano gli acquisti per noi. Allo stesso tempo è l'inizio
di uno scambio politico e culturale; lo shock, per noi, è che abbiamo
dovuto imparare a parlare la loro lingua.
Gli indios del famoso gruppo di mediazione hanno incominciato a
parlare con le famiglie, evidentemente indie, tzeltal, tzotzil, chol,
tojolabal. Le famiglie decidono di mandare in montagna i giovani, i
loro figli, perché diventino guerriglieri: il gruppo politico-militare
quindi ha già una componente india; ben presto, i "ladinos", i
meticci, diventano la minoranza. Nel momento in cui avviene il
contatto con le comunità, l'elemento indigeno costituisce già la
maggioranza nell'organizzazione politico-militare, anche se la
struttura di comando è ancora immutata. Questo incomincia a influire
sulla sua vita interna, perché l'impatto culturale deve essere
assorbito: bisogna imparare il dialetto [16], e più che il dialetto,
imparare a maneggiare il linguaggio, i simboli, il significato dei
simboli nella comunicazione eccetera.
Quindi, quando si stabilisce il contatto fra l'organizzazione e le
comunità, nel gruppo di guerriglia c'è già un elemento indio che ha il
compito della traduzione. Sono indios con una certa cultura politica,
una coscienza nazionale, la prospettiva a lungo termine di non essere,
o non essere soltanto, indios. Hanno assimilato il bagaglio politico e
culturale accumulato dall'organizzazione politico-militare e lo hanno
digerito, producendo qualcosa di nuovo. E' proprio questo a permettere
l'incontro con le comunità, a permettere la trasformazione di questo
patto di coesistenza, di "do ut des", in un rapporto politico. Sono i
guerriglieri indigeni a trasformare le relazioni fra il movimento di
guerriglia e i villaggi in un rapporto politico e a costruire un
rapporto organico. Tutto questo accade verso il 1985...
L'E.Z.L.N. non è consapevole di questa traduzione, questa gestazione
feconda. Non l'avevamo previsto e non lo capivamo, pensavamo che
l'E.Z.L.N. si sviluppasse perché la luce era venuta a illuminare
l'oscurità... In realtà, pensandoci a posteriori, è successo proprio
questo...
All'epoca di cui parlo, fra l'85 e l'87, incominciavamo appena a
imparare. Pensavamo che parlare a un proletario, a un contadino, a uno
studente fosse la stessa cosa, che tutti avrebbero compreso il
linguaggio della rivoluzione. E ci siamo trovati davanti un mondo
nuovo per il quale non avevamo risposta.
Il merito dell'organizzazione è di aver ammesso che non aveva risposta
e che doveva imparare. E' la prima sconfitta dell'E.Z.L.N., la più
importante, quella che lo segnerà da quel momento in poi: l'Esercito
zapatista, di fronte a una cosa completamente nuova, riconosce di non
avere soluzione al problema, di dover aspettare e di dover imparare.
Scende dal pulpito, cessa di credere di avere una risposta a tutto, e
ammette che di fronte a questa nuova realtà può offrire soltanto una
serie di domande.
L'E.Z.L.N., in cui restano solo due o tre "ladinos", assume allora,
consapevolmente o meno, il ruolo dell'allievo di fronte ai maestri. Il
vecchio Antonio, i capi delle comunità e i guerriglieri indigeni
diventano i maestri dell'organizzazione, che tuttavia mantiene il
proprio carattere politico-militare: essa avrebbe conservato la sua
natura di fondo anche se fosse rimasto soltanto un ladino.
E' l'inizio di un lungo processo di trasformazione dell'E.Z.L.N. da
esercito di avanguardia rivoluzionaria in esercito delle comunità
indie, cioè in una delle molte forme di lotta di un movimento indio di
resistenza più ampio. All'epoca non la vedevamo così. Per noi, la
lotta armata era la colonna vertebrale, il livello più alto, insomma,
tutti gli slogan e i luoghi comuni che puoi immaginare. Invece, nel
momento in cui l'E.Z.L.N. si adegua alle comunità diventa una delle
varie forme di resistenza, subisce il contagio indio e si assoggetta
alle comunità; i villaggi se ne appropriano e ne assumono addirittura
la guida.
Secondo me, l'E.Z.L.N. è riuscito a sopravvivere e a crescere grazie
al fatto di avere accettato questa sconfitta. Se non l'avesse
accettata, si sarebbe isolato o sarebbe sparito, comunque non avrebbe
mai dato origine all'Esercito zapatista nato il primo gennaio 1994, un
esercito di migliaia di combattenti, male armati, certo, ma migliaia;
non è facile mettere insieme migliaia di persone disposte a battersi
fino alla morte. Ma un simile risultato non va ascritto all'E.Z.L.N.,
al suo progetto. Anzi, secondo me l'E.Z.L.N. nasce nel momento in cui
accetta l'esistenza di una realtà nuova per cui non ha risposte, e
ammette la necessità di assoggettarsi a tale realtà per poter
sopravvivere al suo interno.
Abbiamo davvero subito un processo di rieducazione, di rimodellamento.
Come se ci avessero smontato in tutti i nostri elementi, il marxismo,
il leninismo, il socialismo, la cultura urbana, la poesia, la
letteratura, tutto quello di cui eravamo fatti, e altre cose di cui
nemmeno avevamo coscienza... Ci hanno smontati e poi rimontati in modo
diverso. Era l'unico sistema per sopravvivere.
Y: C'erano altri attori, i maoisti, per usare un nome generico, la
Chiesa... Le comunità indie non erano tagliate fuori dal mondo,
avevano subito altre influenze, quelle delle organizzazioni religiose
per esempio, evangeliche o neocattoliche.
Ovviamente, sia i «maoisti» sia la Chiesa, ma soprattutto
quest'ultima, avevano trasmesso loro una forma di organizzazione che
però era ormai allo stremo. L'organizzazione che si fa carico dei
progetti produttivi stava diventando obsoleta per la crisi e le
condizioni di miseria esistenti. Non c'era alternativa.
- L'allievo del vecchio Antonio.
L'avevo incontrato nell'84, all'epoca in cui vivevamo completamente
isolati. Ci eravamo persi in riva a un fiume che scorre accanto al suo
villaggio, nel cuore della foresta, e ci siamo imbattuti in lui per
caso, non sapevamo che cosa dire. Gli abbiamo mentito, gli abbiamo
detto che andavamo a caccia, anche se ci trovavamo a due passi dal suo
campo; io gli ho detto che ero ingegnere! Dovevo avere la barba lunga
un palmo, eravamo armati, era difficile bersi quella
dell'ingegnere!... E poi ci siamo incrociati di nuovo e abbiamo
incominciato a parlare. All'inizio era il sogno di tutti i
guerriglieri incontrare un contadino, spiegargli la politica,
convincerlo. Perciò mi metto a parlargli della storia del Messico,
dello zapatismo, e lui mi risponde con la storia del Vot n e
dell'Ik'al [19]. Il primo villaggio che «prendiamo», il primo in cui
entriamo apertamente in quanto zapatisti, nel 1985, è il villaggio del
vecchio Antonio. Lì lui si comporta come una specie di traduttore,
come se ci spiegasse che cosa eravamo noi, e che cosa dovevamo essere.
In quello stesso momento stava avvenendo la trasformazione interna
dello zapatismo.
Il vecchio Antonio è il ponte che permette ai guerriglieri della
montagna di entrare nei villaggi. Il suo contributo fondamentale è far
comprendere agli zapatisti la specificità della questione india nelle
montagne sudorientali del Messico. Ci spiegava dove eravamo e che cosa
stava accadendo lì, ci riportava sempre a questa realtà. In tal modo
ci ha aiutati enormemente.
N: Esiste la metafora di Marcos come ponte, come finestra. Fa pensare
a un ruolo passivo, ma c'è anche un ruolo attivo, di creazione. Come
giudica il ruolo attivo di Marcos?
Y: Come vive Marcos la sua integrazione nelle comunità?
In generale, dal '94 cerco di non intervenire troppo nelle decisioni
della comunità, la mia parola ha troppo peso. Ci sono dei
responsabili, sta a loro decidere, i problemi della comunità non
dovrebbero arrivare fino a me. Se prendo posizione senza volerlo,
complico tutto, posso far pendere la bilancia da una parte o
dall'altra al punto che una minoranza diventa maggioritaria perché il
"Sup" [21] ha detto eccetera eccetera. Si devono mantenere certe
distanze. I soli con cui posso parlare in tutta libertà sono i
bambini: con loro non bisogna prendere decisioni, si può parlare
liberamente...
In realtà, il contatto con le comunità passa attraverso il Comitato
[22]. Con loro faccio riunioni, discutiamo a fondo, soprattutto con
gli ufficiali, i comandanti, i comitati.
N: Come è organizzata una giornata normale di Marcos?
Passo tutto il mio tempo a produrre materiale, valutazioni, analisi
per uso interno. Quando è necessario devo anche scrivere dei
comunicati, lettere, discorsi che saranno resi pubblici, ma il lavoro
principale è di informare i compagni ed esprimere una valutazione su
quanto accade o potrebbe accadere. Ci sono anche periodi di riposo:
quando si consultano le comunità io sto in vacanza, sono loro che
comandano. In questo momento, per esempio, non ho niente da dire,
tocca a loro decidere sul dialogo. Ho finito il mio lavoro, ho
consegnato il compito in classe, non devo decidere niente. Ci sono
momenti in cui tocca a me prendere le decisioni, o ai comitati, ma ora
è il turno dei villaggi. Bisogna soltanto aspettare; quando arriverà
la decisione, nel giro di qualche giorno, sarà il momento di lavorare.
Y: Perché la scelta del nome Marcos? Il vangelo secondo Marco è quello
preferito dai gesuiti...
Y: Prima di diventare zapatista, era membro dell'ARIC?
Comandante Tacho (T): Ero membro della Uniòn de Uniones, ma non
dell'ARIC [30], no. Avevamo una Uniòn molto grande, molto estesa, con
obiettivi di produzione e progetti, ma non abbiamo mai ottenuto
niente. Nei villaggi si sono stancati tutti. Non ero un dirigente, a
volte gli "asesores", i consiglieri che dirigevano l'Uniòn, mi
invitavano a partecipare, ma è tutto qui, non avevo una carica
precisa, ero, come si dice, un semplice membro, o un simpatizzante.
Quando gli zapatisti hanno incominciato a cercarmi, un tipo che era
già zapatista ha detto: «Lo conosco, è amico mio». Non mi aveva mai
detto niente perché a quell'epoca tutto era clandestino, se non si
aveva l'ordine di parlarne con qualcuno non se ne parlava; anche
quando ci vedevamo si chiacchierava, ma non di questo. Allora mi hanno
contattato immediatamente, hanno mandato da me una persona che veniva
da molto lontano, e da quel giorno sono fedele allo zapatismo, ho
scelto la via della lotta.
Poi, quando abbiamo incominciato a parlare con le persone del
villaggio, dovevamo stare molto attenti a scegliere con chi aprirci:
sapere chi era, come si chiamava, che cosa voleva. Soprattutto per il
problema dell'alcol. Ad alcuni piace molto bere e a volte si
ubriacavano con gli allevatori, i commercianti: era difficile,
dovevamo stare molto attenti. Abbiamo incominciato a capire che era
necessario far partecipare le donne. Abbiamo formato delle donne che
erano un po' come commissari politici, e siccome avevamo già con noi
delle compagne indie, contadine, scendevamo con loro nelle comunità e
riunivamo le donne di notte, in segreto, fuori dal villaggio. Facevano
finta di andare a prendere il granturco, a cercare la legna, ma in
realtà andavano a una riunione. Sono state loro a incominciare a
convincere i mariti a smettere di ubriacarsi. Dopo, quando avevamo
due, tre, quattro compagne in una comunità, le incaricavamo di
scegliere con chi altro lavorare. E a poco a poco siamo cresciuti
finché alla fine un intero villaggio stava con noi. Ci siamo allargati
così, ma in modo molto discreto, molto delicato, con un'attività
realmente clandestina.
Y: Lei come è arrivato alla militanza?
Maggiore Moisés (M.M.): Diventando grande vedevo che tutti gli altri
bambini andavano a trovare i nonni, e io invece no: mi sembrava
strano, non sapevo dove vivevano, niente. Un giorno l'ho chiesto a mio
padre, e lui mi ha detto che mio nonno non era più in vita. Gli ho
chiesto perché non potevo andare a trovare mia nonna, e mi ha risposto
che era morta anche lei. Gli ho chiesto dov'erano, dove li avevano
seppelliti. Allora mi ha spiegato che erano in una piantagione
chiamata Las Delicias, nei dintorni di Ocosingo, una tenuta molto
grande, proprio accanto alla Garrucha. Si è messo a raccontarmi la
loro storia, quanto avevano sofferto. Mi ha portato a certe riunioni.
Avevo circa tredici anni, incominciavo ad ascoltare le discussioni sui
problemi delle terre, delle pratiche agrarie che finivano in nulla,
del credito, i problemi sanitari. I conflitti fra le comunità per gli
appezzamenti. Un giorno mi ha portato a un'assemblea, ma più grande,
cui partecipavano molti villaggi, già un'organizzazione. Ho visto che
i problemi erano gli stessi. Ho incominciato ad andarci e a capire la
situazione, e il perché. Un giorno sono dovuto partire per cercare
lavoro in città. Lì era ancora più dura, quando non parli spagnolo non
sai nemmeno dove cercare, e nessuno ti dà lavoro. Nessuno ti
offrirebbe neanche un bicchier d'acqua, nessuno ti parla, nessuno ti
vede. Sono stato costretto a tornare indietro.
Poi finalmente ho trovato un amico che è venuto con me, siamo tornati
in città insieme. Quella volta almeno ho trovato lavoro da un signore.
Quello che non mi andava giù nella casa in cui lavoravo è che il
padrone aveva dei cani, me ne occupavo io, erano nutriti meglio di me.
Avrei mangiato volentieri quello che davano a loro, ai cani. Lo vedevo
che costava più di quel che guadagnavo io; con il mio stipendio, non
avevo nemmeno abbastanza da mangiare. Sono tornato da mio padre. Lì
erano andati un po' avanti nell'organizzazione delle comunità.
Non poteva durare, perciò ci siamo uniti ancora di più e abbiamo
incominciato a lavorare: ci incontravamo spostandoci da una comunità
all'altra, e a poco a poco le cose andavano avanti. Prima di tutto
l'organizzazione ha avuto un camion, per poter trasportare i nostri
prodotti in città, il caffè, il mais, il riso, e tornare indietro con
quello che ci mancava.
Finché non è arrivato un gruppo di persone che chiamavamo "asesores",
i consiglieri. All'inizio sostenevano di essere dalla nostra parte, di
lottare con noi. Venivano dalla città, ma sembravano davvero dalla
nostra parte, camminavano nel fango e tutto.
A poco a poco abbiamo incominciato a fidarci di loro, c'è voluto molto
tempo per scoprire che cosa facevano alle nostre spalle. Andavamo
avanti con le proteste, le manifestazioni, i comizi, e un giorno
abbiamo capito: avevamo organizzato da soli una manifestazione, e i
consiglieri sono venuti a dirci che era meglio affrontare le cose
diversamente. Erano sicuri che avremmo ottenuto soddisfazione. Allora
abbiamo deciso di fare come dicevano loro, e nel momento in cui ci
siamo ritrovati davanti al palazzo del governo, a Tuxtla, i
consiglieri sono scomparsi. Li cerchiamo, e scopriamo che stanno
trattando a parte con il governatore. Perciò abbiamo deciso di fare
come avevamo pensato noi, di lasciarli fuori, e c'è stato uno scontro
fra noi e loro. Questo ha provocato una divisione interna, perché
abbiamo dovuto separarci dai consiglieri; nell'organizzazione c'erano
dei contadini che se l'intendevano bene con loro, che avevano imparato
anche i trucchetti...
Circolavano già delle voci sui guerriglieri guatemaltechi. Qualcuno
diceva che erano cattivi, altri che si battevano per il popolo. La
cosa mi dava da pensare. Un po' di tempo dopo è venuto a trovarmi un
ragazzo. Si mette a parlarmi della povertà, dell'ingiustizia, della
miseria... del fatto che il popolo deve organizzarsi. Lo pensavo già
anch'io. Quando avevamo espulso i consiglieri avevamo incominciato a
riflettere su come organizzarci, conoscevamo la storia di Zapata, di
Villa, ma lì si trattava di battaglie, di scontri armati. Perciò,
quando arriva quel ragazzino, glielo spiego: mi rendo conto che se
continuiamo così non otterremo niente, ma d'altra parte non possiamo
neanche dedicarci ad altre forme di lotta, perché non sappiamo come
fare. Lui mi fa altre domande, su quello che penso, quello che voglio,
ma io sospetto qualcosa, continuiamo a parlare. Alla fine mi lascia un
opuscolo, "El despertar" (Il risveglio). Parlava della storia del
Messico, dei ricchi che rubano, tradiscono, sfruttano.
Ero sempre più d'accordo e un giorno sono arrivato a chiedergli chiaro
e tondo: «Senti, ho capito benissimo di cosa parla il tuo opuscolo, ma
c'è un problema: come si fa, dove, insieme a chi?». Mi spiega che se
davvero mi interessa devo trovare altri compagni che la pensino allo
stesso modo. «Spiegami di che cosa si tratta, per capire come
muovermi.» Alla fine me l'ha detto. Che c'era un gruppo di
guerriglieri, si chiamava Esercito zapatista di liberazione nazionale.
Che erano clandestini. Mi ha spiegato i problemi di sicurezza.
Ho incominciato a cercare altri ragazzi, a parlare con loro, ho avuto
delle difficoltà, perché alcuni bevono, e ho dovuto trovare gente che
non bevesse. Alla fine ne ho messo insieme un gruppo e gliel'ho
presentato. Mi ricordo che eravamo in sette, tutti della mia comunità.
Poi, mi ha chiesto di aiutarli a trasportare le provviste che
arrivavano loro dalla città, e cose simili. Un giorno gli ho detto che
anch'io volevo ricevere una formazione. Mi hanno fatto superare una
prova per vedere se ero davvero pronto, e siccome ci sono riuscito, mi
hanno portato con loro, per insegnarmi a leggere e a scrivere.
Quando sono tornato da queste parti insieme al gruppo dei compagni per
andare in montagna, ero convinto che avrei trovato un esercito.
Arrivo, e dov'è l'esercito? Era soltanto un pugno di uomini.
Insomma, arrivo in montagna e incominciamo a studiare come lavorare
con le comunità, come parlare con loro. Esistevano progetti politici,
eravamo già nel 1985, c'erano libri, conferenze, lezioni. Si lavorava
sulla storia del Messico, la situazione del nostro paese, i programmi
del governo, quello che succede realmente, analizzavamo la situazione,
ecco che cosa studiavamo.
- Il ribaltamento.
Marcos: I nostri contatti con le comunità rimangono sporadici anche
nell'87, nell'88. Eravamo sempre un gruppo di guerriglieri
acquartierato in montagna. C'era la componente india, certo, i giovani
che si univano a noi; del resto alcuni, quelli che non ce la facevano
in montagna, tornavano nei villaggi. Se un combattente crollava e
mollava la guerriglia non veniva fucilato, rientrava a casa sua e
riprendeva a lavorare per aiutarci. Ma il contatto con le comunità era
discontinuo, i guerriglieri scendevano nei villaggi, sì, ma di rado.
Il rapporto è diventato più stretto solo verso la fine dell'88 e
nell'89, quando ormai c'erano centinaia di combattenti in fase di
addestramento, e oltre cento combattenti di professione che si
dedicavano soltanto alla lotta [34]. A partire da quel momento, quando
organizzavamo feste in montagna per il 10 aprile, il 17 novembre, il
16 settembre [35], le feste storiche del Messico o dell'E.Z.L.N., la
gente delle comunità veniva ad assistere. A quell'epoca noi scendevamo
nei villaggi solo di notte, di nascosto. Non c'erano nemmeno ancora i
villaggi «controllati», come li chiamiamo noi, cioè totalmente
zapatisti. In seguito, la maggior parte dei villaggi della Selva e
degli Altos è diventata totalmente zapatista, ma in quel periodo no.
Secondo me la forte crescita dell'E.Z.L.N. può essere spiegata per
diverse ragioni. La prima sono i brogli elettorali dell'88 contro il
cardenismo [36] che, per gli ambienti indigeni più politicizzati come
l'ARIC o l'Uniòn de Uniones, significa la fine di una possibilità di
transizione pacifica. C'è anche il crollo del prezzo del caffè, oltre
alle gravissime epidemie nella Selva: molti bambini sono morti per la
mononucleosi e altre malattie, talmente inesplicabili da farci pensare
che fossero dovute a bombardamenti chimici in Guatemala trasportati
fin qui dal vento. Comunque, nel giro di qualche settimana sono morti
centinaia di bambini.
Altro fattore importante è un'incursione nella Selva dell'esercito
federale, che l'ha setacciata con la scusa ufficiale di individuare le
piantagioni di marijuana, o chissà che altro. Questa storia si è
tramutata in un disastro per loro, quando la gente ha visto come la
montagna se li inghiottiva in un boccone. Non erano più invincibili,
erano diventati soltanto dei soldatini terrorizzati, sperduti fra i
monti. Questo ha infranto la loro aura di sacralità, il terrore degli
aerei e dei tank... Inoltre, le guardie bianche avevano raddoppiato le
attività, c'è stata un'ondata di assassinii, soprattutto nella Selva e
nella parte settentrionale del Chiapas: ormai alla gente non restava
altra scelta se non quella di combattere o di lasciarsi ammazzare.
Non eravamo noi a convincere gli altri, a farli davvero decidere sono
stati la riforma di Salinas e l'articolo 27 [37]: cessazione
definitiva della ripartizione delle terre, trasformazione di tutte le
terre, anche quelle degli "ejidos", in merce da vendere o da
acquistare. Era proprio la fine, non avevamo più speranza. Restava
soltanto la lotta armata.
Comunque, fra l'89 e il '90 siamo passati da poche centinaia a
migliaia di combattenti, e mentre prima ci aiutava solo qualche
famiglia, ora era tutto un villaggio, poi una vallata intera,
un'intera regione. Potevamo circolare nelle valli della Selva di
giorno come di notte, erano tutti zapatisti, sapevamo tutto quello che
succedeva, avevamo il pieno controllo della situazione. Si verifica un
boom dello zapatismo, uno sviluppo fenomenale, e l'organigramma da
sogno (o da incubo) del 1983-84 incomincia a colmarsi: compagnie,
battaglioni, divisioni. D'un tratto l'esercito sognato diventa
possibile. Allora incominciamo a organizzarlo, secondo la nostra idea
di un esercito popolare che per noi doveva produrre, e non limitarsi
soltanto a combattere. Oltre a prepararsi per la guerra, l'esercito
lavorava al servizio delle comunità, alcuni appezzamenti comunitari
venivano coltivati dalle truppe, insomma tutte le cose che facciamo
adesso negli Aguascalientes [42]: ambulatori, centri di aggregazione,
campi sportivi, parchi giochi per i bambini...
Un gruppo armato in Messico, che per giunta non fa nulla, era
un'assurdità. Mi metto nei loro panni: se nel 1989 mi avessero detto
che esisteva un gruppo armato denominato Esercito zapatista di
liberazione nazionale, che invece di battersi aveva raccolto
milleduecento combattenti nella regione di Ibarra per costruire un
ambulatorio, non avrei preso la cosa sul serio. Se nel 1991 mi
avessero detto che questo esercito aveva fatto una manovra di
dislocazione per bloccare tutte le entrate della Selva, e che nel 1992
aveva organizzato un corteo militare di cinquemila uomini per
celebrare cinquecento anni di resistenza... non ci avrei creduto
nemmeno se mi avessero portato le foto a riprova. Del resto era
difficile che ci fossero fotografie! Gli appartenenti alle comunità si
conoscono fra loro, quando arriva uno di fuori la comunità viene a
saperlo immediatamente. Di certo ci sono state fughe di notizie,
compagni che si ubriacavano e parlavano della guerriglia, ma a quel
tempo nessuno ci credeva.
Y: La Chiesa era informata per forza, in un certo senso eravate in
concorrenza con la sua organizzazione.
N: Lo zapatismo può essere considerato un fattore di modernizzazione
all'interno delle comunità indie?
Inoltre abbiamo sviluppato molto il sistema sanitario. Credo che la
nostra presenza, il lavoro dell'E.Z.L.N., abbia modificato a fondo la
situazione sanitaria dei villaggi. Come ben sai, quando la comunità
prende una decisione in assemblea, chi non la rispetta viene punito.
Quando è scoppiata l'epidemia di colera abbiamo ottenuto che le
comunità decretassero l'obbligo dell'esistenza di una latrina per ogni
casa; non era un ordine dell'E.Z.L.N., era una decisione delle
autorità comunitarie, e chi non la eseguiva doveva pagare una multa...
hanno costruito latrine dappertutto. Resta da vedere se la gente le
utilizza, ma comunque esistono. Attraverso le assemblee dei villaggi
siamo riusciti a far passare questo tipo di decisioni collettive per
altre campagne sanitarie, la vaccinazione dei bambini, le misure
preventive all'insorgere dell'epidemia di febbre rossa; e quando
l'assemblea prende una decisione, siamo sicuri che verrà rispettata.
Poi, dopo il '94 è un'altra faccenda, il contatto diretto delle
comunità con il mondo esterno, a livello nazionale e internazionale.
Ma si tratta già di un altro zapatismo...
Abbiamo creato anche laboratori di produzione, ma nella prospettiva di
un'economia bellica: laboratori di sartoria per fare le uniformi,
laboratori di falegnameria per fabbricare le casse delle armi e i
calci dei fucili, le lance, gli archi, le frecce, tutto ciò di cui
avremmo bisogno per la guerra; addestravamo infermieri per il servizio
sanitario, maestri perché la gente imparasse a leggere e studiasse la
storia del Messico, le posizioni politiche, i nostri manifesti, le
nostre spiegazioni e così via. Tutto ruotava intorno a un'economia
bellica.
Y: Veniamo allo zapatismo del '93...
Nel 1992 si celebrava con grandi festeggiamenti ufficiali il quinto
centenario della scoperta dell'America. Non avevamo ancora capito fino
a che punto la Conquista fosse importante e carica di significato per
le comunità indie. All'interno del movimento indio, a livello locale e
senz'altro anche nazionale, si produce una specie di fermento, un
bisogno di esprimersi che noi non comprendiamo subito. Decidono che si
deve commemorare il cinquecentenario ricordando la realtà, la loro:
cinque secoli di resistenza contro la dominazione. Il processo di
radicalizzazione si accelera, i villaggi raggiungono il punto di non
ritorno: la loro volontà viene espressa dai capi indios, i capi delle
comunità e quelli regionali, che in seguito avrebbero costituito il
Comitato. I capi indigeni dichiarano che bisogna incominciare la
guerra nel 1992. D'accordo con il comando (ero il capo militare) i
dirigenti spiegano quello di cui si è già parlato: che la situazione
internazionale è sfavorevole, la situazione nazionale non lascia
spazio al minimo tentativo di cambiamento e peggio ancora alla lotta
armata. Decidiamo insieme che bisogna consultare le comunità. E' la
prima volta, in seguito per gli zapatisti la consultazione è diventata
un modo di lavorare consueto nei villaggi.
Siamo nella seconda metà del 1992, la consultazione coincide con la
mobilitazione organizzata per la celebrazione del quinto centenario,
la grande marcia del 12 ottobre a San Cristòbal, che gli indios di
tutta la regione considerano un po' l'ultima grande azione civile di
un movimento ormai zapatista.
Il testo «il Sud-est in due venti, una tempesta e una profezia» [51],
che sarà pubblicato in seguito, ne spiega il senso, i simboli. La
profezia del testo si concretizza in pratica nella presa simbolica di
San Cristòbal da parte degli indios armati, anche se per questa volta
armati solo di archi, frecce e lance. E' facile individuare nella
manifestazione il contingente zapatista degli Altos, del Nord [52] e
della Selva, è il più ordinato, tiene il passo ed è quello in cui sono
presenti più donne. Ma nessuno nota niente: gli indios hanno fatto la
loro commemorazione, hanno parlato di resistenza, punto e basta.
Nel movimento indio la marcia è sentita come il culmine del processo
di consultazione, come uno specchio in cui gli indios osservano la
propria situazione, e in cui riconoscono la propria capacità di
mobilitazione. Su dieci-quindicimila persone c'erano circa cinque-
seimila indios zapatisti.
Durante la consultazione, in ogni villaggio viene spiegata la
situazione della comunità, dell'etnia, la situazione internazionale e
nazionale, e si pone la domanda: è venuto sì o no il momento di
incominciare la guerra? Fra settembre, ottobre e la prima quindicina
di novembre vengono consultate quattro o cinquecento comunità,
comunità di quattro etnie, tzotzil, chol, tojolabal e tzeltal, e per
la prima volta la maggioranza della popolazione è invitata a
pronunciarsi: le donne partecipano come gruppo a sé, e votano anche i
giovani che non avevano mai preso parte alle decisioni del villaggio,
soprattutto decisioni di questo tipo.
E' stato un voto nominale, individuale. Intendo dire che, quando
scrutiniamo i voti, dopo il 12 ottobre, non diciamo «tanti villaggi a
favore, tanti contro», ma «tanti uomini, donne, giovani hanno votato
sì, e tanti no». Insomma, è stato un voto diretto e individuale ma
pubblico, all'interno dell'assemblea di villaggio, non un voto
segreto. Ci sono stati dibattiti, talvolta molto accesi. Ogni
villaggio doveva produrre i verbali dello scrutinio (poi conservati in
luogo sicuro) con i risultati e anche con le argomentazioni a favore e
contro. In teoria non era un voto, ma una consultazione, siamo nel
'92, il comando consulta i villaggi per sapere che cosa pensa la
gente, e poi decide a propria discrezione. Perciò chiedevamo le
argomentazioni, perché il comando si potesse fare un'idea. Gli
zapatisti che votavano contro la guerra dicevano che sui villaggi si
sarebbe scatenata la repressione, che non erano pronti, che c'erano
comunità divise, che si doveva aspettare... avevano argomenti validi.
Ma per farla breve, la stragrande maggioranza si pronuncia per
incominciare la guerra subito, e le comunità danno all'E.Z.L.N.
l'ordine ufficiale di combattere insieme a loro.
Noi non ci eravamo mai preparati per sferrare un'offensiva, quindi
dovevamo affrontare problemi enormi dal punto di vista tattico,
strategico, logistico. Sin dall'inizio eravamo partiti dall'idea che
un giorno o l'altro sarebbe scoppiata la guerra, ma che non saremmo
stati noi a provocarla; in seguito, dopo aver incontrato le comunità,
consideravamo il nostro ruolo militare in termini difensivi.
Supponevamo che le comunità sarebbero state attaccate, che l'esercito
le avrebbe invase, o che ci avrebbe inseguiti, o che ci sarebbero
state espulsioni dai villaggi e che avremmo dovuto resistere, o che
avremmo dovuto colpire le guardie bianche, che dopo le guardie bianche
sarebbe arrivata la polizia, poi l'esercito e così via. Avevamo uno
schema militare difensivo che copriva tutte le vallate della Selva
Lacandona e i punti più importanti degli Altos, perché proprio negli
Altos e nella Selva avevamo il grosso delle nostre truppe.
Nel Nord ci eravamo sviluppati soprattutto nel senso politico,
organizzavamo le comunità o frazioni di comunità, ma era una regione
dove c'erano molti gruppi politici. Negli Altos in pratica c'era
soltanto il P.R.I.; nella Selva erano l'ARIC, la Quiptic e attraverso
di essi la Chiesa, non c'era nemmeno il P.R.I.. In compenso nel Nord
c'erano dei gruppi di destra, guardie bianche, organizzazioni di
sinistra, gente del PROCUP-P.D.L.P., del P.R.D., dell'OCEZ [53],
insomma di tutte le organizzazioni sociali o politiche di sinistra,
legali e clandestine. Era un terreno politicamente molto pesante,
saturo di proposte politiche diverse, quindi già all'epoca assai
frammentato e polarizzato. Spesso avvenivano feroci regolamenti di
conti. Il PROCUP-P.D.L.P. aveva giustiziato persone che dissentivano
con la sua linea nelle organizzazioni contadine del Nord, dirigenti
dell'OCEZ, soprattutto quando l'OCEZ si era divisa in due, poi in tre,
prima di polverizzarsi.
Dunque, dal punto di vista militare, le nostre forze principali,
strategiche e tattiche, erano concentrate fra gli Altos e la Selva, ma
erano dislocate in piccoli gruppi, in guarnigioni ripartite su tutto
il territorio; in vista di una manovra offensiva dovevamo riunirle per
poter colpire. D'altra parte le comunità si erano preparate da molto
tempo per resistere a un'aggressione, adesso andavano addestrate,
anche in termini politici e organizzativi, per lanciarsi all'attacco.
Bisognava quindi cambiare l'ordine delle priorità nel lavoro politico
dei dirigenti indigeni delle comunità, e gli obiettivi della
preparazione politica e militare delle truppe insorte e delle milizie
[54]. Insomma, bisognava rifare tutti i piani, ripartire da zero, e
questo significava uno sforzo enorme per l'E.Z.L.N. che con tutte le
sue migliaia di combattenti non aveva mai immaginato di andare
all'offensiva.
Nel dicembre del '92, dopo aver appreso il risultato della
consultazione, facciamo una riunione fra la direzione india e il
comando «di montagna» dell'E.Z.L.N., durante la quale riflettiamo su
come modificare la struttura direttiva in vista della guerra: è
necessario che l'esercito zapatista vero, cioè le comunità indie,
assuma il controllo di tutta l'organizzazione, anche nelle città, e
poiché vogliamo che la guerra abbia carattere nazionale e non locale
essa deve riguardare tutto il territorio, o almeno tutti gli Stati in
cui l'E.Z.L.N. è presente.
Formalmente, alla fine del '92 era sempre l'organizzazione politico-
militare ad avere il comando dell'E.Z.L.N., ma in realtà esso era già
delegato ai dirigenti delle comunità, quelli che allora chiamavamo
responsabili di zona per le tre regioni e responsabili d'etnia per i
quattro gruppi etnici.
Poi, per la prima volta, i capi indios di quattro etnie, ormai
demandati all'autorità con il titolo di comandanti, si riuniscono per
decidere le attività preparatorie per una guerra india, una guerra
delle quattro principali etnie del Chiapas. Fissano l'obiettivo della
guerra, rivendicazioni di carattere nazionale, non soltanto indio ma
nazionale. Le richieste principali, le parole d'ordine, sono:
democrazia, libertà e giustizia.
L'idea di una guerra nazionale non significa che ci battiamo per il
potere, ma per un sistema democratico, cioè per condizioni di parità,
di equità, per la lotta politica e per la creazione di uno spazio di
lotta civile e pacifica aperto a tutti. Per gli indios in particolare,
e in generale per tutti i messicani. Non bisogna dimenticare che una
parte dell'E.Z.L.N., quella che si è autodefinita organizzazione
politico-militare, è arrivata a impugnare le armi perché ha trovato
bloccate tutte le vie per la lotta politica pacifica.
Y: Come mai la prima Dichiarazione della Selva Lacandona parla di
prendere il potere e di...?
E' una dichiarazione di guerra, indica con chiarezza chi è il nemico:
il sistema messicano del partito di Stato, rappresentato in quel
momento da Salinas de Gortari. La prima Dichiarazione è incentrata
sulla necessità di una transizione alla democrazia, come condizione
indispensabile per veder soddisfatte le undici rivendicazioni intorno
alle quali si articola l'appello, e che sono le stesse anche oggi. Gli
undici punti sono: casa, terra, lavoro, pane, sanità, istruzione,
indipendenza, libertà, giustizia, democrazia e, per finire, pace. La
pace diverrà finalmente possibile quando saranno soddisfatti gli altri
dieci punti. L'E.Z.L.N. è un esercito che dichiara fin dall'inizio di
fare la guerra per ottenere una pace di altro tipo. Si appella ai
poteri dell'Unione (in sostanza i deputati e i senatori di quel
momento) perché assumano la guida di tale transizione, e chiede a
tutte le forze sociali e politiche di lottare, ciascuna nel suo
ambito, ciascuna al suo livello, per la transizione alla democrazia.
Quando l'E.Z.L.N. esce allo scoperto, è la prima Dichiarazione che
consente di articolare le diverse idee, le diverse componenti interne,
che continuano comunque a influire ciascuna a modo suo. Ovviamente
l'E.Z.L.N. non chiede a nessuno di rinunciare al suo programma: dice
solo che le proposte riguardanti il mondo, il sistema sociale o il
regime devono essere discusse con tutta la società, non imposte con le
armi. Non si tratta di rovesciare il regime e di imporre con le armi
il socialismo, la dittatura del proletariato, o chissà che altro,
bisogna invece che queste idee, o altre, possano confrontarsi in uno
spazio politico nuovo, che per il momento non può esistere a causa del
sistema del partito di Stato.
Prima del primo gennaio, nel '93, l'Esercito zapatista di liberazione
nazionale deve prepararsi per passare all'offensiva, per uscire allo
scoperto. Tutte le idee di cui ti parlo esistevano già, più o meno
omogenee secondo le località, alcune predominavano in ambiente urbano,
altre in montagna, altre nei villaggi. Era necessario farle confluire
e sviluppare l'elemento sostanziale, l'identità dello zapatismo. Lo
zapatismo non era marxismo-leninismo, ma era anche questo, non era
marxismo universitario, non era marxismo di analisi concreta, non era
storia del Messico, non era il pensiero indio millenarista e
integralista, non era la resistenza india, ma era comunque anche tutto
questo, era una miscela di tutti questi ingredienti, un cocktail
preparato in montagna e cristallizzato nella forza combattente
dell'E.Z.L.N., l'esercito regolare. L'esercito regolare, cioè gli
insorti, noi, il maggiore Mario, il capitano Maribel, il maggiore Ana
Marìa, quelli che sono vissuti sempre in montagna, è il prodotto
finale di questo scontro di culture. E anche i compagni del Comitato
di più antica data, come Tacho, David, Zevedeo, che sono nell'E.Z.L.N.
da dieci, dodici anni, dall'inizio [55], e che sono diventati
dirigenti del movimento grazie al loro lavoro, incominciano a
formulare una propria definizione dello zapatismo. E' solo dal 1993
che nel discorso zapatista incomincia a prevalere l'elemento indio.
Fino a quel momento, per esempio, preparavamo una spiegazione, poi
veniva tradotta per le comunità. A partire dal '93, trattandosi di
dirigere la guerra, il processo si inverte, sono le richieste indie a
venire tradotte per l'esercito, il quale avrà il compito di parlare,
di comparire in pubblico, di spiegare che cos'è l'E.Z.L.N. Nel
frattempo avviene lo scontro del maggio '93 nella Sierra di Corralchén
[56], che turba la preparazione della guerra e complica tutto, perciò
nel gennaio del '94 il discorso zapatista è ancora molto vago. E' una
prima sintesi generale, una miscela in cui coesistono valori
patriottici, il retaggio storico della sinistra clandestina messicana
degli anni Settanta, elementi della cultura india, elementi della
storia militare del Messico, ciò che abbiamo appreso dai gruppi
guerriglieri dell'America centrale e meridionale, dai movimenti di
liberazione nazionale.
La prima Dichiarazione della Selva Lacandona riflette tutte queste
cose. Insomma, c'è un gruppo di persone che hanno qualcosa in comune:
rivendicano gli undici punti, sono d'accordo sul fatto che il nemico è
il sistema del partito di Stato, e hanno deciso di fare la guerra per
rovesciarlo. Tutte cose da non dimenticare.
Tutta l'organizzazione subisce questo processo di trasformazione.
Tutti devono sottostare agli interessi di una dirigenza india che ha
la sua storia e il suo ordine di priorità. Per la nuova dirigenza la
questione india è fondamentale, passa in primo piano, al punto da
invalidare qualsiasi analisi internazionale, o persino qualsiasi
analisi interna sul ritardo nelle città, l'assenza di partecipazione
degli operai eccetera. La questione india diventa di primaria
importanza e gli indios, che sono in maggioranza, impongono questo
carattere nuovo, già chiaramente percettibile nei primi giorni di
insurrezione, e che in seguito ha modellato tutto il discorso dello
zapatismo. Intendo dire il sentimento indio che aspira immediatamente
all'universale, a saltare direttamente dall'ambito locale, contadino,
a una dimensione universale nel senso in cui la intendono gli indios,
senza alcuna transizione nazionale o d'altro genere.
Bisogna ribadire che per dieci anni ci eravamo preparati a morire. A
partire dal 2 gennaio ci siamo resi conto che non eravamo morti, che
dovevamo vivere, e abbiamo incominciato a improvvisare. Le cose non
andavano affatto secondo le previsioni, e quando parlo di previsioni
parlo di un'organizzazione armata che prevede minuziosamente tutti i
dettagli militari. Per il primo gennaio sapevamo esattamente quale
unità sarebbe stata a quale crocevia, a che ora e che cosa avrebbe
fatto. Ma dopo, niente. Niente. Non ci eravamo preparati a parlare.
Comunque, riguardo alla storia del carattere indio della lotta, i più
riluttanti a parlarne sono quelli del Comitato. E all'interno
dell'E.Z.L.N. quelli degli Altos, che sono i più indios, i più vicini
alle proprie radici: David, Ana Marìa; soprattutto loro mantengono le
distanze, per esempio, dal Forum nazionale indio [57], temono più
degli altri che l'E.Z.L.N. venga percepito come un movimento indio.
Per tornare a quello che dicevi sul discorso indio, durante le
discussioni sui primi comunicati, poi nel dialogo nella cattedrale, la
preoccupazione principale del Comitato e dei delegati era di non
permettere che il movimento fosse ridotto alla questione india. In
realtà, avrebbero volentieri eliminato dal discorso zapatista
qualsiasi riferimento indio.
Y: Quali sono state le difficoltà maggiori che avete incontrato nei
preparativi dell'insurrezione?
Stavamo preparando i piani d'attacco delle città quando si è
verificato lo scontro di Corralchén. In un primo momento siamo stati
costretti a rivedere da capo l'attacco di Ocosingo, perché l'esercito
aveva trovato uno schizzo del palazzo municipale di Ocosingo, e quindi
sapeva che avevamo intenzione di sferrare lì il nostro attacco; era un
elemento nuovo da inserire nei nostri piani.
Ma la cosa più importante è che le nostre truppe affrontavano i
soldati per la prima volta. Trovandosi davvero faccia a faccia con la
guerra alcuni ci ripensano e decidono di ritirarsi. Anche un certo
numero di ufficiali, e questo rovina i nostri piani. Del resto c'è chi
se n'è andato addirittura il 31 dicembre! Tutto quello che è accaduto
nel '93 ci diceva che era un'impresa folle, che bisognava rinunciare;
fino al primo gennaio 1994 tutto era contro di noi. Fino alla vigilia
dell'offensiva perdevamo combattenti, non trovavamo mezzi di
trasporto, c'erano problemi in svariate comunità, e oltre a tutto, per
complicare le cose, l'incidente di Corralchén. In un certo senso,
però, esso ci è stato anche utile, abbiamo capito meglio su chi
potevamo contare e abbiamo potuto precisare in anticipo certi piani.
Questo ci ha consentito anche di ingannare i servizi di
controspionaggio dell'esercito, fornendo loro, a partire dal 30
dicembre, indizi su un attacco a Ocosingo, come si aspettavano. Il
nemico si è concentrato su Ocosingo, e noi abbiamo potuto schierare
tranquillamente le nostre forze su Altamirano e San Cristòbal; abbiamo
rimandato il più possibile l'attacco alla città, per far credere loro
che se lì non succedeva niente, non succedeva niente da nessuna parte,
e abbiamo attaccato Ocosingo solo dopo la caduta delle altre città.
Nelle nostre analisi interne, avevamo esaminato con i compagni del
Comitato la possibilità che potesse trattarsi di una messa in scena, e
che in realtà magari Salinas non fosse così saldo come si diceva.
Ritenevamo che Salinas, adottando il progetto neoliberista, e
inserendo il Messico a ritmo forzato nel mercato mondiale, avesse
certamente danneggiato gli interessi di altri gruppi di potere
ancorati a progetti storici diversi all'interno del regime. Questo
poteva aver provocato rancori nella classe politica, e in tal caso
forse un movimento di ribellione contro Salinas de Gortari non avrebbe
provocato un rifiuto unanime. Ma si trattava soltanto di un'ipotesi,
avanzata senza pensarci troppo. La prospettiva seria era che noi
dovevamo dichiarare la guerra: ci avrebbero annientati, ma il nostro
gesto avrebbe attirato l'attenzione sul problema indio, provocando una
scossa grazie alla quale il regime e il mondo sarebbero stati
costretti a puntare gli occhi su di noi.
Pensavamo che la strategia di Salinas si basasse su una campagna
pubblicitaria all'estero per promuovere l'immagine di un paese
stabile, un buon prodotto sul mercato. Se fossimo riusciti a
vanificare tale campagna avremmo ottenuto due cose: innanzitutto
rivelare la verità, che cosa significava in realtà il progetto
economico per una parte del paese, gli indios; e in secondo luogo
obbligare il Messico a guardare la sua componente india, a vedere
quella parte di sé dimenticata. Era una guerra contro l'oblio. Al di
là di questo non vedevamo alcun avvenire, né militare né politico. Era
una guerra disperata, lo sapevamo, dovevamo per lo meno cercare che
fosse quanto più utile possibile per la gente di fronte a cui ci
sentivamo responsabili: le comunità indie.
Y: Non avevate pensato che la vostra azione potesse attirare la guerra
sulle comunità?
Comunque, i villaggi erano pronti a ritirarsi, a resistere, e
contavano che un primo successo militare della nostra offensiva
avrebbe impedito al governo di massacrarli impunemente. Si trattava di
far salire il prezzo del sangue indio.
Del resto la storia non è finita, vedrai, arriveremo a Città del
Messico, non abbiamo rinunciato all'idea. Ma la strategia era quella
che ti ho appena descritta, guarda, quando è arrivato il cessate il
fuoco stavamo incominciando a schierarci per marciare su Tuxtla, il
Tabasco, Oaxaca e Veracruz.
Questa manovra rallenta la colonna che deve marciare su Tuxtla, verso
i grandi sbarramenti idroelettrici nella zona centrale dello Stato. La
colonna che marcia verso il Tabasco incomincia ad avanzare al ritmo
previsto, l'altra è un po' in ritardo, ma riesce a mettersi in moto
dopo il 6, dopo aver abbattuto gli aerei. L'esercito sferra
l'offensiva in montagna, ma l'unità che ha attaccato Rancho Nuevo
riesce ancora a contenerla, e abbiamo dei problemi con l'unità che ha
preso Ocosingo.
Dunque, il 2, so dalla radio che un'unità completa, un battaglione
intero, è stato annientato a Ocosingo. Si parla di molte centinaia di
morti.
Comandante Tacho: Volevamo incontrare la gente, come quando siamo
andati a San Cristòbal, a San Andrés, e molti gruppi venivano a
trovarci; volevamo spiegare loro le nostre ragioni, perché eravamo
stati costretti a sollevarci in armi. Siamo insorti per vivere,
semplicemente... per avere una vita dignitosa. E loro di sicuro
pensavano che fossimo quel che diceva il governo, un gruppo di
«trasgressori».
Il muro di Berlino era caduto, una grande potenza mondiale. In
parecchi ci dicevano: siete matti! Come pensate di fare la guerra
contro tutti quei tank, quegli elicotteri? Non concepivano nemmeno
l'idea di fare qualcosa di diverso, di nuovo, qualcosa per la vita.
Tutti i movimenti hanno mirato sempre e obbligatoriamente a
conquistare il potere, non hanno mai cambiato posizione. Noi dicevamo
no, vogliamo avere il nostro posto e niente di più. Per noi niente,
per gli altri, tutto. E' un punto fondamentale.
Quando ci sentiamo fratelli non abbiamo paura, non proviamo vergogna,
parliamo tranquillamente con gli altri indios, gli altri gruppi
sociali, i grandi scrittori, i grandi intellettuali. Prima non ci
avevamo mai pensato, non sapevamo come avremmo fatto. E poi, d'un
tratto, i sogni che erano nel profondo della Selva, trasmessici dai
compagni, d'un tratto stanno diventando realtà.
- Il secondo shock: la scoperta della società civile.
Marcos: No, in quel momento, fra il 5 e il 10 gennaio, eravamo
sommersi dai problemi di cui ti ho parlato. A Ocosingo e nelle
montagne del sud dove mi trovavo io ci bombardavano: gli svizzeri, che
amano tanto la pace, avevano mandato degli aerei Pilatus ad ammazzare
i messicani. Da una parte ci ritiravamo nella Selva, altrove andavamo
avanti, e non sapevamo che cosa accadesse. I mezzi di informazione
chiedevano che fossimo liquidati. C'era persino una specie di
identikit di Marcos alla televisione, alla radio e sulla stampa:
«Quest'uomo inganna gli indios, fermatevi, arrendetevi». Una campagna
molto dura contro di noi.
Quando hanno nominato Camacho delegato per la pace, pensavamo che
fosse un trucco: nominano qualcuno per vedere se andiamo avanti o per
fingere di essere favorevoli alla pace pur continuando la guerra. Non
l'abbiamo preso sul serio, e abbiamo continuato la nostra offensiva.
Quello che ci ha sorpresi è stato il 12 gennaio: il cessate il fuoco,
la proposta di amnistia di Salinas e l'offerta di dialogo di Camacho.
Ma abbiamo pensato che fosse una trappola. Che volessero attirarci
allo scoperto per tradirci. Avevamo davanti un mondo che non aveva
niente in comune con il mondo reale.
Delle grandi mobilitazioni della società civile, a Città del Messico e
altrove nel mondo, abbiamo saputo solo più tardi.
Il 12 gennaio, quindi, pensavamo che fosse una trappola. Ma abbiamo
riflettuto in termini militari: avevamo ancora gente bloccata
all'interno di Ocosingo, circa ottanta feriti, curati nei nostri
ospedali da campo, unità che si erano smarrite durante la ritirata
dagli Altos alla Selva di cui non avevamo notizie. Abbiamo deciso di
fare nostra la proposta di cessate il fuoco e di porre alcune
condizioni per intavolare il dialogo. Eravamo convinti che le
condizioni non sarebbero state accettate, che fosse tutta una
trappola, che non avrebbero rispettato il cessate il fuoco, tant'è che
il 13 e il 16 ci sono stati altri scontri, a San Miguel, a Monte
Lìbano, e che i bombardamenti sono continuati.
Durante i primi giorni di gennaio, questo amalgama che si è buttato
nella mischia il primo del mese finisce di definirsi tramite
l'incontro con la società civile. Proprio come l'organizzazione
politico-militare aveva ceduto davanti alle comunità, a sua volta il
Comitato rivoluzionario indigeno ci pensa: succede qualcosa di nuovo,
è meglio fermarsi e cercare di capire, perché quello che era stato
previsto non è più possibile. Decidiamo di aspettare e riflettiamo.
Non è il governo a chiedere di fermarci, sono loro, quelli per cui
vogliamo batterci che ci dicono di non farlo. E allora? Dobbiamo
batterci nonostante loro? E se no, che facciamo?
Y: Il cessate il fuoco vi ha colti di sorpresa?
Maggiore Moisés: No, abbiamo visto che non dipendeva da una decisione
di Salinas. E' stata la pressione del popolo a costringerlo. La
società civile è intervenuta. E' stata quella a dire: aspettate,
soldati; aspettate, zapatisti. Se Salinas non ci avesse fatto caso,
saremmo stati costretti a continuare, ma la pressione popolare si è
imposta. Noi non sapevamo più che cosa fare se non potevamo servirci
delle nostre armi. A quel punto i compagni del Comitato hanno deciso
che bisognava parlare con la gente, vedere come continuare la lotta.
Il nostro nome è esercito «di liberazione nazionale», e in quel
momento diventavamo nazionali sul serio. E' quello che tentiamo di
fare.
Y: A posteriori, come analizza la decisione di Salinas, dal momento
che tutto sommato il cessate il fuoco era una cosa seria?
Marcos: Credo che secondo il calcolo di Salinas sarebbe costato meno
caro tentare di negoziare e vedere se si potevano comperare gli
zapatisti piuttosto che tentare di distruggerli, buttando all'aria
tutta la sua campagna pubblicitaria. Poteva accettare di ammettere una
macchia sulla sua immagine internazionale: «D'accordo, non sono
perfetto, c'è un difettuccio, ma intendo occuparmene, d'altronde è
soltanto il Chiapas, siamo un po' in ritardo, ma il resto del paese va
bene». Eliminarci voleva dire rischiare una reazione nelle altre parti
del paese, stava già incominciando. Salinas è un uomo estremamente
intelligente, molto perverso ma estremamente intelligente, questa
decisione gli permette di assumere la guida del movimento pacifista e
di neutralizzare tutta la situazione a livello nazionale. Con questa
svolta, recupera il suo prestigio internazionale e la sua autorità;
gioca sul tempo e sui soldi, decide di vedere, di sapere chi siamo e
quanto costiamo.
Un altro fattore che può aver influito è la divisione interna del
regime: supponevamo che esso fosse compatto anche se lo immaginavamo
debole, ma in realtà era frazionato al punto che quelli del gruppo al
potere pensavano che fosse uno di loro a manipolare l'E.Z.L.N.!
Un terzo fattore, immagino, è che l'insurrezione zapatista ha fatto
affiorare in superficie le spaccature interne del regime, quindi
Salinas non poteva decidere di eliminarci perché all'interno dello
Stato alcuni si opponevano. So che nelle alte sfere del potere,
qualcuno era contrario a ricorrere alla violenza. Anche fra i
militari, perché essi si rendevano conto di non essere preparati ad
affrontare un movimento di questo genere. Gli ufficiali dell'esercito
federale erano addestrati in base alle teorie della Escuela de las
Américas [68], per la sicurezza nazionale eccetera, dove si pensa ai
movimenti di guerriglia come a gruppi introdotti e finanziati
dall'estero. Di punto in bianco dovevano combattere una guerriglia
india e lo vedevano, lo vedevano perfettamente che a sparare loro
addosso erano degli indios! Inoltre, l'avversario si richiamava a
tutto quello che costituisce il patrimonio dell'esercito federale, la
patria, la democrazia, la libertà, la storia. Questo lo rendeva un
nemico piuttosto imbarazzante, non dal punto di vista militare, ma sul
piano politico ed etico.
Y: A quanto pare lei ha dichiarato che l'esercito messicano è
mitizzato.
Al momento della consultazione, dopo il dialogo di San Cristòbal,
abbiamo incontrato delle organizzazioni armate; a quanto ho letto sui
giornali, alcune di esse fanno parte dell'E.P.R. [70]. Tutti
concordavano sul fatto che l'aspetto più importante, più
significativo, del gennaio '94 non era l'insurrezione zapatista ma la
sollevazione della società civile, e che evidentemente la lotta armata
non avrebbe avuto l'appoggio della maggioranza della popolazione.
Bisognava aspettare almeno il 21 agosto, le elezioni. Abbiamo
concordato di non fare alcuna azione militare, né noi né loro, durante
il periodo preelettorale, in modo da lasciare tempo alla rivolta
civile.
Soltanto dopo il febbraio del '95, quando accettiamo il dialogo, le
comunità decidono che non possiamo tenere il piede in due staffe. Il
risultato della consultazione dell'agosto '95 era molto chiaro:
«Trasformatevi in forza politica per continuare la lotta». Siamo stati
costretti a obbedire. Se prendevamo contatti militari con un'altra
organizzazione, avremmo dovuto dirlo alla gente. Non potevamo mentire
come fa il governo, consultarla e non tenerne conto. Ma parlandone
avremmo danneggiato l'altro gruppo armato. Quindi abbiamo deciso di
interrompere i contatti.
Y: Quando è nato lo zapatismo civile? Durante il dialogo nella
cattedrale?
Quando abbiamo deciso di assistere al dialogo, la discussione non è
stata facile, credimi. Qualcuno pensava che fosse un tranello, che non
dovessimo accettare. Inoltre, ci avevano inviato il mediatore di punta
del governo, Camacho Solìs, che era riuscito a neutralizzare e a
convincere partiti come il P.R.D. Nel Comitato alcuni pensavano che si
sarebbero fatti fregare, che Camacho li avrebbe presi per il naso. Gli
altri dicevano che bisognava sfruttare quello spazio per parlare, per
capire che cosa stava succedendo. Dicevano che bisognava andarci per
parlare con la gente, che la cosa più importante non era il dialogo
con il governo, ma parlare con la gente per cercare di capire. Alla
fine abbiamo deciso di correre il rischio. Il problema era comprendere
se il dialogo sarebbe stato utile al governo o agli zapatisti. Era una
scommessa. La posta in gioco nel dialogo nella cattedrale. E credo che
abbiamo vinto noi.
Secondo me, in quel momento nemmeno Camacho aveva più la minima
speranza di far fruttare l'accordo dal punto di vista politico. Chi ha
ucciso Colosio era pronto a uccidere chiunque, il secondo della lista
era Camacho, questo pensavamo.
No, il nostro problema era che ci trovavamo in una situazione del
tutto imprevista e non sapevamo che cosa fare.
Non ci eravamo mai proposti di accedere al potere, non era quello il
nostro obiettivo. Dovevano essere altri a prendere il potere e a
soddisfare le nostre richieste. Magari un'alternativa di sinistra, o
di centro come C rdenas, o qualcuno del P.R.I. in grado di farlo, in
grado di risolvere questi problemi. Dopo, magari, avremmo riflettuto
su una partecipazione politica. Non abbiamo pensato nemmeno per un
attimo che fosse la nostra occasione.
Del resto penso che abbiamo avuto ragione, perché hanno fallito anche
quelli con maggiori possibilità. Persino il gruppo di Castaneda, il
gruppo San Angel, come gruppo di pressione ha fallito. Come poteva
avere successo un ex guerrigliero? Credo che fosse impossibile; e
comunque non rientrava nei nostri progetti.
Perciò dovevamo aspettare, e lasciare che le elezioni si svolgessero
come aveva previsto il governo, così non avrebbero potuto dire che le
avevamo disturbate. Alcune persone ci passavano informazioni su quello
che stavano tramando nell'apparato statale, e abbiamo avvertito
C rdenas che il governo aveva intenzione di relegarlo al terzo posto.
Non puntavano a batterlo, ma volevamo privarlo di qualsiasi
possibilità di protestare. Glielo abbiamo detto il 15 maggio e glielo
abbiamo ripetuto alla Convenzione, tramite dona Rosario [72], credo.
Se credeva di arrivare secondo e di potersi battere per la presidenza
si sbagliava, sarebbe stato terzo, quella era la manovra.
Non ci ha creduto. C rdenas diceva che era impossibile, che il PAN non
aveva la minima possibilità, che il P.R.I. gonfiava apposta le cifre.
E' logico, al suo posto avrei pensato la stessa cosa; era convinto di
vincere, altrimenti non si sarebbe buttato. Se non ci credi, non ne
vale la pena [73].
Molti dicono che il movimento zapatista ha creato difficoltà a
C rdenas, ma secondo me invece l'ha aiutato, perché lo faceva apparire
come l'espressione della possibilità di una transizione pacifica. In
contrasto con l'opposizione violenta proposta da noi.
Questo vorrebbe dire trovarsi davanti a gente molto politicizzata, che
vuole un uomo del P.R.I. alla presidenza, ma non come deputato o
senatore, o come sindaco. Per le presidenziali le percentuali si
ripetono in tutti i posti, in tutte le fasce sociali, con una
precisione stupefacente.
A parte questo, c'era una disparità finanziaria palese, dimostrata.
Zedillo ha speso molto più degli altri, l'ha ammesso anche lui. Anche
i mezzi di informazione gli hanno dato più spazio. Ma sono convinto
che, a parte il resto, ci siano stati dei brogli. La gente non aveva
paura, soprattutto non aveva paura dello zapatismo. Nessuno ha mai
fatto manifestazioni di sostegno per il governo, quando esso voleva
liquidarci. Anzi, la gente manifestava per impedirglielo, non parlo
dei militanti, degli operai, parlo della classe media, della gente
agiata, gli artisti, gli intellettuali.
Comunque le elezioni dimostrano diverse cose. Per la prima volta il
P.R.I. non ottiene la maggioranza. La maggior parte dei votanti si è
schierata contro il P.R.I., anche se i voti vanno ripartiti fra
astenuti, P.T., PAN, P.R.D. e persino zapatisti; c'è stato un discreto
numero di voti annullati, che erano per l'E.Z.L.N. E' un voto contro
il P.R.I., ma disperso fra astensionismo e le diverse forze
all'opposizione.
Una volta presidente, la prima cosa che fa è di sostenere Robledo
Rincòn [76]. Nel caso delle elezioni presidenziali era impossibile
dimostrare i brogli, ma quelli fatti per l'elezione di Rincòn a
governatore del Chiapas saltavano veramente agli occhi. C'erano le
prove, si è riunito un tribunale di diversi osservatori, che è
riuscito a dimostrare i brogli. Nonostante tutto, la prima decisione
di Zedillo arrivando al governo è stata quella di andare ad assistere
all'insediamento di Robledo. Per noi era chiaro. Bisognava fare
qualcosa per ricordare che c'eravamo ancora. Allora, nel dicembre del
'94, abbiamo deciso di rompere l'accerchiamento.
L'obiettivo era di dire a Zedillo quello che avevamo detto a Salinas:
«Ricordati che nel Sudest hai un movimento di guerriglia, e sarai
costretto a trovare una soluzione, militare o politica». Perciò
facciamo l'atto di rompere l'assedio [77], e il governo decide allora
di scatenare una crisi economica che, come abbiamo saputo dopo, covava
già, per imputarcene la responsabilità. Il peso va in malora, la Borsa
chiude, si verifica una fuga di capitali e tutto il resto...
N: E' stato allora che avete sviluppato la concezione di società
civile organizzata, di nuove forme politiche?
A livello nazionale sono queste le tre grandi componenti dello
zapatismo: lo zapatismo armato, lo zapatismo civile e uno zapatismo
sociale.
Inoltre, dal febbraio del '95, con gli Incontri, incomincia a
comparire uno zapatismo internazionale. Nel '94 non interessava a
molti, comunque non come oggi. C'è voluto del tempo perché lo
zapatismo si facesse conoscere all'esterno, fosse digerito,
assimilato, la gente si è ricordata di noi solo dopo il tradimento del
'95. Poi il movimento è decollato, e ha preso forma con la
preparazione dell'Incontro intercontinentale.
Poco fa chiacchieravo con dei tipi della tivù turca, a quanto pare c'è
un'edizione turca di tutti i nostri comunicati e in Turchia esistono
quattro o cinque comitati di solidarietà! Lo zapatismo internazionale
sembra comprendere meglio il carattere indio dell'E.Z.L.N., ha colto
il carattere universale della posizione del neozapatismo originale,
l'unità dell'organizzazione militare e delle comunità indie.
Non possiamo chiamarlo realmente zapatismo, lo zapatismo è il punto in
comune, o il pretesto per una convergenza. Ciascuno ha la sua propria
logica, ma si riconosce in alcune affermazioni dello zapatismo. Non
vedo alcuna somiglianza fra gli zapatisti baschi, catalani, greci,
curdi, svedesi, giapponesi, a parte il fatto di venire tutti qui e
avere ciascuno la propria idea su che cosa sia o che cosa dovrebbe
essere lo zapatismo. Comunque è un fenomeno che esiste e, al di là
della solidarietà con il movimento indio, mira sempre di più a
ritrovare una serie di valori universali che possano servire
altrettanto bene all'australiano, al giapponese, al greco, al curdo,
al catalano, al "chicano" e all'indio dell'Equatore, per esempio, o al
"mapuche" [81].
- Lo zapatismo e la questione del potere (Zapata, il Che, eccetera).
Significa anche che non abbiamo rinunciato alla lotta armata. La porta
di una transizione pacifica non è costantemente aperta, le armi devono
sempre fare la loro parte, non fosse altro che per obbligare la
controparte al dialogo. Il governo tratta con noi che siamo armati, ma
non ha mai accettato di dialogare con le forze politiche, con le forze
sociali urbane.
La marcia su Città del Messico, con o senza armi, è innanzitutto un
simbolo. L'idea è di uscire dalla questione strettamente chiapaneca e
strettamente india, allargare la prospettiva alla questione nazionale.
Il progetto coincide con quello del Fronte zapatista di liberazione
nazionale: formare un'organizzazione che non sia più a maggioranza
india, che abbracci altri settori sociali, soprattutto lavoratori
della campagna e della città, insegnanti, intellettuali, studenti,
artisti, tutto lo zapatismo civile che conosciamo. Il simbolo evoca
questo incontro, attraverso il quale lo zapatismo può diventare,
produrre, qualcosa di nuovo.
Per gli zapatisti, i valori etici sono un riferimento fondamentale,
molto più importante della Realpolitik. Le scelte compiute fanno
perdere molte occasioni agli zapatisti dal punto di vista della
Realpolitik, perché accordano maggior valore alle implicazioni morali.
Y: Ha citato la parola sacrificio, e anche quanto ha detto del primo
gennaio si iscriveva in questa logica. Capisco la dimensione umana,
etica, ma non è pericoloso anche per la popolazione? Pensavate che il
peso della violenza sarebbe ricaduto su di voi, ma poteva ricadere
anche sulle comunità: in questi ultimi decenni, penso soprattutto al
Guatemala, le strategie antinsurrezionali hanno sempre preso di mira
più i civili dei combattenti, e la popolazione civile ha pagato un
prezzo terribile.
Per quanto riguarda il prezzo politico, abbiamo dovuto pagare
soprattutto quello dei nostri errori: quando decidiamo di attaccare
nel momento in cui si dovrebbe trattare, anche se non ce ne accorgiamo
subito, la nostra decisione produce effetti che si ripercuotono sui
villaggi, e la gente ne chiede conto ai dirigenti. Quando abbiamo
avuto problemi nei villaggi, essi derivavano assai più dai nostri
errori che dalle strategie antinsurrezionali del governo. Non capisco
perché, forse ci disprezzano troppo per fare bene le cose. Oppure la
rete della corruzione è talmente fitta che nessuna iniziativa seria
arriva mai a buon fine. Per esempio, gli scontri causati in questo
momento dai gruppi paramilitari nel Nord del Chiapas secondo me non
derivano tanto da un'offensiva pianificata quanto dal caos che regna
all'interno del governo, dalla sua incapacità di mantenere il
controllo. Il governo gira totalmente a vuoto, l'esercito federale si
comporta qui come un esercito d'occupazione con una popolazione nemica
e il suo esercito. Una popolazione nemica, soprattutto. Non dico che
non abbiano cercato di dividere la gente, in un modo o nell'altro, ma
senza alcun successo. O ha funzionato la resistenza delle comunità, o
lo sforzo del governo è stato insufficiente; oppure, non gliene
importa niente.
No, nella maggior parte dei casi i nostri problemi dipendevano da
errori dell'Esercito zapatista e dalle sue strutture di comando
civile. Per esempio, alcuni capi delle comunità tollerano poco le
critiche provenienti dall'interno; talvolta la struttura direttiva, il
C.C.R.I., è influenzata da questioni religiose; e poi, alcuni problemi
si individuano troppo tardi e finiscono per esplodere quando hanno
ormai assunto dimensioni enormi, oppure si manifesta la tendenza a
risolvere questioni politiche nello stile militare, invece che
cercando soluzioni di mediazione, di conciliazione. Francamente, i
problemi che possiamo avere nei villaggi della Selva, del Nord o degli
Altos dipendono soprattutto da noi. Dall'esterno, attraverso la stampa
o quello che colgono le ONG, logicamente possono essere interpretati
come una campagna orchestrata per creare divisioni, ma la nostra
struttura interna ci pone direttamente nelle comunità, a contatto con
i problemi. Noi la vediamo così.
Nel '94, quando in pratica abbiamo governato la zona per tutto l'anno,
appariva ancora più evidente. Molti conflitti erano causati
dall'intolleranza dei dirigenti locali verso chi non era d'accordo,
faceva proposte diverse dalle loro, avanzava critiche o semplicemente
non voleva partecipare. Il problema trae origine da una struttura
organizzativa che è nata durante la resistenza e non è pronta a
trasformarsi in governo. E' stato molto difficile per lo zapatismo
diventare un governo davvero pluralista, un governo delle comunità con
tutte le loro componenti.
Y: E adesso la transizione è compiuta? Siete in una situazione molto
incerta, una specie di pace armata, di semiguerra, che in realtà non è
compatibile con una democrazia pluralista, con la democrazia pura e
semplice.
Perciò dobbiamo affrontare questa contraddizione. Dal punto di vista
del programma politico è evidente, come esercito dobbiamo sparire,
evolvere verso la via pacifica. Ma se si guarda all'atteggiamento del
governo, tutto indica che dobbiamo rimanere armati, che se passiamo
alla via politica ci faremo ammazzare o saremo digeriti. E' questo a
trattenerci, non tanto la paura di farci ammazzare quanto quella di
farci digerire, di essere trasformati in «politici», una connotazione
ancora più negativa in Messico che altrove.
Resta comunque il fatto che nei rapporti con la popolazione civile si
manifestano atteggiamenti militaristi. Il problema mi sembra tocchi
soprattutto il rapporto fra lo zapatismo militare e lo zapatismo
civile. Le comunità, dal canto loro, hanno cinghie di trasmissione
proprie per favorire od ostacolare il flusso di informazioni, le
iniziative; hanno un controllo più efficace. Inoltre concepiscono
diversamente la propria capacità di dibattito. Per esempio, nel suo
villaggio Tacho non è un personaggio, è Tacho il contadino, tutti lo
conoscono, lo criticano. Lo stesso David, negli Altos, non è il
comandante David...
Per la società civile siamo l'Esercito zapatista, il subcomandante
Marcos, il comandante Tacho... Spesso, quando lanciamo delle
iniziative, le esprimiamo come ordini, o comunque la gente le sente
così. Annunciamo la nostra intenzione di fare una certa cosa, senza
discutere su quale sia l'approccio migliore. Poi, quando arrivano le
critiche, abbiamo la tendenza a reagire da soldati, a irrigidirci.
Abbiamo bisogno di tempo per assimilarle.
Y: Un altro pericolo deriva dalla tendenza delle comunità a essere
omogenee. Anche le comunità zapatiste risultano relativamente
omogenee, tutti sono zapatisti. La democrazia è diversità, conflitto,
disaccordo. Voi stessi siete nati da divergenze, divisioni, e le
vostre azioni hanno prodotto altre divergenze. Come incanalare tutto
questo verso una democrazia pluralista del tipo che auspicate?
In un conflitto fra l'individuo e il gruppo, il gruppo l'aveva vinta
per forza, e se l'individuo non accettava, il gruppo lo espelleva. Non
soltanto a Chamula o in altri villaggi tzotzil degli Altos, la stessa
cosa si verificava anche nei villaggi tzeltal della Selva: era l'unica
possibilità di sopravvivenza. Le comunità non avrebbero potuto
resistere se ci fossero state divergenze, critiche dall'interno. Per
esempio, quasi tutta la regione della Selva è cattolica e chi non era
cattolico veniva accusato di stregoneria. Era impossibile avere
un'altra religione, non te lo permettevano. Fra l'87 e l'88 l'unica
organizzazione politica era la Quiptic ta lecubtesel, la Uniòn de
Uniones. L'unico dialetto era lo tzeltal, e gli integralisti della
Uniòn de Uniones avevano questa parola d'ordine: «Una sola religione,
quella cattolica, una sola lingua, lo tzeltal, una sola
organizzazione, la Quiptic». Quando siamo arrivati noi, hanno
aggiunto: «un solo esercito, l'Esercito zapatista di liberazione
nazionale». Non c'era altra possibilità, si sono formati così. E'
quello che abbiamo trovato quando siamo arrivati. Tuttavia,
all'interno della Quiptic c'erano discussioni vere e proprie. Nessuno
monopolizzava la rappresentanza del gruppo per imporla ai singoli
individui, davvero era il collettivo a decidere, a operare contro gli
individui e a giudicarli.
Con l'E.Z.L.N. la faccenda si è complicata: le decisioni da prendere
riguardavano diverse comunità, bisognava portare la discussione a
livello di regioni che comprendevano numerose vallate, o più tardi a
livello di zone etniche. In quel caso era chiaro che c'erano zapatisti
e non zapatisti. Lo zapatismo attraversava tutta la struttura da cima
a fondo, fino alla comunità, si produceva una divisione di fatto,
anche in assenza di conflittualità: c'era una chiesa zapatista e una
non zapatista, battesimi zapatisti e altri che non lo erano; c'erano
diaconi, agenti sanitari zapatisti... tutta la struttura era divisa. E
questo tracciava una linea di demarcazione che ha spezzato, dico sul
serio, la struttura comunitaria di cui ti ho parlato. Contrariamente a
quanto accadeva con la religione cattolica o la Quiptic, chi la
pensava diversamente non veniva perseguitato, ma la divisione c'era.
Per noi non era normale, i problemi di sanità, di religione, di
istruzione, le decisioni della comunità non riguardavano lo zapatismo,
potevano essere risolti come sempre, ma i compagni lavoravano così.
Parlo di prima del '93, prima della guerra. Dalle parti di Amador ci
sono stati persino dei casi in cui la comunità si è divisa
concretamente, i non zapatisti da una parte del fiume e gli zapatisti
dall'altra. La gente si incontrava, si sposava, ma in realtà erano due
villaggi distinti.
Lo zapatismo divideva, è vero, ma non creava scontri. A questo
riguardo l'accusa della diocesi, della Chiesa, è ingiusta. Qui molta
gente è stata uccisa in nome della religione. Noi non abbiamo ucciso
nessuno in nome dello zapatismo. I villaggi litigano, se ne dicono di
tutti i colori, ma gli zapatisti non hanno mai provocato scontri
armati all'interno delle comunità.
Y: Però dicono che nel '93, quando si è deciso di insorgere, ci sono
state delle espulsioni.
Le leggi di guerra che abbiamo emanato prevedevano anche un controllo
molto rigoroso sull'economia, soprattutto sul commercio al minuto.
C'erano prezzi fissi, uguali in tutta la zona, e se una bottega li
superava, gli zapatisti la facevano chiudere. Molti piccoli
commercianti si sono sentiti danneggiati, e se ne sono andati.
Del resto era un buon affare: il governo sfruttava la questione degli
«sfollati» a scopo di propaganda, si offriva di mantenerli, e pagava
addirittura l'affitto per le terre che abbandonavano. Gli sfollati
stringevano un accordo con la comunità. Dicevano: «Intendo diventare
sfollato, non sono zapatista ma non voglio litigare, voi curate i miei
affari e io vi passo una parte di quello che mi spetta come sfollato».
Quando il governo ha visto che la propaganda sugli «sfollati» non dava
i risultati sperati, li ha abbandonati...
Paradossalmente la stampa, che aveva gridato allo scandalo riguardo
agli «sfollati» del '94, non ha detto una parola su quelli del '95.
Nessuno parla della gente di Guadalupe Tepeyac [87]. Nel corso di
tutto il '94, mentre il governo manteneva quelli dell'ARIC che avevano
lasciato la Selva, ci sono stati grandi servizi giornalistici, lettere
di protesta, gli intellettuali messicani erano completamente
sconvolti...
La storia degli sfollati è interessante. Il governo l'ha sfruttata in
modo molto perverso, ma essa riflette anche le contraddizioni degli
zapatisti con funzioni direttive nelle comunità, i loro rapporti con i
dissidenti. Si comportano come zapatisti, come un'organizzazione
politico-militare, democratica e tutto quello che vuoi, ma omogenea,
come qualsiasi altra organizzazione. E invece chi governa non dovrebbe
tendere all'omogeneità e imporre le proprie risposte politiche con la
forza, dovrebbe inglobare le opposizioni e le minoranze.
N: Secondo alcuni, la democrazia della comunità, del consenso, è
quanto c'è di più sano in Messico in materia di democrazia, e
bisognerebbe seguirne l'esempio a tutti i livelli, anche per lo Stato.
Sul piano locale offre dei vantaggi, ma quando si tratta di governare
crea anche degli inconvenienti.
Nel caso delle comunità, il controllo funziona ventiquattr'ore su
ventiquattro. Nessuno può arricchirsi senza che gli altri lo sappiano.
Se un dirigente della comunità incominciasse ad avere soldi, tutti
andrebbero a chiedergliene conto. E chi non fa bene il suo lavoro
viene sostituito. Ovviamente funziona perché si tratta di un
villaggio. Ma bisogna trovare dei meccanismi che consentano alla
società in generale di controllare i suoi governanti e confermarli in
carica, decidere se possono continuare o no, ed eventualmente punirli.
Dovrebbe essere la società a controllare il governo e non il governo a
controllare la società, come affermano i teorici del salinismo che
hanno già dimenticato il «salinismo»... [88]. Secondo loro, la società
tende naturalmente verso il caos e il governo deve vegliare affinché
non si disgreghi. Ci vuole perciò un governo forte, che la controlli.
Per noi, invece, è il governo a tendere spontaneamente verso il caos,
verso la dittatura, l'autoritarismo, le pratiche antidemocratiche e la
corruzione, ed è la società che deve costringerlo a renderne conto.
Obbligarlo a comandare obbedendo, come diciamo noi.
Ma per esperienza, non consiglierei di trasferire i metodi
dell'assemblea comunitaria ad altre sfere, per esempio un'università.
Conosco le assemblee studentesche...
Y: Nella comunità esistono forme non democratiche, per non dire
antidemocratiche. Le autorità tradizionali non sono esattamente
democratiche, costituiscono una struttura gerontocratica. Non sono
nemmeno convinto che l'«accordo», il consenso, sia un metodo
democratico, può diventare anche molto autoritario, è l'autorità del
gruppo, della comunità sugli individui. La democrazia non può esistere
senza i diritti dell'individuo.
E' un esempio comico, ma ce ne sono altri più complessi in cui,
effettivamente, questo tipo di democrazia lede, a mio avviso, la
libertà individuale. E' così in tutti i casi, quando si prendono
decisioni che riguardano la comunità, per esempio le questioni
sanitarie, contro le epidemie. Quando c'è stata l'epidemia di colera,
l'accordo della comunità obbligava tutti a costruire latrine, al
momento della tubercolosi era necessario il vaccino: sono decisioni
imposte dalla comunità, perché si tratta di sopravvivenza. Lo stesso
in caso di carestia per ripartire le provviste che arrivano, o per
fissare il prezzo del caffè e portarlo in città. E' utile per certe
cose, per altre no. Le comunità, come tutto il paese, devono imparare
che altrove esistono e funzionano altre forme di democrazia. Alcune
hanno incominciato a nascere nel momento in cui il Comitato ha
introdotto la democrazia rappresentativa nello zapatismo: sono i
villaggi a eleggere un rappresentante, l'autorità del villaggio,
l'autorità zapatista; poi le autorità di diversi villaggi eleggono il
rappresentante regionale, quindi svariate regioni eleggono quello di
zona, poi di etnia, e i rappresentanti di etnia nominano chi deve
andare al Comitato. Poiché comunque ci sono rapporti fra molte etnie,
il Comitato affronta problemi che non sono quelli dei singoli
villaggi, anche se hanno conseguenze per tutti. E' difficile da
imparare, ci si può riuscire solo perché l'orizzonte delle comunità si
amplia a mano a mano che esse conoscono altre esperienze. Quando
vengono gli elettricisti e gli operai dei telefoni, essi parlano delle
loro esperienze, della democrazia sindacale, della lotta fra liste
rivali. Ci sono contatti con i sindacati operai agricoli, le
organizzazioni studentesche, i sindacati degli insegnanti, e tutto
questo costituisce un arricchimento.
Quanto alla forma di autorità vigente nelle comunità, in origine essa
era rappresentata dal consiglio degli anziani, ma quella generazione
sta scomparendo. Da otto anni, cinque anni diciamo, non è più la
Chiesa a nominare l'autorità religiosa, è la comunità che sceglie
qualcuno, poi avverte il parroco, o il vescovo, affinché la persona
designata venga istruita. Prima era diverso. Erano i notabili, i
"capitanes" [89] della Chiesa e altri a decidere; nella zona tzeltal
funziona ancora così, ma fra i tojolabal no. E' la comunità a nominare
il responsabile religioso, è un compito importante, non come essere il
responsabile zapatista ma importante. Quanto alla responsabilità
civile, agente municipale o «commissario dell'"ejido"» sono posizioni
instabili peggio che in Borsa, alcuni durano appena tre giorni, poi la
comunità nomina qualcun altro che regge sei mesi, o tre... è un incubo
essere nominato commissario dell'"ejido" o agente municipale, ti
sorvegliano ininterrottamente, in pratica è una punizione. Se vogliono
punirti ti danno queste cariche.
Negli ultimi tempi ho notato questa evoluzione. Quando li ho
conosciuti, all'inizio degli anni Ottanta, c'era ancora la Quiptic,
che era un'organizzazione omogenea, e attraverso la Quiptic la Chiesa.
In montagna siamo venuti a sapere dei crimini, i crimini religiosi
commessi dall'organizzazione contro i dissidenti. In seguito, con il
nostro arrivo, hanno incominciato ad ammettere che uno poteva anche
non essere d'accordo ma restare, non essere un compagno ma nemmeno un
nemico. Dopo il '94 è diventato possibile cercare il modo per
integrare chi dissente, per tentare di mettersi d'accordo con lui su
questioni diverse dal punto iniziale di disaccordo. E' un sistema per
includere l'altro quando è in minoranza, perché quando è in
maggioranza non ci sono problemi. Se hai di fronte la maggioranza
peggio per te, la maggioranza ha parlato, si obbedisce. E' quando
l'altro è in minoranza che bisogna dargli spazio. Non solo per un
individuo, è lo stesso per un gruppo minoritario.
Dobbiamo imparare. Speriamo che la guerra ce ne dia il tempo... Sono
comunità in guerra, e in guerra per sopravvivere; è la guerra che
fissa il livello di tolleranza, per forza. Il contatto con gente di
fuori deve essere calcolato secondo i momenti. Poi bisogna sapere chi
si ha davanti, controllare che non entrino poliziotti. Le comunità non
hanno un contatto diretto nemmeno con quelli degli accampamenti. E'
l'apartheid, sono in una parte del villaggio e non escono, non possono
andare dove vogliono. Soltanto alcuni sono accettati dalla comunità,
dopo mesi. Tutti gli altri restano estranei. Anche questa è una
camicia di forza per l'avanzata del movimento.
N: Da oltre due anni c'è una situazione di «né guerra né pace», con un
certo spazio per fare politica, e la possibilità di organizzare le
comunità in modo diverso. Che cambiamenti ci sono nella vita
quotidiana, nell'economia, nella produzione delle comunità organizzate
dallo zapatismo?
Maggiore Moisés: Il livello economico no, non è cambiato. E' lo stesso
perché il governo si occupa soltanto di chi collabora, quelli
dell'ARIC ufficiale [90]. Come se volesse creare un problema interno.
E' prodigo solo con i suoi alleati. Il governo cerca un modo per far
ricominciare la guerra, i combattimenti. Per i nostri il miglioramento
consiste nel fatto che si aiutano fra loro, tutti danno qualcosa a
quelli che non hanno niente, e in tal modo sono riusciti a resistere
fino a oggi.
E hanno mantenuto la parola. Una volta detto che intendevano
dichiarare la resistenza l'hanno fatto, e se arriva un progetto
qualsiasi dal governo, rifiutano. Quando gli inviati del governo
tornano per chiedere loro «non accettate?» rifiutano sempre.
Y: Volete anche, immagino, che vengano riconosciute le forme di
elezione specifiche delle comunità.
Comandante Tacho: Sì. Nei villaggi gli indios nominano davvero i loro
dirigenti, si fa l'assemblea di uomini e donne, e l'elezione è
democratica. Hanno la loro tradizione. Secondo noi è l'unica ancora
viva, sana, reale del Messico. Le altre non esistono più. E' l'unica
forma sana che resta in questo paese, anche se non è contemplata dalla
legge.
Secondo noi bisogna estendere la democrazia comunitaria alla vita
nazionale. Ci sono altre forme, certo, c'è la forma elettorale. La
rispettiamo, non siamo contrari. Il nostro obiettivo è unirci e far
rispettare le nostre diversità. Solo così potremo arrivare tutti
insieme alla democrazia senza escludere nessuno. Unirsi, ecco
l'importante. Durante la trattativa su «democrazia e giustizia»
abbiamo fatto un Forum cui hanno partecipato parecchi partiti politici
e organizzazioni, per proporre le loro idee [94]. Quel che vogliamo è
costruire davvero questa democrazia tutti insieme, che sia pluralista,
che sia inclusiva, che combini molti modi diversi per arrivare alla
democrazia. Una democrazia possibile fra tutti, perché la democrazia
solo di alcuni la conosciamo già. Non vedo come potremmo arrivarci per
mezzo di un partito politico, se i partiti non ci sono arrivati in
tutta la storia del Messico...
- La classe politica e la società.
Marcos: L'idea di democrazia non deve essere subordinata alla dinamica
interna della classe politica: la società dovrebbe avere un ruolo
preponderante, che oggi è detenuto dal governo e dai partiti politici.
I partiti fissano le proprie regole fra loro, si spartiscono il potere
e soltanto dopo entrano in rapporto con la società. E' cambiata
soltanto una cosa: prima il governo decideva autonomamente che cosa
fosse la democrazia, che cosa fossero le elezioni. Recentemente ha
concesso un po' di spazio ai partiti politici, ma la società è sempre
assente. La classe politica fa ancora la parte del leone. E le cose
devono cambiare.
Perché se la società incomincia a procedere in una direzione, e lo
Stato, il sistema politico, in un'altra, le linee divergono anziché
convergere. Al punto che si parla di due paesi, il Messico virtuale
della classe politica con i suoi grandi successi economici e la sua
crescita del 7,5 per cento, e il resto della società che non vede la
minima traccia di crescita economica.
Y: Lei sta toccando un punto molto interessante: come cambiare il
potere senza prendere il potere? Forse la risposta è che siete un
movimento per i diritti civili, un po' come Martin Luther King, che in
certa misura ha mutato i rapporti di potere senza proporsi di prendere
il potere. In altre parole, un movimento certamente politico, ma non
di «politica da politici» come dicono in Francia, né un partito
politico. Quanto ha detto su Alleanza civica mi ha fatto pensare che
potrebbe essere una buona definizione per voi: non soltanto un
movimento sociale, non più un movimento guerrigliero ortodosso, e non
certo un partito politico: possiamo dire che siete un movimento
politico senza essere nulla di tutto questo?
Intendevo dire proprio questo con l'esempio di Alleanza civica: è
un'organizzazione civica, uno spazio organizzato di lotta civile e
pacifica. Ci sono altri movimenti non governativi che organizzano la
gente. Non per commettere crimini o per fare la guerra, ma ciò
nonostante non viene loro riconosciuto alcuno spazio nella politica
messicana. Incominciano appena a conquistarsi un posto nell'opinione
pubblica, nei mezzi di informazione e in misura inferiore nella classe
politica, ma non hanno uno spazio di partecipazione politica. Per
esempio, il gruppo di Jorge Castaneda, che è un gruppo di opinione, di
impegno per la nazione, o il gruppo di Camacho: a meno che non entrino
in una logica di partito, non hanno alcuna possibilità, pur rivestendo
una funzione molto importante oggi in Messico.
Tutte queste forze politiche, come pure lo zapatismo o l'E.P.R. o
qualsiasi altra organizzazione politica radicale, di sinistra, di
centro, di destra o di quello che vuoi, hanno bisogno di spazio perché
altrimenti soffocano, e se soffocano la società si smaglia. Secondo
noi il potere tira in una direzione, e la società in un'altra. Ci
stiamo avviando a un processo di disgregazione sociale prossimo a una
guerra civile; e forse ci siamo già in mezzo. Secondo noi, anche se la
guerra fredda non era una guerra in senso classico, di fatto è stata
la terza guerra mondiale. Nello stesso modo noi siamo nel pieno di una
guerra civile, abbiamo un livello di disgregazione sociale
paragonabile a una guerra civile.
La società deve organizzarsi per resistere. E' l'esempio di Juarez di
fronte all'invasione francese: sceglie di non colpire frontalmente
l'esercito francese, di resistere, di attendere che sia stremato e che
il processo di logoramento in Francia lo costringa a ritirarsi. E' la
stessa idea, ci richiamiamo spesso a questo esempio. Juarez, in fondo,
si è limitato a far sì che il paese restasse organizzato in condizioni
molto difficili, a impedire che si disgregasse. Noi diciamo: in questo
momento la gente va organizzata per resistere, e in seguito dovrà
essere organizzata per esercitare il potere. Per ora non c'è nulla da
esercitare, e dopo la riforma elettorale ancora meno di prima. Il
fatto di votare non permetterà di risolvere i problemi di
disgregazione sociale, e poiché il governo continua a seguire la
stessa logica, le cose non cambieranno. E' il motivo per cui, secondo
noi, bisogna organizzare la società: non per chiedere qualcosa al
governo (e in questo prendo le distanze dal populismo), ma per
risolvere i problemi anche se il governo non lo fa. Vogliamo la terra,
la casa, la sanità, l'istruzione e tutto il resto, il governo ha il
dovere di assicurarli al popolo, ma che lo faccia o no, le comunità
zapatiste lavorano per risolvere il problema con i propri mezzi. E' il
tipo di cose che dovrebbe fare il resto della società, organizzarsi
per resistere al processo di disgregazione prima che diventi
irrimediabile. Prima dell'incubo.
Y: Resistere d'accordo, ma per ora la forza dello zapatismo è anche
quella di proporre iniziative, e non solo di resistere. Lo zapatismo
può anche logorarsi nella resistenza.
Penso che la sinistra debba affrontare il medesimo problema a livello
mondiale: ovunque si osserva lo stesso settarismo, tutti diffidano di
tutti, temono le tentazioni di egemonia, di farsi rubare il primo
posto, di farsi strumentalizzare. Noi riteniamo di poter parlare di
qualsiasi cosa con i partiti o le altre forze sociali, a condizione
che ciò avvenga in modo onesto e che ci rispettino. Non se ci trattano
come dei poveri miseri indios assediati che vanno soccorsi. Devono
riconoscerci in quanto forza politica, e parlare francamente. Noi non
limitiamo i nostri rapporti a chi ci avvicina con buone intenzioni,
siamo pronti a parlare anche con chi vuole servirsi di noi. Purché lo
dica.
Y: Lei ha detto che lo zapatismo è un allegro casino, mi chiedo se non
sta rischiando di diventare una «locanda spagnola», come diciamo in
Francia, un ristorante dove ciascuno si porta da mangiare. Lo
zapatismo non ha bisogno di definirsi?
Anche se fossimo più definiti, dovremmo riuscire a mantenere il
dialogo con tutte le correnti della sinistra e anche del centro. Oggi
la gente cerca di avvicinarci perché si riconosce in noi: gli
anarchici considerano l'E.Z.L.N. un movimento anarchico, i trotzkisti
individuano chiaramente l'influenza di Trotzki, i maoisti riconoscono
le posizioni maoiste portate alle estreme conseguenze, i leninisti
leggono una concezione leninista, insomma, ciascuno vede un aspetto,
una forma dello zapatismo che lo rispecchia e lo attira.
Arriverà il momento in cui l'E.Z.L.N. dovrà acquisire il proprio
volto, senza però perdere l'apertura verso un mondo pluralista,
tollerante, multicomprensivo. Il passamontagna troverà il suo limite,
non parlo del passamontagna materiale, ma dello zapatismo
inafferrabile che in un modo o nell'altro deve concretizzarsi. L'altro
giorno sono rimasto molto colpito quando alcuni francesi mi hanno
detto che è la nostra indeterminatezza a permetterci di sopravvivere.
Secondo alcune persone che conosco esiste una contraddizione fra il
discorso democratico, tollerante, multicomprensivo dell'E.Z.L.N. e i
suoi metodi autoritari, militaristi. Ma anche nel discorso
dell'E.Z.L.N. ci sono aspetti molto duri, dogmatici, dottrinali, e
altri molto aperti, molto semplici... Ripetiamo che bisogna essere
tolleranti, che non siamo l'avanguardia, ma nelle nostre critiche ad
altre forze politiche talvolta diamo l'impressione di considerarci
tali.
L'E.Z.L.N. è attraversato da contraddizioni a tutti i livelli... Credo
che queste siano le principali. Forse proprio l'indeterminatezza ha
permesso l'esistenza del mondo caotico ma veramente ricco in cui
abbiamo vissuto nel '95 e nel '96. Ma se continua a lungo, lo
zapatismo può diventare indefinito al punto che nessuno si riconoscerà
più in esso.
Nell'attesa, cerchiamo di imparare ad ascoltare: chiedere che cosa
pensa chi ci è vicino, o chi ci è meno vicino ma ha un'opinione,
tracciare una mappa della situazione nazionale e internazionale. Il
vecchio Antonio nella sua storia dice che il problema è quando
guardare la stella e quando guardare il dito che la indica, e Marcos
risponde: «Ho guardato soprattutto il tasso che viene a mangiare il
tuo granturco». Gli zapatisti sono sommersi dai problemi immediati, e
questo impedisce loro di vedere il resto, di decidere se guardare la
stella o guardare il dito. Per esempio, durante l'Incontro
intercontinentale, invece di riflettere sul genere di iniziative o di
messaggi da proporre, ci preoccupavamo per questioni pratiche e
immediate: se la gente restava bloccata troppo a lungo alla frontiera,
se era sfinita, se faceva troppo caldo... Quando trattiamo, siamo
assorbiti da minuzie militari, ci chiediamo che cosa significhi una
data manovra di un elicottero... O per esempio l'atteggiamento dei
soldati nella colonna militare che è passata ieri, perché il 13 agosto
abbiamo rivisto dei tank, per la prima volta dal febbraio del '95, nel
convoglio che attraversava il villaggio... Tutto questo ci impedisce
di risolvere il resto, ma non possiamo nemmeno restare così per molto
tempo.
N: Anche la concezione zapatista della democrazia è un po' una
«locanda spagnola», sarebbe necessaria una riflessione sul meccanismo
istituzionale globale, l'articolazione fra democrazia rappresentativa,
democrazia sociale... Mi ricordo che al primo congresso del sindacato
polacco Solidarnosc hanno proposto di creare, accanto al parlamento,
un senato con rappresentanti eletti dalle fabbriche. E' un esempio di
meccanismo istituzionale, voglio dire, al di là dell'apertura di spazi
d'opinione e di spazi politici ci vuole un'idea articolata delle
diverse forme di democrazia.
Secondo noi in Messico ci sono altre personalità che potrebbero
svolgere questo ruolo se rinunciassero esplicitamente agli interessi
di partito; ma è proprio quello che esse non sono disposte a fare.
Persone come Camacho, come C rdenas... C rdenas potrebbe assumere la
guida di un movimento sociale, sociale e politico, ma è troppo legato
al P.R.D., e il P.R.D. è quello che è. Marcos è legato all'E.Z.L.N.,
non lascerà l'E.Z.L.N., e C rdenas non lascerà il P.R.D.
A nostro parere la gente vuole che diciamo la verità, e che apriamo
uno spazio di partecipazione. In altre parole che non la
strumentalizziamo e che l'ascoltiamo. Noi ci proviamo, ma non possiamo
spingerci oltre, il nostro orizzonte è costituito dal passamontagna e
dalle armi: è questo il nostro limite.
Dopo si arriva a un punto morto. C'è l'intermezzo dell'Incontro
intercontinentale, di cui dobbiamo ancora fare il bilancio. Dal punto
di vista della partecipazione è stato un successo, ma quanto ai
risultati politici non lo sappiamo ancora. Subito dopo, nuova sessione
a San Andrés. E' il momento in cui si decide la riforma elettorale.
Perciò i partiti incominciano a concentrarsi sulla scelta dei
candidati per le legislative del '97, per il governatore del D.F.
[100] e così via.
E l'E.Z.L.N. si ritrova solo. Ma se resistiamo fino al '97 ci sarà per
forza un'altra convergenza. Perché nel frattempo l'E.Z.L.N. mantiene
la propria autorità morale e rimane il punto di riferimento morale,
etico, politico, per molta gente. Torneranno tutti a parlarci, perché
sarà nel loro interesse. Se esisteremo ancora.
Nell'attesa, non possiamo fare nulla con i politici, sono assorti dai
problemi interni, la cucina elettorale. Dal canto loro, anche la
società, le organizzazioni sociali e politiche apartitiche
incominceranno ad andare avanti da sole. Nell'imminenza del luglio '97
i partiti politici riprenderanno a cercarle. Il nostro ruolo è di
gettare dei ponti. A livello nazionale e internazionale, è l'unica
cosa da fare. Per sopravvivere, l'E.Z.L.N. deve gettare ponti in tutte
le direzioni.
- Il movimento sociale in panne.
N: Dall'esterno ho l'impressione che la mobilitazione sociale e
politica si sia un po' indebolita negli ultimi due anni. E' vero?
Y: Anche per voi sarebbero necessari dei risultati nel Chiapas, no? Vi
criticano perché non avete dato impulso, come per esempio la COCEI
[101], a una politica socioeconomica per lo sviluppo; alcuni zapatisti
affermano che la prossima iniziativa non deve essere intergalattica ma
chiapaneca... A questo proposito, vorrei parlare della vostra
decisione di rifiutare tutto ciò che proviene dal governo. Non è
pericoloso? C'è il governo, d'accordo, ma lo Stato? La sanità, per
esempio, è un diritto, potreste esigere dallo Stato la fornitura dei
vaccini; lo stesso vale per la scuola. Sul piano politico non mi pare
molto efficace la vostra scelta di basarvi soltanto sulla comunità e
sugli aiuti internazionali, gli aiuti umanitari.
Ricordati che il dialogo di San Andrés incomincia nell'aprile del '95.
Già allora Bernal, che all'epoca dirigeva la delegazione governativa,
ci minacciava: se non avessimo firmato in fretta gli accordi, avrebbe
messo a punto un sistema di aiuti sociali senza gli zapatisti. Nove
mesi dopo, al momento di fissare il calendario dei negoziati, il
governo non ha voluto che il primo punto fosse «Benessere e sviluppo»;
lo ha relegato all'ultimo posto, il terzo, dopo la questione dei
diritti degli indios e quella della democrazia. Ancora non era
prevista la quarta parte, sulla questione femminile; l'abbiamo
ottenuta dopo, quasi a forza. Insistiamo finché possiamo, loro
riprendono a minacciare di gestire programmi sociali senza di noi.
Stiamo ancora aspettando... Non l'hanno fatto perché se ne fregano, il
capitale finanziario internazionale non darà loro del denaro per
mantenere gli indios... a meno che non sia la situazione politica a
imporlo.
Se avessero voluto, in un anno avrebbero avuto il tempo. E potrebbero
anche adesso, l'esercito è qui, non possono nemmeno dire che siamo noi
a bloccarli... Non fanno niente, nemmeno per i villaggi che sono dalla
loro parte.
Certo che è un dovere dello Stato fornire a tutti i cittadini servizi
come la sanità, le strade, una rete produttiva e commerciale. Le
comunità indie ne hanno diritto come gli altri. Ma gli indios sono
cittadini particolari. Non rendono. L'unica ragione per occuparsene
sarebbe riconquistare il controllo politico, ma questo comporta
innanzitutto la liquidazione dello zapatismo come organizzazione.
Perché il governo si decida, bisogna creare un movimento sociale. In
realtà il movimento di resistenza preme non tanto sul governo quanto
sulla società, ma... la società resiste!
N: C'è un settore che per il momento resta escluso anche dal discorso
zapatista, il settore delle "maquiladoras" [103]. Dipende da
particolari difficoltà?
La distanza è sempre la stessa, forse si potrebbe spiegare con la
situazione degli operai in Messico, ma equivarrebbe a dare la colpa
agli operai. Io credo invece che tutto dipenda proprio dal discorso
zapatista. Non sappiamo come rivolgerci agli operai perché non li
conosciamo, non abbiamo operai. E' chiaro fin dall'inizio, dal gennaio
del '94. Pochissimi operai sono venuti alla Convenzione. I sindacati
hanno sempre tenuto le distanze con noi, anche i sindacati
indipendenti.
N: Qual è stato il ruolo della Legge delle donne? Sono problemi
completamente nuovi, suppongo.
Nonostante tutto ci sono riuscite, e hanno preparato gli articoli
della Legge delle donne. Ho partecipato alla redazione perché
bisognava tradurre i dialetti. Prima che presentassero il disegno di
legge al Comitato, ho tentato di spiegare a Susana, Ramona, Ana Marìa
che questo documento avrebbe creato dei problemi, che molti uomini se
ne sarebbero andati. La cosa le ha lasciate del tutto indifferenti.
Lo scontro successivo è meno duro, avviene nel marzo del '93, nel
momento in cui si votano le leggi di guerra. Abbiamo fatto una grande
riunione di tutti i responsabili locali e regionali, e lì la
maggioranza degli uomini era molto riluttante. Le leggi proposte dalle
donne colpivano la struttura religiosa della comunità, il controllo
della Chiesa. Soprattutto i problemi di pianificazione familiare, il
diritto di uscire, i diritti dei giovani.
Poiché la Legge delle donne era presentata insieme a un gruppo di
altre, fra cui anche la riforma agraria, gli uomini non hanno fatto
storie, hanno votato anche quella per essere sicuri che le leggi cui
tenevano passassero. Comunque, poiché il testo era in spagnolo, lingua
che in generale le donne non capiscono, gli uomini speravano che non
sarebbe cambiato niente. Allora le donne hanno deciso di organizzarsi,
hanno tradotto la legge in tutti i dialetti e hanno incominciato a
diffonderla, mentre gli uomini facevano di tutto perché circolasse il
meno possibile.
Ma il '93 è stato un anno molto intenso, molto movimentato, e malgrado
l'opposizione dei compagni del Comitato le leggi sono arrivate nei
villaggi e si è incominciato ad applicarle. Questo ha creato problemi,
attriti, disaccordi, soprattutto nelle comunità della Chiesa. Riguardo
al controllo delle nascite abbiamo sentito argomenti a sfavore di
tutti i generi: che induce alla promiscuità e all'irresponsabilità
sessuale... gli stessi argomenti utilizzati dal PAN contro i
preservativi; per loro, la migliore prevenzione contro l'AIDS è
l'astinenza, e da noi succedeva lo stesso, per limitare le nascite il
sistema era l'astinenza, o il metodo Ogino-Knaus...
- Gli zapatisti e le Chiese.
Y: Ora tocchiamo un punto che a quanto pare siete riluttanti ad
affrontare. Il Chiapas è una regione molto religiosa, l'ateismo non
esiste - soprattutto fra la popolazione maya l'ateismo non esiste -,
c'è una forte religiosità popolare. La Chiesa cattolica ha un peso
istituzionale considerevole nella regione, le Chiese evangeliche
anche. Negli Altos è evidente che i conflitti hanno una forte
componente religiosa, ma in certa misura lo stesso vale anche per il
resto dello Stato. Talvolta a Città del Messico gli avvenimenti del
Chiapas sono interpretati come una specie di anti-"cristiada" [106].,
una "cristiada" progressista, una specie di rivincita della Chiesa...
I personaggi ci sono tutti, Samuel Ruiz viene dalla parte
centroccidentale del paese, Patrocinio Gonz les Garrido appartiene a
una famiglia di leader anticlericali degli anni Venti e Trenta... Che
cosa ne pensa di questa interpretazione? [107]..
Nel Chiapas, e soprattutto nella storia degli indios maya, la
religione è servita a nascondere tutta una serie di conflitti
estremamente cruenti. Per la popolazione india, sarebbe molto grave se
un esercito come il nostro si pronunciasse su problemi di religione, a
favore dei cattolici, degli evangelisti o per criticare gli uni o gli
altri. Anche in questo caso correremmo il rischio, che l'E.Z.L.N. ha
già evitato diverse volte, di diventare un movimento integralista. Da
qui la nostra riluttanza.
Evidentemente lo zapatismo non si è sviluppato su un terreno vergine
dal punto di vista politico, c'era un vuoto lasciato dall'assenza
dello Stato, un vuoto che era stato riempito dalla Chiesa e dalle
organizzazioni cristiane. Gli indios non sono isolati dal resto del
mondo, ma soltanto dal potere politico. Lo spazio è occupato dalla
Chiesa, e nel caso degli Altos, del Nord e della Selva, dalla Chiesa
progressista. Le comunità ricevono e filtrano questa influenza, e ciò
che producono non ha niente a che vedere con la diocesi di San
Cristòbal e neppure con la parrocchia del capoluogo.
Insomma, per attenerci a una descrizione dall'esterno, il panorama
religioso è diventato più complesso. Un movimento politico come lo
zapatismo, che nasce in questo brodo di cultura, ha necessariamente
degli elementi religiosi. Per esempio, alcuni suoi dirigenti sono
anche capi religiosi del proprio villaggio.
Ma soprattutto, essendo un movimento armato, deve fare molta
attenzione, perché esiste sempre il rischio di una guerra di
religione, il rischio che alcuni si servano delle armi per combattere
la religione degli altri, di altri indios, come forse se ne sono
serviti, per esempio, gli zapatisti dell'ARIC indipendente contro gli
aderenti all'ARIC ufficiale...
Perciò la questione religiosa è un terreno molto scivoloso, molto
intricato e complesso... La Chiesa cattolica, ovviamente, ha i suoi
interessi; esattamente come il P.R.D. o il P.T. ha un suo progetto per
far fruttare a proprio vantaggio il movimento zapatista. Questo spiega
alcuni attriti dei delegati zapatisti con la CONAI [108].. Talvolta
essi avevano l'impressione che la CONAI sconfinasse dal suo ruolo di
mediatrice e trattasse al posto loro. Per ora siamo riusciti a
risolvere i dissidi fissando limiti chiari.
Per Chuayffet [109]., per esempio, a San Andrés il nemico principale
era Samuel Ruiz: la delegazione governativa concentrava tutti i propri
attacchi contro la diocesi, nella convinzione che indebolendo la CONAI
avrebbe indebolito l'E.Z.L.N.
Comunque non si può negare che la Chiesa progressista abbia una forte
autorità morale nella Selva, negli Altos e nel Nord, e che tale
autorità morale sia dovuta in grandissima misura a Samuel Ruiz. Nelle
comunità, in molte comunità, quello che egli dice è ascoltato con
grande attenzione, non lo seguono sempre, ma lo ascoltano. E non è
solo, ha formato una squadra che tiene contatti molto stretti con i
villaggi, contatti assidui quasi quanto quelli degli zapatisti. Questo
permette alla Chiesa cattolica di individuare problemi, disaccordi,
disagi, differenze che le altre Chiese non percepiscono perché sono
troppo lontane. La gente della diocesi invece va in giro, resta molto
vicina alle comunità, ed è un'ottima cosa che sia al loro servizio.
Y: Ofelia Medina [110]. ha detto una cosa che mi ha colpito. Secondo
lei, lo zapatismo libera dal senso di colpa, dalla colpevolizzazione.
Dal 1994 Ofelia è a stretto contatto con le comunità, e ne è
pienamente consapevole. E' un'attrice, si è data la pena di venire e
di restare: la gente l'ha accolta, naturalmente nessuno sapeva chi
fosse, e lei ha visto che non la trattavano come... come un
"conquistador"! E ha capito che il complesso del "conquistador"
proviene dal resto della società messicana, perché si sente
tremendamente bianca e presume che gli indiani le portino rancore per
la Conquista. Invece... sorpresa! Non c'è il minimo rancore...
- Lo zapatismo e il cardenismo.
N: Per tornare al tema delle alleanze politiche, che analisi fate del
cardenismo come movimento storico, e del P.R.D. come apparato
politico? Non sono la stessa cosa?
Gli stessi gruppi sociali sono in fermento nel Michoac n, nel Chiapas,
a Tijuana, si tratta della stessa sollevazione civile. Che si
esprimano attraverso il P.R.D. o il Fronte zapatista, l'importante è
che continuino. Condividiamo la stessa base sociale, la gente è
cardenista o zapatista, oppure favorevole contemporaneamente al P.R.D.
e allo zapatismo, facciamo leva sulla stessa sensibilità. L'incontro
dei due apparati, invece, mi sembra molto difficile. Fin dall'inizio
il rapporto fra il P.R.D. e l'E.Z.L.N. è molto complesso, carico di
tensioni... noi diffidiamo perché ci sentiamo strumentalizzati, e loro
non sono tranquilli. La loro base preme per un avvicinamento, ma è un
partito politico legale, non vogliono compromettersi troppo, devono
salvaguardare la propria immagine di forma di lotta non violenta,
legale, istituzionale.
E' un rapporto molto difficile.
Comunque ci sono molti argomenti, soprattutto la questione elettorale,
su cui l'E.Z.L.N. non ha ancora una posizione chiaramente definita.
Per esempio, noi non chiediamo di votare, e nemmeno di non votare...
E' un risultato dell'improvvisazione incominciata dopo la guerra,
quando abbiamo dovuto affrontare la realtà.
Per esempio, alle elezioni di ottobre del '95 [112] non sapevamo che
cosa fare, e quindi hanno deciso i comitati di zona, ciascuno di testa
sua. Alcuni hanno deciso di astenersi, altri di votare. Dopo le
elezioni, il P.R.D. ci ha accusati di aver fatto perdere i suoi
candidati. Era colpa mia, sarei stato io a dare l'ordine di astenersi.
E' una versione che non sta in piedi: se avessimo dato l'ordine
sarebbe stata la stessa cosa dappertutto, e il P.R.D. non avrebbe
ottenuto nemmeno la nomina di un sindaco o di un deputato; si sarebbe
preso tutto il P.R.I.. In realtà il comitato di zona di Altamirano ha
scelto di votare, e lì il P.R.D. ha vinto; nella zona di Ocosingo, il
comitato si è messo d'accordo con il P.R.D. e le elezioni sono state
sospese. Negli Altos, hanno deciso di procedere secondo le usanze
tradizionali: non si vota, decidono le assemblee. E nel Nord dello
Stato hanno scelto di astenersi per protestare contro la guerra non
dichiarata che subivano. Abbiamo rispettato l'autonomia di ciascun
comitato ed ecco qui... Per noi è un terreno molto scivoloso, non puoi
immaginare la quantità di scemenze che si possono fare...
Y: C'è un tema importante che non abbiamo ancora affrontato, il tema
della nazione. Voi vi siete insediati in una zona che è un po' ai
margini della nazione messicana. La rivoluzione messicana non ha
creato grande mobilitazione nel Chiapas: Zapata non era
particolarmente ammirato, se non in qualche ambiente ristretto. E' una
zona maya in cui le comunità non hanno condiviso per nulla il
sentimento di appartenenza alla nazione messicana. Siete venuti a
insegnare la storia del Messico... Come se la cava con il problema del
mondo esterno il vostro movimento, che a volte si propone di essere
una prosecuzione della Rivoluzione messicana?
Quando siamo arrivati, abbiamo trovato una popolazione india molto
aperta all'idea della nazione messicana.
N: Con questi concetti, nazione, umanità, siamo lontanissimi dal
marxismo ortodosso.
Quanto alla tua domanda, penso che tutto il pensiero della sinistra
abbia subito una trasformazione, e non soltanto Marcos. Non dico che
essere marxisti sia un peccato, ma se essere di sinistra, o
rivoluzionari, significa essere sempre in movimento e rinnovarsi
continuamente, credo che lo zapatismo sia rivoluzionario e coerente
con se stesso. Lo si può chiamare come si vuole, marxismo,
antimarxismo, revisionismo, riformismo, come dice Castaneda...
Y: In questa trasformazione ideologica, che ruolo ha avuto la caduta
del muro di Berlino? Qual è stata la reazione degli zapatisti quando
avete saputo la notizia? E la reazione personale di Marcos?
Qualcosa non aveva funzionato bene. Certo, i paesi socialisti avevano
ricevuto colpi molto duri durante la guerra fredda, ma il punto
fondamentale è che la gente non aveva difeso un patrimonio che in
teoria le apparteneva. Per noi questo significava che fosse
impossibile imporre un modello economico con le armi.
Ma il peggio era quello che veniva dopo, i muri innalzati dal
capitalismo mondiale sulle rovine di quello di Berlino: il mondo
unipolare, globale, le frontiere che si abbattono per il capitale e le
merci e si moltiplicano per gli esseri umani, fino a creare situazioni
grottesche e tristi come la Jugoslavia, le guerre razziali della fine
del ventesimo secolo, guerre in cui il sangue che ti scorre nelle vene
può costarti la vita, queste assurdità...
Questo mondo era stato costruito su una menzogna. Ma ciò non
significava che il pensiero di sinistra fosse fallito, con il muro di
Berlino era caduta soltanto una proposta di organizzazione politica
della sinistra. Non si deve dimenticare che il muro, il blocco
socialista, aveva ricevuto critiche molto dure anche dalla sinistra,
non l'aveva attaccato soltanto la destra, anche la sinistra diceva che
c'erano molte cose da cambiare. Ma con l'idea che le critiche fanno
sempre e comunque il gioco del nemico, i paesi socialisti non
accettavano alcun appunto, lo consideravano subito tradimento,
revisionismo e altri insulti... Quindi tutti gli errori, le carenze,
le incapacità si sono amplificati e accumulati fino a che le cose non
sono imputridite dall'interno.
Per noi la lezione era questa: qualsiasi sistema politico, se vuole
sopravvivere, deve poggiare sull'elemento sociale, deve confrontarsi
con la società. Inoltre era necessario imparare ad accettare anche le
critiche, e non credere che se qualcuno ti critica sia necessariamente
tuo nemico...
Ma a parte il fatto di dover rimettere tutto in discussione, la cosa
più pesante era il senso di solitudine. Non avevamo più alcun punto di
appoggio, nemmeno sul piano morale. Prima sentivamo che il mondo per
cui combattevamo esisteva, era reale. D'un tratto non lo era più, e
per giunta era stato distrutto.
Lo zapatismo osserva Cuba a rispettosa distanza, ma non supinamente:
non siamo fanatici del regime cubano. Va detto però che non sappiamo
esattamente quanto accade laggiù, e che qualsiasi cosa diciamo, a
favore o contro, ricadrebbe su di noi. I mezzi di informazione
direbbero che siamo sostenuti dai cubani, oppure dai "gusanos" -
scusa, non si dice più "gusanos" [115] -, dai dissidenti cubani. In
queste condizioni è difficile esprimersi pubblicamente.
Senza alcun dubbio per la sinistra è una sconfitta politica, militare,
sociale, culturale, e soprattutto morale.
Y: Lo zapatismo è servito a distruggere molti schemi, non in modo
intellettuale ma attraverso il movimento, l'azione. Ne vedo una prova
nei libri ceduti alla biblioteca di qui. Ci sono le opere complete di
Mao Tse-tung, di Enver Hoxha... li regalano e partono alleggeriti per
una vita nuova!
Y: Il ministro degli Esteri un giorno ha dichiarato che lo zapatismo
era una guerra di carta e di Internet.
M: E' questa la guerra che perde il governo messicano. Preferisce la
guerra delle pallottole, perché la vincerebbe; invece questa la perde.
Nella comparsa dell'E.Z.L.N. e nella costruzione dello zapatismo,
l'uso dei simboli è un contributo della componente india, mentre
l'organizzazione politico-militare urbana apporta i simboli storici.
Ma non possiamo averli senza lottare, non arriviamo su un terreno
vergine, abbiamo dovuto strappare al governo messicano alcuni simboli
della storia nazionale. Zapata, per esempio. Ogni presidente del
Messico sceglie un eroe nazionale, e paradossalmente Salinas, che
avrebbe poi decretato la morte dell'articolo 27, aveva scelto Emiliano
Zapata.
C'era uno spazio nuovo, talmente nuovo che nessuno aveva immaginato
fosse utilizzabile da parte di un movimento di guerriglia: Internet,
la superautostrada informatica... Era una rete destinata ad agevolare
il commercio, il flusso di capitali, attraverso i computer e i
satelliti di un mondo globale. L'aspetto umano sta appena emergendo,
ma possiamo collegarci, andare nelle università o nei musei, viaggiare
dal nostro ufficio attraverso un modem.
Qualcuno ci ha messi su Internet, e lo zapatismo ha occupato questo
spazio cui nessuno aveva pensato, e dove quasi non ci sono controlli.
Il regime messicano ha conquistato il suo prestigio internazionale nei
media grazie al controllo della produzione di informazione, della
stampa, dei telegiornali, e anche al controllo dei giornalisti per
mezzo della corruzione, della minaccia o dell'assassinio. In questo
paese i giornalisti vengono assassinati molto spesso. Per il governo,
una notizia così grave che sfugge all'estero attraverso un canale
incontrollabile, rapido, efficace, è un colpo molto duro. Il problema
che tormenta Gurrìa è di dover combattere un'immagine che non può
controllare direttamente dal Messico, perché l'informazione è già
ovunque.
E' una novità: l'E.Z.L.N. è entrato nella comunicazione satellitare,
dicono addirittura che da guerriglieri siamo diventati internauti
dell'informatica... Ma la novità principale non è questa, è la
rielaborazione del discorso politico paradossalmente ancorato a un
ritorno al passato.
Evidentemente, dipende dall'esaurimento di un sistema politico che ha
sfruttato le parole fino a svuotarle, che le ha totalmente
prostituite. Di colpo, recuperando i concetti di nazione, di patria,
di libertà, di democrazia, di giustizia, l'E.Z.L.N. si è innestato su
una tradizione di lotta, su una cultura, e il suo discorso interessa
gruppi sociali molto diversi, dagli intellettuali più illustri alle
persone più semplici, compresi gli analfabeti senza alcun bagaglio
culturale. Lo zapatismo, diciamo, bussa alla porta del linguaggio
politico, scopre che è aperta, che dà su molte vie nuove. E le
imbocca... All'inizio l'E.Z.L.N. non aveva questa idea, ma è stato
obbligato a improvvisare, e il cocktail molotov maturato prima del '94
ha già diluito il discorso politico schematico interno allo zapatismo,
anche se alcuni membri dell'E.Z.L.N., soprattutto all'inizio, non
l'hanno apprezzato. Nel '94 l'E.Z.L.N. è un esercito, ma non combatte
e non ha nemmeno un'ideologia strutturata, un proprio linguaggio, è
obbligato a inventarlo sul momento. In questa invenzione si combinano
gli apporti della cultura india e quelli della cultura urbana, e la
creazione di questo linguaggio nuovo si alimenta del suo successo. Il
discorso zapatista sa di essere ascoltato, è come uno scrittore che sa
di essere letto, scrive più liberamente, con maggiore sicurezza.
Questo spiega anche le contraddizioni, gli slittamenti avvenuti
talvolta, soprattutto nelle dichiarazioni alla stampa. E' la cosa più
difficile, non hai il distacco, la calma consentita dalla lingua
scritta. Gli errori, gli slittamenti, sono anche prodotti
dall'improvvisazione, e questo ci ha creato molti problemi.
Siamo abituati a dire le cose come le pensiamo, senza metterci i
guanti bianchi, la diplomazia non è il nostro forte, non ci interessa
di passare da sinistra beneducata, gradevole e accettabile per la
destra. Ma bisogna comunque fare attenzione, è importante che le
critiche vadano alle persone cui sono rivolte e non ad altre... Per
esempio, avevamo degli screzi con il gruppo dirigente del P.R.D., ma
dimenticavamo spesso di precisare che si trattava del gruppo
dirigente. E' un partito complesso, buona parte della base ha simpatia
per lo zapatismo o lavora addirittura con noi; e a un certo punto le
nostre dichiarazioni sul P.R.D. hanno ferito quelli che ci aiutavano.
Nel corso del tempo abbiamo incorporato altri elementi. Il discorso
zapatista del gennaio-febbraio '94, nel momento in cui ci siamo
lanciati nel dialogo della cattedrale, è diverso da quello della
Convenzione, cambia ancora dopo il tradimento del '95, poi al momento
della Consultazione nazionale e internazionale, ed è ancora diverso
nei contatti internazionali, con le persone degli accampamenti per la
pace o le personalità internazionali. La lingua dello zapatismo
diventa sempre più densa, più difficile da controllare, come se avesse
alle spalle una logica che la trascina.
Mi ricordo di un problema provocato dalla lettera in cui proponevamo
ai comitati europei di solidarietà di scegliere Berlino per un
incontro. Spiegavo che era necessario andare a Berlino per via del
muro, per chiudere i conti con il passato, e concludevo con un
postscriptum: «Durito va in Europa, vuole portarmi in una scatola di
sardine, io rifiuto perché qualsiasi umidità non femminile mi dà il
mal di mare...». Grande scandalo nei movimenti femministi europei,
certo. Non ci capivo niente, nessuno mi parlava della proposta (era la
prima Dichiarazione da La Realidad), tutte le critiche ruotavano
intorno all'umidità femminile, mi accusavano di sessismo. Io pensavo
che si potesse scrivere come si parla, ma no, la gente di lì ha una
lingua che deve essere rispettosa verso tutti e tutto.
Nella Convenzione del '94, durante una conferenza stampa con dona
Rosario, un giornalista mi ha chiesto se avessimo adottato un criterio
restrittivo per convocare i partecipanti. Io ho risposto che non
vedevo perché: tutti erano invitati salvo i figli di puttana. Dona
Rosario mi sussurra all'orecchio: «Rettifica, le femministe si
offenderanno...». «E allora? Non sono in campagna elettorale, non
cerco di diventare presidente della Repubblica... Se non gradiscono
non voteranno per me, me ne frego...»
Il culmine è un postscriptum che ha fatto seguito a uno scherzo a una
giornalista di San Francisco. Le avevo raccontato di essere vissuto a
San Francisco e di aver lavorato in un bar gay, ma che mi avevano
cacciato perché rifiutavo le "avances" del proprietario... Lei ha
modificato la storia e ha scritto che mi avevano cacciato perché ero
gay... Un colpo fatale all'ego messicano! Il simbolo sessuale era
omosessuale! L'erede di Villa e di Zapata! Un dirigente guerrigliero
gay! Impossibile! Cercavano anche di farci dichiarare che no, «niente
affatto, noi siamo veri maschi». A quel punto Marcos se ne esce con il
postscriptum: «Sì, sono gay, e anche nero, ebreo, e tutto il
resto...». In fondo era questa la domanda: che significato ha Marcos
per il nostro movimento? I compagni l'hanno capito molto bene, tanto
più che si sentivano molto vicini al movimento gay, era una specie di
specchio della loro emarginazione, della loro esclusione.
N: Il linguaggio zapatista, o piuttosto i racconti di Marcos, le
storie di Durito, hanno un ruolo importante nello smantellamento della
vecchia lingua della sinistra. E' una scelta voluta?
Quanto a Durito, tutto è incominciato con una storia che ho scritto
per una bambina di dieci anni da cui avevo ricevuto una lettera. Una
vecchia storia che risaliva all'epoca solitaria del movimento di
guerriglia, quando eravamo otto o dieci, la storia dello scarabeo...
La lettera è stata pubblicata e ha avuto successo... Nel febbraio del
'95, al momento dell'offensiva, siamo stati costretti a ritirarci
nella zona dove eravamo allora, e abbiamo ritrovato gli stessi
scarabei. Assomigliano a quelli che ci sono qui, ma Durito è un po'
più grande, con un corno, sembra un rinoceronte... Allora ho deciso di
ricorrere a Durito per cercare di spiegare attraverso il cuore idee
destinate alla testa. Cercavo un modo di spiegare che cosa eravamo e
che cosa pensavamo senza ricadere negli stessi errori. Durito, come il
vecchio Antonio o i bambini zapatisti che compaiono nei racconti, era
un personaggio che, invece di spiegare, faceva intuire la situazione
in cui ci trovavamo.
Non avevamo niente da vendere, non potevamo prendere la gente per il
portafoglio, né per il cervello, perché non avevamo niente da
aggiungere alle analisi esistenti, ma potevamo prenderla per il cuore,
dimenticato da tutti. Non per i sentimenti, non volevamo costruire un
discorso sentimentale, apolitico o antiteorico, cercavamo soltanto di
riportare la teoria al livello dell'essere umano, della vita, di
condividere esperienze vissute su cui riflettere. Ne approfittavo per
scherzare su me stesso, sul passato, quando in teoria avevamo una
risposta a tutto: è esattamente quello che Durito fa continuamente.
Mette in ridicolo lo schematismo del Marcos urbano, universitario, che
a un certo punto si è infranto contro una realtà completamente nuova.
In un dato momento, Durito ha avuto lo scopo di purificare lo
zapatismo, riportarlo sulla terra, dissipare le nebbie dei nugoli di
fotografi dei riflettori, del sex appeal, e tutto il resto...
riportarlo alla realtà.
Insomma, c'è questa doppia intenzione: rompere con un discorso
politico astratto che in fondo si rivolge solo a un'élite, e scherzare
su di noi: non prenderci troppo sul serio.
Maggiore Moisés: Il passamontagna no, il problema sarebbe piuttosto la
lotta politica civile...
Cambiare la vita degli esseri umani nel mondo sarebbe un obiettivo
troppo grande, bisognerebbe pensarci parecchio. A quanto pare esistono
organizzazioni che se ne occupano, ma nella pratica non cambia niente.
Fanno solo discussioni, dichiarazioni, e tutto resta come prima. Per
loro è come un gioco, ma non è un gioco quando si soffre, la
sofferenza degli esseri umani sfruttati, derubati, traditi,
sacrificati. Dobbiamo davvero unirci, nel mondo, per decidere che cosa
fare. A volte mi chiedo perché ci vogliano tutti questi morti, le
pallottole, le bombe, le granate, quelli che se ne servono... Siamo
tutti esseri umani. Supponiamo che io sia l'uomo più ricco del mondo.
Un giorno, prima o poi, dovrò morire. Bisognerebbe che tutti gli
esseri umani capissero come fare, come organizzarsi... Sapendo che
muoiono anche i ricchi, e non sono molti. Ci vuole un cambiamento.
Bisogna organizzarsi, riflettere, analizzare, studiare, e realizzare
un lavoro davvero concreto sulle cose da cambiare su questa terra, in
questa vita. Senza pensare a noi, ma agli esseri umani che
continueranno a nascere, a venire al mondo.
Y: Che cosa diventerà lo zapatismo se per disgrazia Marcos restasse
ucciso?
Marcos: Secondo le previsioni, le unità e le regioni incomincerebbero
a funzionare in modo autonomo, sia sul piano politico sia su quello
militare. L'E.Z.L.N. frammenterebbe la sua attività fino al momento in
cui il suo successore non assumerà il potere. Per l'E.Z.L.N. è
semplice: all'esterno non lo so, penso che sarebbe un sollievo per
diversa gente. Non so quale sarebbe la reazione, a preoccuparci è
soprattutto l'impatto interno.
Perché... [lunga pausa] sarò sincero, non voglio raccontarti delle
storie, il peso di Marcos nell'organizzazione è maggiore di quello che
si percepisce dal di fuori. Il suo rapporto stretto con le comunità,
l'importanza che riveste per loro... Nonostante quello che abbiamo
detto sulla solitudine... Quelli delle comunità considerano Marcos una
loro creatura, l'hanno fatto loro, è come un figlio, lo amano come un
figlio... In un certo senso è un rapporto più sentimentale che
pratico.
Ci vorrà un po' di tempo, prima si dovrà assorbire il colpo, ma credo
che i compagni lo faranno altrettanto bene, o anche meglio. Avranno il
vantaggio di essere molti, in molti posti diversi allo stesso tempo.
E' anche un problema, ovviamente: quando c'è una sola voce, è uno solo
a contraddirsi, se parlano in molti contemporaneamente possono entrare
in contraddizione, e in un movimento come il nostro la coerenza è
molto importante.
Y: In questo caso Marcos diventerebbe un martire, una figura come
quella del Che. Ma uno dei contributi nuovi dello zapatismo, mi
sembra, consiste nell'essersi sbarazzato dell'idea del martirio. In
questo senso è meglio che Marcos viva, no?
Comunque mi sembrate molto ottimisti. A me la cosa non preoccupa
affatto, francamente, non ci ho riflettuto sul serio. Non riesco a
immaginare Marcos in questa situazione, non ci sono le condizioni.
Perché le cose cambino, probabilmente Marcos dovrà morire, e così
altri come Marcos. Non credo che vedrò il risultato. L'avvenire
lontano non mi turba, quello che mi preoccupa è che le comunità
ottengano lo spazio a cui hanno diritto, e che Marcos possa servire a
questo scopo. Oltre non vedo, non riesco a immaginare. Tutto fa
pensare che il problema non si porrà nemmeno.
Faremo del nostro meglio perché Chinameca non si ripeta. La nostra
morte non è indispensabile per la libertà del Messico, faremo tutto
quello che potremo per restare vivi. Ma bisogna anche impedire che si
ripeta l'inganno, da cui derivano le nostre riluttanze, la nostra
diffidenza. Siamo costretti a essere diffidenti, a calcolare ogni
mossa, a impedire che il governo ci inganni un'altra volta.
Y: Solo una domanda, per concludere. Perché fino a oggi ha sempre
rifiutato l'identificazione con Rafael Guillén, che in fondo sembra
quasi altrettanto simpatico di Marcos?
Da un altro punto di vista è allettante, ha un curriculum
interessante, verrebbe quasi voglia di essere lui. Ma è una questione
di principio. Devo convincere le mie ammiratrici che non sono così
brutto! La campagna è stata terribile, e non sono riuscito a
recuperare il mio sex appeal, guarda, non ho ricevuto neanche una
lettera da Brigitte Bardot...