INDICE DEL VOLUME.
Parte seconda.
RIVOLUZIONE MONDIALE, GUERRA CIVILE E TERRORE
1. Il Comintern in azione (di Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné)
La rivoluzione in Europa
Comintern e guerra civile
Dittatura, criminalizzazione degli oppositori e repressione all'interno del Comintern
Il Grande terrore colpisce il Comintern
Il terrore all'interno dei partiti comunisti
La caccia ai trotzkisti
Antifascisti e rivoluzionari stranieri vittime del terrore nell'URSS
Guerra civile e guerra di liberazione nazionale
2. L'ombra dell'N.K.V.D. in Spagna (di Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné)
3. Comunismo e terrorismo (di Rémi Kauffer)
Appena salito al potere Lenin sognava di propagare l'incendio rivoluzionario all'Europa e a tutto il resto del mondo. Questo sogno, che rispondeva innanzi tutto al celebre slogan del "Manifesto del Partito comunista" di Marx del 1848, «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», venne tutt'a un tratto a corrispondere anche a una necessità impellente: la rivoluzione bolscevica sarebbe rimasta al potere e si sarebbe sviluppata solo con la protezione, il sostegno e l'avvicendamento di altre rivoluzioni nei paesi più avanzati. Lenin pensava soprattutto alla Germania, con il suo proletariato ben organizzato e le sue enormi potenzialità industriali. Questa necessità congiunturale si trasformò ben presto in un vero e proprio progetto politico: la rivoluzione mondiale.
In un primo tempo gli avvenimenti parvero dare ragione al leader bolscevico. La disgregazione degli imperi di Germania e di Austria- Ungheria, seguita alla sconfitta militare che essi avevano subito nel 1918, provocò in Europa un terremoto politico accompagnato da un grande movimento rivoluzionario. Prima ancora che i bolscevichi prendessero qualsiasi iniziativa che non fosse solo verbale o propagandistica, la rivoluzione parve sorgere spontaneamente sulla scia della sconfitta tedesca e austro-ungarica.
- La rivoluzione in Europa.
A Berlino già nel dicembre 1918 Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht
pubblicarono il programma della Lega Spartaco che, pochi giorni dopo,
si staccò dal Partito socialdemocratico indipendente per fondare
insieme ad altre organizzazioni il K.P.D., il Partito comunista
tedesco. Ai primi di gennaio del 1919 gli spartachisti, guidati da
Karl Liebknecht - che era molto più estremista di Rosa Luxemburg [1] e
che, seguendo l'esempio leninista, era contrario all'elezione di
un'Assemblea costituente -, tentarono un'insurrezione a Berlino, che
fu repressa dai militari agli ordini del governo socialdemocratico.
Arrestati, i due leader furono assassinati il 15 gennaio. Lo stesso
avvenne in Baviera dove il 13 aprile 1919 un responsabile del K.P.D.,
Eugen Leviné, si mise a capo di una Repubblica dei consigli,
nazionalizzò le banche e cominciò a formare un'armata rossa. La Comune
di Monaco fu schiacciata militarmente il 30 aprile e Leviné, arrestato
il 13 maggio, fu giudicato da una corte marziale, condannato a morte e
fucilato il 5 giugno.
Ma l'esempio più famoso di questa ondata rivoluzionaria è l'Ungheria,
un paese sconfitto che a stento si rassegnava alla cessione della
Transilvania imposta dagli Alleati vincitori [2]. Quello ungherese è
il primo caso in cui i bolscevichi riuscirono a esportare la loro
rivoluzione. Fin dall'inizio del 1918 il partito bolscevico aveva
raggruppato al proprio interno tutti i simpatizzanti non russi in una
Federazione dei gruppi comunisti stranieri. Esisteva, quindi, a Mosca
un gruppo ungherese, formato prevalentemente da ex prigionieri di
guerra, che a partire dall'ottobre 1918 inviò una ventina di suoi
rappresentanti in Ungheria. Il 4 novembre a Budapest fu fondato il
Partito comunista ungherese, alla cui testa ben presto si mise Béla
Kun. Fatto prigioniero durante la guerra, Kun aveva aderito
entusiasticamente alla Rivoluzione bolscevica, tanto da diventare
presidente della Federazione dei gruppi stranieri nell'aprile 1918.
Giunto in Ungheria in novembre insieme a 80 militanti, fu eletto alla
guida del Partito. Si calcola che tra la fine del 1918 e l'inizio del
1919 siano arrivati in Ungheria da 250 a 300 «agitatori» ed emissari.
Grazie all'appoggio finanziario dei bolscevichi, i comunisti ungheresi
furono in grado di fare propaganda e acquistare maggiore influenza.
Il 18 febbraio 1919 la sede del giornale ufficiale dei
socialdemocratici, la «Nepszava» (La voce del popolo), decisamente
ostile ai bolscevichi, fu presa d'assalto da una folla di disoccupati
e soldati mobilitati dai comunisti intenzionati a impadronirsene o a
distruggere la tipografia. Intervenne la polizia e ci furono otto
morti e un centinaio di feriti. Quella notte Béla Kun e il suo
establishment furono arrestati. Al carcere centrale i prigionieri
furono picchiati dagli agenti di polizia che volevano vendicare i
colleghi uccisi durante l'assalto alla «Nepszava». Il presidente
ungherese, Mih ly K rolyi, mandò il suo segretario a informarsi sulle
condizioni di salute del leader comunista il quale, da quel momento in
poi, beneficiò di un regime assai liberale che gli permise di
continuare la propria attività e ben presto di capovolgere la
situazione. Il 21 marzo, mentre era ancora in prigione, egli conseguì
un'importante vittoria: la fusione del Partito comunista ungherese con
il Partito socialdemocratico. Contemporaneamente le dimissioni del
presidente K rolyi aprirono la strada alla proclamazione di una
Repubblica dei consigli, alla scarcerazione dei comunisti detenuti e
all'organizzazione, sull'esempio bolscevico, di un Consiglio di Stato
rivoluzionario composto da commissari del popolo. La repubblica durò
133 giorni, dal 21 marzo al primo agosto 1919.
Fin dalla prima riunione i commissari decisero di istituire dei
tribunali rivoluzionari con giudici scelti tra il popolo. In
collegamento telegrafico regolare con Budapest dal 22 marzo (per un
totale di 218 messaggi scambiati), Lenin, che Béla Kun aveva salutato
come capo del proletariato mondiale, consigliò di fucilare alcuni
socialdemocratici e piccolo borghesi. Nel messaggio di saluto agli
operai ungheresi del 27 maggio 1919 giustificava così il ricorso al
terrore: «Questa dittatura [del proletariato] presuppone l'uso
implacabilmente duro, rapido e deciso della violenza per schiacciare
la resistenza degli sfruttatori, dei capitalisti, dei grandi
proprietari fondiari e dei loro tirapiedi. Chi non l'ha capito non è
un rivoluzionario». Il commissario per il Commercio, M ty s
R kosi, quello per gli Affari economici, Evgenij Varga, e i
responsabili dei tribunali popolari si alienarono ben presto le
simpatie di commercianti, impiegati e avvocati. Un proclama affisso
sui muri riassumeva lo stato d'animo del momento: «Nello Stato dei
proletari solo chi lavora ha il diritto di vivere!». Il lavoro divenne
obbligatorio e furono espropriate prima le imprese con più di 20
operai e poi quelle con 10 o meno.
L'esercito e la polizia furono sciolti e fu istituito un nuovo
esercito di volontari di provata fede rivoluzionaria. Ben presto fu
organizzata una truppa del terrore del Consiglio rivoluzionario del
governo nota anche con il nome di «Ragazzi di Lenin». Costoro uccisero
una decina di persone, fra cui un giovane ufficiale di marina,
Ladislas Dobsa, un ex primo sottosegretario di Stato, il figlio di
questi, dirigente delle ferrovie, e tre ufficiali di gendarmeria. I
Ragazzi di Lenin erano agli ordini di un ex marinaio, Jòzsef Czerny,
che reclutava i suoi adepti tra i comunisti più radicali e soprattutto
tra gli ex prigionieri di guerra che avevano preso parte alla
Rivoluzione russa. Czerny si avvicinò a Szamuely, il leader comunista
più radicale, in contrasto con Béla Kun; quest'ultimo arrivò a
proporre lo scioglimento dei Ragazzi di Lenin. Per tutta risposta
Czerny chiamò a raccolta i suoi uomini e li fece marciare sulla Casa
dei soviet, dove Béla Kun ebbe l'appoggio del socialdemocratico Jòzsef
Haubrich, commissario del popolo per la Guerra. Alla fine fu
intavolata una trattativa e gli uomini di Czerny accettarono di
entrare nel commissariato del popolo per gli Interni o di arruolarsi
nell'esercito. La maggior parte di loro optò per questa seconda
soluzione.
Alla testa di una ventina di Ragazzi di Lenin, Tibor Szamuely si recò
a Szolnok, la prima città occupata dall'Armata rossa ungherese, e fece
giustiziare numerosi notabili accusati di collaborare con i romeni,
considerati nemici dal punto di vista sia nazionale (a causa della
questione della Transilvania) sia politico (in quanto il regime romeno
osteggiava il bolscevismo). Un liceale israelita presentatosi a
chiedere la grazia per il padre fu messo a morte per avere definito
Szamuely una «bestia feroce». Il capo dell'Armata rossa tentò invano
di frenare l'entusiasmo terroristico di Szamuely che, a bordo di un
treno che aveva requisito, viaggiava per l'Ungheria facendo impiccare
i contadini recalcitranti di fronte alla collettivizzazione. Accusato
di 150 omicidi, il suo vice Jòzsef Kerekes avrebbe poi confessato di
avere fucilato 5 persone e di averne impiccate con le proprie mani
altre 13. Il numero preciso delle esecuzioni non è mai stato
accertato. Arthur Koestler sostiene che furono meno di 500, ma
osserva: «Non dubito minimamente che anche il comunismo in Ungheria
sarebbe a un certo punto degenerato in uno Stato totalitario di
polizia, seguendo necessariamente l'esempio russo ... Ma questa
conoscenza a posteriori non toglie nulla alle grandi speranze dei
primi giorni di rivoluzione...». Gli storici attribuiscono ai Ragazzi
di Lenin 80 delle 129 esecuzioni documentate, ma è probabile che il
numero delle vittime ammonti a varie centinaia.
Con il crescere dell'opposizione e il deteriorarsi della situazione
militare nei confronti delle truppe romene il governo rivoluzionario
giunse persino a sfruttare l'antisemitismo. Fu affisso un manifesto
che denunciava gli ebrei perché si rifiutavano di partire per il
fronte: «Se non vogliono dare la vita per la santa causa della
dittatura del proletariato, sterminateli!». Béla Kun fece arrestare
5000 ebrei venuti dalla Polonia in cerca di provviste: i loro beni
furono confiscati, ed essi poi furono espulsi dal paese. L'ala
radicale del Partito comunista ungherese chiese che Szamuely assumesse
il controllo della situazione; invocava, inoltre, una notte di San
Bartolomeo rossa come se fosse l'unico mezzo per fermare il degrado
della situazione della Repubblica dei consigli. Czerny tentò di
riorganizzare i suoi Ragazzi di Lenin. A metà luglio sulla «Nepszava»
comparve un appello:
Il giorno dopo fu pubblicata una smentita ufficiale:
Le ultime settimane della Comune di Budapest furono caotiche. Béla Kun
dovette far fronte a un tentativo di golpe, probabilmente ispirato da
Szamuely. Il primo agosto 1919 lasciò Budapest sotto la protezione
della missione militare italiana; nell'estate 1920 si rifugiò
nell'URSS e, al suo arrivo, fu nominato commissario politico
dell'Armata rossa sul fronte meridionale, dove si mise in luce facendo
giustiziare gli ufficiali di Vrangel' che si erano arresi per aver
salva la vita. Szamuely tentò di fuggire in Austria, ma fu arrestato
il 2 agosto e si suicidò.
- Comintern e guerra civile.
La dodicesima condizione precisava le esigenze organizzative legate
alla preparazione della guerra civile: «Nella fase attuale di guerra
civile acutizzata, il Partito comunista sarà in grado di compiere il
proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile
centralisticamente, se in esso dominerà una disciplina ferrea e se la
direzione del Partito, sostenuta dalla fiducia di tutti i membri,
godrà di tutto il potere, di tutta l'autorità e delle più ampie
facoltà». La tredicesima condizione affrontava il problema di
eventuali militanti non unanimi: «I partiti comunisti ... debbono
intraprendere di quando in quando epurazioni ... dei membri delle loro
organizzazioni, per epurare il Partito sistematicamente dagli elementi
piccolo borghesi che vi si sono insinuati».
Al Terzo Congresso, che si tenne a Mosca nel giugno 1921 con la
partecipazione di numerosi partiti comunisti già costituiti, gli
orientamenti furono ancora più precisi. Nella "Tesi sulla tattica" si
affermava: «Il Partito comunista con la parola e l'azione deve
persuadere i più ampi strati del proletariato che ogni conflitto
economico o politico - quando si crei una situazione adatta - può
trasformarsi in una guerra civile; nel corso di questa guerra sarà
compito del proletariato impadronirsi del potere statale». E le
"Tesi sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti, sui metodi
e il contenuto del loro lavoro" illustravano ampiamente le questioni
della «sollevazione rivoluzionaria aperta» e della «organizzazione di
lotta» che ogni Partito comunista doveva segretamente creare al
proprio interno. Le tesi precisavano che questo lavoro preparatorio
era indispensabile, essendo impensabile in quella fase la formazione
di un'armata rossa regolare.
Dalla teoria alla pratica c'era solo un passo, che fu compiuto nel
marzo 1921 in Germania, dove il Comintern aveva architettato un'azione
rivoluzionaria di grande portata, diretta nientemeno che da Béla Kun,
il quale nel frattempo era stato eletto membro del presidium del
Comintern. Avviata mentre i bolscevichi reprimevano la Comune di
Kronstadt, l'«azione di marzo» in Sassonia, un vero e proprio
tentativo insurrezionale, fallì nonostante la violenza dei mezzi
impiegati, fra cui l'attentato con la dinamite contro il rapido Halle-
Lipsia. Il suo esito negativo ebbe come conseguenza una prima
epurazione nelle file del Comintern. Paul Lévi, membro fondatore e
presidente del K.P.D., fu estromesso a causa delle critiche rivolte a
un simile avventurismo. Già fortemente influenzati dal modello
bolscevico, i partiti comunisti, che dal punto di vista istituzionale
non erano altro che sezioni nazionali dell'Internazionale,
sprofondavano sempre più nella subordinazione (immediatamente
precedente alla sottomissione) politica e organizzativa al Comintern:
era quest'ultimo a dirimere i conflitti e a decidere, in ultima
istanza, la linea politica di ciascuno di essi. La tendenza
insurrezionalista, che doveva molto a Grigorij Zinov'ev, fu criticata
dallo stesso Lenin, il quale, pur dando fondamentalmente ragione a
Paul Lévi, affidò comunque la direzione del K.P.D. ai suoi avversari,
con il risultato che l'apparato del Comintern acquisì un peso ancora
maggiore.
Nel gennaio del 1923 le truppe francesi e belghe occuparono la Ruhr
per imporre alla Germania il pagamento delle riparazioni di guerra
previste dal trattato di Versailles. Uno degli effetti concreti di
questa occupazione militare fu il riavvicinamento tra nazionalisti e
comunisti, uniti contro l'imperialismo francese; un altro fu il
ricorso della popolazione alla resistenza passiva, appoggiata dal
governo. La già instabile situazione economica si aggravò
ulteriormente: la valuta crollò al punto che in agosto un dollaro
veniva scambiato con 13 milioni di marchi. Scioperi, manifestazioni e
sommosse si moltiplicavano. In questo clima rivoluzionario, il governo
di Wilhelm Cuno cadde il 13 agosto.
A Mosca i dirigenti del Comintern si accorsero che si poteva pensare a
un nuovo ottobre. Una volta placati i dissidi tra i dirigenti su chi
dovesse prendere le redini di questa seconda rivoluzione tra Trotsky,
Zinov'ev e Stalin, il Comintern procedette a organizzare seriamente
l'insurrezione armata. In Germania furono inviati degli emissari
(August Gural'skij, M ty s R kosi) accompagnati da esperti di guerra
civile (fra cui il generale Aleksandr Skoblevskij, alias Gorev). Era
previsto che ci si sarebbe appoggiati ai governi operai in fase di
formazione, composti da socialdemocratici di sinistra e comunisti, per
procurarsi armi in grandi quantità. Inviato in Sassonia, R kosi aveva
intenzione di far saltare un ponte della ferrovia che collegava la
provincia alla Cecoslovacchia, per provocare l'intervento di
quest'ultima e accrescere così la confusione.
L'inizio dell'operazione doveva coincidere con l'anniversario del
colpo di Stato bolscevico. L'eccitazione contagiò anche Mosca che,
credendo che la vittoria fosse assicurata, mobilitò l'Armata rossa
sulla frontiera occidentale, pronta ad andare in aiuto degli insorti.
A metà ottobre i dirigenti comunisti entrarono nei governi di Sassonia
e Turingia con l'incarico di rinforzare le milizie proletarie
(parecchie centinaia), composte per il 25 per cento da operai
socialdemocratici e per il 50 per cento da comunisti. Ma il 13 ottobre
il governo di Gustav Stresemann dichiarò lo stato di emergenza nella
regione, ormai sotto il suo diretto controllo, con il sostegno della
Reichswehr. Ciò nonostante Mosca chiamò alle armi gli operai e, al suo
ritorno da Mosca, Heinrich Brandler decise di fare proclamare lo
sciopero generale in occasione di una conferenza delle organizzazioni
operaie a Chemnitz. La manovra fallì perché i socialdemocratici di
sinistra rifiutarono di seguire i comunisti. Questi decisero allora di
fare marcia indietro ma, per problemi di trasmissione, la notizia non
arrivò ai comunisti di Amburgo e la mattina del 23 scoppiò
l'insurrezione. Le unità di combattimento comuniste (200-300 uomini)
attaccarono i posti di polizia ma, svanito l'effetto della sorpresa,
gli insorti non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi. La polizia,
insieme con la Reichswehr, passò al contrattacco e, dopo 31 ore di
scontri, la rivolta dei comunisti di Amburgo, completamente isolata,
fu soffocata. Il secondo ottobre in cui Mosca aveva tanto sperato non
si era verificato. L'importanza del Militar Apparat (M-Apparat) non fu
per questo sminuita e fino agli anni Trenta esso rimase una struttura
importante del K.P.D., come descritto accuratamente da uno dei suoi
capi, Jan Valtin, pseudonimo di Richard Krebs.
Dopo la Germania anche l'Estonia fu teatro di un tentativo di
insurrezione. Si trattava del secondo attacco subito da questa piccola
repubblica. Il 27 ottobre 1917, infatti, un consiglio dei soviet aveva
preso il potere a Tallinn (Reval), sciolto l'assemblea e annullato le
elezioni da cui i comunisti erano usciti sconfitti. Davanti al corpo
di spedizione tedesco i comunisti batterono in ritirata. Poco prima
dell'arrivo dei tedeschi, il 24 febbraio 1918, gli estoni proclamarono
l'indipendenza. L'occupazione tedesca durò fino al novembre del 1918.
In seguito alla sconfitta del kaiser, le truppe tedesche furono
costrette a ritirarsi e i comunisti tornarono subito all'attacco: il
18 novembre a Pietrogrado fu costituito un governo e due divisioni
dell'Armata rossa invasero l'Estonia. L'obiettivo di questa offensiva
fu spiegato in modo chiaro sul giornale «Severnaja Kommuna» (La Comune
del Nord):
Nel gennaio 1919, a 30 chilometri dalla capitale, le truppe sovietiche
furono fermate dalla controffensiva estone. Anche il secondo attacco
fallì. Il 2 febbraio 1920 i comunisti russi riconobbero l'indipendenza
dell'Estonia con il trattato di Tartu. Nelle località occupate i
bolscevichi si abbandonarono ai massacri: il 14 gennaio 1920,
nell'imminenza della ritirata, ammazzarono 250 persone a Tartu e più
di 1000 nel distretto di Rakvere. Al momento della liberazione di
Wesenberg, il 17 gennaio, furono scoperte tre fosse comuni contenenti
86 cadaveri. A Dorpad, agli ostaggi fucilati il 26 dicembre 1919 erano
state inflitte torture, fratturati gli arti e in alcuni casi strappati
gli occhi. Il 14 gennaio, poco prima della fuga, i bolscevichi fecero
in tempo a giustiziare solo 20 delle 200 persone che tenevano
prigioniere, fra cui l'arcivescovo Platon. I cadaveri delle vittime,
massacrate a colpi d'ascia e di calcio di fucile, erano difficilmente
identificabili; un ufficiale fu addirittura trovato con le spalline
inchiodate addosso.
I sovietici sconfitti non rinunciarono però ad attrarre nella propria
orbita il piccolo Stato estone. Nell'aprile 1924, durante alcuni
colloqui segreti avuti a Mosca con Zinov'ev, il Partito comunista
estone decise di preparare un'insurrezione armata. I suoi membri
organizzarono delle unità di lotta strutturate in compagnie (in
autunno potevano contare su un migliaio di uomini) e diedero inizio a
un'opera di demoralizzazione dell'esercito. Era previsto che
l'insurrezione, una volta scoppiata, sarebbe stata sostenuta da uno
sciopero. Il primo dicembre 1924 il Partito comunista estone, che
contava circa 3000 iscritti ed era oggetto di forte repressione, cercò
di impadronirsi del potere a Tallinn per proclamare una Repubblica
sovietica il cui compito fondamentale doveva essere quello di chiedere
l'immediata adesione alla Russia sovietica in modo da giustificare
l'invio dell'Armata rossa. Il piano fallì il giorno stesso. «Le masse
operaie ... non sostennero attivamente gli insorti contro la
controrivoluzione. La classe operaia di Reval, nel suo complesso,
rimase spettatrice disinteressata». Il capo dell'operazione, Jan
Anvelt, riuscì a fuggire nell'URSS e, prima di sparire nell'epoca
delle purghe, fu per anni funzionario del Comintern. ***
Dall'Estonia l'azione si spostò in Bulgaria. Nel 1923 c'erano stati
gravi disordini nel paese. Nel giugno di quell'anno Aleksander
Stambolijski, leader della coalizione formata dai comunisti e dal suo
stesso partito, l'Unione agraria, era stato assassinato e sostituito a
capo del governo da Aleksander Cankov, che ebbe l'appoggio
dell'esercito e della polizia. A settembre i comunisti diedero vita a
un'insurrezione che si protrasse per una settimana e fu poi repressa
duramente. A partire dall'aprile 1924 cambiarono tattica, ricorrendo
all'azione diretta e agli assassinii. L'8 febbraio 1925 ci furono
quattro morti durante un assalto alla sottoprefettura di Godetch. L'11
febbraio a Sofia fu assassinato il deputato Nicola Milev, direttore
del giornale «Slovet» e presidente del sindacato dei giornalisti
bulgari. Il 24 marzo un manifesto del Partito comunista bulgaro
annunciò anzitempo l'inevitabile caduta di Cankov, rivelando così il
legame tra il gesto terrorista e gli obiettivi politici dei comunisti.
All'inizio di aprile fallì per un soffio un attentato contro il re
Boris Terzo; il giorno 15 fu ucciso uno dei personaggi a lui vicini,
il generale Kosta Georgiev.
Quello che seguì fu l'episodio più impressionante di quegli anni di
violenza politica in Bulgaria. Il 17 aprile, durante le esequie del
generale Georgiev nella cattedrale di Santa Sofia, una terribile
esplosione provocò il crollo della cupola: si contarono 140 morti, tra
cui 14 generali, 16 ufficiali superiori e 3 deputati. Secondo Victor
Serge l'attentato era stato organizzato dalla sezione militare del
Partito comunista. I suoi presunti autori, Kosta Iankov e Ivan Minkov,
dirigenti della sezione, furono uccisi con le armi in pugno al momento
dell'arresto.
L'attentato servì da pretesto per una repressione spietata: furono
arrestati 3000 comunisti, tre dei quali furono impiccati sulla
pubblica piazza. Alcuni membri dell'apparato del Comintern
attribuirono la responsabilità dell'attentato al capo dei comunisti
bulgari, Georgi Dimitrov, che guidava clandestinamente il Partito da
Vienna. Nel dicembre 1948, davanti ai delegati del Quinto Congresso
del Partito comunista bulgaro, egli ne rivendicò la responsabilità a
sé e all'organizzazione militare. Secondo altre fonti, il mandante
dell'attentato della cattedrale era Meir Trilisser, capo della sezione
straniera della Ceka e poi vicepresidente della G.P.U., insignito nel
1927 dell'ordine della Bandiera rossa per i servizi resi. Negli
anni Trenta Trilisser fu uno dei dieci segretari del Comintern, di cui
assicurò il controllo permanente per conto dell'N.K.V.D.
Dopo queste brucianti sconfitte in Europa il Comintern, spinto da
Stalin, scoprì un nuovo campo di battaglia, la Cina, e vi concentrò i
propri sforzi. In piena anarchia, lacerato da guerre intestine e da
conflitti sociali ma animato da un formidabile slancio nazionalista,
questo immenso paese sembrava maturo per una rivoluzione
antimperialista. Un segno dei tempi: nell'autunno 1925, gli studenti
cinesi dell'Università comunista dei lavoratori dell'Oriente
(K.U.T.V.), fondata nell'aprile 1921, furono riuniti in un'università
Sun Yat-sen.
Debitamente controllato da responsabili del Comintern e dei servizi
sovietici, il Partito comunista cinese, non ancora diretto da Mao
Zedong, negli anni 1925-1926 fu spinto ad allearsi saldamente con il
Partito nazionalista, il Guomindang, e con il suo capo, il giovane
generale Chiang Kai-shek. La tattica scelta dai comunisti consisteva
nel fare del Guomindang una specie di cavallo di Troia della
rivoluzione. L'inviato del Comintern, Mihail Borodin, arrivò a
occupare il posto di consigliere presso il Guomindang. Nel 1925 l'ala
sinistra del Partito nazionalista, del tutto favorevole alla politica
di cooperazione con l'Unione Sovietica, riuscì a impadronirsi della
direzione. I comunisti intensificarono, allora, la propaganda e
alimentarono i fermenti sociali fino a dominare il Secondo Congresso
del Guomindang. Ben presto tuttavia si trovarono di fronte un
ostacolo: Chiang Kai-shek, preoccupato per la sempre maggiore
influenza comunista, sospettava, a ragione, che i comunisti volessero
emarginarlo. Giocando d'anticipo, il 12 marzo 1926 proclamò la legge
marziale, fece arrestare i comunisti presenti nel Guomindang e i
consiglieri militari sovietici (furono rilasciati tutti dopo pochi
giorni), estromise il leader dell'ala sinistra del suo partito e
impose un patto in otto punti volto a limitare le prerogative e il
potere dei comunisti al suo interno. Chiang era ormai il capo
incontrastato dell'esercito nazionalista. Prendendo atto del nuovo
equilibrio di forze, Borodin ratificò il suo operato.
Il 7 luglio 1926 Chiang Kai-shek, che riceveva notevoli aiuti
materiali dai sovietici, lanciò le armate nazionaliste alla conquista
della parte settentrionale della Cina, ancora dominata dai «signori
della guerra». Il 29 proclamò nuovamente la legge marziale a Canton.
Nelle campagne delle regioni di Hunan e Hubei era in corso una sorta
di rivoluzione agraria che, per la sua stessa dinamica, rimetteva in
discussione l'alleanza tra comunisti e nazionalisti. In quella grande
metropoli industriale che era Shanghai già a quell'epoca i sindacati
indissero uno sciopero generale all'avvicinarsi delle truppe. I
comunisti, tra cui Zhou Enlai, incitarono la popolazione alla rivolta
in previsione di un imminente arrivo dell'esercito nazionalista in
città, che invece non ci fu. La sollevazione del 22-24 febbraio 1927
fallì e la repressione del generale Li Baozhang fu inesorabile.
Il 21 marzo un nuovo sciopero generale, ancora più esteso, e una nuova
insurrezione rovesciarono il potere costituito. Una divisione
dell'esercito nazionalista il cui generale era stato convinto a
intervenire entrò a Shanghai, seguita poco dopo da Chiang, deciso a
riprendere il controllo della situazione. Nel raggiungimento del suo
obiettivo fu facilitato dal fatto che Stalin, tratto in inganno dalla
dimensione antimperialista della politica di Chiang e del suo
esercito, alla fine di marzo ordinò di deporre le armi e di fare
fronte comune con il Guomindang. Il 12 aprile 1927 Chiang ripeté a
Canton la strategia adottata a Shanghai, facendo perseguitare e
uccidere i comunisti.
Ma il momento scelto da Stalin per cambiare politica fu il peggiore:
in agosto, per non perdere la faccia davanti alle critiche
dell'opposizione, mandò due inviati «personali», Vissarion
Lominadze e Heinz Neumann, con l'incarico di rilanciare un movimento
insurrezionale dopo aver rotto l'alleanza con il Guomindang.
Nonostante il fallimento della «rivolta delle messi d'autunno» da loro
orchestrata, i due inviati si ostinarono fino a scatenare
un'insurrezione a Canton, «per procurare al loro capo un bollettino di
vittoria» (Boris Suvarin) proprio nel momento in cui si riuniva il
Quindicesimo Congresso del partito bolscevico, che avrebbe estromesso
i rappresentanti dell'opposizione. Questa manovra fu indicativa del
grado di disprezzo della vita umana cui erano giunti molti
bolscevichi, anche quando si trattava dei loro stessi sostenitori,
cosa che all'epoca era una novità. Lo testimonia l'assurda vicenda
della Comune di Canton, che pure in fondo non è molto diversa dalle
azioni terroristiche condotte in Bulgaria qualche anno prima.
Parecchie migliaia di insorti si scontrarono per quarantotto ore con
truppe numericamente cinque o sei volte superiori. La Comune cinese
era stata preparata male: a parte l'insufficienza degli armamenti, il
contesto politico era sfavorevole, poiché gli operai di Canton si
tenevano su posizioni di cauta aspettativa. La sera del 10 dicembre
1927 le truppe lealiste presero posizione nei previsti punti di
raccolta delle Guardie rosse. Come ad Amburgo, gli insorti ebbero il
vantaggio della sorpresa, che però si esaurì ben presto. La mattina
del 12 dicembre la proclamazione di una Repubblica sovietica non
suscitò reazione alcuna da parte della popolazione. Nel pomeriggio le
forze nazionaliste passarono al contrattacco. Due giorni dopo la
bandiera rossa che sventolava sulla questura fu rimossa dalle truppe
vincitrici. Seguì una repressione spietata, che fece migliaia di
morti.
Il Comintern avrebbe dovuto trarre delle lezioni da questa esperienza,
ma non era in grado di affrontare le questioni politiche di fondo.
Ancora una volta l'uso della violenza fu giustificato a dispetto di
ogni logica, in termini che dimostrano fino a che punto fosse radicata
tra i funzionari comunisti la cultura della guerra civile.
Nell'"Insurrezione armata" si legge questo brano di spaventosa
autocritica, le cui conclusioni sono fin troppo chiare:
Questa lezione non fu dimenticata.
Tuttavia, né gli insuccessi europei dei primi anni Venti né il
disastro cinese scoraggiarono il Comintern dal proseguire sulla
medesima strada. Tutti i partiti comunisti, compresi quelli legali e
quelli delle repubbliche democratiche, conservarono al proprio interno
un apparato militare segreto pronto, se necessario, a manifestarsi in
pubblico. L'esempio fu dato dal K.P.D. che in Germania, e sotto
l'attento controllo dei dirigenti militari sovietici, creò un
importante M-Apparat con il compito di eliminare militanti di parte
avversa (in particolare di estrema destra) e spie infiltrate nel
Partito, e inoltre di inquadrare i gruppi paramilitari nel famoso Rote
Front (Fronte rosso), che contava migliaia di membri. Va detto però
che nella Repubblica di Weimar la violenza politica era un fenomeno
generale e che, se combattevano l'estrema destra e il nazismo
nascente, i comunisti non esitavano neppure ad attaccare i comizi dei
socialisti, definiti «socialtraditori» e «socialfascisti», e la
polizia di una repubblica considerata reazionaria se non addirittura
fascista. Il futuro avrebbe dimostrato, già a partire dal 1933, che
cos'era il vero fascismo, ossia il nazionalsocialismo, e che sarebbe
stato meglio allearsi con i socialisti per difendere la democrazia
«borghese», ma i comunisti rifiutavano radicalmente questo tipo di
democrazia.
In Francia il clima politico era più sereno, ma il Partito comunista
francese (P.C.F.) ebbe anch'esso i suoi gruppi armati, organizzati da
Albert Treint, uno dei segretari del Partito, che vantava qualche
competenza in merito grazie al grado di capitano assegnatogli durante
la guerra. La prima comparsa pubblica dei gruppi armati ebbe luogo
l'11 gennaio 1924 in occasione di un comizio comunista in cui,
contestato da un gruppo di anarchici, Treint fece entrare in azione il
servizio d'ordine. Una decina di uomini armati di rivoltella salirono
sul palco e spararono a bruciapelo sui contestatori, uccidendo due
persone e ferendone altre. In mancanza di prove, nessuno degli
assassini fu perseguito. Un episodio analogo avvenne circa un anno
dopo. Giovedì 23 aprile 1925, a qualche settimana dalle elezioni
comunali, il servizio d'ordine del P.C.F. andò a intralciare l'uscita
da un comizio elettorale delle Jeunesses patriotes (J.P.),
un'organizzazione di estrema destra, in rue Damrémont, nel
diciottesimo arrondissement di Parigi. Alcuni militanti erano armati e
non esitarono a usare la pistola. Ci furono tre morti tra le J.P. e
uno dei feriti morì due giorni dopo. Jean Taittinger, il leader delle
Jeunesses patriotes, fu interrogato e la polizia effettuò a più
riprese varie perquisizioni in casa di militanti comunisti.
Nonostante queste difficoltà il Partito proseguì sulla stessa strada.
Nel 1926 Jacques Duclos, da poco eletto deputato e quindi protetto
dall'immunità parlamentare, fu incaricato di organizzare dei Groupes
de défense antifascistes (costituiti da ex combattenti della guerra
1914-1918) e delle Jeunes gardes antifascistes (reclutate fra i membri
della gioventò comunista); questi gruppi paramilitari, ispirati al
modello del Rote Front tedesco, sfilarono in uniforme l'11 novembre
1926. Nel frattempo Duclos si occupava anche di propaganda
antimilitarista e pubblicava una rivista, «Le combattant rouge», che
insegnava l'arte della guerra civile, descrivendo e analizzando
combattimenti di piazza e simili.
Nel 1931 il Comintern pubblicò in varie lingue un libro intitolato
"L'insurrezione armata", che era firmato con lo pseudonimo di A.
Neuberg, dietro cui si nascondevano vari funzionari sovietici, e
che illustrava le varie esperienze insurrezionali dal 1920 in poi. In
Francia il libro ebbe una seconda edizione all'inizio del 1934. La
linea insurrezionale passò in secondo piano solo con la svolta
politica del Fronte popolare nell'estate-autunno del 1934, ma in
ultima analisi ciò non ridusse affatto la funzione fondamentale della
violenza nella prassi comunista. Le ripetute giustificazioni della
violenza, la quotidianità dell'odio di classe, la teorizzazione della
guerra civile e del terrore trovarono applicazione dal 1936 in poi in
Spagna, dove il Comintern mandò molti dei suoi dirigenti che si
distinsero nelle attività di repressione.
Questo lavoro di selezione, formazione e preparazione dei quadri
autoctoni della futura insurrezione armata avveniva in stretto
contatto con i servizi segreti sovietici o, per essere più precisi,
con uno di essi, il G.R.U. ("Glavnoe Razvedatel'noe Upravlenie",
Direzione generale inquirente). Fondato sotto l'egida di Trotsky come
quarto Bjuro dell'Armata rossa, il G.R.U. non abbandonò mai del tutto
questa funzione «educativa», anche se le circostanze lo costrinsero a
poco a poco a un notevole ridimensionamento. Per quanto possa
risultare sorprendente, nei primi anni Settanta alcuni giovani
dirigenti del Partito comunista francese seguivano ancora corsi di
addestramento nell'URSS (tiro, montaggio e smontaggio delle armi più
comuni, fabbricazione di armi artigianali, comunicazioni, tecniche di
sabotaggio) presso gli Specnaz, i reparti speciali delle truppe
sovietiche messi a disposizione dei servizi segreti. Inoltre, il
G.R.U. disponeva di esperti militari che poteva inviare ai partiti
fratelli in caso di necessità. Manfred Stern, per esempio, un austro-
ungarico distaccato presso l'M-Apparat del K.P.D. nell'insurrezione di
Amburgo del 1923, lavorò poi in Cina e in Manciuria prima di diventare
il «generale Kléber» delle Brigate internazionali in Spagna.
Questi apparati militari clandestini non erano certo composti da
«bravi ragazzi». I loro membri erano spesso al limite del banditismo e
a volte certi gruppi si trasformavano in vere e proprie associazioni a
delinquere. Uno degli esempi più impressionanti è quello della Guardia
rossa o degli squadroni rossi del Partito comunista cinese a metà
degli anni Venti. Entrarono in azione a Shanghai, allora considerata
ufficialmente l'epicentro dell'azione del Partito. Sotto la guida di
Gu Shunzhang, un ex gangster affiliato alla società segreta della
Banda verde, la più potente delle due organizzazioni mafiose di
Shanghai, questi sicari fanatici affrontarono i loro equivalenti
nazionalisti, in particolare le Camicie blu di ispirazione fascista,
in loschi combattimenti, fatti di azioni terroristiche, imboscate,
omicidi e vendette. Il tutto con l'appoggio stranamente attivo del
consolato dell'URSS a Shanghai, che disponeva a sua volta sia di
esperti in questioni militari come Gorbatjuk, sia di bassa
manovalanza.
Nel 1928 gli uomini di Gu Shunzhang liquidarono una coppia di
militanti restituiti dalla polizia: He Jaixing e He Jihua morirono
crivellati di colpi durante il sonno. Per coprire il rumore delle
detonazioni, alcuni complici fecero esplodere dei petardi all'esterno
della casa. Metodi altrettanto sbrigativi furono adoperati poco tempo
dopo per sconfiggere gli oppositori all'interno del Partito stesso. A
volte bastava una semplice denuncia. Il 17 gennaio 1931, stanchi di
essere manovrati dal delegato del Comintern, Pavel Mif, e dai
dirigenti asserviti a Mosca, He Meng-xiong e una ventina di suoi
compagni della frazione operaia si riunirono in una sala dell'hotel
Oriental di Shanghai. Avevano appena cominciato a discutere quando
alcuni poliziotti e agenti del Diaocha tongzhi, l'Ufficio
investigativo centrale del Guomindang, fecero irruzione con le armi in
pugno e li arrestarono. I nazionalisti erano stati informati della
riunione da una fonte «anonima».
Dopo la defezione di Gu Shunzhang nell'aprile del 1931, il suo
immediato ritorno sotto le ali della Banda verde e la sua
sottomissione al Guomindang (era passato alle Camicie blu), un
Comitato speciale di cinque membri subentrò a Shanghai. Era composto
da Kang Sheng, Guang Huian, Pan Hannian, Chen Yun e Ke Qingshi. Nel
1934, anno del crollo quasi definitivo dell'apparato urbano del
P.C.C., gli ultimi due capi dei gruppi armati comunisti della città,
Ding Mocun e Li Shiqun, caddero nelle mani del Guomindang e fecero
atto di sottomissione, passando poi al servizio dei giapponesi e
andando incontro a un tragico destino. Il primo fu fucilato dai
nazionalisti nel 1947 per tradimento e il secondo avvelenato dal suo
contatto nel servizio segreto giapponese. Quanto a Kang Sheng, dal
1949 fino alla morte, avvenuta nel 1975, fu a capo della polizia
segreta maoista e figura quindi tra i principali aguzzini del popolo
cinese durante il regime comunista.
Accadde anche che rappresentanti dell'apparato dell'uno o dell'altro
dei vari partiti comunisti venissero utilizzati in operazioni dei
servizi speciali sovietici, per esempio nell'affare Kutepov. Nel 1924
il generale Aleksandr Kutepov era stato chiamato a Parigi dal granduca
Nicola a dirigere l'Unione militare generale (R.O.V.S.). Nel 1928 la
G.P.U. decise di provocarne il disgregamento. Il 26 gennaio il
generale scomparve. Le voci che circolarono furono molte, alcune
diffuse deliberatamente dagli stessi sovietici. L'identità dei
mandanti del rapimento fu appurata da due inchieste separate, una
condotta dal vecchio socialista russo Vladimir Burcev, famoso per aver
smascherato Evno Azev, l'agente dell'Ohrana infiltratosi ai vertici
dell'Organizzazione di combattimento dei socialisti-rivoluzionari, e
l'altra da Jean Delage, giornalista de «L'Echo de Paris». Secondo
Delage, il generale Kutepov sarebbe stato condotto a Houlgate e
imbarcato su un piroscafo sovietico, lo "Spartak", che salpò da Le
Havre il 19 febbraio. Nessuno lo rivide mai più vivo. Il 22 settembre
1965, il generale sovietico Simanov rivendicò l'operazione sul
giornale dell'Armata rossa e fece il nome del responsabile:
Oggi abbiamo informazioni più precise sulle circostanze del rapimento
dello sventurato Kutepov. Nella sua organizzazione di emigrati c'erano
degli infiltrati della G.P.U.: nel 1929 l'ex ministro del governo
bianco dell'ammiraglio Kolciak, Sergej Nikolaevic Tret'jakov, era
passato segretamente ai sovietici cui forniva informazioni con la
sigla UJ/1 e il nome in codice di Ivanov. Grazie alle informazioni
particolareggiate che costui forniva al suo contatto «Vecinkin», Mosca
sapeva tutto o quasi sugli spostamenti del generale zarista. La sua
auto fu fermata in mezzo alla strada con il pretesto di un controllo
di polizia. Travestito da agente della stradale, un francese di nome
Honel, che faceva il meccanico a Levallois-Perret, invitò Kutepov a
seguirlo. Nell'operazione era coinvolto il fratello di Honel, Maurice,
che era in contatto con i servizi sovietici e che fu poi eletto
deputato per il Partito comunista nel 1936. Rifiutatosi di seguire
Honel, Kutepov sarebbe stato ucciso con una pugnalata e, quindi,
sepolto nello scantinato del garage di Honel.
Il successore di Kutepov, il generale Miller, aveva come braccio
destro il generale Nikolaj Skoblin, che in realtà era un agente dei
sovietici. Insieme alla moglie, la cantante lirica Nadejzda
Plevitskaja, Skoblin organizzò a Parigi il rapimento di Miller, che
scomparve il 22 settembre 1937. Il 23 settembre il piroscafo "Marija
Ul'janovna" partì da Le Havre. Anche il generale Skoblin scomparve,
mentre i sospetti su di lui si facevano sempre più precisi. Il
generale Miller era sul "Marija Ul'janovna", che le autorità francesi
non vollero intercettare. Giunto a Mosca, fu interrogato e poi ucciso.
- Dittatura, criminalizzazione degli oppositori e repressione
all'interno del Comintern.
Si riferiva in particolare a coloro che, senza costituire un gruppo
nel senso proprio del termine né avere un organo di stampa, si erano
riuniti intorno alla piattaforma detta dell'Opposizione operaia
(Aleksandr Shljapnikov, Aleksandra Kollontaj, Lutovinov) e a quella
detta del Centralismo democratico (Timofej Sapronov, Gavriil
Mjasnikov).
Il congresso stava per concludersi quando, il 16 marzo, Lenin presentò
in extremis due risoluzioni: la prima riguardante l'«unità del
Partito» e la seconda la «deviazione sindacalista e anarchica nel
nostro Partito» con cui attaccava l'Opposizione operaia. Nella prima
risoluzione chiedeva l'immediato scioglimento di tutti i gruppi
costituiti intorno a piattaforme particolari, pena l'espulsione
immediata dal Partito. Un articolo non pubblicato di questa
risoluzione, che rimase segreto fino all'ottobre 1923, attribuiva al
Comitato centrale il potere di emettere tale sanzione. La polizia di
Feliks Dzerzinskij si vide, così, offrire un nuovo terreno di
indagine: da allora in poi qualsiasi gruppo di opposizione all'interno
del Partito comunista fu oggetto di sorveglianza e, se necessario, di
sanzione sotto forma di espulsione che, per i veri militanti,
equivaleva praticamente alla morte politica.
Le due risoluzioni che, in contrasto con gli statuti del Partito,
sancivano il divieto di libera discussione furono comunque messe ai
voti. Riguardo alla prima, Radek avanzò una giustificazione che suona
quasi come una premonizione:
Questa scelta, fatta sotto l'impulso delle circostanze ma rispondente
alle tendenze profonde del bolscevismo, ebbe un peso decisivo nel
futuro del partito sovietico e di conseguenza nelle sezioni del
Comintern.
Il Decimo Congresso procedette inoltre alla riorganizzazione della
Commissione di controllo, il cui ruolo era per definizione quello di
sorvegliare il consolidamento dell'unità e dell'autorità nel Partito.
Da quel momento la commissione cominciò a costituire e raccogliere
dossier personali sui militanti che, all'occorrenza, servirono da base
per futuri capi d'accusa: atteggiamento nei confronti della polizia
politica, adesione a gruppi di opposizione, e così via. Subito dopo il
congresso, i sostenitori dell'Opposizione operaia subirono vessazioni
e persecuzioni. In seguito Aleksandr Shljapnikov spiegò che
Nell'agosto successivo ebbe inizio una verifica che durò vari mesi.
Circa un quarto dei militanti comunisti furono espulsi. Il ricorso
alla "cistka" (epurazione) era ormai parte integrante della vita del
Partito. A‹no Kuusinen ha lasciato una testimonianza su questo
processo ciclico:
Gli effetti delle decisioni del Decimo Congresso non tardarono a farsi
sentire: nel febbraio 1922 Gavriil Mjasnikov fu espulso per un anno
dopo avere difeso, contro il parere di Lenin, la necessità della
libertà di stampa. L'Opposizione operaia, nell'impossibilità di far
sentire la propria voce, fece appello al Comintern ("Dichiarazione dei
Ventidue"). Stalin, Dzerzinskij e Zinov'ev chiesero allora
l'espulsione di Shljapnikov, della Kollontaj e di Medved, che
l'Undicesimo Congresso rifiutò. Sempre più influenzato dal potere
sovietico, il Comintern fu ben presto costretto a adottare lo stesso
regime interno del partito bolscevico: una conseguenza logica e, tutto
sommato, poco sorprendente.
Nel 1923 Dzerzinskij pretese una decisione ufficiale del Politbjuro
che costringesse i membri del Partito a denunciare alla G.P.U.
qualsiasi attività di opposizione. Da questa proposta nacque una nuova
crisi in seno al partito bolscevico: l'8 ottobre Trotsky indirizzò una
lettera al Comitato centrale, seguita il 15 ottobre dalla
"Dichiarazione dei Quarantasei". Il dibattito che ne sorse si
concentrò principalmente sul nuovo corso del Partito russo ed ebbe
degli strascichi in tutte le sezioni del Comintern.
Contemporaneamente, alla fine del 1923, la parola d'ordine nella vita
delle sezioni diventò bolscevizzazione; tutte dovettero riorganizzare
la propria struttura fondandola sulle cellule di impresa e ribadire la
propria fedeltà al centro moscovita. La reticenza con cui furono
accolti questi cambiamenti ebbe come conseguenza un considerevole
aumento del ruolo e del potere dei "missi dominici"
dell'Internazionale, mentre i dibattiti sull'evoluzione del potere
nella Russia sovietica continuavano.
In Francia uno dei leader del P.C.F., Boris Suvarin, si oppose alla
nuova linea e denunciò i vili metodi di cui si serviva la trojka
(Kamenev, Zinov'ev, Stalin) contro il suo avversario Lev Trotsky. Il
12 giugno 1924, in occasione del Tredicesimo Congresso del P.C.U.S.,
Boris Suvarin fu convocato per dare spiegazioni e fu messo in stato
d'accusa come avveniva nelle sedute obbligatorie di autocritica. Una
commissione riunita appositamente per occuparsi del caso Suvarin
decretò la sua sospensione. Dalle reazioni della direzione del P.C.F.
emerge chiaramente l'atteggiamento ormai prevalente nelle file del
Partito in tutto il mondo:
L'anonimo redattore non sapeva di aver appena enunciato la legge che
avrebbe regolato la vita del P.C.F. per decine di anni. Il
sindacalista Pierre Monatte riassunse questa evoluzione in una sola
parola: la «caporalizzazione» del P.C.F.
Sempre durante il Quinto Congresso del Comintern, nell'estate del
1924, Zinov'ev diede un esempio dei comportamenti politici che si
stavano diffondendo a macchia d'olio nel movimento comunista
minacciando di «spezzare le ossa» agli oppositori. Ma la cosa gli si
ritorse contro: fu a lui che Stalin spezzò le ossa, destituendolo nel
1925 dalle sue funzioni di presidente del Comintern. Zinov'ev fu
sostituito da Buharin, che in breve tempo andò incontro allo stesso
destino. L'11 luglio 1928, alla vigilia del Sesto Congresso del
Comintern (17 luglio - primo settembre) Kamenev si incontrò
segretamente con Buharin e scrisse un verbale del colloquio. Vittima
del regime di polizia, Buharin gli spiegò che aveva il telefono sotto
controllo ed era pedinato dalla G.P.U.; in due occasioni dimostrò di
avere paura: «Ci strozzerà... Non vogliamo intervenire come
scissionisti, perché altrimenti ci strozzerebbe!». Il soggetto
naturalmente era Stalin.
Il primo che Stalin cercò di «strozzare» fu Lev Trotsky. La sua lotta
contro il trotzkismo ebbe un'eccezionale portata. Cominciò nel 1927,
ma già in precedenza vi erano stati avvertimenti sinistri durante una
conferenza del partito bolscevico nell'ottobre del 1926: «O
l'estromissione e l'annientamento legale dell'Opposizione, o la
soluzione del problema a cannonate nelle strade, come con i
socialisti-rivoluzionari di sinistra nel luglio 1918 a Mosca»,
raccomandava Larin sulla «Pravda». L'Opposizione di sinistra (era
questa la sua denominazione ufficiale), isolata e sempre più debole,
era bersaglio di provocazioni da parte della G.P.U., che inventò di
sana pianta l'esistenza di una tipografia clandestina diretta da un ex
ufficiale di Vrangel' (che in realtà era uno dei suoi agenti), in cui
sarebbero stati stampati dei documenti dell'Opposizione. In occasione
del decimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, l'Opposizione
aveva deciso di manifestare con le proprie parole d'ordine. Un brutale
intervento della polizia glielo impedì e il 14 novembre Trotsky e
Zinov'ev furono espulsi dal partito bolscevico. Il passo successivo, a
cominciare dal gennaio 1928, fu la relegazione dei militanti più in
vista in regioni decentrate oppure all'estero: Hristian Rakovskij, ex
ambasciatore sovietico in Francia, fu esiliato dapprima ad Astrakhan
sul Volga e poi a Barnaul in Siberia; Victor Serge fu mandato nel 1933
a Orenburg negli Urali. Quanto a Trotsky, fu trasferito di forza ad
Alma Ata nel Turkestan, a 4000 chilometri da Mosca. Un anno dopo, nel
gennaio 1929, fu esiliato e mandato in Turchia, sfuggendo così alla
prigione toccata ai suoi sostenitori. Aumentava, infatti, il numero di
coloro che, anche fra i militanti dell'ex Opposizione operaia o del
gruppo del Centralismo democratico, venivano arrestati e inviati in
prigioni speciali dette "politizoliator".
A partire da questo momento alcuni comunisti stranieri, membri
dell'apparato del Comintern o residenti nell'URSS, furono arrestati e
internati come i militanti russi del Partito; la loro situazione era
assimilata a quella dei russi in quanto qualsiasi comunista straniero
che soggiornasse per un periodo prolungato nell'URSS era costretto a
iscriversi al partito bolscevico e quindi ad accettarne la disciplina.
Fu il caso, ben noto, del comunista iugoslavo Ante Ciliga, membro
dell'Ufficio politico del K.P.J., il Partito comunista iugoslavo,
inviato a Mosca nel 1926 in qualità di rappresentante del K.P.J. al
Comintern. Ebbe alcuni contatti con l'opposizione radunata intorno a
Trotsky, quindi si allontanò sempre di più da un Comintern in cui non
era possibile un vero confronto di idee e i dirigenti non esitavano a
usare metodi intimidatori verso chi non la pensava come loro, con
quello che Ciliga definì il «sistema di servilismo» del movimento
comunista internazionale. Nel febbraio del 1929, durante l'assemblea
generale degli iugoslavi a Mosca, fu adottata una risoluzione che
condannava la politica della direzione del K.P.J. e, quindi,
indirettamente la direzione del Comintern. In seguito gli oppositori
della linea ufficiale, che erano in contatto con alcuni sovietici,
organizzarono un gruppo illegale (rispetto ai canoni della disciplina
del Partito). Poco dopo una commissione cominciò a indagare su Ciliga,
che fu sospeso per un anno, ma non per questo pose fine alle sue
attività illegali, stabilendosi a Leningrado. Il primo maggio 1930 si
recò a Mosca per incontrare gli altri membri del gruppo russo-
iugoslavo che, assunte posizioni molto critiche riguardo al modo in
cui veniva gestita l'industrializzazione, raccomandava la formazione
di un nuovo partito. Il 21 maggio Ciliga fu arrestato insieme con i
suoi compagni e quindi spedito nel "politizoliator" di Verhneural'sk
ai sensi dell'articolo 59. Per tre anni, detenuto in isolamento, con
la sola arma dello sciopero della fame continuò a rivendicare il
diritto di lasciare la Russia. Liberato per un breve periodo, tentò di
suicidarsi. La G.P.U. cercò di costringerlo a rinunciare alla
nazionalità italiana. Esiliato in Siberia, il 3 dicembre 1935 fu
definitivamente espulso, il che costituì un caso eccezionale.
Grazie a Ciliga, abbiamo una testimonianza sui "politizoliator":
Le condizioni materiali erano queste:
Si trattava, comunque, di privilegi molto relativi. A Verhneural'sk i
detenuti fecero tre scioperi della fame, nell'aprile e nell'estate del
1931 e poi nel dicembre 1933, in difesa dei propri diritti e, in
particolare, per ottenere la soppressione del rinnovo delle pene. A
partire dal 1934 il regime politico fu eliminato quasi dappertutto (a
Verhneural'sk restò in vigore fino al 1937), benché le condizioni di
detenzione si fossero già inasprite: alcuni prigionieri morirono
durante i pestaggi, altri furono fucilati, altri ancora tenuti
nell'isolamento più totale, come Vladimir Smirnov a Suzdal' nel 1933. ***
Questa criminalizzazione degli oppositori interni, reali o presunti
che fossero, si estese ben presto a responsabili comunisti di alto
livello. Il dirigente del Partito comunista spagnolo José Bullejos e
molti suoi compagni, convocati a Mosca nell'autunno del 1932, videro
la loro linea politica sottoposta a dura critica. Avendo rifiutato di
arrendersi ai diktat del Comintern, ne furono espulsi tutti insieme il
primo novembre e da quel giorno si trovarono praticamente agli arresti
domiciliari all'hotel Lux, la residenza riservata ai dirigenti del
Comintern. Il francese Jacques Duclos, ex delegato del Comintern in
Spagna, andò a notificare loro l'espulsione precisando che qualsiasi
tentativo di ribellione sarebbe stato represso «con il massimo rigore
previsto dal diritto penale sovietico». Bullejos e i suoi
compagni riuscirono con difficoltà a lasciare l'URSS dopo due mesi di
faticose trattative per ricuperare i passaporti.
Quello stesso anno aveva visto l'epilogo di una vicenda incredibile
riguardante il Partito comunista francese. All'inizio del 1931 il
Comintern aveva mandato un proprio rappresentante e alcuni istruttori
presso il P.C.F. con il compito di riprenderne le redini. In luglio il
vero capo del Comintern, Dmitrij Manuil'skij, sbarcò clandestinamente
a Parigi e rivelò a uno sbalordito Ufficio politico che al suo interno
c'era un gruppo che perseguiva obiettivi frazionistici. Si trattava,
in realtà, di una messinscena destinata a provocare una crisi da cui
la direzione del P.C.F. uscisse con minore autonomia, tanto da
diventare del tutto dipendente da Mosca e dai suoi uomini. Fra i capi
del presunto «gruppo» fu indicato Pierre Celor, uno dei più importanti
dirigenti del Partito fin dal 1928, che fu convocato a Mosca con il
pretesto di rappresentare il P.C.F. presso il Comintern. Appena
arrivato, però, Celor fu trattato come un provocatore. Ostracizzato,
privato dello stipendio, sopravvisse al duro inverno russo soltanto
grazie alla tessera annonaria della moglie, che l'aveva accompagnato e
che lavorava al Comintern. L'8 marzo 1932 fu convocato a una riunione
a cui assistevano alcuni membri dell'N.K.V.D. i quali, durante un
interrogatorio durato dodici ore, cercarono di fargli confessare di
essere un agente della polizia infiltrato nel Partito. Celor non
confessò nulla e, dopo innumerevoli pressioni e vessazioni, riuscì a
rientrare in Francia l'8 ottobre 1932, dove fu subito denunciato
pubblicamente come «sbirro».
Sempre nel 1932, sull'esempio del partito bolscevico, in molti partiti
comunisti furono create delle sezioni di quadri che dipendevano dalla
sezione centrale dei quadri del Comintern e avevano l'incarico di
predisporre una documentazione completa sui militanti e di raccogliere
questionari biografici e autobiografie dettagliate su tutti i
dirigenti. Solo per il Partito francese prima della guerra furono
trasmessi a Mosca più di 5000 dossier. Il questionario biografico
comprendeva oltre 70 domande raggruppate in cinque grandi categorie:
1) origini e condizione sociale; 2) funzione nel Partito; 3)
istruzione e livello culturale; 4) partecipazione alla vita sociale;
5) fedina penale e provvedimenti disciplinari. Tutto questo materiale,
destinato alla selezione dei militanti, era conservato a Mosca da
Anton Kraevskij, Cernomordik o Gevork Alihanov, che si succedettero a
capo del servizio dei quadri del Comintern, a sua volta legato alla
sezione esteri dell'N.K.V.D. Nel 1935 Mejr Trilisser, uno dei massimi
responsabili dell'N.K.V.D., fu nominato segretario del Comitato
esecutivo del Comintern con l'incarico di controllare i quadri. Con lo
pseudonimo di Mihail Moskvin, raccoglieva informazioni e denunce e
decideva chi doveva cadere in disgrazia, primo passo verso una pronta
eliminazione. Questi servizi dei quadri furono incaricati,
inoltre, di redigere liste nere di nemici del comunismo e dell'URSS.
Molto presto, se non proprio fin dall'inizio, le sezioni del Comintern
diventarono il vivaio in cui venivano reclutati gli agenti segreti che
lavoravano per l'URSS. In alcuni casi i militanti che accettavano di
svolgere questa attività illegale e pertanto clandestina non sapevano
di lavorare in realtà per uno dei servizi sovietici: il G.R.U. o
Quarto Bjuro, cioè il Servizio segreto dell'Armata rossa, il
dipartimento Affari esteri della Ceka-G.P.U. ("Inostrannij Otdel",
INO), l'N.K.V.D. eccetera. Tutti questi apparati costituivano un
intreccio inestricabile lacerato da feroci rivalità, per cui ognuno
cercava di spingere alla defezione gli agenti dell'altro. Nei suoi
ricordi Elsa Porecki cita moltissimi esempi di questa concorrenza.
La complessa questione dei servizi fu subito messa in secondo piano da
un fattore decisivo: sia il Comintern sia i servizi speciali dovettero
rispondere all'autorità suprema del direttivo del P.C.U.S., rendendo
conto del proprio operato addirittura a Stalin. Nel 1932 Martemiam
Rjutin, che aveva condotto con zelo e senza scrupoli la repressione
contro l'opposizione, entrò a sua volta in contrasto con Stalin.
Redasse una piattaforma in cui si legge:
Già alla fine degli anni Venti il Comintern, che dipendeva
finanziariamente dallo Stato sovietico, aveva perso qualsiasi
possibilità di essere autonomo. Ma a questa dipendenza materiale, che
aggravava quella politica, si aggiunse la dipendenza indotta dal
regime di polizia.
La pressione sempre maggiore dei servizi di polizia sui militanti del
Comintern fece sì che tra loro si diffondessero paura e diffidenza. La
delazione rovinava i rapporti interpersonali e il sospetto invadeva le
menti. C'erano due tipi di delazione: le denunce volontarie e quelle
estorte con la tortura, fisica e psicologica. A volte il fattore
scatenante era semplicemente la paura, ma alcuni militanti
consideravano un onore denunciare i propri compagni. Il caso del
comunista francese André Marty è tipico di questa furia paranoica, di
questo zelo sfrenato di dimostrarsi il più vigile dei comunisti. In
una lettera «strettamente riservata» indirizzata al segretario
generale in carica del Comintern, Georgi Dimitrov, il 23 giugno 1937,
Marty sporse una lunga denuncia contro il rappresentante
dell'Internazionale in Francia, Evzen Fried, dichiarandosi stupito che
non fosse ancora stato arrestato dalla polizia francese, cosa che gli
pareva a dir poco sospetta....
Dello stesso genere è il seguente brano di una delle lettere
indirizzate al «compagno L. P. Berija» (commissario per gli Affari
interni dell'URSS) dalla bulgara Stella Blagoeva, un'oscura impiegata
della sezione quadri del Comitato esecutivo del Comintern:
Arkadij Vaksberg precisa che gli archivi del Comintern contengono
decine (o addirittura centinaia) di denunce, fenomeno che dimostra la
decadenza morale degli uomini del Comintern o dei funzionari del
P.C.U.S. Questa decadenza divenne del tutto evidente in occasione dei
grandi processi contro la vecchia guardia bolscevica, che aveva dato
il suo contributo all'instaurazione di un potere basato sulla menzogna
assoluta.
- Il Grande terrore colpisce il Comintern.
Chiedevano di essere separati dai delinquenti comuni e di poter vivere
con le famiglie. Il primo detenuto morì dopo quattro settimane. Altri
lo seguirono, finché l'amministrazione non annunciò che le loro
rivendicazioni sarebbero state accolte. Nell'autunno successivo 1200
prigionieri (circa metà dei quali erano trotzkisti) furono raggruppati
nei pressi di una vecchia fornace. Alla fine di marzo
l'amministrazione ne selezionò 25 che ricevettero un chilo di pane e
l'ordine di prepararsi a partire. Qualche minuto dopo si udirono degli
spari. L'ipotesi più pessimistica trovò conferma quando poco dopo gli
altri videro tornare la scorta del convoglio. Dopo due giorni ci
furono un nuovo appello e nuovi spari. E avanti così fino alla fine di
maggio. Le guardie cospargevano di benzina i cadaveri per poi
bruciarli e farli sparire. L'N.K.V.D. trasmetteva alla radio i nomi
dei fucilati «per agitazione controrivoluzionaria, sabotaggio,
banditismo, rifiuto del lavoro, tentata evasione». Non furono
risparmiate nemmeno le donne: la moglie di un militante giustiziato
rischiava automaticamente la pena capitale, e così i figli di un
oppositore che avessero compiuto i 12 anni.
Circa 200 trotzkisti di Magadan, «capitale» della Kolyma, ricorsero
anch'essi allo sciopero della fame per ottenere il riconoscimento
dello status di prigionieri politici. Nel loro proclama denunciavano i
«boia-gangster» e il «fascismo di Stalin, molto peggiore di quello di
Hitler». L'11 ottobre 1937 furono condannati a morte e 74 di loro
furono fucilati il 26 e il 27 ottobre e il 4 novembre. Le esecuzioni
continuarono nel 1937-1938.
In tutti i paesi in cui esistevano dei comunisti ortodossi la consegna
era di combattere l'influenza della minoranza di militanti sostenitori
di Lev Trotsky. Con l'inizio della guerra di Spagna l'operazione prese
un nuovo corso, che consisteva nell'associare nella maniera più falsa
trotzkismo e nazismo, proprio mentre Stalin preparava il proprio
riavvicinamento a Hitler.
Ben presto il terrore di massa scatenato da Stalin si abbatté
sull'apparato centrale del Comintern. Nel 1965 Branko Lazic tentò una
prima analisi dello sterminio degli uomini del Comintern,
significativamente intitolata "Martyrologe du Comintern". Boris
Suvarin concluse i suoi "Commentaires sur le «martyrologe»", che
seguivano l'articolo di Lazic, con una considerazione sui modesti
collaboratori del Comintern, vittime anonime della Grande purga. Non è
fuori luogo ricordare le sue parole prima di affrontare questo
capitolo della storia del comunismo sovietico: «I più sono scomparsi
in questo massacro del Comintern, che è stato "solo un'infima parte di
un massacro immenso, quello di milioni di operai e contadini
laboriosi", immolati senza motivo da una tirannide mostruosa che si
autodefiniva proletaria».
Tanto i funzionari dell'apparato centrale quanto quelli delle sezioni
nazionali furono stritolati nell'ingranaggio della repressione, al
pari dei cittadini più umili. Con la Grande purga (1937-1938) non solo
gli oppositori caddero vittime degli organi repressivi, ma anche i
funzionari dell'apparato del Comintern e dei suoi annessi:
l'Internazionale comunista giovanile (K.I.M.), l'Internazionale
sindacale rossa (Profintern), il Soccorso rosso (M.O.P.R.),
l'Università comunista delle minoranze nazionali occidentali
(K.U.M.N.Z.) eccetera. Figlia di un vecchio amico di Lenin, Wanda
Pampuch-Bronska sotto uno pseudonimo raccontò che nel 1936 la
K.U.M.N.Z. fu sciolta e tutto il personale e quasi tutti gli studenti
furono arrestati.
Lo storico Mihail Panteleev, esaminando gli archivi di vari servizi e
sezioni del Comintern, ha contato finora 133 vittime su un effettivo
di 492 persone (pari al 27 per cento). Tra il primo gennaio e il
17 settembre 1937 la Commissione della segreteria del Comitato
esecutivo, composta da Mihail Moskvin (Mejr Trilisser), Wilhelm Florin
e Jan Anvelt, e poi la Commissione speciale di Controllo istituita nel
maggio 1937 e composta da Dimitrov, Moskvin e Manuil'skij, decisero
256 licenziamenti. In generale il licenziamento precedeva l'arresto di
un periodo di tempo variabile: Elena Walter, licenziata dalla
segreteria di Dimitrov il 16 ottobre 1938, fu arrestata due giorni
dopo, mentre Jan Borowski (Ludwik Komorowski), licenziato il 17 luglio
dal Comitato esecutivo del Comintern, fu arrestato il 7 ottobre
successivo. Nel 1937 furono arrestati 88 impiegati del Comintern e 19
nel 1938. Altri furono arrestati alla loro scrivania, come Anton
Krajewski (Wladyslaw Stein), all'epoca responsabile del servizio
stampa e propaganda, incarcerato il 26 maggio 1937. Molti furono
arrestati al ritorno da missioni all'estero.
Tutti i servizi ebbero le loro vittime, dalla segreteria alle
rappresentanze dei Partiti comunisti. Tra il 1937 e il 1938 furono
arrestate 41 persone della segreteria del Comitato esecutivo.
All'interno del Servizio di collegamento (O.M.S. fino al 1936) si
contarono 34 arresti. Lo stesso Moskvin fu travolto dalla macchina
della repressione il 23 novembre 1938 e condannato alla fucilazione il
primo febbraio 1940. Jan Anvelt morì sotto tortura e il danese A.
Munch-Petersen si spense nell'ospedale di un carcere per i postumi di
una tubercolosi cronica. Cinquanta funzionari, tra cui 9 donne, furono
fucilati. La svizzera Lydia Dìbi, responsabile della rete clandestina
del Comintern a Parigi, fu convocata a Mosca ai primi di agosto del
1937. Appena vi giunse, fu arrestata insieme ai collaboratori Brichman
e Wolf. Accusata di appartenenza all'«organizzazione trotzkista
antisovietica» e di spionaggio per conto della Germania, della
Francia, del Giappone e persino della Svizzera, fu condannata a morte
dal Collegio militare del tribunale supremo dell'URSS il 3 novembre e
fucilata pochi giorni dopo. La cittadinanza svizzera non le valse
alcuna protezione e la famiglia venne brutalmente avvertita del
verdetto senza alcuna spiegazione. La polacca L. Jankoska fu
condannata a otto anni di reclusione in quanto appartenente alla
famiglia di un traditore della patria, il marito Stanislaw Skulski
(Mertens), a sua volta arrestato nell'agosto del 1937 e fucilato il 21
settembre. Il principio della corresponsabilità familiare, già
applicato contro i semplici cittadini, fu esteso così ai membri
dell'apparato.
Osip Pjatnickij (Tarscis) era stato fino al 1934 il numero due del
Comintern dopo Manuil'skij, responsabile di tutta l'organizzazione (in
particolare del finanziamento dei partiti comunisti stranieri e dei
collegamenti clandestini del Comintern in tutto il mondo), e in
seguito della sezione politica e amministrativa del Comitato centrale
del P.C.U.S. Il 24 giugno 1937 intervenne al plenum del Comitato
centrale per criticare l'inasprimento della repressione e
l'attribuzione di poteri straordinari al capo dell'N.K.V.D., Ezov.
Furioso, Stalin interruppe la seduta e ordinò che venisse esercitata
la massima pressione su Pjatnickij perché si ravvedesse, ma invano. Il
giorno dopo, alla ripresa dei lavori, Ezov accusò Pjatnickij di essere
un vecchio agente della polizia zarista. Quest'ultimo fu arrestato il
7 luglio. Ezov costrinse Boris Mìller (Melnikov) a testimoniare contro
di lui e, l'indomani stesso dell'esecuzione di Mìller, il 29 luglio
1938, il Collegio militare della Corte suprema processò Pjatnickij,
che si rifiutò di dichiararsi colpevole di spionaggio a favore del
Giappone. Condannato a morte, venne fucilato nella notte tra il 29 e
il 30 luglio.
Molti dei funzionari del Comintern giustiziati erano stati accusati di
appartenere all'organizzazione anti-Comintern diretta da Pjatnickij,
Knorin (Wilhelm Hugo) e Béla Kun. Altri furono semplicemente
considerati trotzkisti e controrivoluzionari. L'ex capo della Comune
ungherese, Béla Kun, che all'inizio del 1937 si era opposto a
Manuil'skij, fu accusato da quest'ultimo (probabilmente dietro
istruzioni di Stalin), il quale presentò le critiche di Kun come
rivolte direttamente a Stalin. Kun protestò la propria buona fede e
indicò di nuovo in Manuil'skij e Moskvin i responsabili delle critiche
rivolte al P.C.U.S. che, a suo parere, era la causa dell'inefficienza
del Comintern. Nessuno dei presenti - Palmiro Togliatti, Otto
Kuusinen, Wilhelm Pieck, Klement Gottwald e Arvo Tuominen - prese le
sue difese. Alla fine della riunione Georgi Dimitrov fece adottare una
risoluzione che rimandava l'esame della vicenda Kun a una commissione
speciale. Ma invece di essere esaminato da quest'ultima, Béla Kun
venne arrestato all'uscita dalla riunione. Fu giustiziato nei
sotterranei della Lubjanka in data sconosciuta.
Secondo Panteleev lo scopo ultimo delle epurazioni era quello di
annientare qualsiasi forma di opposizione alla dittatura stalinista. La repressione prese di mira soprattutto coloro che in passato
erano stati simpatizzanti dell'Opposizione o che intrattenevano
rapporti con militanti che erano stati vicini a Trotsky. Alla stessa
stregua furono trattati i militanti tedeschi che avevano fatto parte
della frazione diretta da Heinz Neumann (a sua volta liquidato nel
1937) o gli ex militanti del gruppo del Centralismo democratico.
All'epoca, secondo la testimonianza di Jakov Matuzov, vicecapo del
primo dipartimento della Sezione politica segreta del G.U.G.B.-
N.K.V.D., su ogni dirigente di alto livello dell'apparato statale
esisteva un dossier contenente documenti che al momento opportuno si
sarebbero potuti usare contro di lui. Così, a loro insaputa, ne
avevano uno Kliment Voroscilov, Andrej Vyscinskij, Lazar' Kaganovic,
Mihail Kalinin, Nikita Hrusc‰v. E' del tutto probabile che anche sui
dirigenti del Comintern pesassero gli stessi sospetti.
A questo va aggiunto che partecipavano attivamente alla repressione
anche i massimi responsabili non russi del Comintern. Uno dei casi più
sintomatici è quello di Palmiro Togliatti, uno dei segretari del
Comintern, presentato dopo la morte di Stalin come un uomo aperto e
contrario ai metodi terroristici. Ora, durante una riunione, Togliatti
rivolse delle accuse a Hermann Schubert, un funzionario del Soccorso
rosso internazionale, e gli impedì di spiegarsi. Arrestato poco tempo
dopo, Schubert fu fucilato. I Petermann, una coppia di comunisti
tedeschi giunti nell'URSS dopo il 1933, furono accusati da Togliatti
durante una riunione di essere agenti hitleriani perché erano in
corrispondenza con la loro famiglia in Germania e furono arrestati
qualche settimana dopo. Togliatti era presente all'attacco contro Béla
Kun e firmò la risoluzione che lo avrebbe portato alla morte. Fu
inoltre coinvolto da vicino nell'eliminazione del Partito comunista
polacco nel 1938. In tale occasione, approvò il terzo processo di
Mosca e concluse: «Morte ai guerrafondai, morte alle spie e morte agli
agenti del fascismo! Viva il partito di Lenin e di Stalin, custode
vigile delle conquiste della Rivoluzione d'ottobre, garante sicuro del
trionfo della rivoluzione mondiale! Viva colui che continua l'opera di
Feliks Dzerzinskij: Nikolaj Ezov!».
- Il terrore all'interno dei partiti comunisti.
Per quanto riguarda i militanti comunisti, il loro destino ci è noto
attraverso le "Kaderlisten", liste compilate sotto la responsabilità
dei dirigenti del Partito comunista tedesco, Wilhelm Pieck, Wilhelm
Florin e Herbert Wehner, che le utilizzarono per espellere i comunisti
colpiti dalle sanzioni e/o vittime della repressione. La prima di
queste liste è datata 3 settembre 1936, l'ultima 21 giugno 1938. Un
altro documento della fine degli anni Cinquanta, redatto dalla
Commissione di controllo del SED ("Sozialistische Einheitspartei
Deutschlands": è sotto il nome di partito socialista unitario di
Germania che, dopo la guerra, si ricostituì il Partito comunista nella
futura R.D.T.), contiene 1136 nomi. Gli arresti raggiunsero il massimo
nel 1937 (619) e continuarono fino al 1941. La sorte di metà di
queste persone (666) è sconosciuta: presumibilmente, esse morirono
durante la prigionia. Per contro è certo che 82 furono giustiziate,
197 morirono nelle carceri o nei campi di lavoro e 132 furono
consegnate ai nazisti. Le altre 150 circa, che sopravvissero alle dure
condanne, riuscirono a lasciare l'URSS dopo avere scontato la pena.
Uno dei motivi ideologici addotti a giustificazione dell'arresto di
questi militanti fu che non erano riusciti a impedire l'ascesa al
potere di Hitler, come se Mosca non vi avesse avuto una grossa parte
di responsabilità.
Ma l'episodio più tragico, in cui Stalin diede prova di tutto il suo
cinismo, fu quello della consegna a Hitler degli antifascisti
tedeschi. Nel 1937 le autorità sovietiche decisero di espellere i
cittadini tedeschi. Il 16 febbraio 10 di loro furono condannati
all'espulsione dall'O.S.O., l'Associazione di cooperazione per la
difesa dell'URSS. Alcuni sono noti: Emil Larisch, un tecnico che
viveva nell'URSS dal 1921; Arthur Thilo, un ingegnere arrivato nel
1931; Wilhelm Pfeiffer, un comunista di Amburgo; Kurt Nixdorf, un
universitario che lavorava all'Istituto Marx e Engels. Erano stati
arrestati nel 1936 con l'accusa di spionaggio o di attività fasciste e
l'ambasciatore tedesco von Schulenburg era intervenuto in loro difesa
presso Maksim Litvinov, il ministro sovietico degli Affari esteri.
Pfeiffer tentò di farsi mandare in Inghilterra, sapendo che se fosse
tornato in Germania sarebbe stato immediatamente arrestato in quanto
comunista. Diciotto mesi dopo, il 18 agosto 1938, fu accompagnato alla
frontiera polacca, dove le sue tracce si perdono. Arthur Thilo riuscì
a recarsi all'ambasciata britannica a Varsavia. Molti non furono
altrettanto fortunati. Otto Walther, che faceva il litografo a
Leningrado e viveva in Russia dal 1908, arrivò a Berlino il 4 marzo
1937; si suicidò buttandosi dalla finestra della casa in cui era
ospite.
Alla fine di maggio del 1937 von Schulenburg trasmise due nuove liste
di tedeschi in stato di arresto di cui si auspicava l'espulsione. Fra
i 67 nomi figurano quelli di vari antifascisti, tra cui Kurt Nixdorf.
Nell'autunno 1937 le trattative con le autorità tedesche presero una
piega nuova e i sovietici accettarono di accelerare le espulsioni,
come era stato loro richiesto (circa trenta erano già state
effettuate). Tra il novembre e il dicembre del 1937 furono espulsi 148
tedeschi e altri 445 nel corso del 1938. Accompagnati alla frontiera
polacca o lettone, talvolta a quella finlandese, gli espulsi - tra cui
alcuni membri dello Schutzbund, la Lega di protezione repubblicana del
Partito socialista austriaco - venivano immediatamente controllati
dalle autorità tedesche. In alcuni casi, come quello del comunista
austriaco Paul Meisel nel maggio del 1938, l'espulso veniva portato
fino alla frontiera austriaca passando per la Polonia e consegnato
alla Gestapo. Paul Meisel, ebreo, scomparve ad Auschwitz.
Questa intesa perfetta tra la Germania nazista e la Russia sovietica
prefigurava il patto russo-tedesco del 1939 «in cui si manifesta la
vera natura convergente dei sistemi totalitari» (Jorge Semprun). Dopo
la firma degli accordi le espulsioni continuarono in condizioni assai
più drammatiche. Quando Stalin e Hitler ebbero sconfitto la Polonia,
la Germania e l'URSS si trovarono ad avere una frontiera comune che
permetteva di trasferire gli espulsi direttamente dalle prigioni
sovietiche a quelle tedesche. Dal 1939 al 1941 furono consegnati così
alla Gestapo da 200 a 300 comunisti tedeschi, come segno della buona
volontà sovietica verso il nuovo alleato. Il 27 novembre 1939 fu
sottoscritto un accordo bilaterale. In seguito, tra il novembre del
1939 e il maggio del 1941, furono espulse circa 350 persone, tra cui
85 austriaci. Uno di essi era Franz Koritschoner, uno dei fondatori
del Partito comunista austriaco, diventato poi funzionario
dell'Internazionale sindacale rossa. Dopo un periodo di deportazione
nelle regioni settentrionali dell'Unione Sovietica, fu consegnato alla
Gestapo di Lublino, trasferito a Vienna e quindi torturato e
giustiziato ad Auschwitz il 7 giugno 1941.
Le autorità sovietiche non tennero in alcuna considerazione il fatto
che molti degli espulsi erano di origine ebraica. Hans Walter David,
compositore e direttore d'orchestra, ebreo e iscritto al K.P.D., fu
consegnato alla Gestapo e morì in una camera a gas a Majdanek nel
1942. Si conoscono anche molti altri casi, come quello del fisico
Alexander Weissberg, che sopravvisse e scrisse le sue memorie. Anche
Margaret Buber Neumann, la compagna di Heinz Neumann, estromesso dalla
direzione del K.P.D. e poi emigrato nell'URSS, offre una testimonianza
dell'incredibile intesa tra nazisti e sovietici. Dopo essere stata
deportata a Karaganda, in Siberia, fu consegnata alla Gestapo insieme
con molte altre compagne di sventura nel febbraio del 1940 e fu
internata a Ravensbrìck.
Contemporaneamente ai comunisti tedeschi finirono nell'ingranaggio del
terrore i quadri del Partito comunista di Palestina, molti dei quali
erano emigrati in Polonia. Joseph Berger (1904-1978), ex segretario
del P.C.P. dal 1929 al 1931, fu arrestato il 27 febbraio 1935 e
liberato solo dopo il Ventesimo Congresso, nel 1956. Il suo è un caso
eccezionale: molti altri militanti furono giustiziati o scomparvero
nei campi di sterminio. Wolf Averbuch, che dirigeva una fabbrica di
trattori a Rostov sul Don, fu arrestato nel 1936 e giustiziato nel
1941. La politica di eliminazione sistematica dei membri del P.C.P. o
dei gruppi sionisti socialisti nell'URSS va collegata alla politica
sovietica nei confronti della minoranza ebraica, esemplificata dalla
costituzione di Birobidzan (il capoluogo della provincia autonoma
degli ebrei nella Siberia sudorientale), i cui responsabili furono
messi in stato di accusa. Il professor Josif Liberberg, presidente del
Comitato esecutivo di Birobidzan, fu denunciato in quanto nemico del
popolo. Dopo di lui furono eliminati gli altri quadri della regione
autonoma con funzioni istituzionali. Samuil Augurskij (1884-1947) fu
accusato di appartenere a un presunto Centro giudeo-fascista. L'intera
sezione ebraica del partito russo (la «Evsekcija») fu smantellata.
L'obiettivo era l'abbattimento delle istituzioni ebraiche proprio
mentre fuori dell'URSS lo Stato sovietico cercava di procurarsi il
sostegno di ebrei eminenti. ***
Uno dei gruppi più duramente colpiti fu quello dei comunisti polacchi.
Nelle statistiche della repressione vengono al secondo posto, subito
dopo i russi. E' vero che, contrariamente alle abitudini, il Partito
comunista polacco (K.P.P.) era stato sciolto in maniera ufficiale in
seguito a una frettolosa votazione del Comitato esecutivo del
Comintern il 16 agosto 1938. Stalin aveva sempre giudicato con
sospetto il K.P.P., ritenuto colpevole di molte e varie deviazioni.
Numerosi dirigenti comunisti polacchi avevano fatto parte
dell'entourage di Lenin prima del 1917 e vivevano privi di tutela
giuridica nell'URSS. Nel 1923 il K.P.P. aveva preso posizione a favore
di Trotsky e, alla vigilia della morte di Lenin, la direzione aveva
adottato una risoluzione a favore dell'Opposizione. In seguito fu
criticata per il suo «luxemburghismo». Durante il Quinto Congresso del
Comintern, nel giugno-luglio del 1924, Stalin estromise i leader
storici del K.P.P. - Adolf Warski, Maksimilian Walecki e Wera
Kostrzewa - compiendo così un primo passo verso l'assunzione del
controllo da parte del Comintern. In seguito il K.P.P. fu denunciato
come focolaio di trotzkismo. Questa breve sintesi dei fatti non basta
a spiegare la purga radicale che colpì il Partito, molti dirigenti del
quale erano di origine ebraica. Ci fu anche la questione
dell'Organizzazione militare polacca (P.O.W.) nel 1933 (si veda il
contributo di Andrzej Paczkowski). Bisogna tenere presente, inoltre,
che la politica del Comintern tendeva a imporre alla sezione polacca
un orientamento interamente volto a indebolire lo Stato polacco a
vantaggio dell'URSS e della Germania. L'ipotesi secondo cui
l'eliminazione del K.P.P. sarebbe stata motivata prima di tutto dalla
necessità di preparare la firma degli accordi russo-tedeschi merita,
quindi, di essere presa in seria considerazione. Anche il modo in cui
Stalin la affrontò è indicativo: con l'aiuto dell'apparato del
Comintern fece in modo che tutte le sue vittime tornassero a Mosca,
stando attento a non farsi sfuggire nessuno. Sopravvisse solo chi era
detenuto in Polonia, come Wladyslaw Gomulka.
Nel febbraio 1938 l'«Internationale Presse Korrespondenz»,
quindicinale ufficiale del Comintern, con un articolo firmato da J.
Swiecicki, mise sotto accusa tutto il K.P.P. Durante la purga iniziata
nel giugno del 1937 (il segretario generale Julian Lenski, convocato a
Mosca, scomparve in questo periodo) furono eliminati 12 membri del
Comitato centrale, numerosi dirigenti di secondo piano e diverse
centinaia di militanti. La purga si estese anche ai polacchi arruolati
nelle Brigate internazionali: i responsabili politici della brigata
Dombrowski, Kazimierz Cichowski e Gustav Reicher, furono arrestati non
appena rientrarono a Mosca. Solo nel 1942 Stalin si rese conto della
necessità di ricostituire un Partito comunista polacco, il Partito
operaio polacco (P.P.R.), per farne il fulcro di un futuro governo ai
suoi ordini, in contrapposizione con il governo legale in esilio a
Londra.
Anche i comunisti iugoslavi dovettero subire i pesanti effetti del
terrore stalinista. Dichiarato fuori legge nel 1921, il Partito
comunista iugoslavo era stato costretto a ripiegare all'estero, a
Vienna dal 1921 al 1936 e, quindi, a Parigi dal 1936 al 1939; ma il
suo nucleo principale si costituì soprattutto a Mosca dopo il 1925.
Intorno agli studenti dell'Università comunista delle minoranze
nazionali, dell'Università comunista Sverdlov e della Scuola leninista
internazionale si formò un primo nucleo di emigrati iugoslavi, poi
rafforzato da una nuova ondata giunta in seguito all'instaurazione,
nel 1929, della dittatura del re Alessandro. Negli anni Trenta
risiedevano nell'URSS da 200 a 300 comunisti iugoslavi, molto
presenti nelle amministrazioni internazionali, del Comintern e
dell'Internazionale comunista giovanile in particolare. Per questo
motivo erano evidentemente collegati al P.C.U.S.
Si fecero una cattiva reputazione per via delle numerose lotte tra le
fazioni che si disputavano la direzione del K.P.J. In queste
circostanze l'intervento della direzione del Comintern divenne sempre
più frequente e vincolante. Verso la metà del 1925 ci fu una "cistka",
un accertamento-epurazione, alla K.U.M.N.Z., dove gli studenti
iugoslavi, piuttosto favorevoli all'Opposizione, osteggiavano il
rettore Maria J. Frukina. Alcuni studenti furono espulsi con una nota
di biasimo e quattro (Ante Ciliga, Dedic, Dragiced Eberling) arrestati
e mandati in Siberia. Nel 1932 ci fu una nuova epurazione all'interno
del K.P.J., che portò all'esclusione di 16 militanti.
Dopo l'assassinio di Kirov il controllo sugli emigrati politici si
intensificò e nell'autunno 1936 tutti i militanti del K.P.J. furono
sottoposti a un accertamento prima dell'inizio del terrore. Per quanto
riguarda gli emigrati politici, il cui destino è più noto di quello
dei lavoratori anonimi, abbiamo notizia dell'arresto e della scomparsa
di 8 segretari e di altri 15 membri del Comitato centrale del K.P.J. e
di 21 segretari delle direzioni regionali o locali. Uno dei segretari
del K.P.J., Sima Markovic, che era stato costretto a rifugiarsi
nell'URSS, lavorava all'Accademia delle scienze; fu arrestato nel
luglio 1939 e condannato a dieci anni di lavori forzati senza il
diritto di corrispondenza. Morì in prigione. Altri furono giustiziati
seduta stante, come i fratelli Vujovic, Radomir (membro del Comitato
centrale del K.P.J.) e Gregor (membro del Comitato centrale della
gioventò); Voja Vujovic, ex responsabile dell'Internazionale comunista
giovanile, che aveva solidarizzato con Trotsky nel 1927, era stato il
primo a scomparire e al suo arresto fece seguito quello dei fratelli.
Milan Gorkic, segretario del Comitato centrale del Partito comunista
della Iugoslavia dal 1932 al 1937, fu accusato di avere creato
un'organizzazione antisovietica all'interno del Comintern, diretta da
Knorin e Pjatnickij.
A metà degli anni Sessanta il K.P.J. riabilitò un centinaio di vittime
della repressione, ma non fu mai aperta un'inchiesta sull'accaduto. E'
vero, però, che un'indagine del genere avrebbe indirettamente
sollevato la questione delle vittime della repressione condotta contro
i sostenitori dell'URSS in Iugoslavia dopo lo scisma del 1948 e,
soprattutto, avrebbe sottolineato il fatto che l'ascesa di Tito (Josip
Broz) ai vertici del Partito nel 1938 era seguita a una purga
particolarmente sanguinosa. Il fatto che Tito nel 1948 si fosse messo
contro Stalin non diminuiva affatto la sua responsabilità nella purga
degli anni Trenta.
- La caccia ai trotzkisti.
Uno dei casi più spettacolari è quello di Ignaz Reiss, che in realtà
si chiamava Nathan Porecki. Reiss era uno di quei giovani
rivoluzionari ebrei dell'Europa centrale usciti dalla guerra del 1914-
1918 fra cui spesso il Comintern aveva reclutato seguaci.
Agitatore professionista, lavorava nella rete clandestina
internazionale e aveva portato a termine le sue missioni tanto bene da
essere insignito nel 1928 dell'ordine della Bandiera rossa. Dopo il
1935 fu ricuperato dall'N.K.V.D., che stava assumendo il controllo di
tutte le reti all'estero, e fece dello spionaggio in Germania.
Sconvolto dal primo dei grandi processi di Mosca, Reiss decise di
prendere le distanze da Stalin. Conoscendo le abitudini sovietiche,
preparò con cura la propria defezione e, il 17 luglio 1937, rese
pubblica una lettera al Comitato centrale del P.C.U.S. in cui spiegava
le proprie ragioni e attaccava in particolare Stalin e lo stalinismo,
«questa mescolanza del peggiore opportunismo - un opportunismo privo
di principi - di sangue e di menzogne [che] minaccia di avvelenare il
mondo intero e di annientare quel che resta del movimento operaio».
Reiss annunciava, inoltre, di avere aderito alla causa di Lev Trotsky.
Senza saperlo, aveva firmato così la propria condanna a morte.
L'N.K.V.D. mobilitò immediatamente la propria rete in Francia e riuscì
a localizzare Reiss in Svizzera, dove gli fu tesa una trappola. La
sera del 4 settembre a Losanna fu crivellato di colpi da due comunisti
francesi, mentre una donna che in realtà era un'agente dell'N.K.V.D.
tentava di uccidere sua moglie e suo figlio con una scatola di
cioccolatini avvelenati. Nonostante le indagini svolte in Svizzera,
gli assassini e i loro complici non furono mai trovati né condannati.
Trotsky si rivolse immediatamente a Jacques Duclos, uno dei segretari
del P.C.F., chiedendo al suo segretario Jan van Heijenoort di mandare
il telegramma seguente al capo del governo francese:
Duclos era vicepresidente della Camera dei deputati dal giugno 1936 e
il telegramma non ebbe alcun seguito.
L'assassinio di Reiss fu senza dubbio impressionante, ma rientrava in
un vasto piano di eliminazione dei trotzkisti. Non stupisce che
nell'URSS i sostenitori di Trotsky siano stati massacrati come molti
altri avversari del regime. Quel che può sorprendere semmai è l'astio
con cui i servizi speciali liquidarono fisicamente gli oppositori
all'estero o i gruppi trotzkisti costituitisi in vari paesi. Alla base
di questa operazione ci fu un paziente lavoro di infiltrazione.
Nel luglio 1937 scomparve il responsabile della segreteria
internazionale dell'opposizione trotzkista, Rudolf Klement. Il 26
agosto fu ripescato nella Senna un corpo senza testa e senza gambe,
che fu poi riconosciuto come quello di Klement. Anche il figlio di
Trotsky, Lev Sedov, morì a Parigi il 16 febbraio 1938 dopo un
intervento chirurgico; le circostanze sospette del suo decesso
indussero le persone a lui vicine a pensare che in realtà fosse stato
assassinato dai servizi sovietici.
Nei suoi ricordi Pavel Sudoplatov assicura invece che questo non
è affatto vero. Ciò non toglie che Lev Sedov fosse sorvegliato
dall'N.K.V.D. Una delle persone che gli erano vicine, Mark Zborowski,
era un agente infiltrato nel movimento trotzkista.
Sudoplatov ha ammesso invece di essere stato incaricato nel marzo 1939
da Berija e Stalin in persona di assassinare Trotsky. Stalin gli
disse: «Trotsky dovrebbe essere eliminato entro un anno, prima che
scoppi la guerra che è inevitabile», aggiungendo poi: «Riferisca
direttamente al compagno Berija e a nessun altro, ma ricordi che la
responsabilità di compiere la missione con successo ricade su di Lei e
solo su di Lei». Ebbe inizio così una caccia spietata al capo
della Quarta Internazionale, passando per Parigi, Bruxelles, gli Stati
Uniti, fino a Città del Messico, dove risiedeva. Con la complicità del
Partito comunista messicano, gli agenti di Sudoplatov prepararono un
primo attentato, a cui Trotsky sfuggì per miracolo il 24 maggio.
Grazie a Ramòn Mercader, infiltrato sotto falso nome, Sudoplatov
riuscì a sbarazzarsi di Trotsky. Mercader, conquistatosi la fiducia di
una militante Trotskysta, riuscì a entrare in contatto con il
«vecchio». Trotsky, poco sospettoso, accettò di incontrarlo per
comunicargli la sua opinione su un articolo scritto in difesa della
sua figura di rivoluzionario. Mercader lo colpì alla testa con una
piccozza. Ferito, Trotsky lanciò un grido. La moglie e le guardie del
corpo si precipitarono su Mercader che, compiuto il suo gesto, era
rimasto come paralizzato. Trotsky morì il giorno dopo.
Lev Trotsky aveva denunciato la commistione tra i partiti comunisti,
le sezioni del Comintern e i servizi dell'N.K.V.D., ben consapevole
del fatto che il Comintern era sotto il dominio prima della G.P.U. e
poi dell'N.K.V.D. In una lettera del 27 maggio 1940 indirizzata al
procuratore generale del Messico, tre giorni dopo il primo attentato
di cui era stato vittima, scriveva:
Nel suo ultimo scritto, sempre a proposito del 24 maggio, tornò con
dovizia di particolari sull'attentato di cui per un soffio non era
rimasto vittima. Ai suoi occhi la G.P.U. (Trotsky usa sempre il nome
adottato nel 1922, quando aveva rapporti con essa) era «l'organo
principale del potere di Stalin», era «lo strumento del dominio
totalitario» nell'URSS, da cui «uno spirito di servilismo e cinismo
[che] si è diffuso in tutto il Comintern e avvelena il movimento
operaio fino al midollo». Insistette a lungo su questa dimensione
particolare che era determinante sotto molti aspetti nell'ambito dei
partiti comunisti:
Quest'analisi, sostenuta da numerosi argomenti, era il frutto della
duplice esperienza di Trotsky: quella acquisita quando era dirigente
del nascente Stato sovietico e quella del proscritto inseguito in
tutto il mondo dagli assassini dell'N.K.V.D., di cui oggi si conoscono
con certezza i nomi. In particolare si trattava di dirigenti del
dipartimento Incarichi speciali, istituito nel dicembre del 1936 da
Nikolaj Ezov: Sergej Spigel'glas, che fallì; Pavel Sudoplatov (morto
nel 1996) e Naum Ejtingon (morto nel 1981) che invece, grazie a
numerose complicità, riuscirono nel loro intento.
Gran parte di quello che si sa sull'uccisione di Trotsky in Messico il
20 agosto 1940 deriva dalle varie indagini condotte immediatamente sul
posto e poi riprese in seguito da Julièn Gorkin. Sul mandante
dell'omicidio non sussistevano dubbi e il responsabile diretto era
noto; tali informazioni sono state confermate di recente da
Sudoplatov. Jaime Ramòn Mercader del Rio era figlio di Caridad
Mercader, una comunista che lavorava da tempo per i servizi segreti e
che divenne l'amante di Ejtingon. Mercader aveva avvicinato Trotsky
usando il nome di Jacques Mornard, personaggio realmente esistito e
morto nel 1967 in Belgio. Mornard aveva combattuto in Spagna, dove il
suo passaporto probabilmente fu preso «in prestito» dai servizi
sovietici. Mercader usò anche il nome e il passaporto di un certo
Jacson, un canadese arruolato nelle Brigate internazionali e caduto al
fronte. Ramòn Mercader morì nel 1978 all'Avana, dove Fidel Castro
l'aveva invitato come consulente del ministero degli Interni.
Insignito dell'ordine di Lenin per la sua azione delittuosa, fu
sepolto con discrezione a Mosca.
Stalin si era sbarazzato, così, del suo ultimo avversario politico, ma
non per questo la caccia ai trotzkisti ebbe fine. L'esempio francese è
molto indicativo dell'atteggiamento acquisito dai militanti comunisti
contro i membri delle piccole organizzazioni trotzkiste. Non è escluso
che nella Francia occupata alcuni trotzkisti siano stati denunciati
alla polizia francese o tedesca dai comunisti.
Nelle carceri e nei campi di prigionia francesi di Vichy, i trotzkisti
furono sistematicamente emarginati. A Nontron (Dordogna) Gérard Bloch
fu vittima dell'ostracismo del collettivo comunista diretto da Michel
Bloch, figlio dello scrittore Jean-Richard Bloch. Detenuto nella
prigione di Eysses, Gérard Bloch fu avvertito da un insegnante
cattolico che il collettivo comunista del carcere aveva deciso di
giustiziarlo, strangolandolo nel sonno.
In quest'atmosfera di odio indiscriminato la vicenda della «scomparsa»
di quattro trotzkisti, tra cui Pietro Tresso, uno dei fondatori del
Partito comunista italiano e membro del gruppo di partigiani «Wodli»
nell'Alta Loira, assume un significato importante. Evasi dalla
prigione di Le Puys-en-Velay insieme con alcuni compagni comunisti il
primo ottobre 1943, cinque militanti trotzkisti furono «presi in
carico» dal gruppo di resistenza comunista. Uno dei cinque, Albert
Demazière, fu separato per caso dai compagni e fu l'unico superstite: Tresso, Pierre Salini, Jean Reboul e Abraham Sadek furono
giustiziati alla fine di ottobre, dopo un processo farsa molto
significativo. I testimoni e i protagonisti ancora vivi hanno
riferito, infatti, che i militanti furono accusati di voler
«avvelenare l'acqua del campo», un'accusa di sapore medievale che
rimanda alle origini ebraiche di Trotsky (il cui figlio Sergej fu
accusato della stessa cosa nell'URSS) e di almeno uno dei prigionieri
dei partigiani (Abraham Sadek). Il movimento comunista dimostrava,
così, di non essere esente dal peggior antisemitismo. Prima di essere
uccisi, i quattro trotzkisti furono fotografati, probabilmente perché
i ranghi superiori del P.C.F. potessero identificarli, e costretti a
scrivere la propria biografia.
Persino nei campi di concentramento i comunisti cercavano di eliminare
fisicamente gli avversari più prossimi sfruttando la propria posizione
gerarchica. Marcel Beaufrère, responsabile per la regione bretone del
Partito operaio internazionalista, arrestato nell'ottobre del 1943 e
deportato a Buchenwald nel gennaio dell'anno successivo, era
sospettato di essere trotzkista dal coordinatore capo dei blocchi (un
comunista). Dieci giorni dopo un amico lo avvertì che la cellula
comunista del blocco di cui faceva parte, il 39, l'aveva condannato a
morte e voleva mandarlo al blocco delle cavie, dove ai prigionieri
veniva inoculato il tifo. Beaufrère fu salvato in extremis
dall'intervento di alcuni militanti tedeschi. Per sbarazzarsi di
avversari politici, che pure erano vittime degli stessi uomini della
Gestapo o delle S.S., bastava ricorrere al sistema concentrazionario
nazista assegnandoli ai reparti più severi. Marcel Hic e Roland
Filiƒtre, entrambi deportati a Buchenwald, furono mandati nel
terribile campo di Dora, «con il consenso dei quadri del K.P.D. che
svolgevano le funzioni amministrative nel campo», secondo quanto
scritto da Rudolph Prager. Marcel Hic non resistette. Ancora nel
1948 Roland Filiƒtre sfuggì a un attentato sul posto di lavoro. Altre
eliminazioni di militanti trotzkisti avvennero col favore della
Liberazione. Mathieu Buchholz, un giovane operaio parigino del gruppo
«La lutte de classe», scomparve l'11 settembre 1944. Nel 1947 il
giornale del suo gruppo chiamò in causa gli stalinisti.
In Grecia il movimento trotzkista non era irrilevante. Un segretario
del K.K.E., il Partito comunista greco, Pandelis Pouliopoulos, che
venne fucilato dagli italiani, vi aveva aderito ancora prima della
guerra. Durante il conflitto i trotzkisti entrarono individualmente
nelle file del Fronte di liberazione nazionale (Ethnikò Apelevtherikò
Métopo, EAM) fondato nel 1941 dai comunisti. Il generale dell'Esercito
popolare di liberazione (Ellinikòs Laikòs Apelevtherikòs Str tos,
ELAS), Aris Velouchiotis, fece giustiziare una ventina di dirigenti
trotzkisti. Dopo la Liberazione i rapimenti di militanti trotzkisti si
moltiplicarono; spesso essi venivano torturati perché rivelassero gli
indirizzi dei loro compagni. Nel 1946, in un rapporto al Comitato
centrale del Partito comunista, Vassilis Bartziotas parlava di 600
trotzkisti giustiziati dall'Organizzazione di tutela delle lotte
popolari, l'OPLA, una cifra che verosimilmente comprende anche
anarchici o socialisti dissidenti. Anche gli archeomarxisti,
militanti che si erano dati un'organizzazione al di fuori del Partito
comunista greco fin dal 1924, furono perseguitati e uccisi.
I comunisti albanesi non furono da meno. Dopo la fusione dei gruppi di
sinistra, compresi i trotzkisti riuniti intorno ad Anastaste Loula,
avvenuta nel novembre 1941, si riaccesero le divergenze fra trotzkisti
e ortodossi (Enver Hoxha, Memet Chehu), sostenuti dagli iugoslavi. Nel
1943 Loula fu giustiziato in modo sommario. Dopo vari attentati alla
sua vita Sadik Premtaj, un altro leader trotzkista particolarmente
popolare, riuscì a raggiungere la Francia; nel maggio 1951 fu vittima
di un nuovo tentativo di omicidio compiuto da Djemal Chami, un
veterano delle Brigate internazionali al servizio della legazione
albanese a Parigi.
In Cina era nato un embrione di movimento nel 1928, sotto la guida di
Chen Duxiu, fondatore ed ex segretario del Partito comunista cinese.
Nel 1935 aveva solo poche centinaia di iscritti, una parte dei quali
durante la guerra contro il Giappone riuscì a entrare nell'Ottava
Armata dell'Esercito popolare di liberazione. Mao Zedong li fece
giustiziare e abolì i battaglioni da loro comandati. Alla fine della
guerra civile furono ricercati e uccisi sistematicamente. Di molti di
loro non si seppe mai più nulla.
In Indocina inizialmente la situazione era diversa. A partire dal 1933
i trotzkisti del gruppo «Tranh Dau» (la lotta) e i comunisti si
allearono. L'influenza dei trotzkisti era particolarmente forte nel
sud della penisola. Nel 1937 una direttiva di Jacques Duclos vietò al
Partito comunista indocinese di continuare a collaborare con i
militanti della Tranh Dau. Nei mesi successivi alla sconfitta
giapponese un altro gruppo trotzkista, la Lega comunista
internazionale (L.C.I.), acquisì un'influenza tale da preoccupare i
dirigenti comunisti. Nel settembre 1945, all'arrivo delle truppe
inglesi, l'L.C.I. criticò aspramente l'accoglienza pacifica che era
stata loro riservata dal Vietminh, il Fronte democratico per
l'indipendenza fondato nel maggio del 1941 da Ho Chi Minh. Il 14
settembre il Vietminh diede inizio a una vasta operazione contro i
dirigenti trotzkisti, che non reagirono. La maggior parte di loro fu
catturata e poi giustiziata. In seguito, dopo avere combattuto contro
le truppe anglofrancesi, ritiratesi nella pianura dei Giunchi, furono
annientati dalle truppe del Vietminh. Quest'ultimo attaccò poi i
militanti della Tranh Dau. Imprigionati a Ben Suc, essi furono
giustiziati quando le truppe francesi erano ormai vicine. Ta Thu Tau,
il capo storico del movimento, fu poi arrestato e giustiziato nel
febbraio 1946. Ho Chi Minh non aveva forse scritto che i trotzkisti
«sono i traditori e le spie più infami»?.
In Cecoslovacchia il destino di Zavis Kalandra è emblematico di quello
di tutti i suoi compagni. Nel 1936 egli era stato escluso dal Partito
comunista cecoslovacco per avere scritto un opuscolo in cui denunciava
i processi di Mosca. Entrato nella Resistenza, fu deportato dai
tedeschi a Oranienburg. Arrestato nel 1949 con l'accusa di aver
diretto un complotto contro la repubblica, fu sottoposto a tortura. Il
processo nel quale pronunciò la sua autocritica ebbe inizio nel giugno
del 1950. L'8 giugno fu condannato a morte. Su «Combat» del 14 giugno
1950 André Breton chiese a Paul Eluard di intervenire in favore di un
uomo che tutti e due conoscevano da prima della guerra. Eluard
rispose: «Ho troppo da fare con gli innocenti che proclamano la
propria innocenza per occuparmi dei colpevoli che proclamano la
propria colpevolezza». Zavis Kalandra fu giustiziato il 27 giugno
successivo insieme con altri tre compagni.
- Antifascisti e rivoluzionari stranieri vittime del terrore
nell'URSS.
La «corsa all'utopia», per usare l'espressione di A‹no Kuusinen, si
trasformò in un incubo. All'arrivo in Carelia gli emigranti si videro
confiscare macchinari, attrezzi e risparmi. Dovettero consegnare il
passaporto e si trovarono prigionieri in una regione sottosviluppata e
prevalentemente boscosa, in condizioni di vita durissime. Secondo
Arvo Tuominen, che diresse il Partito comunista finlandese e ricoprì
la carica di membro supplente al presidium del Comitato esecutivo del
Comintern fino alla fine del 1939, quando fu condannato a morte (anche
se la pena gli fu poi commutata in 10 anni di reclusione), furono
rinchiusi in campo di concentramento almeno 20 mila finlandesi.
Costretta a stabilirsi a Kirovakan, A‹no Kuusinen assistette, dopo la
seconda guerra mondiale, all'arrivo degli armeni che, ingannati
anch'essi da un'abile propaganda, avevano deciso di trasferirsi nella
Repubblica sovietica di Armenia. Rispondendo all'appello di Stalin che
chiedeva ai residenti di origine russa all'estero di rientrare
nell'URSS, gli armeni, pur essendo in realtà esuli della Turchia, si
mobilitarono per trasferirsi in una Repubblica di Armenia che, nella
loro immaginazione, si sostituì alla terra dei loro padri. Nel
settembre del 1947 si radunarono a migliaia a Marsiglia e in 3500 si
imbarcarono sul "Rossija" alla volta dell'URSS. Non appena il
piroscafo entrò nelle acque territoriali sovietiche nel Mar Nero,
l'atteggiamento delle autorità sovietiche cambiò. Molti capirono
allora di essere caduti in un'orrenda trappola. Nel 1948 arrivarono
dagli Stati Uniti 200 armeni. Accolti con grandi festeggiamenti,
subirono la stessa sorte: all'arrivo si videro confiscare il
passaporto. Nel maggio 1956 alcune centinaia di armeni giunti dalla
Francia manifestarono in occasione della visita a Erevan del ministro
degli Affari esteri, Christian Pineau. Solo 60 famiglie riuscirono a
lasciare l'URSS, mentre sulle altre si abbatté la repressione.
Quasi tutte, poi, un po' alla volta sono rientrate.
Il terrore colpì non soltanto chi si era trasferito nell'URSS di
propria spontanea volontà, ma anche chi vi era stato costretto dalla
repressione di regimi dittatoriali. Secondo l'articolo 129 della
Costituzione sovietica del 1936 «l'URSS concede il diritto di asilo ai
cittadini stranieri perseguitati per aver difeso gli interessi dei
lavoratori o a causa della loro attività scientifica o della lotta
intrapresa per la liberazione nazionale». Nel romanzo "Vita e destino"
Vasilij Grossman mette a confronto un S.S. e un vecchio militante
bolscevico suo prigioniero. Durante un lungo monologo l'S.S. pronuncia
una frase che illustra alla perfezione il destino di migliaia di
uomini, donne e bambini rifugiatisi in Unione Sovietica:
Che fossero venuti dall'estero rispondendo a un appello degli stessi
sovietici o in cerca di una sicurezza che nel paese d'origine non
avevano più a causa del loro impegno politico, tutti questi emigrati
furono considerati potenziali spie. E' questa, infatti, l'accusa più
frequente sulle loro notifiche di condanna.
Una delle prime ondate migratorie fu quella degli antifascisti
italiani, che cominciò intorno alla metà degli anni Venti. Molti di
loro, credendo di trovare nel paese del socialismo il rifugio dei
propri sogni, andarono incontro a una grave delusione e caddero
vittime del terrore. A metà degli anni Trenta gli italiani nell'URSS,
comunisti o simpatizzanti, erano circa 600: approssimativamente 250
dirigenti politici emigrati e 350 studenti che frequentavano le tre
scuole di formazione politica. Molti degli studenti lasciarono l'URSS
al termine dei corsi e circa cento militanti andarono a combattere in
Spagna nel 1936-1937, ma sui rimanenti si abbatté il terrore. Ne
furono arrestati circa 200, generalmente per spionaggio; una
quarantina, di cui 25 identificati, furono fucilati e gli altri furono
mandati nei gulag, o nelle miniere d'oro della Kolyma o nel
Kazakistan. Romolo Caccavale ha pubblicato un libro commovente, in cui
ripercorre l'itinerario e il tragico destino di tanti di questi
militanti.
Un esempio fra i molti è quello di Nazareno Scarioli, un antifascista
che fuggì dall'Italia nel 1925 per trasferirsi prima a Berlino e poi a
Mosca. Accolto dalla sezione italiana del Soccorso rosso, lavorò in
una colonia agricola nei dintorni di Mosca per un anno, quindi fu
trasferito a Jalta in un'altra colonia dove lavorava una ventina di
anarchici italiani guidati da Tito Scarselli. Nel 1933 la colonia fu
sciolta. Scarioli tornò a Mosca, dove fu assunto in una fabbrica di
biscotti e partecipò alle attività della colonia italiana.
Vennero gli anni della Grande purga. Paura e terrore divisero la
comunità italiana: tutti nutrivano sospetti su tutti. Il responsabile
comunista Paolo Robotti annunciò al gruppo italiano l'arresto, in
quanto nemici del popolo, di 36 emigrati che lavoravano in una
fabbrica di cuscinetti a sfere. Robotti costrinse i presenti ad
approvare l'arresto di questi operai conosciuti da tutti. Durante la
votazione per alzata di mano, Scarioli votò contro. Fu arrestato la
sera del giorno dopo. Torturato alla Lubjanka, firmò una confessione.
Deportato nella Kolyma, fu messo a lavorare in una miniera d'oro.
Molti altri italiani conobbero la sua stessa sorte: lo scultore
Arnaldo Silva; l'ingegner Renato Cerquetti; il dirigente comunista
Aldo Gorelli, la cui sorella aveva sposato il futuro deputato
comunista Siloto; l'ex segretario della sezione romana del P.C.I.,
Vincenzo Baccalà; il toscano Otello Gaggi, che a Mosca faceva il
portiere; Luigi Caligaris, operaio a Mosca; il sindacalista veneziano
Carlo Costa, operaio a Odessa; Edmondo Peluso, che a Zurigo aveva
frequentato Lenin. Nel 1950 Scarioli, che pesava 36 chili, lasciò la
Kolyma, ma rimase a lavorare in Siberia, schiavo dei sovietici. Solo
nel 1954 fu amnistiato e riabilitato. Aspettò altri sei anni il visto
per tornare in Italia con una misera pensione.
Questi rifugiati non erano solo comunisti, iscritti o simpatizzanti
del P.C.I. Ci furono anche degli anarchici che, perseguitati in
patria, scelsero di andare nell'URSS. Il caso più noto è quello di
Francesco Ghezzi, sindacalista libertario che nel giugno del 1921
arrivò in Russia per rappresentare l'Unione sindacale italiana presso
l'Internazionale sindacale rossa. Nel 1922 era stato in Germania, dove
era stato arrestato, e il governo italiano, che lo accusava di
terrorismo, ne aveva chiesto l'estradizione. Una massiccia campagna di
solidarietà gli aveva evitato di finire nelle galere italiane, ma era
stato costretto a tornare nell'URSS. Nell'autunno del 1924 Ghezzi, che
era diventato amico di Pierre Pascal e soprattutto di Nikolaj
Lazarevic, ebbe i primi guai con la G.P.U. Nel 1929 fu arrestato,
condannato a tre anni di prigione e internato a Suzdal', in condizioni
mortali per un ammalato di tubercolosi. I suoi amici e corrispondenti
organizzarono una campagna in suo favore in Francia e in Svizzera. Fra
gli altri anche Romain Rolland (in un primo tempo) firmò una
petizione. Le autorità sovietiche risposero diffondendo la voce che
Ghezzi era un agente dell'ambasciata fascista. Liberato nel 1931,
Ghezzi riprese a lavorare in fabbrica. Alla fine del 1937 fu di nuovo
arrestato, ma questa volta i suoi amici all'estero non riuscirono più
ad avere sue notizie. Fu dato per morto a Vorkuta alla fine
dell'agosto del 1941.
Quando l'11 febbraio 1934 a Linz i responsabili dello Schutzbund
decisero di resistere a qualsiasi attacco da parte degli "Heimwehren"
(gli uomini della Guardia patriottica) che miravano a mettere fuori
legge il Partito socialista, non potevano certo immaginare il destino
dei loro compagni.
L'aggressione degli "Heimwehren" a Linz costrinse i socialdemocratici
a indire a Vienna prima uno sciopero generale e poi una rivolta.
Poiché dopo quattro giorni di accaniti combattimenti Dollfuss ebbe la
meglio, i militanti socialisti che erano scampati alla prigione o al
campo di internamento entrarono in clandestinità oppure fuggirono in
Cecoslovacchia, in alcuni casi proseguendo poi la lotta in Spagna.
Molti di essi decisero di rifugiarsi in Unione Sovietica, invogliati
da un'intensa propaganda che riuscì ad aizzarli contro la direzione
socialdemocratica. 1l 23 aprile 1934 ne arrivarono a Mosca 300,
seguiti da altri gruppi meno numerosi fino a dicembre. L'ambasciata
tedesca contò 807 "Schutzbìndler" emigrati nell'URSS. Vi
trovarono rifugio circa 1400 persone, insieme con i loro familiari.
Il primo convoglio giunto a Mosca fu accolto dai responsabili del
Partito comunista austriaco (K.P.O.) e i combattenti sfilarono nelle
strade della capitale. Furono affidati al Consiglio centrale dei
sindacati. Centoventi bambini, i cui padri erano caduti sulle
barricate o erano stati condannati a morte, furono raccolti, mandati
per un certo periodo in Crimea e poi sistemati a Mosca, nel pensionato
per bambini n. 6, aperto appositamente per loro.
Dopo qualche settimana di riposo gli operai austriaci furono smistati
nelle fabbriche di Mosca, Har'kov, Leningrado, Gorky o Rostov. Ben
presto cominciarono a perdere l'entusiasmo a causa delle condizioni di
vita che venivano loro imposte, tanto che i dirigenti comunisti
austriaci dovettero intervenire. Le autorità facevano pressione perché
prendessero la nazionalità sovietica; nel 1938 l'avevano presa in 300,
ma molti "Schutzbìndler" si erano rivolti invece all'ambasciata
austriaca nella speranza di essere rimpatriati. Sembra che nel 1936
fossero riusciti a ritornare in Austria in 77, mentre secondo
l'ambasciata tedesca fino alla primavera del 1938 sarebbero ripartite
in tutto 400 persone (dopo l'Anschluss nel marzo 1938 gli austriaci
divennero sudditi del Reich tedesco). In 160 andarono in Spagna a
combattere a fianco dei repubblicani.
Molti non ebbero la possibilità di lasciare l'URSS. Oggi si calcola
che tra la fine del 1934 e il 1938 siano stati arrestati 278 austriaci. Nel 1939 Karlo Stajner incontrò a Norilsk un viennese, Fritz
Koppensteiner, di cui non si ebbero mai più notizie. Alcuni
furono giustiziati, come Gustl Deutch, ex responsabile del quartiere
di Florisdorf ed ex combattente del reggimento Karl Marx, di cui i
sovietici avevano pubblicato un opuscolo.
Nemmeno il pensionato per bambini n. 6 fu risparmiato. Nell'autunno
del 1936 cominciarono gli arresti tra i genitori superstiti; i figli
passarono automaticamente nella giurisdizione dell'N.K.V.D., che li
mise in un orfanotrofio. La madre di Wolfgang Leonhard fu arrestata e
scomparve nell'ottobre 1936, ma la cartolina dalla Repubblica dei Komi
gli arrivò solo nell'estate dell'anno successivo: era stata condannata
a cinque anni di campo per attività controrivoluzionaria trotzkista.
Nel 1924 erano tra 2600 e 3750 gli iugoslavi che, trovandosi in Russia
nel 1917, avevano deciso di rimanervi. A loro si erano aggiunti alcuni
operai semplici e specializzati venuti dall'America e dal Canada con i
loro strumenti di lavoro per partecipare all'edificazione del
socialismo. Vivevano in colonie distribuite in tutto il territorio
sovietico, da Leninsk a Saratov e fino a Magnitogorsk. Alcuni di loro
(da 50 a 100) parteciparono ai lavori di costruzione della
metropolitana di Mosca. Anche l'emigrazione iugoslava fu colpita dalla
repressione. Bozidar Maslaric affermò che agli iugoslavi toccò «il
destino più crudele», aggiungendo: «La maggior parte fu arrestata nel
1937-1938 e di loro non si seppe più nulla...». Era una
considerazione soggettiva, basata sulla scomparsa di parecchie
centinaia di emigrati. A tutt'oggi, non esistono dati definitivi sugli
iugoslavi che lavorarono nell'URSS e in particolare su quelli che
parteciparono alla costruzione della metropolitana moscovita e che,
avendo protestato per le condizioni di lavoro, furono vittime di una
dura repressione.
La spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia
sovietica, decisa in segreto il 23 agosto 1939, divenne effettiva alla
fine di settembre dello stesso anno. I due paesi invasori coordinarono
gli interventi per assicurarsi il pieno controllo della situazione e
della popolazione: Gestapo e N.K.V.D. collaboravano. Le comunità
ebraiche furono divise e circa 2 milioni di persone, su un totale di 3
milioni 300 mila, si trovarono a vivere sotto il regime tedesco. Alle
persecuzioni (incendio delle sinagoghe) e ai massacri fece seguito la
segregazione nei ghetti: quello di Lòdz fu istituito il 30 aprile 1940
e quello di Varsavia, organizzato in ottobre, fu chiuso il 15
novembre.
Molti ebrei polacchi erano fuggiti verso est spinti dall'avanzata
dell'esercito tedesco. Durante l'inverno del 1939-1940 i tedeschi non
impedivano sistematicamente di varcare la nuova frontiera, ma chi ci
provava doveva superare un ostacolo inatteso,
Dal dicembre 1939 al marzo 1940 questi ebrei si trovarono bloccati in
una specie di "no man's land" larga un chilometro e mezzo sulla riva
orientale del Bug, costretti a dormire all'addiaccio. La maggior parte
ritornò nella zona tedesca.
Entrato nell'esercito polacco del generale Anders, il soldato L. C.
(matricola 15015) lasciò una testimonianza di questa incredibile
situazione:
Simbolicamente, Israel Joshua Singer fa morire in questa terra di
nessuno il suo eroe che, diventato un nemico del popolo, è fuggito
dall'URSS.
Nel marzo 1940 parecchie centinaia di migliaia di profughi - alcuni
parlano di 600 mila - si videro imporre un passaporto sovietico. Il
patto russo-tedesco prevedeva uno scambio di profughi. Dal momento che
la situazione delle famiglie smembrate, la povertà e il terrore voluto
dal regime di polizia dell'N.K.V.D. peggioravano, alcuni decisero di
tornare nella parte della ex Polonia occupata dai tedeschi. Julius
Margolin, che si trovava a Leopoli nell'Ucraina occidentale, riferisce
che nella primavera del 1940 gli «ebrei preferivano il ghetto tedesco
all'uguaglianza sovietica». A quell'epoca sembrava loro più
facile lasciare il Governo generale per arrivare in un paese neutrale
piuttosto che tentare la fuga passando per l'Unione Sovietica.
All'inizio del 1940 cominciarono le deportazioni dei cittadini
polacchi (si veda il contributo di Andrzej Paczkowski), che
continuarono fino a giugno. I polacchi di tutte le confessioni furono
deportati in treno verso il Nord o il Kazakistan. Il convoglio di
Julius Margolin impiegò dieci giorni per arrivare a Murmansk. Da fine
osservatore dell'universo concentrazionario qual era, egli scrisse:
Nell'inverno 1945-1946 il dottor Jacques Pat, segretario del Comitato
operaio ebraico degli Stati Uniti, si recò in missione in Polonia per
indagare sui crimini nazisti. Al suo ritorno pubblicò una serie di
articoli sugli ebrei rifugiati nell'URSS sul «Jewish Daily Forwards».
In base ai suoi calcoli 400 mila ebrei polacchi erano morti deportati
nei campi o nelle colonie di lavoro. Alla fine della guerra in 150
mila decisero di riprendere la cittadinanza polacca per fuggire
dall'URSS. Jacques Pat scrisse, dopo averne intervistati centinaia:
- Guerra civile e guerra d i liberazione nazionale.
Contemporaneamente chiedeva a tutti i partiti comunisti dei paesi
occupati un intervento armato immediato. La guerra offrì, quindi, ai
comunisti l'occasione per sperimentare una nuova forma di azione: la
lotta armata e il sabotaggio della macchina da guerra hitleriana,
eventualmente sotto forma di guerriglia. Gli apparati paramilitari
furono potenziati per formare embrionali gruppi armati comunisti che,
a seconda del paese, della posizione geografica e della congiuntura,
si trasformarono rapidamente in importanti formazioni di guerriglia,
soprattutto in Grecia e in Iugoslavia, dal 1942 in poi, in Albania e,
quindi, nell'Italia settentrionale a partire dalla fine dell'anno
successivo. Nei casi più favorevoli questa lotta offrì ai comunisti
l'opportunità di prendere il potere, senza tirarsi indietro nemmeno di
fronte alla guerra civile, se necessario. L'esempio più
rappresentativo di questo nuovo orientamento è quello iugoslavo. Già
nella primavera del 1941 Hitler era stato costretto a correre in aiuto
degli alleati italiani, messi in difficoltà in Grecia da un piccolo
esercito molto deciso. In aprile dovette intervenire anche in
Iugoslavia, dove il governo filotedesco era stato rovesciato da un
colpo di Stato filobritannico. Sia in Iugoslavia sia in Grecia
esisteva un Partito comunista, debole ma con una lunga esperienza alle
spalle, in clandestinità da parecchi anni perché messo al bando dal
regime dittatoriale di Stojadinovic e da quello di Metaxas.
Dopo l'armistizio la Iugoslavia fu divisa tra l'Italia, la Bulgaria e
la Germania. C'era, inoltre, il sedicente Stato indipendente di
Croazia, in mano agli ustascia, gli estremisti di destra guidati da
Ante Pavelic, che instaurarono un vero e proprio regime di apartheid
contro i serbi. Gli ustascia fecero stragi di serbi, ma anche di ebrei
e di zingari, e cercarono di eliminare qualsiasi opposizione,
spingendo così molti croati a entrare nella Resistenza.
Dopo la capitolazione dell'esercito iugoslavo, il 18 aprile, i primi a
entrare in clandestinità furono gli ufficiali realisti del colonnello
Draza Mihajlovic, nominato prima comandante in capo della Resistenza
iugoslava e poi ministro della Guerra dal governo del re in esilio a
Londra. Mihajlovic formò in Serbia l'esercito dei cetnici,
prevalentemente serbo. Solo dopo l'invasione dell'URSS, il 22 giugno
1941, i comunisti iugoslavi appoggiarono l'idea che bisognasse
intraprendere una lotta di liberazione nazionale, «liberare il paese
dal giogo fascista e non impegnarsi ancora nella rivoluzione
socialista». Ma mentre Mosca intendeva risparmiare il più a lungo
possibile il governo realista e non spaventare gli alleati inglesi,
Tito si sentì abbastanza forte per prendere l'iniziativa e rifiutò di
ubbidire al governo legale in esilio. Non ponendo alcuna riserva di
tipo etnico al reclutamento - egli stesso era croato, - dal 1942
cominciò a crearsi le basi per la guerriglia in Bosnia. Diventati
rivali, i due movimenti che perseguivano obiettivi contraddittori si
scontrarono. Di fronte alle pretese dei comunisti Mihajlovic decise di
non provocare i tedeschi e addirittura di allearsi con gli italiani.
In un confuso insieme di guerra di liberazione e guerra civile, di
opposizione politica e odio etnico la situazione, complicata
dall'occupazione, si fece sempre più intricata. Da più parti furono
compiuti massacri in cui ciascuno cercava di sterminare i propri
avversari diretti e di imporre il proprio predominio.
Gli storici calcolano che su 16 milioni di abitanti i morti abbiano
superato il milione. Esecuzioni, fucilazioni di prigionieri, uccisioni
di feriti e rappresaglie di ogni tipo si succedettero senza tregua,
favorite dal fatto che nella cultura balcanica i conflitti tra i clan
sono sempre esistiti. C'è, però, una differenza tra i massacri dei
cetnici e quelli dei comunisti: i cetnici, che mal sopportavano
l'autorità di un'organizzazione centralista - molte bande sfuggivano
al controllo di Mihajlovic -, compivano stragi fra la popolazione più
per motivi etnici che politici; i comunisti, invece, seguivano
principi chiaramente militari e politici. Milovan Gilas, collaboratore
di Tito, testimoniò molto tempo dopo:
Con la capitolazione dell'Italia nel settembre 1943 e la decisione di
Churchill di offrire l'aiuto degli alleati a Tito invece che a
Mihajlovic, e poi con la fondazione da parte di Tito del Consiglio
antifascista di liberazione nazionale di Iugoslavia (AVNOJ) nel
dicembre 1943, i comunisti si trovarono in una posizione di chiaro
vantaggio politico rispetto agli avversari. Tra la fine del 1944 e
l'inizio del 1945 i partigiani comunisti si accinsero a dominare tutta
la Iugoslavia. All'approssimarsi della capitolazione tedesca Pavelic
partì alla volta della frontiera austriaca con il suo esercito, i suoi
funzionari e le loro famiglie, diverse decine di migliaia di persone
in tutto. A Bleiburg fu raggiunto da guardie bianche slovene e cetnici
montenegrini e tutti insieme si arresero alle truppe inglesi, che li
consegnarono a Tito.
A soldati e poliziotti di tutti i tipi furono imposte marce mortali di
centinaia di chilometri attraverso la Iugoslavia. I prigionieri
sloveni furono portati nelle vicinanze di Kocevje, in Slovenia, dove
furono uccise da 20 mila a 30 mila persone. I cetnici sconfitti
non sfuggirono alla vendetta dei partigiani, che non fecero
prigionieri. Milovan Gilas ha raccontato la fine dei combattenti serbi
senza trovare il coraggio di rivelare i presumibilmente macabri
particolari di questa ultima campagna:
Catturato, Draza Mihajlovic fu giudicato, condannato a morte e
fucilato il 17 luglio 1946. Al «processo» furono respinte le proposte
di testimoniare in suo favore avanzate dagli ufficiali delle missioni
alleate, che erano stati inviati presso il suo Stato maggiore e
avevano combattuto insieme con lui contro i tedeschi. Nel
dopoguerra Stalin aveva rivelato a Milovan Gilas il nocciolo della sua
filosofia: «Chi occupa un territorio vi impone il proprio sistema
sociale».
Con la guerra, i comunisti greci si trovarono in una situazione simile
a quella dei compagni iugoslavi. Il 2 novembre 1940, pochi giorni dopo
l'invasione della Grecia da parte dell'Italia, Nikos Zachariadis,
segretario del Partito comunista greco, in carcere dal settembre 1936,
lanciù un appello alla resistenza: «La nazione greca combatte oggi una
guerra di liberazione nazionale contro il fascismo di Mussolini ...
Tutti a combattere, ognuno al proprio posto». Ma il 7 dicembre
un manifesto del Comitato centrale clandestino rimetteva in
discussione questo orientamento e il K.K.E. rientrava nella linea
ufficiale del Comintern, quella del disfattismo rivoluzionario. Il 22
giugno 1941, con un clamoroso voltafaccia, il K.K.E. ordinò a tutti i
militanti di organizzare «la lotta per la difesa dell'Unione Sovietica
e il rovesciamento del giogo fascista straniero».
L'esperienza della clandestinità costituiva un notevole punto di forza
per i comunisti. Il 16 luglio 1941, come tutti gli altri partiti
comunisti, anche quello greco istituì il Fronte nazionale operaio di
liberazione (Ergatikò Ethnikò Apelevtherikò Métopo, EEAM), che
comprendeva tre organizzazioni sindacali. Il 27 settembre nacque
l'EAM. Questo Fronte di liberazione nazionale fu il braccio politico
dei comunisti. Il 10 febbraio 1942 nasceva l'ELAS, l'Esercito popolare
di liberazione nazionale, i cui primi gruppi di resistenza furono
organizzati in maggio per iniziativa di Aris Velouchiotis (Thanassis
Klaras), un militante esperto che aveva firmato una dichiarazione di
pentimento per farsi liberare. Da quel momento in poi gli effettivi
dell'ELAS aumentarono continuamente.
L'ELAS non era l'unica organizzazione militare della Resistenza greca.
Nel settembre 1941 era stata fondata da militari e civili repubblicani
l'EDES (Ethnikòs Demokratikòs Ellinikòs Syndesmos), l'Unione nazionale
greca democratica, mentre Napoleon Zervas, un colonnello in pensione,
comandava un altro gruppo di guerriglieri. La terza organizzazione era
quella del colonnello Psarros, che si era costituita nell'ottobre 1942
e si chiamava EKKA (Ethnikì kai Koinikì Apelevthérosis), Movimento di
liberazione nazionale e sociale. Ognuna di queste organizzazioni
cercava di attirare i militanti e i combattenti delle altre.
Ma il successo e la forza dell'ELAS spinsero i comunisti a decidere di
imporre la propria egemonia su tutta la resistenza armata. I gruppi di
partigiani dell'EDES furono attaccati più volte, come l'EKKA,
costretto a disperdere le proprie forze e poi a ricostituirsi. Alla
fine del 1942 nella Tessaglia occidentale, ai piedi del monte Pindo,
il maggiore Kostopoulos (un transfuga dell'EAM) e il colonnello
Safaris formarono un'unità di resistenza nel cuore della zona
conquistata dall'EAM; l'ELAS li accerchiù e massacrò tutti i
combattenti che non riuscirono a fuggire o si rifiutarono di passare
nelle sue file. Fatto prigioniero, Safaris alla fine accettò di
diventare capo di Stato maggiore dell'ELAS.
La presenza di alcuni ufficiali britannici accorsi in aiuto della
Resistenza greca preoccupava i capi dell'ELAS; già allora i comunisti
temevano, infatti, che gli inglesi imponessero la restaurazione della
monarchia. Ma l'atteggiamento del braccio militare diretto da
Velouchiotis e quello del K.K.E. guidato da Georgios Siantos, che
intendeva seguire la linea scelta da Mosca (una politica di coalizione
antifascista) erano diversi. L'intervento degli inglesi ebbe un
momentaneo effetto positivo, perché nel luglio del 1943 la missione
militare britannica ottenne la firma di una specie di patto fra le tre
formazioni principali: l'ELAS, a quel punto forte di circa 18 mila
uomini, l'EDES di 5000 e 1'EKKA di 1000 circa.
Con la capitolazione italiana, l'8 settembre, la situazione cambiù ed
ebbe inizio una guerra fratricida. Questo accadeva proprio mentre i
tedeschi lanciavano una violenta offensiva contro l'EDES, costretta a
ripiegare e ad affrontare gli ingenti battaglioni dell'ELAS che
cercarono di annientarla. La direzione del K.K.E. decise di
sbarazzarsi dell'EDES per sfruttare i nuovi rapporti di forza in modo
da ostacolare la politica inglese. Dopo quattro giorni di
combattimenti i partigiani agli ordini di Zervas riuscirono a rompere
l'accerchiamento.
Questa guerra civile all'interno della guerra di liberazione nazionale
lasciava enormi possibilità di manovra ai tedeschi, le cui truppe
attaccavano ora l'una ora l'altra organizzazione della Resistenza. Gli alleati presero, quindi, l'iniziativa di porre fine alla
guerra civile: gli scontri tra ELAS e EDES cessarono nel febbraio 1944
e a Plaka fu firmato un accordo. Fu una tregua effimera: poche
settimane dopo l'ELAS attaccava l'EKKA di Psarros. Dopo cinque giorni
di combattimento il colonnello fu sconfitto e fatto prigioniero. Fu
decapitato e i suoi ufficiali furono massacrati.
L'opera dei comunisti ebbe un effetto demoralizzante sulla Resistenza
e gettò nel discredito l'EAM; in intere regioni l'odio per il Fronte
di liberazione nazionale era tale che alcuni partigiani entrarono nei
Battaglioni di sicurezza organizzati dai tedeschi. Questa guerra
intestina finì solo quando l'ELAS accettò di collaborare con il
governo greco in esilio al Cairo. Nel settembre 1944 sei
rappresentanti dell'EAM-ELAS entrarono nel governo di unità nazionale
presieduto da Georgios Papandreu. Il 2 settembre, mentre i tedeschi
cominciavano a evacuare la Grecia, l'ELAS lanciù le sue truppe alla
conquista del Peloponneso che sfuggiva al suo controllo a causa della
presenza dei Battaglioni di sicurezza. Le città e i paesi conquistati
furono puniti. A Meligala furono massacrati 1400 uomini, donne e
bambini e una cinquantina di ufficiali e sottufficiali dei Battaglioni
di sicurezza.
Sembrava che niente potesse fermare l'egemonia dell'EAM-ELAS. Invece
persero Atene, che fu liberata il 12 ottobre dopo lo sbarco delle
truppe britanniche al Pireo. Se la direzione del K.K.E. esitò a
ingaggiare una prova di forza, forse fu per fare il gioco del governo
di coalizione. Mentre la direzione del Partito rifiutava di
smobilitare l'ELAS come richiedeva il governo, Iannis Zegvos, ministro
comunista dell'Agricoltura, chiese lo scioglimento delle unità agli
ordini del governo. Il 4 dicembre le pattuglie dell'ELAS entrarono ad
Atene e si scontrarono con le forze governative. Il giorno dopo quasi
tutta la capitale era nelle mani dell'ELAS, che vi aveva ammassato 20
mila uomini, ma gli inglesi resistettero, contando sull'arrivo di
rinforzi. Il 18 dicembre l'ELAS attaccò anche l'EDES nell'Epiro.
Parallelamente agli scontri armati i comunisti misero in atto una
sanguinosa epurazione antimonarchica.
L'offensiva incontrò, però, delle difficoltà e, durante una conferenza
tenutasi a Varzika, i comunisti firmarono un accordo sul disarmo
dell'ELAS. In realtà molte armi e munizioni furono nascoste. Aris
Velouchiotis uno dei dirigenti più in vista, respinse gli accordi di
Varzika e si diede alla macchia insieme con un centinaio di uomini.
Entrò poi in Albania nella speranza di potervi riprendere la lotta
armata. Interrogato sui motivi della sconfitta dell'EAM-ELAS,
Velouchiotis rispose sinceramente: «E' perché non abbiamo ammazzato
abbastanza. Agli inglesi interessava questo crocevia che è la Grecia;
se noi avessimo ammazzato tutti i loro amici, non sarebbero potuti
sbarcare da nessuna parte. Ma gli altri dicevano che ero un assassino:
ecco a che cosa ci hanno portato». E aggiunse: «Le rivoluzioni
riescono quando i fiumi diventano rossi di sangue, e vale la pena di
versarlo, se la ricompensa è la perfezione della società umana».
Il fondatore dell'ELAS, Aris Velouchiotis, trovò la morte nel giugno
1945 in uno scontro in Tessaglia, pochi giorni dopo essere stato
espulso dal K.K.E. La sconfitta dell'EAM-ELAS scatenò l'odio
accumulato contro i comunisti e gli alleati: molti militanti furono
uccisi da gruppi paramilitari, altri finirono in prigione e i
dirigenti vennero perlopiù deportati nelle isole.
Nikos Zachariadis, segretario generale del K.K.E., era rientrato in
maggio dalla Germania, dove era stato deportato a Dachau. Le sue prime
dichiarazioni illustravano chiaramente la politica del K.K.E.: «O
torniamo a un regime simile a quello della dittatura monarchico-
fascista ma più severo, oppure la lotta dell'EAM per la liberazione
nazionale troverà coronamento nella creazione in Grecia di una
democrazia popolare». Ma la Grecia, allo stremo, non era destinata a
conoscere la pace civile. In ottobre il Settimo Congresso del Partito
ratificò l'obiettivo definito da Zachariadis, la cui prima tappa
consisteva nell'allontanamento delle truppe britanniche. Nel gennaio
1946 l'URSS manifestò il proprio interesse per la Grecia interpellando
il Consiglio di sicurezza dell'ONU sul pericolo rappresentato dalla
presenza inglese nel paese. Il 12 febbraio, nell'imminenza delle
elezioni generali da cui sarebbe senza dubbio uscito sconfitto e che
del resto invitava a boicottare con l'astensione, il K.K.E. decise di
organizzare una sommossa con l'appoggio dei comunisti iugoslavi.
In dicembre ci fu un incontro tra alcuni rappresentanti del Comitato
centrale del K.K.E. e ufficiali iugoslavi e bulgari. I comunisti greci
avevano la certezza di poter utilizzare come retrovie l'Albania, la
Iugoslavia e la Bulgaria. Per tre anni vi si rifugiarono i loro
combattenti, vi furono curati i feriti e custoditi i materiali
militari. Tutti questi preparativi si svolsero pochi mesi dopo la
creazione del Cominform; la sommossa dei comunisti greci pareva
rientrare perfettamente nella nuova politica del Cremlino. Il 30 marzo
1946 il K.K.E. si assunse la responsabilità di scatenare una terza
guerra civile. I primi attacchi dell'Esercito democratico, creato il
28 ottobre 1946 e guidato dal generale Markos Vafiadis, furono
sferrati secondo un unico modello: venivano presi d'assalto i posti di
polizia, sterminandone gli occupanti, e si giustiziavano i notabili.
Per tutto il 1946 il K.K.E. continuò anche le sue attività ufficiali.
Nei primi mesi del 1947 il generale Markos intensificò gli sforzi:
decine di villaggi furono presi d'assalto e furono giustiziate
centinaia di contadini. Il reclutamento forzato gonfiava gli effettivi
dell'Esercito democratico. Quando un paese non rispondeva alla
chiamata alle armi, cominciavano le rappresaglie. Un villaggio
macedone pagò cara la propria reticenza: 48 case furono bruciate e
furono uccisi 12 uomini, 6 donne e 2 neonati. Nel marzo 1947 cominciù
lo sterminio sistematico dei sindaci e dei preti. In marzo i profughi
erano già 400 mila. La politica del terrore provocò un controterrore
da parte di gruppi di estrema destra che uccisero vari militanti
comunisti o di sinistra.
Nel giugno 1947, dopo una visita a Belgrado, Praga e Mosca,
Zachariadis annunciù l'imminente costituzione di un governo «libero».
I comunisti greci sembravano convinti di poter seguire la stessa
strada presa da Tito quattro anni prima. Il nuovo governo fu
costituito ufficialmente in dicembre. Gli iugoslavi arrivarono al
punto di fornire quasi 10 mila volontari prelevati dal loro esercito. L'importanza di questi aiuti per l'Esercito democratico è
indicata in numerosi rapporti delle inchieste della Commissione
speciale delle Nazioni Unite per i Balcani. La rottura tra Tito e
Stalin nella primavera del 1948 ebbe conseguenze dirette per i
comunisti greci. Gli aiuti continuarono a giungere fino all'autunno,
ma Tito si tirò sempre più indietro fino ad arrivare alla chiusura
della frontiera. Durante l'estate, mentre le forze governative
conducevano una vasta offensiva, il leader dei comunisti albanesi,
Enver Hoxha, fu costretto a interrompere la propria. I comunisti greci
si trovarono sempre più isolati e i dissidi interni si
intensificarono. Ciù nonostante i combattimenti continuarono fino
all'agosto 1949. Molti combattenti ripiegarono in Bulgaria prima di
trovare rifugio un po' in tutta l'Europa dell'Est, in particolare in
Romania e nell'URSS. A Tashkent, capitale dell'Uzbekistan, affluirono
migliaia di profughi, fra cui 7500 comunisti. Dopo la sconfitta il
K.K.E. in esilio conobbe una serie di purghe, tanto che nel settembre
1955 il conflitto tra sostenitori e avversari di Zachariadis degenerò
in scontro aperto e l'esercito sovietico dovette intervenire per
ristabilire l'ordine; i feriti furono centinaia.
L'accoglienza riservata ai vinti della guerra civile greca nell'URSS è
ancora più paradossale se si pensa che a quell'epoca Stalin aveva già
in gran parte sterminato la vecchia comunità greca che risiedeva in
Russia da secoli e che, nel 1917, contava tra le 500 mila e le 700
mila persone, soprattutto nel Caucaso e sulle coste del Mar Nero. Nel
1939 ne rimanevano solo 410 mila e nel 1960 177 mila. Dal dicembre
1937 in poi 285 mila greci residenti nelle grandi città furono
deportati nelle regioni di Arcangelo, nella Repubblica dei Komi e
nella Siberia nordorientale. Altri poterono tornare in Grecia. Sempre
in questo periodo in URSS furono liquidati A. Haitas, ex segretario
del Partito comunista greco, e il pedagogo J. Jordinis. Nel 1944 100
mila greci di Crimea, superstiti di una comunità una volta fiorente,
furono deportati in Kirghizistan e in Uzbekistan con l'accusa di avere
assunto un atteggiamento filotedesco durante la guerra. La notte del
30 giugno 1949 furono deportati nel Kazakistan 30 mila greci della
Georgia. Nell'aprile 1950 subirono una sorte analoga tutti i greci di
Batumi.
Negli altri paesi dell'Europa occidentale la tentazione dei comunisti
di impadronirsi del potere durante la Resistenza e la Liberazione fu
prontamente soffocata dalla presenza delle forze angloamericane e,
dalla fine del 1944 in poi, dalle direttive di Stalin, che
ingiungevano ai comunisti di nascondere le armi e aspettare
un'occasione migliore per prendere il potere. Questo emerge con la
massima chiarezza dall'incontro avvenuto al Cremlino il 19 novembre
1944 tra Stalin e Maurice Thorez, segretario generale del Partito
comunista francese che, dopo avere trascorso gli anni della guerra
nell'URSS, si accingeva a tornare in Francia.
Nel dopoguerra, e perlomeno fino alla morte di Stalin nel 1953, la
violenza e il terrore cui aveva fatto ricorso il Comintern prima del
conflitto continuarono a caratterizzare il movimento comunista
internazionale. Nei paesi dell'Est europeo la repressione contro i
dissidenti, veri o presunti, fu intensa soprattutto in occasione di
grandi processi farsa (si veda il contributo di Karel Bartosek). Il
terrore raggiunse l'apice con la crisi tra Tito e Stalin nel 1948.
Avendo rifiutato di sottomettersi e avendo osato mettere in dubbio
l'onnipotenza di Stalin, Tito divenne un novello Trotsky. Stalin cercò
di farlo uccidere, ma Tito non si fidava ed era protetto dal suo
apparato statale. Non riuscendo a liquidarlo, i partiti comunisti di
tutto il mondo si diedero allora a una serie di assassinii politici
simbolici e radiarono i titini, che fecero da capri espiatori. Una
delle prime vittime fu il segretario generale del Partito comunista
norvegese, Peder Furubotn, un ex membro del Comintern che, dopo aver
soggiornato a lungo a Mosca, era riuscito a salvarsi tornando in
Norvegia nel 1938. Il 20 ottobre 1949 durante una riunione del Partito
un certo Strand Johansen, uomo dei sovietici, accusò Furubotn di
titoismo. Forte del seguito che aveva nel Partito, Furubotn convocò il
Comitato centrale il 25 ottobre e annunciù le dimissioni sue e del suo
gruppo dirigente a condizione che si procedesse al più presto
all'elezione di un nuovo Comitato centrale e che le accuse rivoltegli
venissero esaminate da una commissione internazionale. Gli avversari
di Furubotn furono colti alla sprovvista. Fra lo stupore generale il
giorno dopo Johansen e un gruppo di suoi scagnozzi si introdussero
nella sede del Comitato centrale e scacciarono, armi in pugno, i
sostenitori del segretario generale. Poi tennero una riunione in cui
fu votata l'espulsione dal Partito di Furubotn che, conoscendo i
metodi sovietici, si era trincerato in casa insieme con alcuni amici
armati. Alla fine di una specie di «rodeo» degno di un film
poliziesco, il P.C.N. perse gran parte dei suoi militanti. Johansen,
completamente manipolato dagli agenti sovietici, impazzì.
L'ultimo atto di questo periodo di terrore nel movimento comunista
internazionale ebbe luogo nel 1957. Imre Nagy, il comunista ungherese
che aveva per breve tempo guidato la rivolta del 1956 a Budapest (si
veda il contributo di Karel Bartosek), si era rifugiato
nell'ambasciata iugoslava e si rifiutava di uscire, temendo di essere
ucciso. Dopo una serie di tortuose manovre i sovietici riuscirono a
catturarlo e decisero di processarlo in Ungheria. Ma non volendo
assumersi da solo la responsabilità di questo assassinio legale, il
Partito comunista ungherese approfittò della Prima Conferenza mondiale
dei partiti comunisti, che si tenne a Mosca nel novembre 1957, per far
votare la condanna a morte di Nagy da tutti i dirigenti comunisti
presenti, fra cui Maurice Thorez e Palmiro Togliatti, con l'unica
eccezione del polacco Gomulka. Nagy fu condannato a morte e impiccato
il 16 giugno 1958.
NOTE
1. Nel suo ultimo articolo, pubblicato il 15 gennaio 1919 su «Die
rote Fahne» (La bandiera rossa), Liebknecht diede libero sfogo a un
lirismo rivoluzionario molto rivelatore: «Al rimbombo del fragoroso
crollo economico, le schiere ancora dormienti di proletari si
sveglieranno come al suono delle trombe del giudizio universale, e i
cadaveri dei combattenti trucidati risorgeranno...» (K. Liebknecht,
"Scritti politici", Milano, Feltrinelli, 1971, p. 378).
La Germania fu il primo paese a essere colpito, con un ammutinamento
della sua flotta da guerra avvenuto ancora prima della capitolazione.
La sconfitta del Reich e la creazione di una repubblica guidata dai
socialdemocratici non bastarono a impedire violenti contraccolpi da
parte sia dell'esercito, della polizia e di alcuni corpi franchi
ultranazionalisti sia dei rivoluzionari entusiasti della dittatura dei
bolscevichi."Chiediamo agli ex membri della milizia terrorista e a tutti coloro
che all'epoca del suo scioglimento sono stati smobilitati di
presentarsi a Jòzsef Czerny per il rinnovo della ferma..."
"Si avverte la cittadinanza che non si può prendere in alcuna
considerazione un'eventuale ripresa dell'attività degli ex Ragazzi di
Lenin: si sono resi responsabili di azioni talmente lesive dell'onore
del proletariato che è escluso un loro nuovo arruolamento al servizio
della Repubblica dei consigli".
Mentre Béla Kun e i suoi compagni cercavano di fondare una seconda
Repubblica sovietica, Lenin prese l'iniziativa di creare
un'organizzazione internazionale capace di diffondere la rivoluzione
in tutto il mondo. L'Internazionale comunista, detta anche Comintern o
Terza Internazionale, fu fondata a Mosca nel marzo 1919 e si pose
subito come rivale dell'Internazionale operaia socialista (la Seconda
Internazionale, creata nel 1889). Tuttavia il Congresso di fondazione
del Comintern rispondeva, più che a una reale capacità di
organizzazione, a urgenti esigenze di propaganda e al tentativo di
canalizzare i movimenti spontanei che scuotevano l'Europa. La vera
fondazione del Comintern va identificata, piuttosto, con il Secondo
Congresso, nell'estate 1920, e con l'adozione delle "Ventuno
condizioni di ammissione" cui dovevano conformarsi i socialisti
desiderosi di entrare in un'organizzazione estremamente centralizzata
- «lo Stato maggiore della rivoluzione mondiale» - nella quale il
partito bolscevico esercitava già il notevole peso derivante dal suo
prestigio, dalla sua esperienza e dal suo potere statale (in
particolare dal punto di vista finanziario, militare e diplomatico).
Il Comintern fu subito concepito da Lenin come uno degli strumenti
della rivoluzione internazionale - insieme con l'Armata rossa, la
diplomazia, lo spionaggio eccetera - e la sua dottrina politica fu,
quindi, ricalcata fedelmente su quella bolscevica: era giunto il
momento di sostituire all'arma della critica la critica delle armi. Il
manifesto adottato in occasione del Secondo Congresso proclamava con
orgoglio l'Internazionale comunista come il partito internazionale
dell'insurrezione e della dittatura del proletariato. Di conseguenza
la terza delle "Ventuno condizioni" diceva: «In quasi tutti i paesi
d'Europa e d'America la lotta di classe sta entrando nella fase della
"guerra civile". In tali condizioni, i comunisti sono tenuti a creare
ovunque un apparato organizzativo clandestino parallelo, che al
momento decisivo aiuterà il partito a compiere il suo dovere verso la
rivoluzione». Si trattava di eufemismi: il «momento decisivo» era
l'insurrezione rivoluzionaria e il «dovere verso la rivoluzione»
l'obbligo di lanciarsi nella guerra civile, politica che non era
riservata ai paesi con un regime dittatoriale, ma destinata anche a
quelli democratici, monarchie costituzionali o repubbliche che
fossero."Dobbiamo costruire un ponte che unisca la Russia dei soviet alla
Germania e all'Austria proletarie ... La nostra vittoria unirà le
forze rivoluzionarie dell'Europa occidentale a quelle della Russia e
conferirà una forza irresistibile alla rivoluzione sociale universale".
"Non ci si è preoccupati abbastanza di mettere i controrivoluzionari
in condizioni di non nuocere. Nell'intero periodo in cui Canton è
rimasta nelle mani degli insorti sono state uccise solo cento persone.
E' stato possibile uccidere i detenuti soltanto dopo regolare giudizio
della commissione per la lotta contro i reazionari. In guerra, nel
corso di un'insurrezione, questa è una procedura troppo lenta".
Dopo un tale disastro, i comunisti si ritirarono dalle città e si
riorganizzarono nelle lontane zone di campagna fino a creare nel 1931,
nello Hunan e nel Kiangsi, una «zona liberata» difesa da un'armata
rossa. Fu, quindi, in fase molto precoce che, fra i comunisti cinesi,
prevalse l'idea che la rivoluzione fosse prima di tutto una questione
militare e fu istituzionalizzata la funzione politica dell'apparato
militare, che sarebbe poi stata riassunta nella celebre massima di
Mao: «Il potere politico sta in fondo alla canna del fucile». Gli
eventi successivi hanno dimostrato in che modo i comunisti concepivano
la conquista e il mantenimento del potere."Sergej Puzickij ... che non solo ha partecipato alla cattura del
bandito Savinkov ... ma ha anche magistralmente condotto l'operazione
dell'arresto di Kutepov e di molti altri capi delle Guardie bianche".
Il Comintern, se sotto la spinta di Mosca manteneva gruppi armati in
tutti i partiti comunisti esteri e preparava insurrezioni e guerre
civili contro il potere costituito dei rispettivi paesi, non trascurò
di introdurre anche al proprio interno i metodi di polizia e di
terrore in uso nell'URSS. Durante il Decimo Congresso del partito
bolscevico, che si tenne dall'8 al 16 marzo 1921 mentre le autorità
erano alle prese con la ribellione di Kronstadt, furono gettate le
basi di un regime dittatoriale all'interno dello stesso Partito.
Durante la fase di preparazione del congresso erano state proposte e
discusse non meno di otto piattaforme diverse. Questi dibattiti
rappresentavano in un certo senso le ultime vestigia della democrazia
mancata della Russia. Solo all'interno del Partito rimaneva un
surrogato di libertà di parola, destinato a non durare a lungo. Il
secondo giorno dei lavori Lenin diede il la:"Adesso non ci vuole opposizione, compagni, non è il momento! O da
questa parte, o dall'altra [a Kronstadt], con un fucile, e non con
l'opposizione. Ciò dipende dalla situazione oggettiva, non
prendetevela con nessuno. Adesso non abbiamo bisogno d'opposizione,
compagni! E io penso che il congresso del Partito dovrà giungere a
questa conclusione, dovrà concludere che adesso l'opposizione è
finita, che delle opposizioni non ne vogliamo più sapere!".
"Penso che possa benissimo essere usata contro di noi, tuttavia la
appoggio ... Che nel momento del pericolo il Comitato centrale prenda
pure le misure più severe contro i migliori compagni ... A costo di
sbagliare! Sarà sempre meno pericoloso dello sbandamento attuale".
"la lotta non continuava sul terreno ideologico, ma mediante...
l'allontanamento (degli interessati) dai loro posti, i trasferimenti
sistematici da un distretto all'altro e persino l'espulsione dal
Partito".
"La riunione di 'cistka' si svolgeva così: l'imputato veniva chiamato
per nome e invitato a salire sul palco; i membri della Commissione di
epurazione e gli altri presenti gli rivolgevano delle domande. Alcuni
riuscivano a discolparsi facilmente, mentre per altri questa prova
temibile durava a lungo. Se uno aveva dei nemici, questi potevano
influenzare in maniera decisiva lo svolgimento della seduta.
L'espulsione dal Partito tuttavia poteva essere decretata solo dalla
Commissione di controllo. Se l'accusato non era riconosciuto colpevole
di atti che comportassero l'esclusione dal Partito, la procedura
veniva sospesa senza ricorrere al voto. In caso contrario, nessuno
interveniva in favore dell'«imputato». Il presidente domandava
semplicemente: «Kto protiv? [Chi si oppone?]» e, dal momento che
nessuno osava opporsi, la sentenza veniva emessa «all'unanimità»".
"Nel nostro Partito [il P.C.F.], che la battaglia rivoluzionaria non
ha completamente liberato del vecchio fondo socialdemocratico,
l'influsso delle personalità individuali ha ancora un ruolo troppo
importante ... E' nella misura in cui verranno eliminati tutti i
residui piccolo borghesi dell'«Io» individualista che si formerà
l'anonima schiera di ferro dei bolscevichi francesi ... Se vuole
essere degno dell'Internazionale comunista cui appartiene, se vuole
seguire le orme gloriose del Partito dell'Unione Sovietica, il Partito
comunista francese non deve esitare a spezzare chi, al suo interno,
dovesse rifiutare di piegarsi alla sua legge!" («L'Humanité», 19
luglio 1924).
"I compagni ci consegnarono i giornali che circolavano nella prigione.
Che varietà di opinioni, quanta libertà in ognuno degli articoli!
Quanta passione e quanta franchezza nella presentazione di questioni
non solo astratte e teoriche, ma riguardanti anche l'attualità più
scottante! ... Ma la nostra libertà non si limitava a questo. Durante
l'ora d'aria, in cui si riunivano i prigionieri di varie celle, i
detenuti avevano l'abitudine di tenere in un angolo del cortile delle
vere e proprie riunioni, con presidente, segretario e oratori che
prendevano la parola a turno".
"L'alimentazione consisteva nel menò tradizionale del 'muzik' povero:
pane e zuppa mattina e sera, per tutto l'anno ... Inoltre a pranzo ci
davano una zuppa fatta di pesce cattivo, conserve e carne mezza
marcia. La stessa zuppa, ma senza né carne né pesce, veniva servita
anche a cena ... La razione quotidiana di pane era di 700 grammi,
quella mensile di zucchero di un chilo, e ricevevamo anche una razione
di tabacco, di sigarette, di tè e di sapone. Oltre che monotona,
questa dieta era di quantità insufficiente. Tuttavia dovemmo lottare
con accanimento perché non ci riducessero ulteriormente questi magri
pasti, per non parlare delle lotte che ci costarono anche i più
piccoli miglioramenti! Eppure, rispetto al regime delle prigioni per i
delinquenti comuni, in cui marcivano centinaia di migliaia di
detenuti, e soprattutto a quello dei milioni di persone rinchiuse nei
campi di lavoro del Nord, in un certo senso la nostra era una
situazione privilegiata!".
[Box:
LE LISTE NERE DEL P.C.F.
A partire dal 1932 il P.C.F. cominciò a raccogliere informazioni sulle
persone ritenute sospette o pericolose a causa delle loro attività.
Queste liste nacquero, quindi, nel momento in cui gli emissari del
Comintern assumevano il controllo dell'apparato dei quadri. La
creazione della sezione dei quadri, destinata a selezionare i
militanti migliori, mostrava anche il suo rovescio: le liste che
denunciavano chi in un modo o nell'altro aveva sbagliato. Dal 1932 al
giugno 1939 il P.C.F. pubblicò dodici liste nere con titoli diversi e
nello stesso tempo molto simili: "Liste noire des provocateurs,
traŒtres, mouchards chassés des organisations révolutionnaires de
France" (Lista nera dei provocatori, traditori, spie espulse dalle
organizzazioni rivoluzionarie di Francia), oppure "Liste noire des
provocateurs, voleurs, escrocs, trotskistes, traŒtres chassés des
organisations ouvrières de France" (Lista nera di provocatori, ladri,
truffatori, trotzkisti, traditori espulsi dalle organizzazioni operaie
di Francia)... Per giustificare queste liste, in cui fino allo scoppio
della guerra furono inclusi oltre 1000 nomi, il P.C.F. ricorreva a una
semplice argomentazione politica: «La lotta della borghesia contro la
classe operaia e le organizzazioni rivoluzionarie nel nostro paese si
fa sempre più aspra».
I militanti dovevano fornire segnalazioni («statura e corporatura,
capelli e sopracciglia, fronte, occhi, naso, bocca, mento, forma del
viso, colorito, segni particolari», come si legge nella "Liste n. 10",
agosto 1938) e «qualsiasi informazione utile che faciliti [la]
ricerca» degli individui denunciati, tra cui il luogo di residenza.
Ogni militante doveva praticamente fingersi agente di una polizia
speciale, giocare al piccolo cekista.
Alcuni dei sospetti erano probabilmente veri imbroglioni, mentre altri
erano soltanto contrari alla linea del Partito, che vi appartenessero
o meno. Negli anni Trenta furono presi di mira prima di tutto i
militanti comunisti che avevano seguito Jacques Doriot e la sua
organizzazione di Saint-Denis, poi i trotzkisti. I comunisti francesi
ripresero senza esitare le argomentazioni dei fratelli maggiori
sovietici: i trotzkisti diventarono «una banda forsennata e priva di
principi di sabotatori, agenti deviati e assassini agli ordini dei
servizi di spionaggio stranieri» ("Répertoire n. 1 des listes noires 1
à 8", s.d.).
La guerra, l'interdizione del P.C.F. che era favorevole al
riavvicinamento russo-tedesco e quindi l'occupazione tedesca spinsero
il Partito a rafforzare le proprie tendenze poliziesche. Furono
denunciati i militanti che si erano rifiutati di ratificare l'alleanza
tra Hitler e Stalin, compresi quelli impegnati nella Resistenza, come
Adrien Langumier, che usava come copertura un posto di redattore a
«Temps nouveaux» di Luchaire (viceversa, il P.C.F. non denunciò mai
Frédéric Joliot-Curie per l'articolo molto compromettente pubblicato
sullo stesso giornale il 15 febbraio 1941), o come René Nicod, ex
deputato comunista di Oyonnax che si comportò in modo irreprensibile
nei confronti degli ex compagni. Per non parlare di Jules Fourrier,
che la «polizia del Partito» tentò invano di eliminare: Fourrier aveva
votato i pieni poteri a Pétain e poi, a partire dalla fine del 1940,
aveva partecipato alla creazione di una rete di resistenza; fu
deportato a Buchenwald e poi a Mauthausen.
Inoltre ci furono coloro che nel 1941 presero parte alla fondazione
del Partito operaio e contadino francese intorno all'ex segretario del
P.C.F., Marcel Gitton, ucciso nel settembre dello stesso anno da
alcuni militanti comunisti. Il P.C.F. si arrogò il diritto di
dichiararli «traditori del Partito e della Francia». Talvolta gli atti
di accusa sono seguiti dalla dicitura: «Ha ricevuto il castigo che
meritava». Ci furono persino casi di militanti sospettati di
tradimento che furono assassinati e poi riabilitati dopo la guerra,
come Georges Déziré.
Nel pieno della caccia agli ebrei il P.C.F. usava strani metodi per
denunciare i suoi nemici: «C... Renée, detta Tania, detta Thérèse, del
quattordicesimo arrondissement. "Ebrea bessarabica"», «De B..., "ebreo
straniero". Rinnegato, denigra P.C.F. e URSS». La Manodopera immigrata
(Main-d'oeuvre immigrée, MOI), un'organizzazione che raccoglieva i
militanti comunisti stranieri, ricorse a un linguaggio altrettanto
caratteristico: «R. Ebreo (non è il suo vero nome). Lavora con un
gruppo ebraico nemico». Non venne meno l'odio per i militanti
trotzkisti: «D... Yvonne. 1, place du Général-Beuret, Paris 7 ...
Trotzkista, era stata in contatto con il POUM (Partito operaio di
unificazione marxista). Denigra l'URSS». E' molto probabile che
durante gli arresti la polizia di Vichy o la Gestapo abbiano potuto
mettere le mani su liste di questo genere: che cosa ne è stato delle
persone che vi erano denunciate?
Nel 1945 il P.C.F. pubblicò una nuova serie di liste nere per mettere
«al bando della nazione», secondo le sue stesse parole, gli avversari
politici, alcuni dei quali erano sfuggiti per un soffio ad attentati
mortali. L'istituzionalizzazione del metodo della lista nera rimanda
in modo molto chiaro alla compilazione di elenchi di potenziali
imputati da parte degli organi di sicurezza sovietici (Ceka, G.P.U.,
N.K.V.D.). E' un metodo universalmente adottato dai comunisti, entrato
nell'uso all'inizio della guerra civile in Russia. In Polonia, verso
la fine del conflitto, le liste di questo tipo comprendevano 48
categorie di individui da sorvegliare.]
"Oggi Stalin nel Comintern ha la statura di un papa infallibile....
Grazie a una dipendenza materiale diretta e indiretta, Stalin tiene
saldamente in pugno tutti i quadri dirigenti del Comintern, non solo a
Mosca ma anche nelle sedi decentrate, ed è questo l'argomento decisivo
che ne conferma l'invincibilità in campo teorico".
[Box:
SUI PROCESSI DI MOSCA.
Il terrore e i processi sono fenomeni che suscitarono inevitabilmente
interpretazioni contrastanti.
Ecco quanto scriveva al riguardo Boris Suvarin: «E' molto
esagerato, effettivamente, pretendere che i processi di Mosca siano
fenomeni esclusivamente e specificamente russi. Sotto un'innegabile
impronta nazionale, a un esame più approfondito emerge qualcosa di
molto generalizzato.
«Prima di tutto, è bene abbandonare il pregiudizio secondo cui ciò che
è accessibile al russo non lo sarebbe al francese. Nella fattispecie,
le confessioni dimostrative estorte agli accusati lasciano altrettanto
perplessi sia i francesi sia i russi. E coloro che, per fanatica
solidarietà con il bolscevismo, le trovano naturali sono senza dubbio
più numerosi fuori dell'URSS che al suo interno ...
«Nei primi anni della Rivoluzione russa tutte le difficoltà di
interpretazione venivano comodamente risolte attribuendole all'"animo
slavo", ma in seguito si è dovuto constatare sia in Italia sia in
Germania il verificarsi di fatti in precedenza considerati
specificamente russi. Quando la belva umana si scatena, malgrado le
differenze formali e superficiali, le stesse cause producono effetti
analoghi presso i popoli latini, germanici e slavi.
«D'altronde, non è forse vero che in Francia e in altri paesi vi sono
persone di ogni genere che non trovano assolutamente nulla da ridire
di fronte alle atroci macchinazioni di Stalin? La redazione
dell'"Humanité", per esempio, non è affatto inferiore a quella della
"Pravda" quanto a servilismo e bassezza, senza neppure la scusa di
trovarsi oppressa dal peso di un regime totalitario. L'accademico
Komarov, sulla Piazza Rossa di Mosca, si disonora ancora una volta
chiedendo delle teste, ma non avrebbe potuto rifiutarsi di farlo senza
commettere consapevolmente un suicidio. Che dire allora di un Romain
Rolland, di un Langevin, di un Malraux, che ammirano e approvano il
regime sovietico, la sua "cultura" e la sua "giustizia", senza esservi
costretti né dalla fame né dalla tortura?»]
"Il Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista dispone di
informazioni provenienti da tutta una serie di compagni, militanti di
partiti fratelli, che riteniamo necessario sottoporvi perché possiate
verificarle e prendere le misure del caso ... Uno dei segretari del
Comitato centrale del Partito comunista d'Ungheria, Karakach, fa
discorsi che dimostrano la sua insufficiente devozione al Partito di
Lenin e Stalin ... I compagni sollevano inoltre una questione molto
seria: perché nel 1932 il tribunale ungherese l'ha condannato a soli
tre anni di prigione, mentre durante la dittatura del proletariato in
Ungheria Karakach ha fatto eseguire alcune condanne a morte decise dal
tribunale rivoluzionario? ... Da molti discorsi di compagni tedeschi,
austriaci, lettoni, polacchi e di altri paesi emerge che l'emigrazione
politica è particolarmente sporca. Bisogna estirpare il tutto con
determinazione".
L'assassinio di Kirov, il primo dicembre 1934, offrì a Stalin un
ottimo pretesto per passare da una repressione severa a un vero e
proprio regime di terrore, sia nel Comintern sia nel partito russo. La storia del P.C.U.S., e quindi quella del Comintern, erano
entrate in una fase nuova. Il terrore, fino a quel momento esercitato
contro la popolazione, fu esteso ai protagonisti del potere assoluto
gestito dal P.C.U.S. e dal suo onnipotente segretario generale.
Le prime vittime furono i membri dell'opposizione russa già in
carcere. Alla fine del 1935 i detenuti liberati allo scadere della
pena furono ricondotti in prigione. Parecchie migliaia di militanti
trotzkisti furono radunati nella regione di Vorkuta. Circa 500 erano
in miniera, un migliaio nel campo di Uhta-Peciora, per un totale di
parecchie migliaia nel raggio di Peciora. Il 27 ottobre 1936 1000 di
loro cominciarono uno sciopero della fame che durò 132 giorni.
Dopo avere ripulito l'apparato centrale del Comintern, Stalin passò
alle varie sezioni dell'Internazionale comunista. La prima a subirne
le conseguenze fu quella tedesca. Oltre ai discendenti dei coloni del
Volga, militanti del Partito comunista tedesco, il K.P.D., la comunità
tedesca nella Russia sovietica comprendeva antifascisti rifugiatisi
nell'URSS e operai che avevano lasciato la Repubblica di Weimar per
partecipare all'«edificazione del socialismo». Di ciò non si tenne il
minimo conto quando cominciarono gli arresti, nel 1933. In totale, due
terzi degli antifascisti tedeschi in esilio nell'URSS furono vittime
della repressione.
[Box:
SUL PONTE DI BREST-LITOVSK.
Il 31 dicembre 1939 ci svegliarono alle 6 del mattino ... Vestiti e
rasati, dovemmo restare alcune ore in una sala d'attesa. Un ebreo
comunista ungherese di nome Bloch era fuggito in Germania dopo il
fallimento della Comune del 1919 e vi aveva vissuto con dei documenti
falsi continuando a militare nel Partito. In seguito era emigrato,
sempre con gli stessi documenti falsi. Anche lui era stato arrestato
e, nonostante le sue proteste, doveva essere consegnato alla Gestapo
tedesca ... Poco prima di mezzanotte arrivarono degli autobus che ci
portarono alla stazione ... Durante la notte tra il 31 dicembre 1939 e
il primo gennaio 1940 il treno partì. Riportava a casa 70 sconfitti
... Attraverso la Polonia devastata, continuammo il nostro viaggio
verso Brest-Litovsk. Al ponte sul fiume Bug ci aspettava l'apparato
dell'altro regime totalitario d'Europa, la Gestapo tedesca.
Tre persone rifiutarono di passare il ponte, e cioè l'ebreo ungherese
di nome Bloch, l'operaio comunista condannato dai nazisti e un
insegnante tedesco di cui non ricordo più il nome. Furono trascinati a
forza verso il ponte. La furia dei nazisti, delle S.S., si concentrò
subito sull'ebreo. Noi fummo trasferiti su un treno e portati a
Lublino ... A Lublino fummo consegnati alla Gestapo. Solo allora ci
rendemmo conto non solo di essere stati consegnati alla Gestapo, ma
anche che l'N.K.V.D. aveva consegnato alle S.S. i documenti che ci
riguardavano. Così dal mio dossier risultava, per esempio, che ero la
moglie di Neumann e che Neumann era uno dei tedeschi più invisi ai
nazisti...]
Dopo aver decimato i ranghi dei comunisti stranieri che vivevano
nell'URSS, Stalin passò ai dissidenti che risiedevano all'estero.
L'N.K.V.D. ebbe così l'occasione di mostrare la propria potenza a
livello mondiale."Chautemps Presidente del Consiglio Parigi / Nella vicenda assassinio
Ignaz Reiss / Furto dei miei archivi e reati analoghi / Mi permetto
insistere necessità di interrogare almeno come testimone Jacques
Duclos vicepresidente Camera dei deputati vecchio agente G.P.U.".
[Box:
Louis Aragon,
PRELUDE AU TEMPS DES CERISES.
Canto la Ghepeù che si forma
in Francia adesso.
Canto la Ghepeù necessaria di Francia.
Canto la Ghepeù di nessuno e dappertutto.
Chiedo una Ghepeù per preparare la fine di un mondo.
Chiedete una Ghepeù per preparare la fine di un mondo,
per difendere coloro che sono traditi,
per difendere coloro che sono sempre traditi,
Chiedete una Ghepeù voi che siete piegati, voi che siete uccisi.
Chiedete una Ghepeù.
Vi occorre una Ghepeù.
Viva la Ghepeù figura dialettica dell'eroismo
da contrapporre all'immagine imbecille degli aviatori,
considerati eroi dagli imbecilli quando cadono faccia a terra.
Viva la Ghepeù immagine vera della grandezza materialista.
Viva la Ghepeù contro dio Chiappe [prefetto noto per le sue simpatie
filofasciste] e la "Marsigliese".
Viva la Ghepeù contro il papa e i pidocchi.
Viva la Ghepeù contro la rassegnazione delle banche.
Viva la Ghepeù contro le manovre dell'Est.
Viva la Ghepeù contro la famiglia.
Viva la Ghepeù contro le leggi scellerate.
Viva la Ghepeù contro gli assassini tipo
Caballero Boncour MacDonald Zoergibel.
Viva la Ghepeù contro tutti i nemici del Proletariato.
VIVA LA GHEPEU'.
(1931)]
"L'organizzazione della G.P.U. ha tradizioni e metodi ben stabiliti
fuori dall'Unione Sovietica. La G.P.U. ha bisogno di una copertura
legale o semilegale per la sua attività e di un ambiente favorevole
per il reclutamento dei suoi agenti; trova questo ambiente e questa
protezione nei cosiddetti «partiti comunisti»".
"In quanto organizzazioni, la G.P.U. e il Comintern non sono identici,
ma sono indissolubilmente legati. Sono subordinati reciprocamente e
non è il Comintern che dà gli ordini alla G.P.U., ma al contrario la
G.P.U. che domina completamente il Comintern".
La decimazione del Comintern, dei trotzkisti e di altri dissidenti
comunisti costituì sì un aspetto importante del terrore comunista, ma
non fu l'unico. A metà degli anni Trenta, infatti, nell'URSS vivevano
moltissimi stranieri che, pur non essendo comunisti, erano stati
attratti dal miraggio sovietico. Molti di loro pagarono con la libertà
e spesso con la vita il loro amore per il paese dei soviet.
All'inizio degli anni Trenta i sovietici condussero una campagna di
propaganda sulla Carelia, giocata tanto sulle opportunità offerte da
questa regione di frontiera tra l'URSS e la Finlandia quanto sul
fascino esercitato dalla «costruzione del socialismo». Dalla Finlandia
emigrarono quasi 12 mila persone, cui si aggiunsero circa 5000
finlandesi provenienti dagli Stati Uniti, prevalentemente iscritti
all'Associazione (americana) dei lavoratori finlandesi, che si
trovavano in forte difficoltà a causa della disoccupazione che era
seguita alla crisi del 1929. La «febbre della Carelia» fu accentuata
dal fatto che l'Amtorg (l'agenzia commerciale sovietica) prometteva un
lavoro ben retribuito, un alloggio e il viaggio gratuito da New York a
Leningrado. Agli emigranti veniva consigliato di portare con sé tutto
ciò che possedevano."Chi starebbe nei nostri lager se non ci fosse la guerra, se non ci
fossero dentro prigionieri di guerra? I nemici del Partito, i nemici
del popolo. E' una specie che lei conosce, l'avete anche nei vostri
lager. E nel tranquillo tempo di pace le S.S. del Reich includerebbero
nel sistema i vostri detenuti, non li lascerebbero andare, 'i vostri
internati sarebbero i nostri internati'."
[Box:
LA TRAGICA ODISSEA DELLA FAMIGLIA SLADEK.
Il 10 febbraio 1963 l'organo socialista «Arbeiter Zeitung» pubblicò la
storia della famiglia Sladek. A metà di settembre del 1934 la signora
Sladek con i suoi due figli aveva raggiunto a Har'kov il marito Josef
Sladek, ex "Schutzbìndler" ed ex ferroviere di Semmering, profugo
nell'URSS. Nel 1937 cominciarono gli arresti dell'N.K.V.D. nella
comunità austriaca di Har'kov, in ritardo rispetto a Mosca e a
Leningrado. A Josef Sladek toccò il 15 febbraio 1938. Nel 1941, prima
dell'offensiva tedesca, la signora Sladek chiese di poter lasciare
l'URSS e si rivolse all'ambasciata tedesca. Il 26 luglio l'N.K.V.D. la
arrestò insieme al figlio sedicenne Alfred, mentre Victor, che aveva
otto anni, fu mandato in un orfanotrofio dell'N.K.V.D. I funzionari
dell'N.K.V.D. vollero strappare a ogni costo una confessione ad
Alfred: lo picchiarono e gli dissero che la madre era stata fucilata.
Evacuati a causa dell'avanzata tedesca, madre e figlio si ritrovarono
per caso nel campo di Ivdel, negli Urali. La signora Sladek era stata
condannata a cinque anni per spionaggio e Alfred a dieci per
spionaggio e agitazione antisovietica. Trasferiti nel campo di Sarma,
vi trovarono Josef Sladek, che a Har'kov era stato condannato a cinque
anni di carcere, ma furono di nuovo separati. Liberata nell'ottobre
1946, la signora Sladek fu confinata a Solikamsk negli Urali, dove un
anno dopo fu raggiunta dal marito, malato di tubercolosi e di
insufficienza cardiaca e non più in grado di lavorare. Il ferroviere
di Semmering morì in miseria il 31 maggio 1948. Nel 1951 Alfred fu
liberato e poté tornare dalla madre. Nel 1954, dopo una complessa
trafila burocratica, poterono rientrare tutti e due in Austria a
Semmering. Erano passati sette anni dall'ultima volta che avevano
visto Victor. Le ultime notizie al suo riguardo risalivano al 1946.]
"i russi custodi del «mito di classe», vestiti con lunghi cappotti di
pelliccia, coi berretti a visiera e con le baionette inastate,
andarono incontro ai profughi che volavano verso la «terra promessa»
con cani poliziotti e con colpi di fucile mitragliatore".
"Era una zona di 600-700 metri in cui erano ammassate circa 700-800
persone ormai da qualche settimana, per il 90 per cento ebrei sfuggiti
alla sorveglianza tedesca ... Eravamo malati, fradici su questa terra
bagnata dalle piogge d'autunno, e ci stringevamo gli uni agli altri
senza che i soviet «umanitari» si degnassero di darci un tozzo di pane
o un po' di acqua calda. Non lasciavano passare nemmeno i contadini
delle campagne circostanti che volevano fare qualcosa per mantenerci
in vita. Di conseguenza, lasciammo molte tombe in quel territorio ...
Posso affermare che coloro che tornarono a casa dalla parte tedesca
fecero bene, perché l'N.K.V.D. non era migliore della Gestapo tedesca
da nessun punto di vista, con la differenza che la Gestapo accorcia i
tempi ammazzando la gente, mentre l'N.K.V.D. uccide e tortura in
maniera molto più terribile della morte stessa, sicché chi riesce per
miracolo a sfuggire alle sue grinfie resta invalido per tutta la
vita...".
"Ciò che differenzia i campi di lavoro sovietici da tutti gli altri
luoghi di detenzione del mondo non sono solo le proporzioni immense,
inimmaginabili, né le micidiali condizioni di vita. E' la necessità di
mentire continuamente per salvarsi la vita, di mentire sempre, di
portare per anni una maschera senza poter mai dire quello che si
pensa. Nella Russia sovietica, anche i cittadini «liberi» sono
costretti a mentire ... Dissimulazione e menzogna diventano così
l'unico strumento di autodifesa. I raduni, le riunioni, gli incontri,
le conversazioni, i manifesti affissi ai muri sono caratterizzati da
un linguaggio ufficiale melenso, che non contiene una sola parola di
verità. Difficilmente un occidentale può capire che cosa significhi
essere privati del diritto di esprimersi liberamente e non poterlo
fare per cinque o sei anni, nella maniera più totale, essere costretti
a rimuovere anche il minimo pensiero «illegale» e restare muti come
tombe. Sotto questa pressione incredibile tutto ciò che un individuo
ha dentro si deforma e si disgrega".
[Box:
LA MORTE DEI PRIGIONIERI 41 E 42.
Membro dell'Ufficio direttivo dell'Internazionale operaia socialista,
Victor Alter (nato nel 1890) era assessore comunale a Varsavia; era
stato presidente della Federazione dei sindacati ebraici. Henryk
Erlich era stato membro del consiglio comunale di Varsavia e redattore
del quotidiano jiddisch «Folkstaytung». Entrambi appartenevano al
Bund, il Partito socialista ebraico di Polonia. Nel 1939 si erano
rifugiati nella zona sovietica. Alter fu arrestato il 26 settembre a
Kovel' ed Erlich il 4 ottobre a Brest-Litovsk. Trasferito alla
Lubjanka, Alter fu condannato a morte il 20 luglio 1941 per attività
antisovietiche (si pensava che avesse condotto un'azione illegale del
Bund nell'URSS in collegamento con la polizia polacca). La condanna
pronunciata dal Collegio militare della Corte suprema dell'URSS fu
commutata in dieci anni di campo di prigionia. Il 2 agosto anche
Erlich fu condannato a morte dal tribunale militare delle forze armate
dell'N.K.V.D. di Saratov; il 27 la pena gli fu commutata in dieci anni
di prigionia. Liberati nel settembre 1941, in seguito agli accordi
Sikorski-Majskij, Alter ed Erlich furono convocati da Berija, che
propose loro di dare vita a un Comitato ebraico contro i nazisti.
Accettarono. Trasferiti a Kujbyscev, furono nuovamente arrestati il 4
dicembre con l'accusa di aver intrattenuto rapporti con i nazisti!
Berija ordinò che venissero messi in isolamento: ormai erano diventati
i prigionieri n. 41 (Alter) e n. 42 (Erlich), di cui nessuno doveva
conoscere l'identità. Considerati cittadini sovietici, il 23 dicembre
1941 furono di nuovo condannati a morte (articolo 58, 1) per
tradimento. Nelle settimane successive rivolsero invano numerosi
appelli alle autorità; probabilmente ignoravano di essere stati
condannati. Il 15 maggio 1942 Henryk Erlich si impiccò alle sbarre
della sua cella. Fino all'apertura degli archivi, si è creduto che
fosse stato giustiziato.
Victor Alter minacciò di suicidarsi e Berija ordinò di intensificare
la sorveglianza. Fu giustiziato il 17 febbraio 1943. La sentenza del
23 dicembre 1941 era stata approvata personalmente da Stalin. E'
significativo che l'esecuzione abbia avuto luogo poco tempo dopo la
vittoria di Stalingrado. Non soddisfatte dell'assassinio, le autorità
calunniarono anche la memoria delle loro vittime: Alter ed Erlich
avrebbero fatto propaganda a favore della firma di un trattato di pace
con la Germania nazista.]
"I 150 mila ebrei che oggi varcano la frontiera tra URSS e Polonia non
parlano più dell'Unione Sovietica, della patria socialista, della
dittatura e della democrazia. Per loro queste discussioni si sono
chiuse e l'ultima parola è stata la fuga dall'Unione Sovietica".
[Box:
IL RITORNO FORZATO NELL'URSS DEI PRIGIONIERI SOVIETICI.
Se il fatto di avere rapporti con degli stranieri o di essere giunti
nell'URSS dall'estero significava rendersi sospetti agli occhi del
regime, quattro anni di prigionia fuori dal territorio nazionale
facevano del militare russo catturato dai tedeschi un traditore
meritevole di castigo; il Decreto n. 270 del 1942, modificando il
Codice penale, p.r.f. 193, stabiliva che un soldato caduto in mano al
nemico diventava immediatamente un traditore. Poco importava in quali
condizioni fosse avvenuta la cattura e avesse avuto luogo la
prigionia: nel caso dei russi, tali condizioni furono spaventose - in
base alla "Weltanschauung" nazista gli slavi erano un'altra delle
categorie di esseri subumani da sterminare - visto che 3 milioni 300
mila prigionieri di guerra, su 5 milioni 700 mila, morirono di fame e
di maltrattamenti.
In risposta alla sollecitazione degli Alleati imbarazzati dalla
presenza di soldati russi nella Wehrmacht, Stalin decise, quindi,
abbastanza presto di farsi concedere dai suoi alleati il rimpatrio di
tutti i russi che si trovavano nella zona occidentale. Non ebbe
difficoltà a ottenerlo. A partire dalla fine di ottobre 1944 e fino al
gennaio 1945 più di 332 mila prigionieri furono rispediti senza il
loro consenso in Unione Sovietica (1179 da San Francisco). Non solo i
diplomatici britannici e americani non si fecero alcuno scrupolo, ma
affrontarono la questione con un certo cinismo perché sapevano, come
Anthony Eden, che per risolverla sarebbe stato necessario ricorrere
alla forza.
Durante i negoziati di Jalta (4-11 febbraio 1945) i tre protagonisti
(sovietici, inglesi e americani) conclusero degli accordi segreti che
riguardavano sia i soldati sia i profughi civili. Churchill e Eden
accettarono che Stalin decidesse il destino dei prigionieri che
avevano combattuto nella ROA, l'Armata di liberazione russa ai comandi
dal generale Vlasov, come se questi ultimi potessero beneficiare di un
giudizio equo garantito.
Stalin sapeva per certo che una parte di questi soldati sovietici
erano stati fatti prigionieri prima di tutto per colpa della
disorganizzazione dell'Armata rossa, di cui lui era il primo
responsabile, dell'incapacità sua e dei suoi generali. E' certo,
inoltre, che molti soldati non avevano nessuna voglia di battersi per
un regime aborrito e, per riprendere un'espressione di Lenin, avevano
«votato con i piedi».
Non appena furono firmati gli accordi di Jalta, non ci fu settimana in
cui non partissero dalle isole britanniche convogli per l'URSS. In due
mesi, dal maggio al luglio 1945, furono rimpatriate oltre un milione
300 mila persone che vivevano nelle zone occidentali di occupazione ed
erano considerate sovietiche da Mosca (compresi i popoli baltici,
annessi nel 1940, e gli ucraini). Alla fine di agosto erano stati
consegnati più di 2 milioni di questi «russi», talvolta in circostanze
tremende: i suicidi individuali o collettivi (di intere famiglie)
furono frequenti, come pure le mutilazioni. Al momento di essere
consegnati alle autorità sovietiche i prigionieri tentavano invano di
opporre una resistenza passiva, e gli anglosassoni non esitarono a
ricorrere alla forza per soddisfare le esigenze dei sovietici.
All'arrivo, i rimpatriati venivano tenuti sotto controllo dalla
polizia politica. Alcune esecuzioni sommarie ebbero luogo il giorno
stesso dell'arrivo dell'"Almanzora" a Odessa, il 18 aprile. Lo stesso
avvenne quando l'"Empire Pride" attraccò nel porto del Mar Nero.
Gli occidentali temevano che l'Unione Sovietica prendesse in ostaggio
i prigionieri inglesi, americani o francesi e usasse questa «moneta di
scambio» per ricattarli: questo atteggiamento fu indicativo dello
stato d'animo dell'Occidente di fronte ai diktat dei sovietici che, in
tal modo, imposero il rimpatrio di tutti i cittadini russi o di
origine russa, compresi alcuni che erano emigrati dopo la rivoluzione
del 1917. Questa politica, che gli occidentali seguirono con piena
consapevolezza, non ebbe neppure il risultato di facilitare il ritorno
dei loro compatrioti, mentre permise all'URSS di mettere un'orda di
funzionari alle calcagna dei recalcitranti e di violare apertamente le
leggi delle nazioni alleate.
Sul versante francese, il «Bulletin» del governo militare in Germania
affermava che il primo ottobre 1945 erano stati rispediti dal lato
sovietico 101 mila «profughi». In Francia le autorità locali
accettarono la creazione di 70 campi di raccolta che, nella maggior
parte dei casi, godevano di una sorta di extraterritorialità, come
quello di Beauregard alla periferia di Parigi, rinunciando a
esercitare su di essi qualsiasi controllo e accordando agli agenti
sovietici dell'N.K.V.D. attivi nel paese un'impunità che contrastava
con il principio della sovranità nazionale francese. Tutte queste
operazioni erano state attentamente meditate da parte dei sovietici,
visto che le intrapresero fin dal settembre del 1944 con l'aiuto della
propaganda comunista. Il campo di Beauregard fu chiuso solo nel
novembre del 1947 dalla direzione della Sicurezza territoriale in
seguito al rapimento di alcuni bambini contesi tra genitori
divorziati. Roger Wybot, che diresse l'operazione, osservò: «In realtà
in base alle informazioni che sono riuscito a ottenere, in questo
campo più che di transito di profughi si tratta di rapimenti». Le
proteste contro questa politica furono tardive e talmente rare che
merita di essere segnalata quella che comparve nell'estate 1947 sulla
rivista socialista «Masses»: «Che il Gengis Khan di turno chiuda
ermeticamente le frontiere per trattenere i suoi schiavi si può
capire, ma che ottenga il diritto di farli estradare dai territori
stranieri va persino al di là della nostra morale depravata del
dopoguerra ... In nome di quale diritto morale o politico si può
obbligare una persona a vivere in un paese dove sarebbe soggetta a
schiavitò fisica e morale? Che ringraziamento il mondo si aspetta da
Stalin per essere rimasto muto davanti alle grida dei cittadini russi
che si danno la morte piuttosto che tornare nel loro paese?».
I redattori della rivista denunciavano alcune espulsioni recenti:
«Incoraggiate dall'indifferenza criminale delle masse di fronte alla
violazione del diritto minimo di asilo, le autorità militari inglesi
in Italia hanno appena commesso un atto inqualificabile: l'8 maggio
sono stati prelevati 175 russi dal campo n. 7 di Riccione per essere
mandati, secondo quanto era stato detto loro, in Scozia e altre 10
persone dal campo n. 6, in cui erano rinchiuse intere famiglie. Una
volta allontanate dal campo, queste 185 persone si sono viste togliere
qualsiasi oggetto che potesse servire per suicidarsi e sono state
informate che non sarebbero andate in Scozia, ma in Russia. Ciò
nonostante alcune sono riuscite a darsi la morte. Lo stesso giorno
sono stati prelevati anche 80 individui (tutti caucasici) dal campo di
Pisa. Tutti questi sventurati sono stati mandati verso la zona russa,
in Austria, a bordo di vagoni sorvegliati dalle truppe inglesi. Alcuni
hanno tentato la fuga e sono stati uccisi dalle guardie».
I prigionieri rimpatriati furono internati in speciali campi detti di
«verifica e filtraggio» (creati alla fine del 1941), in realtà
identici ai campi di lavoro e poi integrati nel gulag nel gennaio
1946. Nel 1945 vi erano passati in totale 214 mila prigionieri.
Questi prigionieri finivano nel gulag nel momento del suo massimo
sviluppo: in generale furono condannati a sei anni in base
all'articolo 58, 1b. Fra di loro ci furono gli ex membri della ROA che
aveva partecipato alla liberazione di Praga combattendo contro le
S.S.]
[Box:
I PRIGIONIERI NEMICI.
L'URSS non aveva ratificato le convenzioni internazionali sui
prigionieri di guerra (Ginevra, 1929). In teoria i prigionieri erano
protetti dalla convenzione anche se il loro paese non l'aveva
sottoscritta, ma l'URSS non tenne in alcun conto questa disposizione.
Dopo la vittoria le rimasero da 3 a 4 milioni di prigionieri tedeschi,
fra cui gruppi di soldati liberati dalle potenze occidentali che,
tornati nella zona sovietica, erano stati deportati nell'URSS.
Nel marzo 1947 Vjaceslav Molotov dichiarò che era stato rimpatriato un
milione di tedeschi (per la precisione un milione 3974) e che nei
campi di prigionia del suo paese ne restavano ancora 890532. Queste
cifre furono contestate. Nel marzo 1950 l'URSS decretò che il
rimpatrio dei prigionieri era concluso. Tuttavia le organizzazioni
umanitarie segnalarono che nell'URSS c'erano ancora almeno 300 mila
prigionieri e 100 mila civili. L'8 maggio 1950 il governo
lussemburghese protestò contro la chiusura delle operazioni di
rimpatrio perché 2000 suoi cittadini erano ancora trattenuti
nell'URSS. Non è improbabile, visto il tasso di mortalità nei campi di
prigionia, che la mancanza di informazioni riguardo a questi
prigionieri fosse destinata a nascondere la triste verità sul loro
destino.
Secondo una stima di una commissione speciale (la commissione
Maschke), i soldati tedeschi che morirono prigionieri nei campi
dell'URSS furono un milione e fra i 100 mila prigionieri fatti
dall'Armata rossa a Stalingrado ci furono solo 6000 superstiti.
Insieme con i tedeschi, nel febbraio 1947, c'erano circa 60 mila
soldati italiani (ma spesso si parla di 80 mila). Il governo italiano
rese noto che a questa data erano rientrati in patria solo 12513
prigionieri. Va segnalato inoltre che si trovarono in situazioni
analoghe i prigionieri romeni e ungheresi che avevano combattuto sul
fronte russo. Nel marzo 1954 furono liberati cento volontari della
divisione spagnola Azul. Per completare questa sintesi bisogna
ricordare infine i 900 mila soldati giapponesi fatti prigionieri in
Manciuria nel 1945.]
[Box:
I MALGRE'-NOUS, GLI «ARRUOLATI LORO MALGRADO».
Un detto, che circolava nei campi di prigionia, illustra perfettamente
la composizione multietnica della popolazione carceraria: «Se un paese
non è rappresentato nel gulag, è perché non esiste». Anche la Francia
ebbe i suoi prigionieri nel gulag, prigionieri che la diplomazia non
si accanì molto a difendere e a ricuperare.
I tre dipartimenti della Mosella, del Basso e dell'Alto Reno
ricevettero un trattamento particolare dai nazisti trionfanti:
l'Alsazia-Lorena fu annessa, germanizzata e sottoposta al regime
nazista. Nel 1942 i nazisti decisero di incorporare d'autorità
nell'esercito tedesco le classi dal 1920 al 1924. Molti giovani della
Mosella e dell'Alsazia che non avevano nessuna voglia di prestare
servizio con l'uniforme tedesca cercarono di sottrarsi a questo
«privilegio». Alla fine della guerra le classi che erano state
mobilitate erano 21 nell'Alsazia e 14 nella Mosella, per un totale di
130 mila uomini. Inviati per la maggior parte al fronte russo, 22 mila
di questi «arruolati loro malgrado» caddero in combattimento. I
sovietici, informati dalla Francia libera di questa situazione,
lanciarono appelli alla diserzione, promettendo il reintegro nei
ranghi della Francia combattente. In realtà, quali che fossero le
circostanze, furono fatti prigionieri 23 mila soldati provenienti
dall'Alsazia-Lorena: tanti sono i dossier che le autorità russe
trasmisero nel 1995 alle autorità francesi. Molti di loro furono
riuniti nel campo 188 di Tambov, sotto la sorveglianza dell'M.V.D. (ex
N.K.V.D.) in condizioni spaventose: malnutrizione (600 grammi di pane
nero al giorno), lavoro forzato nelle foreste, alloggi primitivi
(capanne di legno seminterrate), assenza totale di cure mediche. I
superstiti di questi campi della morte lenta calcolano che nel 1944 e
nel 1945 vi siano morti quasi 10 mila loro commilitoni.
Pierre Rigoulot fornisce il numero di 10 mila morti, nei diversi
campi, o sulla via per i campi. Dopo lunghe trattative, nell'estate
del 1944 furono liberati e rimpatriati ad Algeri 1500 prigionieri. Se
Tambov è il campo in cui fu internata la maggior parte dei prigionieri
provenienti dall'Alsazia-Lorena, ce ne furono anche altri, che
contribuiscono a formare una specie di subarcipelago dei francesi che
non poterono combattere per la liberazione del loro paese.]
Mentre la firma del patto russo-tedesco del settembre 1939 aveva avuto
un effetto dirompente su quasi tutti i partiti comunisti, i cui
iscritti non si rassegnavano all'abbandono da parte di Stalin della
politica antifascista, l'attacco tedesco contro l'URSS del 22 giugno
1941 riaccese immediatamente la scintilla antifascista. Già il 23
giugno il Comintern informò per radio e radiotelegramma tutte le
sezioni che era l'ora non più della rivoluzione socialista, ma della
lotta contro il fascismo e della guerra di liberazione nazionale."Eravamo esasperati dai pretesti addotti dai contadini per stare dalla
parte dei cetnici: dicevano di avere paura che gli bruciassero le case
e di subire altre rappresaglie. La questione fu sollevata durante una
riunione con Tito e fu avanzata l'ipotesi che fosse possibile far
cambiare parere ai contadini facendo capire loro che, se si alleavano
con l'invasore [si noti lo slittamento da «cetnici» (partigiani
iugoslavi realisti) all'«invasore»] anche noi avremmo bruciato le loro
case ... Alla fine Tito disse, sia pur con una certa esitazione: «Be',
possiamo bruciare una casa o un villaggio ogni tanto». In seguito
emanò ordini a questo proposito, ordini espliciti e per ciù stesso
assai più decisi".
"Le truppe di Draza [Mihajlovic] furono annientate più o meno
contemporaneamente a quelle di Slovenia. I piccoli gruppi di cetnici
che ritornavano nel Montenegro dopo la sconfitta riferirono nuovi
orrori. Nessuno ne parlava volentieri, nemmeno coloro che
sbandieravano il loro spirito rivoluzionario, quasi si trattasse di un
incubo spaventoso".
[Box:
I BAMBINI GRECI E IL MINOTAURO SOVIETICO.
Durante la guerra civile dal 1946 al 1948 i comunisti greci censirono
in tutte le zone sotto il loro controllo i bambini di entrambi i sessi
di età compresa fra i 3 e i 14 anni. Nel marzo 1948 essi furono
radunati nelle zone di frontiera e parecchie migliaia di loro furono
portati in Albania, in Iugoslavia e in Bulgaria. La gente dei paesi
cercava di salvare i figli nascondendoli nei boschi. Tra mille
difficoltà la Croce rossa ne contò 28296. Nell'estate del 1948, dopo
la rottura tra Tito e il Cominform, una parte (11 mila) dei bambini
trattenuti in Iugoslavia furono trasferiti, nonostante le proteste del
governo greco, in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. Il 17
novembre 1948 la Terza Assemblea dell'ONU approvò una risoluzione di
condanna del rapimento dei bambini greci. Nel novembre 1949 fu
l'Assemblea generale dell'ONU a chiedere il loro ritorno in patria.
Come queste, anche tutte le decisioni successive dell'ONU rimasero
senza risposta: i regimi comunisti confinanti insistevano a dire che
presso di loro questi bambini si trovavano in condizioni di vita
migliori che in Grecia; in poche parole, volevano far credere che
questa deportazione fosse un gesto umanitario.
Eppure l'esilio forzato dei bambini greci era caratterizzato da una
miseria, da una malnutrizione e da epidemie tali che molti morirono.
Riuniti in «villaggi per bambini», erano costretti a seguire corsi di
istruzione politica oltre che quelli di cultura generale. A partire
dai 13 anni erano obbligati a svolgere lavori pesanti come dissodare i
campi nelle regioni paludose dello Hartchag, in Ungheria. Lo scopo
recondito dei dirigenti comunisti era quello di formare una nuova
generazione di militanti di assoluta devozione. Il fallimento fu
totale. Nel 1956 un greco di nome Constantinides sarebbe caduto
combattendo contro i russi a fianco degli ungheresi. Altri riuscirono
a fuggire dalla Germania Est.
Tra il 1950 e il 1952 furono restituiti alla Grecia solo 684 bambini.
Nel 1963 ne erano stati rimpatriati circa 4 mila (di cui alcuni nati
nei paesi comunisti). In Polonia la comunità greca era composta da
varie migliaia di individui all'inizio degli anni Ottanta; alcuni
aderirono al sindacato Solidarnosc e finirono in prigione dopo il
colpo di Stato del generale Jaruzelski. Dopo il 1989, con il processo
di democratizzazione, parecchie migliaia di greci polacchi tornarono
in Grecia.]