Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusione:
3.
IL TERRORE ROSSO
Il 3 agosto 1918 l'ambasciatore tedesco a Mosca, Karl Helfferich,
riferiva al suo governo: «I bolscevichi dicono apertamente di avere i
giorni contati. Mosca è in preda a un vero e proprio panico... Corrono
le voci più pazze sui "traditori" che si sarebbero introdotti in
città».
I bolscevichi non avevano mai sentito così minacciato il loro potere come nell'estate del 1918. In effetti il loro controllo era limitato a un territorio che comprendeva la sola Moscovia storica, contrapposta a tre fronti antibolscevichi ormai consolidati: uno nella regione del Don, occupata dalle truppe cosacche dell'atamano Krasnov e dall'Armata bianca del generale Denikin; il secondo in Ucraina, tenuto dai tedeschi e dalla Rada, il governo nazionale ucraino; il terzo lungo la Transiberiana, dove la maggior parte delle grandi città era nelle mani della Legione ceca, la cui offensiva era appoggiata dal governo socialista rivoluzionario di Samara.
Nelle regioni più o meno controllate dai bolscevichi, nell'estate del 1918 scoppiarono circa 140 rivolte e insurrezioni di ampia portata. Le più frequenti riguardavano comunità di villaggio che si opponevano alle requisizioni condotte con brutalità dalle squadre di vettovagliamento, alle limitazioni imposte al commercio privato, alle nuove campagne di reclutamento dell'Armata rossa. Folle di contadini inferociti convergevano sulla città più vicina, assediavano il soviet locale, a volte cercavano di incendiarlo. Quasi immancabilmente gli incidenti degeneravano: le truppe, le milizie incaricate di mantenere l'ordine e - sempre più spesso - i reparti cekisti non esitavano a sparare sui manifestanti.
I dirigenti bolscevichi interpretavano questi scontri, di giorno in giorno sempre più numerosi, come una vasta congiura controrivoluzionaria, ordita dai «kulak travestiti da Guardie bianche» contro il loro potere.
Il 9 agosto 1918 Lenin telegrafò al presidente del Comitato esecutivo del Soviet di Niznij-Novgorod, che gli aveva dato notizia di incidenti scatenati da contadini per protesta contro le requisizioni: «A Niznij- Novgorod evidentemente si prepara una rivolta di Guardie bianche. Bisogna tendere tutte le forze, costituire un triumvirato, instaurare "subito" il terrore di massa, "fucilare e portar via" centinaia di prostitute, le quali ubriacano i soldati, gli ex ufficiali eccetera.
Neanche un minuto di indugio. Bisogna agire con la massima energia: perquisizioni in massa. Fucilazione per chi è in possesso di armi. Deportazione in massa dei menscevichi e degli elementi infidi». Il giorno dopo, 10 agosto, Lenin spedì un secondo telegramma, di analogo tenore, al Comitato esecutivo del Soviet di Penza:
"Compagni! L'insurrezione dei kulak nei vostri cinque distretti
dev'essere soffocata senza pietà. Lo esigono gli interessi della
rivoluzione intera, perché ormai è cominciata dappertutto la
«battaglia finale» contro i kulak. Bisogna dare un esempio. 1.
Impiccare (e dico impiccare "in modo che tutti vedano") non meno di
100 kulak, ricconi, notori succhiasangue. 2. Pubblicarne i nomi. 3.
Appropriarsi di tutto il loro grano. 4. Individuare gli ostaggi, come
abbiamo scritto nel nostro telegramma di ieri. Fate così in modo che
tutti lo vedano, per centinaia di leghe tutto intorno, e tremino, e
pensino: questi ammazzano e continueranno ad ammazzare i kulak
assetati di sangue. Telegrafate che avete ricevuto ed eseguito queste
istruzioni. Vostro Lenin.
P.S. Trovate elementi più duri".
In effetti, come attesta la lettura attenta dei rapporti cekisti sulle rivolte dell'estate del 1918, a quanto pare le sole che fossero state preparate in anticipo erano le sommosse di Jaroslavl', Rybinsk e Murom, organizzate dall'Unione di difesa della patria di Boris Savinkov, dirigente socialista rivoluzionario, e la rivolta degli operai delle fabbriche di armi di Izevsk, ispirata dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari del luogo. Tutte le altre insurrezioni nacquero in modo spontaneo, e il loro elemento scatenante fu sempre dovuto a incidenti in cui erano coinvolte comunità contadine che resistevano alle requisizioni o all'arruolamento. Furono tutte soffocate con ferocia in pochi giorni da reparti fidati dell'Armata rossa o della Ceka. Poté resistere una quindicina di giorni soltanto la città di Jaroslavl', dove il potere bolscevico locale era stato rovesciato dalle truppe di Savinkov; dopo che i ribelli si furono arresi Dzerzinskij mandò a Jaroslavl' una «commissione speciale di inchiesta», la quale, nei cinque giorni fra il 24 e il 28 luglio 1918, fece eseguire 428 condanne a morte.
Per tutto l'agosto del 1918, ossia prima del 3 settembre, quando fu «ufficialmente» proclamato il Terrore rosso, i dirigenti bolscevichi, Lenin e Dzerzinskij in testa, spedirono un gran numero di telegrammi ai locali responsabili della Ceka o del Partito, in cui si esigevano «misure preventive» per arginare ogni tentativo di insurrezione. Fra le altre, come spiegava Dzerzinskij, «le più efficaci sono la cattura di ostaggi scelti nella borghesia sulla base delle liste da voi compilate per i contributi straordinari imposti ai borghesi ... l'arresto e la reclusione in campi di concentramento di tutti gli ostaggi e i sospetti». L'8 agosto Lenin incaricò Cjurupa, commissario del popolo per l'Approvvigionamento, di stilare un decreto in base al quale «in ogni distretto cerealicolo, venticinque ostaggi scelti fra gli abitanti più facoltosi rispondano con la loro vita della mancata attuazione del piano di requisizione». Poiché Cjurupa aveva fatto orecchi da mercante, con il pretesto che organizzare un simile arresto di ostaggi sarebbe stato difficile, Lenin gli spedì un secondo messaggio, ancor più esplicito: «Non intendo suggerire che gli ostaggi debbano essere catturati, ma che siano "indicati per nome" in ciascun distretto. Lo scopo di una tale individuazione è che i ricchi rispondano con la vita dell'immediata attuazione del piano di requisizione relativo al loro distretto, così come sono tenuti a risponderne per la loro singola quota».
Nell'agosto del 1918, oltre al sistema degli ostaggi, i dirigenti bolscevichi sperimentarono un secondo strumento di repressione nato nella Russia in guerra: il campo di concentramento. Il 9 agosto 1918 Lenin telegrafò al Comitato esecutivo della provincia di Penza ordinando di «applicare implacabile terrore di massa contro kulak, pope e Guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori città». Pochi giorni prima, anche Dzerzinskij e Trotsky avevano prescritto che gli ostaggi fossero rinchiusi in «campi di concentramento». Si trattava di campi di internamento dove dovevano essere collocati gli «elementi equivoci» con un semplice provvedimento amministrativo e senza processo. In Russia, come negli altri paesi in conflitto, esistevano numerosi campi dove erano stati internati i prigionieri di guerra.
Fra gli «elementi equivoci» destinati all'arresto preventivo figuravano in primo luogo i responsabili politici dei partiti d'opposizione ancora in libertà. Il 15 agosto 1918 Lenin e Dzerzinskij firmarono il mandato di arresto dei principali dirigenti del Partito menscevico: Martov, Dan, Potresov, Gol'dman, mentre gli organi di stampa di quel partito erano già stati messi a tacere e i suoi rappresentanti espulsi dai soviet.
I dirigenti bolscevichi non riconoscevano più alcuna differenza fra le svariate categorie di avversari, perché - secondo loro - il conflitto in cui combattevano era una guerra civile che aveva leggi proprie, come essi stessi spiegavano.
Il 23 agosto 1918 Lacis, uno dei principali collaboratori di Dzerzinskij, scriveva sull'«Izvestija»:
"La guerra civile non ha leggi scritte. La guerra capitalista ha le sue leggi scritte ... ma la guerra civile ha leggi proprie ... Oltre a distruggere le forze attive del nemico, bisogna anche mostrare che chi brandisce la spada contro l'ordine di classe esistente perirà di spada. Sono queste le regole da sempre osservate dalla borghesia, nelle guerre civili che essa ha condotto contro il proletariato.... Non abbiamo ancora assimilato a sufficienza tali regole. I nostri vengono uccisi a centinaia e a migliaia. Noi giustiziamo i loro a uno a uno, dopo lunghi dibattimenti davanti a commissioni e tribunali. Nella guerra civile non ci sono tribunali per il nemico. E' un duello all'ultimo sangue: se non uccidi, sarai ucciso. Dunque uccidi, se non vuoi essere ucciso!".
Il 30 agosto 1918 i dirigenti bolscevichi, convinti che una vera e propria congiura minacciasse addirittura la loro sopravvivenza, furono confermati in questa idea da due attentati, uno contro M. S. Urickij, capo della Ceka di Pietrogrado, l'altro contro Lenin. In realtà non c'era nessun rapporto fra i due. Il primo, appartenente alla più pura tradizione del terrorismo rivoluzionario populista, era stato commesso da un giovane studente che voleva vendicare la morte di un amico ufficiale, giustiziato pochi giorni prima dalla Ceka pietrogradese. Quanto al secondo attentato, quello contro Lenin, che è stato a lungo attribuito a Fannie Kaplan (una militante vicina agli ambienti anarchici e socialisti rivoluzionari, arrestata sul momento e giustiziata senza processo tre giorni dopo), oggi sembra ormai certo che si sia trattato invece di una provocazione organizzata dalla Ceka e sfuggita di mano agli istigatori. Il governo bolscevico attribuì subito gli attentati ai «socialisti rivoluzionari di destra, lacchè dell'imperialismo francese e inglese». Fin dal giorno successivo furono pubblicati articoli di giornale e dichiarazioni ufficiali che esigevano a gran voce la proclamazione di un'offensiva di terrore. La «Pravda» del 31 agosto 1918 dichiarava: «Lavoratori, per noi è giunta l'ora di annientare la borghesia, altrimenti essa vi annienterà. Le città devono essere ripulite con implacabile determinazione da tutto il marcio borghese. Tutti questi signori saranno schedati, e quelli che rappresentano un pericolo per la causa rivoluzionaria sterminati.... L'inno della classe operaia sarà un canto di odio e di vendetta!»
Lo stesso giorno Dzerzinskij e il suo vice, Peters, redassero un "Appello alla classe operaia" animato da spirito analogo: «Che la classe operaia schiacci l'idra della controrivoluzione con il terrore di massa! Lo sappiano i nemici della classe operaia: ogni individuo arrestato che sia trovato illecitamente in possesso di un'arma sarà giustiziato all'istante, ogni individuo che osi fare la minima propaganda contro il regime sovietico sarà subito arrestato e rinchiuso in campo di concentramento!». L'appello comparve sull'«Izvestija» del 3 settembre; il giorno successivo fu pubblicata una direttiva inviata a tutti i soviet da G. I. Petrovskij, commissario del popolo per l'Interno: Petrovskij lamentava il fatto che, nonostante la «repressione di massa» esercitata dai nemici del regime contro le «masse operaie», il Terrore rosso tardasse a manifestarsi:
"E' ormai l'ora di farla finita con tutte queste mollezze e sentimentalismi. Tutti i socialisti rivoluzionari di destra devono essere immediatamente arrestati. Si deve prendere un grande numero di ostaggi nella borghesia e tra gli ufficiali. Di fronte alla minima resistenza si dovrà ricorrere alle esecuzioni in massa. In questo campo i comitati esecutivi di provincia devono dare prova di spirito d'iniziativa. Le Ceka e le altre milizie devono individuare e arrestare tutti i sospetti, giustiziando immediatamente chiunque risulti compromesso in attività.... I responsabili dei comitati esecutivi devono immediatamente informare il commissariato del popolo per gli Interni di ogni circostanza in cui i soviet locali abbiano manifestato mollezza o indecisione.... Nell'attuare il terrore di massa non si possono tollerare debolezze o esitazioni".
Questo telegramma, che segna l'inizio ufficiale del Terrore rosso su larga scala, confuta l'argomentazione presentata a posteriori da Dzerzinskij e da Peters, secondo cui «il Terrore rosso, espressione della generale e spontanea indignazione delle masse contro gli attentati del 30 agosto 1918, si scatenò senza la minima direttiva centrale». In realtà il Terrore rosso era il naturale sbocco di un odio quasi astratto nutrito dalla maggioranza dei dirigenti bolscevichi verso gli «oppressori», che essi erano pronti a liquidare non individualmente ma «in quanto classe». Il dirigente menscevico Rafail Abramovic riporta nelle sue memorie un dialogo quanto mai rivelatore che nell'agosto del 1917 aveva avuto con Feliks Dzerzinskij, futuro capo della Ceka.
"«Abramovic, ti ricordi il discorso di Lassalle sull'essenza di una Costituzione?» «Certo.» «Diceva che ogni Costituzione era determinata dal rapporto fra le forze sociali in un certo paese e in un dato momento. Mi chiedo come potrebbe cambiare questa correlazione fra il politico e il sociale.» «Be', attraverso i vari processi di evoluzione economica e politica, con l'emergenza di nuove forme economiche, l'ascesa di determinate classi sociali eccetera, tutte cose che tu conosci perfettamente, Feliks.» «Sì, ma non si potrebbe cambiare questa correlazione in maniera radicale? Per esempio assoggettando o sterminando determinate classi della società?»".
Non erano pochi i bolscevichi che condividevano una simile crudeltà fredda, calcolata, cinica, nata dall'estremizzazione della logica implacabile della «guerra di classe». Nel settembre 1918 uno dei principali dirigenti bolscevichi, Grigorij Zinov'ev, dichiarò: «Per distruggere i nostri nemici dobbiamo avere il nostro proprio terrore socialista. Dobbiamo tirare dalla nostra parte, diciamo, novanta sui cento milioni di abitanti della Russia sovietica. Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dirgli. Devono essere annientati».
Il 5 settembre il governo sovietico legalizzò il terrore con il famoso decreto «Sul Terrore rosso»: «Nella situazione attuale è assolutamente vitale rafforzare la Ceka ... proteggere la Repubblica sovietica contro i nemici di classe, isolandoli in campi di concentramento, fucilando sull'istante ogni individuo implicato nelle organizzazioni delle Guardie bianche, nei complotti, in insurrezioni o sommosse, e pubblicando i nomi dei fucilati insieme alle ragioni per cui sono stati passati per le armi». In seguito Dzerzinskij lo riconobbe: «Finalmente i testi del 3 e del 5 settembre 1918 ci conferivano legalmente ciò che fino a quel momento persino alcuni compagni del Partito ci avevano contestato, il diritto di farla finita su due piedi con la feccia controrivoluzionaria, senza doverne riferire a nessuno». In una circolare interna datata 17 settembre, Dzerzinskij invitò tutte le Ceka locali ad «accelerare le procedure e a concludere, ossia a "liquidare", le faccende in sospeso». A dire il vero, le «liquidazioni» erano già iniziate dal 31 agosto. Il 3 settembre l'«Izvestija» riferì che nei giorni precedenti la Ceka di Pietrogrado aveva giustiziato oltre 500 ostaggi. Secondo fonti cekiste, nel settembre del 1918 a Pietrogrado sarebbero state giustiziate 800 persone, una cifra pesantemente inferiore alla realtà. Un testimone dei fatti riferì i seguenti particolari: «Per Pietrogrado un calcolo superficiale dà un totale di 1300 esecuzioni.... Nelle loro "statistiche" i bolscevichi non contano le centinaia di ufficiali e civili fucilati a Kronstadt per ordine delle autorità locali. Soltanto a Kronstadt, in una sola notte furono fucilate 400 persone; si scavarono tre grandi fosse nel cortile, 400 persone furono allineate davanti allo scavo e giustiziate una dopo l'altra». Peters, il braccio destro di Dzerzinskij, in un'intervista rilasciata al giornale «Utro Moskvy» il 3 novembre 1918 riconobbe che «a Pietrogrado i cekisti di cuore tenero [sic] alla fine hanno perso la testa e hanno esagerato. Prima dell'assassinio di Urickij non era stato giustiziato nessuno - e credetemi, nonostante tutto quel che si vuole sostenere, io non sono così sanguinario come si dice - mentre dopo ci sono state un po' troppe esecuzioni, e spesso senza discernimento. Ma da parte sua Mosca ha risposto all'attentato a Lenin limitandosi a giustiziare un po' di ministri dello zar». Sempre secondo l'«Izvestija», il 3 e 4 settembre a Mosca furono passati per le armi «soltanto» 29 ostaggi, appartenenti al «blocco della controrivoluzione». Fra questi si contavano due ex ministri di Nicola Secondo, A. N. Hvostov (Interni) e I. Sceglovitov (Giustizia). Tuttavia, molte testimonianze riferiscono di centinaia di esecuzioni avvenute nelle prigioni moscovite durante i «massacri di settembre».
In questa epoca di Terrore rosso, Dzerzinskij fece pubblicare un giornale, «Ezenedel'nik V.C.K.» (Il settimanale della Ceka), che aveva l'esplicito compito di vantare i meriti della polizia politica e di rinfocolare il «giusto desiderio di vendetta delle masse». Nelle sei settimane precedenti la sua soppressione, decisa dal Comitato centrale in un momento in cui la Ceka era contestata da un certo numero di dirigenti bolscevichi, il giornale riferì senza mascherature né pudori gli arresti di ostaggi, gli internamenti nei campi di concentramento, le esecuzioni capitali eccetera. In questo settimanale, che costituisce una fonte ufficiale e "a minima" del Terrore rosso per i mesi di settembre e ottobre del 1918, si legge che la Ceka di Niznij- Novgorod, particolarmente pronta nel rispondere agli ordini di Nikolaj Bulganin (destinato a diventare capo dello Stato sovietico dal 1954 al 1957), dal 31 agosto in poi aveva giustiziato 141 ostaggi; in tre giorni, in questa città russa di medie dimensioni, ne erano stati arrestati 700. Da Vjatka la Ceka regionale degli Urali, evacuata da Ekaterinburg, riferiva che in una settimana erano stati giustiziati 23 «ex poliziotti», 154 «controrivoluzionari», 8 «monarchici», 28 «membri del Partito costituzionaldemocratico», 186 «ufficiali», 10 «menscevichi e S.R. di destra». La Ceka di Ivanovo-Voznesensk annunciava che erano stati presi 181 ostaggi e giustiziati 25 «controrivoluzionari», ed era stato costruito un «campo di concentramento di mille posti». Per la Ceka della cittadina di Sebezck si citavano «16 kulak passati per le armi e un prete che aveva celebrato una messa per il sanguinario tiranno Nicola Secondo»; per la Ceka di Tver', 130 ostaggi catturati e 39 esecuzioni capitali; per la Ceka di Perm', 50 esecuzioni. Il macabro catalogo, ricavato dai sei numeri usciti dell'«Ezenedel'nik V.C.K», potrebbe continuare.
Per tutto l'autunno del 1918 anche altri giornali provinciali riferirono di migliaia di arresti e di esecuzioni. Citiamo soltanto due esempi. L'unico numero uscito di «Izvestija Caricynskoj Gubceka» (Notizie della Ceka della provincia di Caricyn) per la settimana dal 3 al 10 settembre 1918 parlava di 103 persone giustiziate. Fra il primo e l'8 novembre 1918 sfilarono davanti al tribunale locale della Ceka 371 persone: 50 furono condannate a morte, le altre a essere «rinchiuse in un campo di concentramento, come misura preventiva e in qualità di ostaggi, fino alla completa liquidazione di tutte le insurrezioni controrivoluzionarie». Il numero unico dell'«Izvestija Penzenskoj Gubceka» (Notizie della Ceka della provincia di Penza) riferiva, senz'altro commento: «Per l'assassinio del compagno Egorov, operaio di Pietrogrado comandato in un distaccamento di requisizione, sono state giustiziate dalla Ceka 152 Guardie bianche. Altri provvedimenti ancor più rigorosi [sic] saranno presi in futuro contro tutti coloro che si leveranno in armi contro il braccio armato del proletariato».
I rapporti confidenziali ("svodka") inviati a Mosca dalle Ceka locali, da poco tempo aperti alla consultazione, confermano peraltro la brutalità con la quale fin dall'estate del 1918 furono repressi i minimi incidenti che scoppiavano fra le comunità contadine e le autorità locali, in genere per il rifiuto delle requisizioni o della coscrizione obbligatoria: erano catalogati in modo sistematico come «sommosse di kulak controrivoluzionari» e soffocati senza pietà. Sarebbe vano tentare di stabilire il numero di vittime provocate dalla prima grande ondata di Terrore rosso. Secondo Lacis, uno fra i principali dirigenti della Ceka, negli ultimi sei mesi del 1918 la Ceka avrebbe giustiziato 4500 persone; non senza cinismo, Lacis soggiungeva: «Se si può muovere un'accusa alla Ceka, non è davvero per eccesso di zelo nell'eseguire le condanne capitali, ma piuttosto per l'insufficiente applicazione dei provvedimenti supremi di pena. Il pugno di ferro provoca sempre una minore quantità di vittime».
Alla fine dell'ottobre del 1918 il dirigente menscevico Julij Martov calcolava che dai primi di settembre in poi si fossero avute oltre 10 mila vittime cadute direttamente per mano della Ceka.
Qualunque sia l'esatto numero delle vittime del Terrore rosso nell'autunno 1918 (e basta sommare le cifre delle esecuzioni riportate sulla stampa per concludere che non può essere inferiore a 10 mila-15 mila), questo episodio rappresenta la definitiva consacrazione di una prassi bolscevica: trattare ogni forma di contestazione, reale o potenziale, nel quadro di una guerra civile senza possibilità di tregua e soggetta, per citare la formula di Lacis, a «leggi proprie». Bastava che scoppiasse uno sciopero, come accadde per esempio ai primi di novembre del 1918 nella fabbrica di armi di Motoviliha, nella provincia di Perm' (dove gli operai protestavano contro il principio bolscevico del razionamento «in base all'origine sociale» e contro gli abusi della Ceka locale), perché la fabbrica intera fosse subito dichiarata dalle autorità «in stato di insurrezione». Con gli scioperanti non si trattava: la reazione era la serrata, il licenziamento di tutti gli operai, l'arresto dei «sobillatori», la ricerca dei «controrivoluzionari» menscevichi che si presumeva fossero all'origine dello sciopero. Tali pratiche erano certo diventate correnti dall'estate 1918 in poi. Tuttavia in autunno la Ceka locale, ormai ben strutturata e «pungolata» dagli appelli alla strage lanciati dal Centro, andò più in là nella repressione: furono giustiziati oltre 100 scioperanti senza sottoporli a nessuna forma di processo.
La dimensione stessa del fenomeno - da 10 mila a 15 mila esecuzioni sommarie in due mesi - segna già a questo punto un vero e proprio salto di qualità rispetto all'epoca zarista. Basta ricordare che per l'intero periodo fra il 1825 e il 1917 le sentenze di morte pronunciate dai tribunali zaristi (corti marziali comprese) in tutti i processi che avessero qualche «rapporto con l'ordine politico» erano arrivate a 6231, con una punta di 1310 condanne a morte nel 1906, anno della reazione contro i rivoluzionari del 1905. In poche settimane la Ceka da sola aveva giustiziato un numero di persone da due a tre volte superiore rispetto a quanti l'impero zarista ne avesse condannati a morte in novantadue anni; peraltro costoro, oggetto di una sentenza pronunciata al termine di un procedimento legale, non furono tutti giustiziati, perché in molti casi la pena fu commutata in una condanna ai lavori forzati.
Il salto di qualità era ben più che una pura e semplice questione di cifre. L'introduzione di categorie nuove, come «sospetto», «nemico del popolo», «ostaggio», «campo di concentramento», «tribunale rivoluzionario», di pratiche inedite come la «reclusione preventiva» o l'esecuzione sommaria, senza processo, di centinaia e migliaia di persone arrestate da una polizia politica di tipo nuovo, al di sopra delle leggi, costituiva una vera e propria rivoluzione copernicana in questo ambito.
Una simile rivoluzione era qualcosa a cui alcuni dirigenti bolscevichi non erano preparati, come testimonia la polemica scoppiata fra l'ottobre e il dicembre del 1918 nel loro gruppo circa il ruolo della Ceka. In assenza di Dzerzinskij (partito in incognito per la Svizzera, dove sarebbe rimasto un mese a rigenerarsi nel corpo e nella mente), il 25 ottobre 1918 il Comitato centrale del Partito bolscevico discusse un nuovo statuto per la Ceka. Mentre criticavano «i pieni poteri lasciati a una organizzazione che pretende di operare al di sopra dei soviet e dello stesso Partito», Buharin, Olminskij, un veterano del partito, e Petrovskij, commissario del popolo per gli Interni, chiesero che si prendessero provvedimenti per arginare «gli eccessi di zelo di una organizzazione affollata di criminali e di sadici, di elementi degenerati del Lumpenproletariat». Fu costituita una commissione di controllo politico, un membro della quale, Kamenev, arrivò a proporre la pura e semplice abolizione della Ceka.
Ben presto, però, ebbero di nuovo la meglio i suoi fautori incondizionati: fra questi ultimi, oltre a Dzerzinskij, si contavano i vertici del Partito, come Sverdlov, Stalin, Trotsky e, beninteso, Lenin, il quale prese risolutamente le difese di una istituzione «attaccata non solo dai nemici, ma spesso anche dagli amici.... Ciò che mi sorprende ... è l'incapacità di impostare il problema secondo una prospettiva più ampia». Il 19 dicembre 1918, su proposta di Lenin, il Comitato centrale approvò una risoluzione che vietava alla stampa bolscevica di pubblicare «articoli calunniosi sulle istituzioni, specialmente sulla Ceka, che opera in condizioni di particolare difficoltà». Così il dibattito era chiuso: il «braccio armato della dittatura del proletariato» aveva ricevuto il suo brevetto di infallibilità. Come disse Lenin, «il buon comunista è anche buon cekista».
Ai primi del 1919 Dzerzinskij ottenne dal Comitato centrale la costituzione di dipartimenti speciali della Ceka ai quali affidare la sicurezza militare. Il 16 marzo 1919 fu nominato commissario del popolo per l'Interno e sotto l'egida della Ceka intraprese la riorganizzazione di tutte le milizie, truppe, distaccamenti e unità ausiliarie fino a quel momento dipendenti da amministrazioni diverse. Nel maggio del 1919 queste unità - milizie ferroviarie, squadre di vettovagliamento, guardie di frontiera, battaglioni cekisti - furono tutte riunite in un corpo speciale, le Truppe di difesa interna della Repubblica, che nel 1921 sarebbero arrivate a contare 200 mila effettivi. Tali truppe avevano l'incarico di assicurare la sorveglianza di campi, stazioni e altri punti strategici, di svolgere operazioni di requisizione ma anche e soprattutto di reprimere le rivolte contadine, le sommosse operaie e gli ammutinamenti dell'Armata rossa. Unità speciali della Ceka e Truppe di difesa interna della Repubblica, ossia in totale circa 200 mila uomini, rappresentavano una forza formidabile di controllo e di repressione, un vero e proprio esercito inserito in una Armata rossa minata dalle diserzioni, che non arrivò mai, sebbene in teoria contasse un numero di effettivi elevatissimo (da tre a cinque milioni di uomini), a schierare più di 500 mila soldati con equipaggiamento completo.
Uno dei primi decreti del nuovo commissario del popolo per gli Interni riguardava le modalità di organizzazione dei campi, che esistevano dall'estate del 1918 senza la minima regolamentazione o base giuridica. Il Decreto del 15 aprile 1919 li distingueva in due tipi: i «campi di lavoro forzato» nei quali, in linea di principio, erano internati coloro che erano stati condannati da un tribunale, e i «campi di concentramento» in cui erano raggruppate le persone incarcerate, perlopiù come «ostaggi», in base a una semplice ordinanza amministrativa. In realtà le distinzioni fra i due tipi di campo rimasero in larga misura teoriche, come attesta la circolare esplicativa del 17 maggio 1919 che, oltre a stabilire la costituzione di «almeno un campo in ogni provincia, della capacità minima di trecento posti», prevedeva la stesura di una lista tipo con sedici categorie di persone destinate all'internamento. Fra queste figuravano le tipologie più disparate, quali «ostaggi provenienti dall'alta borghesia», «funzionari del vecchio regime fino al rango di assessore di collegio, procuratore, e loro sostituti, sindaci e vicesindaci delle città capoluogo di distretto», «soggetti che sotto il regime sovietico abbiano subito condanne, di qualsiasi entità, per reati di parassitismo, prossenetismo, prostituzione», «disertori ordinari (non recidivi) e soldati prigionieri della guerra civile» eccetera.
Tra il 1919 e il 1921 il numero degli internati nei campi di lavoro o di concentramento ebbe una crescita costante, dai circa 16 mila nel maggio del 1919 agli oltre 70 mila del settembre del 1921. Tali cifre non tengono conto di un certo numero di campi allestiti nelle regioni insorte contro il potere sovietico. Così, nell'estate del 1921, per la sola provincia di Tambov, nei sette campi di concentramento organizzati dalle autorità che avevano il compito di reprimere l'insurrezione contadina si contavano almeno 50 mila «banditi» e «familiari dei banditi trattenuti come ostaggi».
4.
LA «SPORCA GUERRA».
La guerra civile in Russia è stata quasi sempre analizzata come un
conflitto fra i Rossi (bolscevichi) e i Bianchi (monarchici). In
realtà, se si prescinde dagli scontri militari fra due eserciti -
l'Armata rossa e le diverse unità che costituivano l'Armata bianca,
piuttosto eterogenea - gli avvenimenti più importanti accaddero senza
dubbio dietro le linee del fronte, che si spostavano con estrema
facilità. Questa dimensione della guerra civile, definita «fronte
interno», è caratterizzata dalle varie forme di repressione esercitate
dal potere costituito dei Bianchi e dei Rossi (la repressione rossa
era molto più generale e sistematica) contro i militanti politici dei
partiti o dei gruppi di opposizione, gli operai che scioperavano per
rivendicare una serie di diritti, i disertori che evitavano
l'arruolamento o fuggivano dalle loro unità, o semplicemente contro
cittadini appartenenti a una classe sociale sospetta o «ostile», la
cui unica colpa consisteva nel fatto di trovarsi in una città o in un
borgo riconquistato al «nemico». La lotta sul fronte interno della
guerra civile consistette anche e soprattutto nella resistenza opposta
da milioni di contadini, ribelli e disertori, che sia i Rossi sia i
Bianchi chiamavano «Verdi»: la loro funzione fu determinante per
l'avanzata o la sconfitta di uno schieramento o dell'altro.
Per esempio, durante l'estate del 1919 nel Medio Volga e in Ucraina
scoppiarono violente rivolte contadine contro il potere bolscevico,
che permisero all'ammiraglio Kolciak e al generale Denikin di sfondare
le linee bolsceviche per centinaia di chilometri. Analogamente, alcuni
mesi dopo, l'insurrezione dei contadini siberiani - esasperati per il
ripristino dei diritti dei proprietari terrieri - accelerò la disfatta
dell'ammiraglio bianco Kolciak di fronte all'Armata rossa.
Anche se le operazioni militari di una certa portata fra Bianchi e Rossi durarono soltanto un anno, dalla fine del 1918 all'inizio del 1920, quella che di solito viene chiamata «guerra civile» fu in realtà una «sporca guerra», una guerra di pacificazione condotta dalle svariate autorità militari o civili, rosse o bianche, contro tutti gli avversari, potenziali o reali, nelle zone controllate temporaneamente dai rispettivi schieramenti. Nelle regioni occupate dai bolscevichi assunse la forma di «lotta di classe» contro gli «aristocratici», i borghesi, gli «elementi estranei alla società», di caccia ai militanti di tutti i partiti non bolscevichi, e di repressione degli scioperi operai, degli ammutinamenti di unità poco affidabili dell'Armata rossa e delle rivolte contadine. Nelle zone occupate dai Bianchi si concretizzò nella caccia agli elementi sospettati di simpatizzare per i «giudeo-bolscevichi».
I bolscevichi non avevano il monopolio del terrore. Esisteva anche un Terrore bianco, che si manifestò con particolare virulenza con l'ondata di pogrom perpetrati in Ucraina durante l'estate e l'autunno del 1919 da alcuni distaccamenti dell'esercito di Denikin e alcune unità di Petlura, pogrom in cui perirono quasi 150 mila persone. Ma, come ha osservato la maggior parte degli storici del Terrore rosso e bianco durante la guerra civile russa, questi due fenomeni non possono essere messi sullo stesso piano. La politica bolscevica del terrore fu più metodica e organizzata; venne teorizzata e messa in atto contro interi gruppi sociali molto prima della guerra civile. Il Terrore bianco non ebbe mai carattere sistematico. Riguardò quasi sempre dei distaccamenti senza controllo, sottrattisi all'autorità di un comando militare che cercava senza molto successo di assumere le funzioni del governo. Se si eccettuano i pogrom, che furono condannati da Denikin, il Terrore bianco si limitò quasi sempre a una repressione poliziesca analoga a quella esercitata da un servizio di controspionaggio militare. Rispetto al controspionaggio delle unità bianche, la Ceka e le Truppe di difesa interna della Repubblica costituivano uno strumento di repressione assai più strutturato e potente, al quale il regime bolscevico accordava la massima priorità.
Come sempre accade per le guerre civili, è difficile tracciare un bilancio completo delle forme di repressione e dei tipi di terrore perpetrati dagli opposti schieramenti. Il terrore bolscevico, il solo di cui parleremo qui, può essere classificato adeguatamente in base a molte tipologie. Fu assai anteriore alla guerra civile propriamente detta, che si sviluppò solo a partire dalla fine dell'estate del 1918, e aveva i propri metodi, le proprie peculiarità e i propri bersagli privilegiati. Abbiamo scelto uno schema esemplificativo che individua, nella continuità di una evoluzione di cui è possibile seguire il corso fin dai primi mesi del regime, i principali gruppi di vittime sottoposti a una repressione coerente e sistematica:
- i militanti politici non bolscevichi, dagli anarchici ai monarchici;
- gli operai in lotta per la difesa dei diritti più elementari: pane,
lavoro, un minimo di libertà e di dignità;
- i contadini, spesso disertori, coinvolti in qualcuna delle
innumerevoli insurrezioni contadine o negli ammutinamenti di unità
dell'Armata rossa;
- i cosacchi, deportati in massa poiché come gruppo sociale ed etnico
erano considerati ostili al regime sovietico. La «decosacchizzazione»
prefigura le grandi operazioni di deportazione degli anni Trenta
(«dekulakizzazione», deportazione di gruppi etnici), e mette in luce
la continuità della fase leniniana e di quella staliniana in materia
di politica repressiva;
- gli «elementi estranei alla società» e altri «nemici del popolo»,
«sospetti» e «ostaggi» liquidati «preventivamente», soprattutto
durante l'evacuazione di città da parte dei bolscevichi, o la
riconquista di città e territori occupati in precedenza dai Bianchi.
La repressione meglio nota di tutte è senz'altro quella che si abbatté sui militanti politici dei vari partiti di opposizione al regime bolscevico. Esistono numerose testimonianze dei principali dirigenti dei partiti di opposizione, che furono incarcerati e spesso esiliati, ma che in generale sopravvissero; non può dirsi lo stesso dei militanti operai e contadini di base, che venivano fucilati senza processo o massacrati nel corso di operazioni punitive della Ceka. Una delle prime azioni militari di quest'ultima fu l'assalto sferrato l'11 aprile 1918 contro gli anarchici di Mosca, molte decine dei quali vennero fucilati sul posto. Nel corso degli anni successivi la lotta contro gli anarchici non conobbe tregua, benché molti di essi fossero entrati nei ranghi bolscevichi; alcuni occuparono anche cariche importanti all'interno della Ceka, come Aleksandr Gol'dberg, Mihail Brener o Timofej Samsonov. La maggioranza degli anarchici avversava sia la dittatura bolscevica sia il ritorno dei fautori del vecchio regime, e quindi viveva un dilemma ben esemplificato dai voltafaccia del grande dirigente anarchico contadino Mahno, che dovette far causa comune con l'Armata rossa contro i Bianchi, e poi, una volta sventata la minaccia bianca, combattere contro i Rossi per cercare di difendere i propri ideali. Nel corso delle azioni repressive contro gli eserciti contadini di Mahno e dei suoi seguaci, migliaia di anonimi militanti anarchici furono giustiziati come «banditi». Secondo il bilancio della repressione bolscevica presentato a Berlino nel 1922 dagli anarchici russi in esilio, l'unico disponibile benché incompleto, la stragrande maggioranza delle vittime anarchiche fu costituita da quei contadini. Sempre secondo la stessa fonte, negli anni 1919-1921 furono giustiziati 138 militanti anarchici, 281 furono esiliati e 608 erano ancora in prigione il primo gennaio 1922.
I socialisti rivoluzionari di sinistra, che fino all'estate del 1918 erano alleati dei bolscevichi, beneficiarono di una relativa clemenza fino al febbraio del 1919. Nel dicembre del 1918 la loro leader storica, Marija Spiridonova, presiedette un congresso del suo partito tollerato dai bolscevichi. Il 10 febbraio 1919 fu arrestata insieme ad altri 210 militanti per aver criticato con vigore il terrore praticato quotidianamente dalla Ceka, e condannata dal Tribunale rivoluzionario alla «detenzione in sanatorio, essendone stata accertata la condizione isterica»: si tratta del primo esempio di reclusione di un avversario politico in un ospedale psichiatrico da parte del regime bolscevico; Marija Spiridonova riuscì a evadere e continuò a dirigere in clandestinità il Partito socialista rivoluzionario di sinistra, messo fuori legge dai bolscevichi. Secondo le fonti cekiste, nel 1919 furono smantellate 58 organizzazioni socialiste rivoluzionarie di sinistra, e 45 nel 1920. Durante questi due anni furono imprigionati come ostaggi 1875 militanti, in conformità alle direttive di Dzerzinskij, che il 18 marzo 1919 aveva dichiarato: «D'ora in poi la Ceka non farà più distinzioni fra Guardie bianche del tipo di Krasnov e Guardie bianche del campo socialista. ... Gli S.R. e i menscevichi arrestati saranno considerati ostaggi, e il loro destino dipenderà dal comportamento politico dei rispettivi partiti».
I bolscevichi avevano sempre considerato i socialisti rivoluzionari di destra i propri avversari politici più pericolosi. Nessuno aveva dimenticato che all'epoca delle libere elezioni a suffragio universale del novembre-dicembre del 1917 avevano riportato una larga maggioranza nel paese. Dopo lo scioglimento dell'Assemblea costituente, dove disponevano della maggioranza assoluta dei seggi, i socialisti rivoluzionari avevano continuato a far parte dei soviet e del Comitato esecutivo centrale dei soviet, da cui erano stati espulsi insieme ai menscevichi nel giugno del 1918. Con alcuni costituzionaldemocratici e menscevichi, una parte dei dirigenti socialisti rivoluzionari costituì allora a Samara e a Omsk dei governi effimeri, che di lì a poco vennero rovesciati dall'ammiraglio bianco Kolciak. Per socialisti rivoluzionari e menscevichi, presi fra due fuochi in mezzo a bolscevichi e Bianchi, risultò assai difficile stabilire una linea coerente di opposizione al regime bolscevico, che contro gli avversari socialisti moderati conduceva una politica abile, alternando alla repressione misure di conciliazione e manovre di infiltrazione. Il 31 marzo 1919, nel pieno dell'offensiva dell'ammiraglio Kolciak, dopo aver autorizzato il giornale socialista rivoluzionario «Delo Naroda» (La causa del popolo) a riprendere le pubblicazioni dal 20 al 30 marzo 1919, la Ceka eseguì un'imponente retata contro i militanti socialisti rivoluzionari e menscevichi, benché i loro partiti non fossero oggetto di alcuna interdizione legale. A Mosca, Tula, Smolensk, Voronez, Penza, Samara e Kostroma furono arrestati oltre 1900 militanti. Quanti ne furono giustiziati sommariamente durante la repressione degli scioperi e delle insurrezioni contadine, dove spesso menscevichi e socialisti rivoluzionari avevano un ruolo di primaria importanza? Non esistono molte cifre a riguardo, perché anche se si conosce, almeno approssimativamente, il numero delle vittime dei principali episodi di repressione censiti, si ignora la percentuale dei militanti politici coinvolti in tali massacri.
Dopo l'articolo pubblicato sulla «Pravda» del 28 agosto 1919, in cui Lenin criticava di nuovo gli S.R. e i menscevichi, «complici e lacchè dei Bianchi, dei proprietari terrieri e dei capitalisti», vi fu una seconda ondata di arresti. Secondo le fonti della Ceka, negli ultimi quattro mesi del 1919 furono arrestati 2380 fra socialisti rivoluzionari e menscevichi. Il 23 maggio 1920, durante un comizio organizzato dal sindacato dei tipografi in onore di una delegazione operaia inglese, il dirigente socialista rivoluzionario Viktor Cernov, che era stato presidente per un giorno della disciolta Assemblea costituente e veniva ricercato attivamente dalla polizia politica, prese la parola, travestito e sotto falso nome, mettendo in ridicolo la Ceka e il governo: in seguito a questo episodio la repressione contro i militanti socialisti riprese a pieno ritmo. Tutta la famiglia di Cernov fu presa in ostaggio e i dirigenti socialisti rivoluzionari ancora liberi vennero gettati in prigione. Nell'estate del 1920, dopo essere stati debitamente schedati, furono arrestati e incarcerati come ostaggi oltre 2000 militanti socialisti rivoluzionari e menscevichi. Un documento interno della Ceka, datato primo luglio 1920, spiegava con raro cinismo le linee generali dell'azione da seguire contro gli oppositori socialisti:
"Invece di mettere fuori legge tali partiti, facendoli piombare in una clandestinità che potrebbe essere difficile controllare, è assai preferibile mantenerli in una condizione di semilegalità. Infatti in questo modo è più agevole averli a portata di mano per estrarne, quando è necessario, fomentatori di sommosse, rinnegati e altri utili informatori.... Con questi partiti antisovietici bisogna approfittare assolutamente della situazione bellica attuale, per imputare ai loro membri crimini quali l'«attività controrivoluzionaria», l'«alto tradimento», la «disorganizzazione delle retrovie», lo «spionaggio a favore di una potenza straniera interventista» eccetera.
Uno degli aspetti della repressione celati con maggior cura dal nuovo regime fu la violenza esercitata contro il mondo operaio, in nome del quale i bolscevichi avevano preso il potere. Questa repressione, incominciata nel 1918, crebbe nel 1919 e nel 1920, e culminò nella primavera del 1921 con il famosissimo episodio di Kronstadt. Già all'inizio del 1918 la classe operaia di Pietrogrado aveva incominciato a manifestare la propria diffidenza verso i bolscevichi. Nell'ex capitale, dopo il fallimento dello sciopero generale del 2 luglio 1918, le sommosse scoppiarono con rinnovata intensità nel marzo del 1919, quando i bolscevichi arrestarono un certo numero di dirigenti socialisti rivoluzionari, fra cui Marija Spiridonova, che aveva appena concluso un giro memorabile delle principali fabbriche di Pietrogrado, ricevendo ovunque entusiastici consensi. In una congiuntura già estremamente tesa per le difficoltà di approvvigionamento, gli arresti causarono scioperi e un vasto movimento di protesta. Il 10 marzo 1919 l'assemblea generale degli operai delle officine Putilov alla presenza di 10 mila partecipanti approvò una dichiarazione di condanna solenne dei bolscevichi: «Questo governo non è nulla più di una dittatura del Comitato centrale del Partito comunista, che governa con l'aiuto della Ceka e dei tribunali rivoluzionari».
Nella dichiarazione si chiedeva il trasferimento di tutto il potere ai soviet, lo svolgimento di libere elezioni per i soviet e i comitati di fabbrica, la soppressione delle limitazioni sulla quantità di cibo che gli operai erano autorizzati a portare a Pietrogrado dalla campagna (1 pud e mezzo, ovvero 24 chilogrammi), il rilascio di tutti i prigionieri politici degli «autentici partiti rivoluzionari», e in particolare di Marija Spiridonova. Per tentare di frenare un movimento che si diffondeva ogni giorno di più, il 12 e 13 marzo 1919 Lenin si recò personalmente a Pietrogrado. Ma quando tentò di prendere la parola nelle fabbriche in sciopero occupate dagli operai, fu schernito insieme a Zinov'ev al grido di «Abbasso gli ebrei e i commissari!». L'antisemitismo popolare latente, sempre pronto a riaffiorare, associò immediatamente ebrei e bolscevichi non appena questi ultimi persero il credito di cui avevano momentaneamente goduto subito dopo la rivoluzione dell'ottobre del 1917. Il fatto che i dirigenti bolscevichi più noti fossero in buona parte ebrei (Trotsky, Zinov'ev, Kamenev, Rykov, Radek eccetera) giustificava agli occhi delle masse questa associazione bolscevichi-ebrei.
Il 16 marzo 1919 i distaccamenti della Ceka assaltarono le officine Putilov, difese con le armi in pugno. Furono arrestati circa 900 operai. Durante i giorni successivi, nella fortezza di Shlussel'burg, a una cinquantina di chilometri da Pietrogrado, ne furono giustiziati senza processo quasi 200. Gli scioperanti, tutti licenziati, vennero riassunti seguendo un nuovo rituale: dovevano firmare una dichiarazione in cui riconoscevano di essere stati ingannati e «indotti al crimine» da sobillatori controrivoluzionari. Ormai gli operai dovevano essere tenuti sotto stretta sorveglianza. A partire dalla primavera del 1919 la divisione segreta della Ceka creò in un certo numero di centri operai una rete di informatori incaricati di riferire regolarmente sullo «stato d'animo» in questa o quella fabbrica. Classi lavoratrici, classi pericolose...
La primavera del 1919 fu segnata da numerosissimi scioperi, sedati con brutalità in molti centri operai della Russia: a Tula, Sormovo, Orel, Brjansk, Tver', Ivanovo-Voznesensk, Astrakhan. Le rivendicazioni operaie erano identiche quasi dappertutto. Gli scioperanti, ridotti alla fame dai miseri salari appena sufficienti per coprire il prezzo di una carta annonaria che garantiva 250 grammi di pane al giorno, reclamavano per prima cosa che le loro razioni fossero parificate a quelle dei soldati dell'Armata rossa. Ma avanzavano anche e soprattutto richieste politiche: soppressione dei privilegi per i comunisti, rilascio di tutti i prigionieri politici, libere elezioni per i comitati di fabbrica e i soviet, cessazione della coscrizione nell'Armata rossa, libertà di associazione, di espressione, di stampa eccetera.
I bolscevichi consideravano pericolosi questi movimenti, perché spesso le unità militari acquartierate nelle città operaie vi aderivano. A Orel, Brjansk, Gomel', Astrakhan i soldati ammutinati si unirono agli scioperanti al grido «Morte ai giudei, abbasso i commissari bolscevichi!», occupando e saccheggiando interi settori delle città, che furono riconquistati dalle squadre regolari della Ceka e dalle truppe rimaste fedeli al regime solo dopo diversi giorni di combattimento. La repressione degli scioperi e degli ammutinamenti assunse diverse forme. Andò dalla serrata in massa di tutte le fabbriche, con confisca delle tessere annonarie - una delle armi più efficaci del potere bolscevico era la fame - fino all'esecuzione in massa di centinaia di scioperanti e ammutinati. Fra gli episodi di repressione più significativi spiccano quelli avvenuti a Tula e ad Astrakhan nel periodo marzo-aprile 1919. Il 3 aprile 1919 Dzerzinskij si recò personalmente a Tula, capitale storica della produzione di armi della Russia, per liquidare lo sciopero degli operai delle fabbriche di armamenti. Durante l'inverno 1918-1919 queste fabbriche, di importanza vitale per l'Armata rossa - vi si produceva l'80 per cento dei fucili russi -, erano già state teatro di interruzioni del lavoro e di scioperi. Fra i militanti politici di questo ambiente operaio altamente qualificato i menscevichi e i socialisti rivoluzionari erano nettamente maggioritari. All'inizio di marzo del 1919 l'arresto di centinaia di militanti socialisti suscitò un'ondata di proteste, che il 27 marzo culminarono in un'immensa «marcia per la libertà e contro la fame» cui parteciparono migliaia di operai e di ferrovieri. Il 4 aprile Dzerzinskij ordinò l'arresto di altri 800 «sobillatori» e fece evacuare con la forza le fabbriche, che da parecchie settimane erano occupate dagli scioperanti. Tutti gli operai furono licenziati. La resistenza operaia fu spezzata con l'arma della fame. Le tessere annonarie non valevano più da molte settimane e, per ottenere tessere nuove, che dessero diritto a 250 grammi di pane, e riavere il lavoro dopo la serrata generale, gli operai dovettero firmare una domanda di assunzione in cui si stabiliva in particolare che da quel momento qualsiasi interruzione del lavoro sarebbe stata considerata una diserzione punibile con la pena di morte. Il 10 aprile la produzione riprese. Il giorno prima erano stati passati per le armi 26 «sobillatori».
Nella primavera del 1919 la città di Astrakhan, vicina alla foce del Volga, aveva un'importanza strategica del tutto particolare: costituiva l'ultima barriera bolscevica che impediva alle truppe dell'ammiraglio Kolciak, situate a nordest, di congiungersi con quelle del generale Denikin a sudovest. Si deve certo a questa circostanza eccezionale la violenza straordinaria con cui nel marzo del 1919 fu represso lo sciopero degli operai della città. Lo sciopero, incominciato all'inizio di marzo per ragioni economiche (le quote di razionamento molto basse) e politiche (l'arresto di militanti socialisti) degenerò il 10 marzo, quando il 45simo reggimento di fanteria rifiutò di aprire il fuoco sugli operai che sfilavano nel centro cittadino. I soldati si unirono agli operai, e insieme saccheggiarono la sede del partito bolscevico, uccidendone diversi responsabili. Sergej Kirov, presidente del Comitato militare rivoluzionario della regione, ordinò allora di «sterminare senza pietà con ogni mezzo quei pidocchi delle Guardie bianche». Prima di intraprendere metodicamente la riconquista della città, le truppe rimaste fedeli al regime e i distaccamenti della Ceka ne bloccarono tutte le vie di accesso. Quando le prigioni furono sul punto di scoppiare, centinaia di ammutinati e scioperanti vennero imbarcati su chiatte e gettati nel Volga con una pietra al collo. Fra il 12 e il 14 marzo furono fucilati o annegati da 2000 a 4000 fra operai in sciopero e ammutinati. A partire dal 15 marzo la repressione si abbatté sui «borghesi» della città, con il pretesto che avevano «ispirato» il complotto della «Guardia bianca», di cui operai e soldati sarebbero stati solo le pedine. Per due giorni le ricche dimore dei commercianti di Astrakhan furono abbandonate al saccheggio e i loro proprietari arrestati e fucilati. Le incerte valutazioni sul numero delle vittime «borghesi» dei massacri di Astrakhan oscillano fra 600 e 1000 persone. In totale, nel giro di una settimana, furono giustiziate o annegate da 3000 a 5000 persone. I comunisti uccisi furono 47: vennero sepolti in pompa magna il 18 marzo, anniversario della Comune di Parigi, come fecero osservare le autorità. Alla luce dei documenti d'archivio disponibili, la strage di Astrakhan, considerata per molto tempo soltanto un episodio della guerra fra Rossi e Bianchi, rivela oggi la sua vera natura: il più grande massacro di operai compiuto dal potere bolscevico prima di quello di Kronstadt.
Alla fine del 1919 e all'inizio del 1920 i rapporti fra potere bolscevico e mondo operaio si deteriorarono ulteriormente in seguito alla militarizzazione di oltre duemila imprese. Il principale promotore della militarizzazione del lavoro, Lev Trotsky, espose le sue idee sull'argomento al Nono Congresso del Partito, svoltosi nel marzo del 1920. L'uomo è naturalmente portato alla pigrizia, spiegò Trotsky. Nel mondo capitalista gli operai devono cercare lavoro per sopravvivere. E' il mercato capitalista che pungola il lavoratore. Nel regime socialista «l'impiego delle risorse di lavoro sostituisce il mercato». Lo Stato ha dunque il compito di indirizzare, influenzare, inquadrare il lavoratore, che deve obbedire come un soldato allo Stato operaio, difensore degli interessi del proletariato. Questo era il senso, queste le basi della militarizzazione del lavoro, vivamente criticata da una minoranza di sindacalisti e dirigenti bolscevichi; in pratica significava divieto di sciopero, equiparato alla diserzione in tempo di guerra, inasprimento della disciplina e aumento dei poteri della dirigenza, completa subordinazione dei sindacati e dei comitati di fabbrica - il cui ruolo si limitava ormai ad attuare la politica incentrata sulla produttività -, divieto per gli operai di lasciare il posto di lavoro, punizioni per l'assenteismo e i ritardi, assai numerosi in quel periodo perché gli operai dovevano procurarsi il cibo la cui ricerca era sempre problematica.
Al malcontento suscitato nel mondo del lavoro dalla militarizzazione si aggiungevano le difficoltà crescenti della vita quotidiana. Lo ammetteva anche un rapporto della Ceka inviato al governo il 6 dicembre 1919: «In questi ultimi tempi la crisi negli approvvigionamenti ha continuato ad aggravarsi. Le masse operaie sono attanagliate dalla fame. Gli operai non hanno più la forza fisica per continuare a lavorare, e si assentano sempre più spesso per gli effetti congiunti del freddo e della fame. Se non si risolve in tempi brevissimi la questione degli approvvigionamenti, in tutta una serie di industrie metallurgiche di Mosca le masse disperate sono pronte a tutto, sciopero, ammutinamento, insurrezione».
All'inizio del 1920 il salario degli operai a Pietrogrado andava da 7000 a 12 mila rubli al mese. Oltre a questo salario di base insignificante - al mercato libero mezzo chilo di burro costava 5000 rubli, la stessa quantità di carne 3000, un litro di latte 750 rubli! - ogni lavoratore aveva diritto a una certa quantità di prodotti al giorno, secondo la categoria in cui era classificato. Alla fine del 1919, a Pietrogrado, un lavoratore manuale aveva diritto a circa due etti e mezzo di pane al giorno, mezzo chilo di zucchero al mese, due etti e mezzo di materie grasse, due chili di aringhe in salamoia. In teoria, i cittadini erano classificati in cinque categorie di «stomaci», dai lavoratori manuali e i soldati dell'Armata rossa fino agli «sfaccendati» - categoria in cui rientravano gli intellettuali, particolarmente sfavoriti - con «razioni di classe» decrescenti. In realtà il sistema era ancora più ingiusto e complesso. I più sfavoriti - «sfaccendati», intellettuali, «ex aristocratici» -, gli ultimi a essere serviti, spesso non ricevevano niente di niente. Quanto ai «lavoratori», in realtà erano divisi in una miriade di categorie, secondo una gerarchia di priorità in cui venivano privilegiati i settori essenziali per la sopravvivenza del regime. Nell'inverno 1919- 1920 a Pietrogrado esistevano 33 categorie di tessere annonarie, la cui validità non superava mai il periodo di un mese! Nel sistema di vettovagliamento centralizzato istituito dai bolscevichi, l'arma alimentare aveva una funzione importante per stimolare o punire determinate categorie di cittadini.
«La razione di pane deve essere ridotta per quelli che non lavorano nel settore dei trasporti, oggi decisivo, e aumentata per quelli che vi lavorano» scrisse Lenin a Trotsky il primo febbraio 1920. «Muoiano pure migliaia di persone, se è necessario, ma il paese deve essere salvato».
Di fronte a una tale politica, chi aveva mantenuto dei legami con la campagna, ed erano in molti, tornava appena possibile al villaggio d'origine in cerca di cibo.
Le misure di militarizzazione del lavoro, destinate a «riportare l'ordine» nelle fabbriche, non provocarono l'effetto previsto; anzi, diedero luogo a svariate sospensioni e interruzioni del lavoro, scioperi e ammutinamenti, che furono soffocati senza pietà. Sulla «Pravda» del 12 febbraio 1920 si poteva leggere: «Il posto migliore per lo scioperante, questa zanzara gialla e nociva, è il campo di concentramento!». Secondo le statistiche ufficiali del commissariato del popolo per il Lavoro, nel primo semestre del 1920 si verificarono scioperi nel 77 per cento delle grandi e medie imprese industriali della Russia. E' significativo che i settori più turbolenti - metallurgia, miniere e ferrovie - fossero quelli in cui la militarizzazione del lavoro era più avanzata. I rapporti inviati ai dirigenti bolscevichi dalla divisione segreta della Ceka gettano una luce cruda sulla repressione esercitata contro gli operai refrattari alla militarizzazione: quando venivano arrestati, molto spesso erano processati da un tribunale rivoluzionario per «sabotaggio» o «diserzione». A Simbirsk, giusto per fare un esempio, nell'aprile del 1920 dodici operai della fabbrica di armamenti furono condannati ai lavori forzati per «aver compiuto sabotaggio in forma di sciopero all'italiana ... aver diffuso propaganda contro il potere sovietico approfittando delle superstizioni religiose e della scarsa politicizzazione delle masse ... aver dato un'interpretazione falsa della politica sovietica in materia di salari». Decifrando l'astruso gergo politico si deduce che gli accusati avevano fatto pause non autorizzate dalla direzione, protestato contro l'obbligo di lavorare la domenica, criticato i privilegi dei comunisti e denunciato i salari da fame.
I massimi dirigenti del Partito, fra cui Lenin, invocavano una repressione esemplare degli scioperi. Il 29 gennaio 1920, inquieto per il dilagare dei movimenti operai negli Urali, Lenin telegrafò a Smirnov, capo del Consiglio militare rivoluzionario della Quinta Armata: «P. mi ha riferito che da parte dei ferrovieri c'è sabotaggio manifesto.... Mi dicono che sono della partita anche gli operai di Izevsk. Sono stupito che siate tanto accomodanti e che non procediate a esecuzioni in massa per sabotaggio». Nel 1920 la militarizzazione del lavoro provocò molti scioperi; a Ekaterinburg, nel marzo del 1920, 80 operai furono arrestati e condannati all'internamento nei campi; sulla linea ferroviaria Rjazan'-Ural, nell'aprile del 1920, furono condannati 100 ferrovieri; sulla linea Mosca-Kursk nel maggio del 1920 ne furono condannati 160; nella fabbrica metallurgica di Brjansk nel giugno del 1920 furono condannati 152 operai. Ci sono moltissimi esempi simili di scioperi repressi duramente nel quadro della militarizzazione del lavoro.
Uno dei più notevoli, nel giugno del 1920, fu quello delle manifatture d'armi di Tula, punto nevralgico della protesta operaia contro il regime, benché già provato molto duramente nell'aprile del 1919. La domenica del 6 giugno 1920 un certo numero di operai metallurgici rifiutò di fare le ore di straordinario richieste dalla direzione. Le operaie invece rifiutarono di lavorare la domenica, in quel caso specifico e in generale, spiegando che era l'unico giorno in cui potevano andare a fare provviste nelle campagne circostanti. Gli scioperanti vennero arrestati da un nutrito distaccamento di cekisti che era stato chiamato dall'amministrazione. Fu decretata la legge marziale, e una trojka composta dai rappresentanti del Partito e della Ceka ricevette l'incarico di denunciare la «cospirazione controrivoluzionaria fomentata dagli spioni polacchi e dalle Centurie nere allo scopo di indebolire la potenza combattente dell'Armata rossa».
Mentre lo sciopero si diffondeva e gli arresti dei «sobillatori» si intensificavano, un fatto nuovo venne a turbare l'andamento abituale delle vicende: centinaia, poi migliaia di operaie e semplici massaie si presentarono alla Ceka chiedendo di essere arrestate anche loro. Il movimento si estese, e anche gli operai pretesero di essere arrestati in massa, per rendere assurda la tesi di un «complotto dei polacchi e delle Centurie nere». In quattro giorni oltre 10 mila persone furono incarcerate, o meglio sistemate in un vasto spazio all'aperto sorvegliato da cekisti. Le organizzazioni locali del Partito e della Ceka rimasero sul momento spiazzate, perché non sapevano come presentare gli avvenimenti a Mosca; ma poi riuscirono a convincere le autorità centrali dell'esistenza di una vasta cospirazione. Migliaia di operaie e operai furono interrogati dal Comitato di liquidazione della cospirazione di Tula, che sperava di trovare dei responsabili. Per essere liberati, riassunti e poter ottenere una nuova carta annonaria, tutti i lavoratori arrestati dovettero firmare la seguente dichiarazione: «Io sottoscritto, cane puzzolente e criminale, mi pento davanti al Tribunale rivoluzionario e all'Armata rossa, confesso i miei peccati e prometto di lavorare coscienziosamente». Contrariamente ad altri movimenti di protesta operaia, i disordini di Tula dell'estate del 1920 si risolsero con sentenze assai lievi: 28 persone furono condannate ai lavori forzati e 200 esiliate. In una situazione in cui mancava la manodopera altamente qualificata, il potere bolscevico non poteva certo fare a meno delle migliori fabbriche di armamenti del paese. La repressione, come il vettovagliamento, doveva tener conto dei settori determinanti e degli interessi superiori del regime.
Per quanto importante fosse il «fronte operaio» sotto l'aspetto simbolico e strategico, esso rappresentava soltanto una minima parte degli impegni del regime sugli innumerevoli «fronti interni» della guerra civile. Tutte le energie erano assorbite dalla lotta contro i contadini, soprannominati «Verdi», che si opponevano alle requisizioni e alla coscrizione militare. I rapporti attualmente accessibili delle divisioni speciali della Ceka e delle Truppe di difesa interna della Repubblica, incaricate di lottare contro gli ammutinamenti, le diserzioni e le sommosse contadine, rivelano in tutto il suo orrore la straordinaria violenza di questa «sporca guerra» di pacificazione condotta a margine dei combattimenti fra Rossi e Bianchi. Fu proprio nello scontro cruciale fra il potere bolscevico e la classe contadina che trovò la sua forma definitiva la prassi politica del Terrore, basata su una visione radicalmente pessimista delle masse «cieche e ignoranti al punto da non essere nemmeno in grado di capire quale sia il loro interesse», come scriveva Dzerzinskij. Queste masse bestiali potevano essere domate solo con la forza, con la «scopa di ferro» evocata metaforicamente da Trotsky per spiegare come andava attuata la repressione per «ripulire» l'Ucraina dalle «bande di banditi» al comando di Nestor Mahno e di altri condottieri contadini. Le sommosse contadine erano cominciate nell'estate del 1918. Si diffusero ulteriormente fra il 1919 e il 1920, e culminarono nell'inverno 1920-1921, costringendo il regime bolscevico ad arretrare.
I contadini avevano due ragioni immediate per ribellarsi: le requisizioni e la coscrizione nell'Armata rossa. Nel gennaio del 1919 la disordinata ricerca di eccedenze agricole, che dall'estate del 1918 caratterizzava le prime operazioni, fu sostituita da un sistema di requisizioni centralizzato e pianificato. Ogni provincia, ogni distretto, ogni circoscrizione, ogni comunità contadina doveva consegnare allo Stato una quota prestabilita in rapporto ai raccolti previsti. Tali quote non si limitavano ai cereali, ma comprendevano una ventina di prodotti molto diversi fra loro: patate, miele, uova, burro, semi oleosi, carne, panna, latte eccetera. Ogni comunità di villaggio era responsabile in solido della raccolta. Solo quando tutto il villaggio aveva completato le sue quote, le autorità distribuivano le ricevute con cui era possibile acquistare manufatti, in quantità nettamente inferiore alle esigenze, che alla fine del 1920 venivano soddisfatte solo al 15 per cento. Per quanto riguarda il pagamento dell'ammasso agricolo, questo veniva effettuato a prezzi simbolici, poiché alla fine del 1920 il rublo aveva perso il 96 per cento del proprio valore rispetto al rublo oro. Dal 1918 al 1920 le requisizioni di cereali triplicarono. Il numero delle rivolte contadine, difficile da calcolare con precisione, aumentò almeno altrettanto.
Dopo tre anni sui fronti e nelle trincee della «guerra imperialista», il rifiuto alla coscrizione nell'Armata rossa costituiva il secondo motivo delle rivolte contadine. Il più delle volte, infatti, a insorgere erano i Verdi, i disertori che si nascondevano nelle foreste. Si calcola che negli anni 1919-1920 il numero dei disertori superasse i 3 milioni. Nel 1919 i vari distaccamenti della Ceka e le Commissioni speciali di lotta contro i disertori ne arrestarono circa 500 mila; nel 1920, da 700 mila a 800 mila. Ciò nonostante, riuscirono a sottrarsi alle ricerche quasi 2 milioni di disertori, per la stragrande maggioranza contadini che conoscevano bene il territorio.
Vista la portata del problema, il governo adottò misure repressive sempre più severe. Migliaia di disertori furono fucilati e i loro familiari trattati come ostaggi. La prassi di prendere ostaggi in realtà veniva comunemente applicata già dall'estate del 1918. Lo attesta, per esempio, il decreto governativo firmato da Lenin il 15 febbraio 1919, che ingiungeva alle Ceka locali di prendere ostaggi fra i contadini nelle località in cui le corvée di sgombero della neve dalle linee ferroviarie non erano state eseguite in modo soddisfacente: «Se lo sgombero non viene eseguito, gli ostaggi saranno passati per le armi». Il 12 maggio 1920 Lenin inviò le seguenti istruzioni a tutte le Commissioni provinciali di lotta contro i disertori: «Una volta scaduto il termine di sette giorni accordato ai disertori per arrendersi e ottenere la grazia, bisogna inasprire ulteriormente le sanzioni per questi incorreggibili traditori del popolo lavoratore. I familiari e tutti quelli che aiutano in qualunque modo i disertori saranno considerati ostaggi e trattati di conseguenza». Questo decreto si limitava a legalizzare la prassi quotidiana. Tuttavia il numero delle diserzioni non si ridusse affatto. Nel 1920 e nel 1921, come nel 1919, i disertori costituivano il grosso dei partigiani verdi, contro cui i bolscevichi condussero per tre anni (e in alcune regioni anche per quattro o cinque) una guerra spietata di inaudita crudeltà.
Oltre a opporsi alle requisizioni e alla coscrizione, i contadini rifiutavano più in generale qualsiasi intrusione di un potere che sentivano estraneo, il potere dei «comunisti» provenienti dalla città. In fondo al cuore molti contadini consideravano i comunisti che praticavano le requisizioni diversi dai «bolscevichi» che avevano incoraggiato la rivoluzione agraria del 1917. Nelle campagne, sottomesse ora alla soldatesca bianca ora alle squadre di requisizione rosse, regnavano incontrastate la confusione e la violenza.
I rapporti dei vari dipartimenti della Ceka incaricati della repressione, che costituiscono una fonte eccezionale per comprendere le molteplici sfaccettature del movimento armato contadino, distinguono le sommosse contadine in due tipi principali: il "bunt", una rivolta circoscritta, una breve fiammata di violenza in cui era coinvolto un numero relativamente ristretto di partecipanti, da alcune decine a un centinaio; e la "vosstanie", l'insurrezione che comportava la partecipazione di migliaia, o persino di decine di migliaia di contadini, organizzati in veri e propri eserciti capaci di impadronirsi di borghi e città, e dotati di un programma politico coerente, a tendenza socialista rivoluzionaria o anarchica.
"30 aprile 1919. Provincia di Tambov. All'inizio di aprile, nel distretto Lebjadanskij è scoppiata una sommossa di kulak e di disertori che protestavano contro la mobilitazione degli uomini e dei cavalli, e contro la requisizione dei cereali. Al grido di «Abbasso i comunisti! Abbasso i soviet!» gli insorti armati hanno messo a sacco quattro Comitati esecutivi di circoscrizione e ucciso barbaramente sette comunisti, segandoli vivi. Il 212esimo battaglione della Ceka, chiamato in soccorso dai membri della squadra di requisizione, ha annientato i kulak ribelli. Sono state arrestate 60 persone, 50 giustiziate sul posto, e il villaggio da cui è partita la ribellione è stato interamente bruciato.
Provincia di Voronez, 11 giugno 1919, ore 16.15. Dispaccio telegrafico. La situazione migliora. La rivolta del distretto di Novohopersk in pratica è liquidata. Il nostro aeroplano ha bombardato e bruciato interamente il borgo Tret'jaki, uno dei covi principali dei banditi. Le operazioni di rastrellamento proseguono. Provincia di Jaroslavl', 23 giugno 1919. La rivolta dei disertori nella volost' Petropavlovskaja è stata liquidata. Le famiglie dei disertori sono state prese in ostaggio. Quando abbiamo iniziato a fucilare un uomo in ogni famiglia di disertori, i Verdi hanno incominciato a uscire dal bosco e ad arrendersi: 34 disertori sono stati fucilati per dare l'esempio".
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Migliaia di rapporti analoghi attestano la straordinaria violenza di questa «guerra di pacificazione» condotta dalle autorità contro la resistenza contadina, cui partecipavano soprattutto disertori ma il più delle volte definita «rivolta di kulak» o «insurrezione di banditi». I tre estratti citati espongono i sistemi di repressione utilizzati più di frequente: arresto ed esecuzione di ostaggi prelevati nelle famiglie dei disertori o dei «banditi», villaggi bombardati e bruciati. La repressione cieca e sproporzionata si basava sul principio della responsabilità collettiva della comunità del villaggio. In generale, le autorità concedevano un termine entro il quale i disertori dovevano arrendersi. Dopo la scadenza il disertore era considerato un «bandito delle foreste», passibile di esecuzione immediata. D'altronde, i comunicati delle autorità civili e militari precisavano: «Se gli abitanti di un villaggio aiutano in qualsiasi modo banditi che si nascondono nelle foreste limitrofe, il villaggio sarà dato alle fiamme».
Alcuni rapporti riassuntivi della Ceka riportano le cifre relative all'entità di questa guerra di pacificazione delle campagne. Per esempio nel periodo 15 ottobre - 30 novembre 1918, solo in 12 province della Russia scoppiarono 44 sommosse ("bunt"), nel corso delle quali furono arrestate 2320 persone, 620 furono uccise e 982 fucilate. Durante i disordini rimasero uccisi 480 funzionari sovietici, oltre a 112 uomini delle squadre di vettovagliamento, di unità dell'Armata rossa e della Ceka. Nel settembre del 1919, nelle 10 province russe per le quali disponiamo di informazioni sintetiche, 48735 disertori e 7325 «banditi» vennero arrestati, 1826 uccisi, 2230 fucilati, e vi furono 430 vittime fra funzionari e militari sovietici. Queste cifre molto parziali non tengono conto delle perdite, ben più ingenti, subite durante le grandi insurrezioni contadine. Tali insurrezioni ebbero svariati momenti di punta: marzo-agosto 1919, in particolare nelle regioni del Medio Volga e dell'Ucraina; febbraio- agosto 1920, nelle province di Samara, Ufa, Kazan', Tambov, e di nuovo nell'Ucraina riconquistata ai Bianchi dai bolscevichi, ma sempre controllata, nelle zone interne, da gruppi di contadini armati. Alla fine del 1920 e per tutta la prima metà del 1921 il movimento contadino, malridotto in Ucraina e nelle regioni del Don e del Kuban', raggiunse in Russia l'apogeo con un'immensa rivolta rurale che ebbe il suo epicentro nelle province di Tambov, Penza, Samara, Saratov, Simbirsk, Caricynì. L'incendio della guerra contadina si spense solo con l'arrivo di una delle carestie più terribili del ventesimo secolo.
Nel marzo del 1919, nelle ricche province di Samara e Simbirsk, che in quell'anno dovevano sopperire da sole a quasi un quinto delle requisizioni di cereali in Russia, per la prima volta dalla nascita del regime bolscevico le sommosse contadine locali si trasformarono in un'insurrezione vera e propria. Decine di borghi furono conquistati da un esercito insurrezionale contadino che arrivò a contare fino a 30 mila uomini armati. Per quasi un mese il potere bolscevico perse il controllo della provincia di Samara. Questa ribellione favorì l'avanzata verso il Volga delle unità dell'Armata bianca comandate dall'ammiraglio Kolciak; infatti i bolscevichi erano stati costretti a inviare parecchie decine di migliaia di uomini contro un esercito contadino piuttosto ben organizzato e con un programma politico coerente, che chiedeva la fine delle requisizioni, libertà di commercio, libere elezioni dei soviet, fine della «commissariocrazia bolscevica». All'inizio di aprile del 1919, tracciando un bilancio della liquidazione delle insurrezioni contadine nella provincia, il capo della Ceka di Samara riferiva di 4240 persone uccise fra gli insorti, 625 fucilate, 6210 disertori e banditi arrestati.
Il fuoco era momentaneamente spento nella provincia di Samara, e subito riprendeva con un vigore senza precedenti nella maggior parte dell'Ucraina. Il governo bolscevico aveva deciso di riconquistare l'Ucraina fin dal 1918, alla partenza di tedeschi e austro-ungarici. Era la regione agricola più ricca dell'ex impero zarista, e doveva «nutrire il proletariato di Mosca e di Pietrogrado». Le quote di requisizione erano qui ancora più elevate che altrove. Consegnarle significava condannare alla fame certa migliaia di villaggi, già spremuti per tutto il 1918 dagli eserciti di occupazione tedeschi e austro-ungarici. Inoltre, in Ucraina i bolscevichi non intendevano seguire la linea che avevano dovuto applicare in Russia alla fine del 1917, dividendo le terre fra le comunità contadine, ma volevano nazionalizzare tutte le grandi proprietà terriere, le più moderne dell'ex impero. Inevitabilmente questa politica, che mirava a trasformare vasti territori cerealicoli e di produzione zuccheriera in grandi proprietà collettive in cui i coltivatori sarebbero diventati operai agricoli, suscitava il malcontento fra i contadini. Questi ultimi si erano agguerriti lottando contro le forze di occupazione tedesche e austro-ungariche. All'inizio del 1919 in Ucraina esistevano veri e propri eserciti contadini comandati da capi militari e politici ucraini, come Sem‰n Petlura, Nestor Mahno, Grigor'ev o Zelenyj. Questi eserciti contadini erano fermamente decisi a far trionfare la propria concezione della rivoluzione agraria: la terra ai contadini, libertà di commercio, soviet liberamente eletti «senza moscoviti né ebrei». Per la maggior parte della classe rurale dell'Ucraina, che aveva alle spalle una lunga tradizione di antagonismo fra le campagne popolate soprattutto di ucraini e le città abitate per la maggior parte da russi e da ebrei, l'equazione era allettante e semplice: moscoviti = bolscevichi = ebrei. Andavano tutti cacciati via dall'Ucraina.
Tali caratteristiche spiegano la brutalità e la durata degli scontri fra i bolscevichi e una larga parte della classe contadina ucraina. La presenza di un altro fattore, i Bianchi, osteggiati sia dai bolscevichi sia dagli svariati eserciti contadini ucraini, che non volevano il ritorno dei grandi proprietari, rendeva ancor più complessa la situazione politica e militare della regione, dove alcune città, come Kiev, cambiarono padrone anche quattordici volte nel giro di due anni.
Le prime grandi rivolte contro i bolscevichi e le loro odiate squadre di requisizione scoppiarono nell'aprile del 1919. In un solo mese nelle province di Kiev, Cernigov, Poltava e Odessa si verificarono 93 rivolte contadine. Secondo i dati ufficiali della Ceka, nei primi venti giorni di luglio del 1919 si verificarono 210 insurrezioni, in cui furono coinvolti oltre 100 mila combattenti armati e molte centinaia di migliaia di contadini. Fra l'aprile e il maggio del 1919 l'esercito contadino di Grigor'ev - quasi 20 mila uomini armati, fra cui molte unità ammutinate dell'Armata rossa, con 50 cannoni e 700 mitragliatrici - conquistò tutta una serie di città dell'Ucraina meridionale, fra cui Cerkassy, Herson, Nikolaev e Odessa, istituendo un potere autonomo con parole d'ordine inequivocabili: «Tutto il potere ai soviet del popolo ucraino!», «L'Ucraina agli ucraini, senza bolscevichi né ebrei!», «Ripartizione delle terre!», «Libertà d'impresa e di commercio!». I partigiani di Zelenyj, quasi 20 mila uomini armati, controllavano tutta la provincia di Kiev, a parte le città principali. Al grido «Viva il potere sovietico, abbasso i bolscevichi e i giudei!» organizzarono decine di cruenti pogrom contro le comunità ebraiche dei borghi e delle piccole città delle province di Kiev e di Cernigov. Più nota è l'azione di Nestor Mahno, che è stata oggetto di molti studi. Mahno guidava un esercito contadino di decine di migliaia di uomini e proponeva un programma insieme nazionale, sociale e anarchicheggiante, elaborato durante veri e propri congressi, come il Congresso dei delegati contadini, dei ribelli e degli operai di Guljajpole, svoltosi nell'aprile del 1919 nel cuore stesso dell'insurrezione mahnovista. Come molti altri movimenti meno strutturati, i mahnovisti esprimevano innanzi tutto l'opposizione a qualsiasi ingerenza dello Stato nelle questioni contadine e l'aspirazione a un autogoverno della classe rurale, una sorta di autogestione basata su soviet liberamente eletti. A queste rivendicazioni di base si aggiungeva un certo numero di richieste comuni a tutti i movimenti contadini: fine delle requisizioni, soppressione delle tasse e delle imposte, libertà per tutti i partiti socialisti e i gruppi anarchici, ripartizione delle terre, cessazione della «commissariocrazia bolscevica» e scioglimento delle truppe speciali e della Ceka.
Le centinaia di insurrezioni contadine scoppiate nelle retrovie dell'Armata rossa fra la primavera e l'estate del 1919 contribuirono in modo determinante alla vittoria senza futuro delle truppe bianche del generale Denikin. L'Armata bianca, che era partita dall'Ucraina meridionale il 19 maggio 1919, avanzò molto rapidamente verso le unità dell'Armata rossa impegnate in operazioni di repressione contro i contadini ribelli. Le truppe di Denikin conquistarono Har'kov il 12 giugno, Kiev il 28 agosto, Voronez il 30 settembre. La ritirata dei bolscevichi, che erano riusciti a stabilire il loro potere solo nelle città più grandi, abbandonando le campagne ai contadini ribelli, fu accompagnata da esecuzioni in massa di prigionieri e di ostaggi, su cui torneremo in seguito. Nella ritirata precipitosa attraverso le zone interne del paese, controllate dai movimenti armati contadini, i distaccamenti dell'Armata rossa e della Ceka non risparmiarono niente e nessuno: centinaia di villaggi bruciati, esecuzioni in massa di «banditi», «disertori», «ostaggi». L'abbandono e poi la riconquista dell'Ucraina, avvenuta tra la fine del 1919 e l'inizio del 1920, diedero luogo a un'orgia di violenza contro la popolazione civile, descritta con cura nel capolavoro di Isaak Babel' "L'armata a cavallo".
All'inizio del 1920 le forze armate dei Bianchi erano tutte sconfitte, a eccezione di alcune unità sparse ai comandi del barone Vrangel', successore di Denikin, che avevano trovato rifugio in Crimea. Restavano a fronteggiarsi le forze bolsceviche e i contadini. Si abbatté così sulle campagne in lotta contro il potere una repressione spietata che sarebbe durata fino al 1922. Nel periodo febbraio-marzo 1920, su un vasto territorio che si estendeva dal Volga agli Urali, nelle province di Kazan', Simbirsk e Ufa, scoppiò una nuova grande rivolta, nota come «insurrezione dei forconi». Queste zone, popolate da russi ma anche da tatari e baschiri, erano sottoposte a requisizioni particolarmente pesanti. In poche settimane la ribellione dilagò in una decina di distretti. Al suo apogeo, l'esercito contadino insorto delle «Aquile nere» era costituito da 50 mila combattenti. Le Truppe di difesa interna della Repubblica, fornite di cannoni e mitragliatrici, decimarono i ribelli armati di forche e picconi. Nel giro di qualche giorno, migliaia di insorti furono massacrati e centinaia di villaggi vennero dati alle fiamme.
Dopo il rapido annientamento dell'«insurrezione dei forconi» la fiamma delle rivolte contadine si propagò di nuovo nelle province del Medio Volga, anch'esse sottoposte a forti requisizioni: Tambov, Penza, Samara, Saratov e Caricyn. Per ammissione del dirigente bolscevico Antonov-Ovseenko, che condusse poi la repressione contro i contadini insorti a Tambov, i piani di requisizione del 1920-1921, se attuati, avrebbero condannato i contadini a morte certa: infatti lasciavano loro in media un pud (16 chilogrammi) di cereali e un pud e mezzo di patate a testa per anno, cioè da dieci a dodici volte meno del minimo vitale. Quindi la lotta intrapresa nell'estate del 1920 dai contadini di queste province riguardava la sopravvivenza. Sarebbe durata per due interi anni fino a quando la carestia non ebbe la meglio sulla rivolta contadina.
Nel 1920 il terzo grande teatro di scontri fra i bolscevichi e i contadini restava l'Ucraina, che fra il dicembre del 1919 e il febbraio del 1920 fu strappata alle armate bianche. Le campagne, però, erano ancora sotto il controllo di centinaia di distaccamenti verdi che non avevano vincoli di fedeltà con nessuno e di unità che grosso modo potevano essere considerate agli ordini di Mahno. A differenza delle Aquile nere, i distaccamenti ucraini, composti essenzialmente da disertori, erano ben armati. Durante l'estate del 1920 l'esercito di Mahno era ancora costituito da quasi 15 mila uomini, 2500 cavalieri, un centinaio di mitragliatrici, una ventina di cannoni d'artiglieria e due veicoli blindati. Inoltre esistevano centinaia di «bande» minori, composte da qualche decina o qualche centinaio di combattenti, che opponevano una forte resistenza alla penetrazione bolscevica. Per lottare contro questo movimento armato contadino, all'inizio di maggio del 1920 il governo conferì al capo della Ceka, Feliks Dzerzinskij, il titolo di «comandante in capo delle retrovie del fronte sudoccidentale». Dzerzinskij rimase più di due mesi a Har'kov per istituire 24 unità speciali della forza di Sicurezza interna della Repubblica, unità scelte, dotate di una cavalleria incaricata di inseguire i «ribelli» e di aerei destinati a bombardare i «covi dei banditi». Avevano il compito di sradicare il movimento contadino in tre mesi. In realtà le operazioni di «pacificazione» si prolungarono per oltre due anni, dall'estate del 1920 all'autunno del 1922, e costarono decine di migliaia di vite umane.
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Un posto a parte fra i diversi episodi della guerra sferrata dal potere bolscevico contro i contadini occupa la «decosacchizzazione», cioè l'eliminazione dei cosacchi del Don e del Kuban' in quanto gruppo sociale. Infatti, per la prima volta il nuovo regime adottò una serie di misure repressive per eliminare, sterminare, deportare, in base al concetto di responsabilità collettiva, tutta la popolazione di un territorio che i dirigenti bolscevichi avevano preso l'abitudine di chiamare «Vandea sovietica». Le operazioni non scaturirono da misure di rappresaglia militare adottate nel pieno dei combattimenti, ma furono pianificate in anticipo: costituirono l'oggetto di molti decreti emanati dai massimi livelli dello Stato e coinvolsero direttamente molti responsabili politici di alto rango (Lenin, Ordzonikidze, Syrcov, Sokolnikov, Rejngol'd). La decosacchizzazione, fallita una prima volta nella primavera del 1919 a causa delle sconfitte militari dei bolscevichi, riprese con rinnovata crudeltà nel 1920, quando i bolscevichi riconquistarono i territori cosacchi del Don e del Kuban'.
I cosacchi, privati dal dicembre del 1917 dello statuto giuridico di cui beneficiavano sotto il vecchio regime, catalogati dai bolscevichi come «kulak» e «nemici di classe», si erano uniti, sotto le insegne dell'atamano Krasnov, alle forze bianche costuitesi nella Russia meridionale durante la primavera del 1918. I primi distaccamenti dell'Armata rossa penetrarono nei territori cosacchi del Don solo nel febbraio del 1919, durante l'avanzata generale dei bolscevichi verso l'Ucraina e la Russia meridionale. I bolscevichi adottarono una serie di provvedimenti che eliminarono in un colpo solo tutto ciò che costituiva la specificità cosacca: le terre appartenenti ai cosacchi furono confiscate e ridistribuite a coloni russi o a contadini locali privi dello status di cosacchi; ai cosacchi fu intimato, sotto minaccia di morte, di consegnare le armi (va detto che, essendo tradizionalmente considerati i guardiani dei confini dell'impero russo, tutti i cosacchi erano armati); le assemblee e le circoscrizioni amministrative cosacche furono sciolte. Tutte queste misure facevano parte di un piano prestabilito di decosacchizzazione, esposto in una risoluzione segreta del Comitato centrale del Partito bolscevico datata 24 gennaio 1919: «Tenendo conto dell'esperienza della guerra civile contro i cosacchi, l'unico provvedimento da considerare politicamente corretto è la lotta spietata, il terrore di massa contro i ricchi cosacchi, che dovranno essere sterminati e liquidati fisicamente dal primo all'ultimo».
In realtà, come ammise nel giugno del 1919 lo stesso Rejngol'd, presidente del Comitato rivoluzionario del Don, incaricato di imporre l'«ordine bolscevico» nei territori cosacchi, «tendenzialmente abbiamo praticato una politica di sterminio di massa di tutti i cosacchi senza alcuna distinzione». In poche settimane, da metà febbraio a metà marzo del 1919, i distaccamenti bolscevichi avevano giustiziato oltre 8000 cosacchi. In ogni "stanica" (insediamento cosacco) i tribunali rivoluzionari procedevano in pochi minuti a giudizi sommari dei sospetti in lista, di solito tutti condannati alla pena capitale per «comportamento controrivoluzionario». Di fronte a questi eccessi repressivi i cosacchi non ebbero altra scelta che la rivolta. L'insurrezione incominciò nel distretto di Vescenskaja l'11 marzo 1919. I cosacchi insorti, ben organizzati, decretarono la mobilitazione generale di tutti gli uomini dai sedici ai cinquantacinque anni e inviarono in tutta la regione del Don e fino alla provincia limitrofa di Voronez telegrammi in cui esortavano la popolazione a insorgere contro i bolscevichi: «Noi cosacchi non siamo contrari ai soviet. Siamo per le libere elezioni. Siamo contro i comunisti, le comuni [aziende agricole collettive] e gli ebrei. Siamo contro le requisizioni, i furti e le esecuzioni perpetrate dalle Ceka». All'inizio di aprile i cosacchi ribelli costituivano una forza considerevole di quasi 30 mila uomini ben armati e agguerriti. Operando nelle retrovie dell'Armata rossa, che combatteva più a sud contro le truppe di Denikin alleate ai cosacchi del Kuban', fra il maggio e il giugno del 1919 gli insorti del Don contribuirono all'avanzata folgorante delle forze bianche, proprio come avevano fatto i contadini ucraini insorti. All'inizio di giugno i cosacchi del Don si unirono al grosso delle armate bianche, sostenute dai cosacchi del Kuban'. Tutta la «Vandea cosacca» era libera dall'odiato potere di «moscoviti, ebrei e bolscevichi».
Ma le fortune militari cambiarono, e nel febbraio del 1920 tornarono i bolscevichi. Cominciò allora la seconda occupazione militare dei territori cosacchi, ancor più letale della prima. La regione del Don fu assoggettata a un tributo di 36 milioni di pud di cereali, una quantità largamente superiore alla produzione locale complessiva; la popolazione rurale fu spogliata sistematicamente non solo delle magre riserve alimentari, ma anche di tutti i suoi beni, «compresi scarpe, abiti, guanciali e samovar», come precisava un rapporto della Ceka. Tutti gli uomini in condizione di combattere risposero alle repressioni e ai saccheggi sistematici unendosi alle bande di partigiani verdi. Nel luglio del 1920, nel Kuban' e nel Don esse contavano almeno 35 mila uomini. Il generale Vrangel', bloccato in Crimea da febbraio, decise di fare un ultimo tentativo per liberarsi dalla morsa bolscevica e unirsi ai cosacchi e ai Verdi del Kuban'. Il 17 agosto 1920, nei pressi di Novorossijsk sbarcarono 5000 uomini. Sotto la pressione congiunta dei Bianchi, dei cosacchi e dei Verdi, i bolscevichi furono costretti ad abbandonare Ekaterinodar, la principale città del Kuban', e poi l'intera regione. Il generale Vrangel', dal canto suo, avanzava nell'Ucraina meridionale. I successi dei Bianchi furono però di breve durata. Alla fine di ottobre le truppe di Vrangel', accerchiate dalle forze bolsceviche numericamente assai superiori e appesantite dall'immenso seguito di civili, si ritirarono in Crimea in una confusione indescrivibile. La rioccupazione della Crimea da parte dei bolscevichi, ultimo episodio dello scontro fra Bianchi e Rossi, diede luogo alle stragi più cruente della guerra civile. Fra il novembre e il dicembre del 1920 i bolscevichi massacrarono oltre 50 mila civili.
I cosacchi si trovarono un'altra volta dalla parte dei vinti e furono sottoposti a un nuovo Terrore rosso. Il lettone Karl Lander, uno dei principali dirigenti della Ceka, venne nominato «plenipotenziario del Caucaso settentrionale e del Don». Istituì delle trojka, tribunali rivoluzionari speciali preposti alla decosacchizzazione. Nel solo mese di ottobre del 1920 le trojka condannarono a morte oltre 6000 persone, subito giustiziate. I familiari - talora i vicini - dei partigiani verdi e dei cosacchi che avevano impugnato le armi contro il regime e non erano stati catturati, furono sistematicamente arrestati come ostaggi e chiusi in campi di concentramento, veri e propri campi di morte, come ammetteva in un suo rapporto Martyn Lacis, il capo della Ceka ucraina: «Raccolti in un campo nei dintorni di Majkop, gli ostaggi - donne, vecchi e bambini sopravvivono in condizioni spaventose, nel fango e nel freddo di ottobre.... Muoiono come mosche.... Le donne sono pronte a tutto per sfuggire alla morte. I soldati che sorvegliano il campo approfittano per farne commercio».
Qualsiasi atto di resistenza veniva punito senza pietà. Quando il capo della Ceka di Pjatigorsk cadde in un'imboscata, i cekisti decisero di organizzare una «Giornata del Terrore rosso». Andando oltre le istruzioni di Lander, in cui si auspicava che «questo atto terroristico fosse sfruttato per catturare ostaggi preziosi allo scopo di giustiziarli e per accelerare le procedure di esecuzione delle spie bianche e dei controrivoluzionari in generale», si scatenarono in un'orgia di arresti e di esecuzioni. Secondo Lander, «la questione del Terrore rosso fu risolta in modo semplicistico. I cekisti di Pjatigorsk decisero di far giustiziare 300 persone in un giorno. Stabilirono delle quote per la città di Pjatigorsk e per ogni borgo dei dintorni, e ordinarono alle organizzazioni di partito di stilare delle liste dei condannati.... Questo metodo insoddisfacente innescò un gran numero di regolamenti di conti.... A Kislovodsk, in mancanza di altre idee, furono giustiziate le persone che si trovavano all'ospedale».
Uno dei metodi più sbrigativi di decosacchizzazione era la distruzione degli insediamenti cosacchi e la deportazione di tutti i sopravvissuti. Negli archivi di Sergo Ordzonikidze, uno dei massimi dirigenti bolscevichi, all'epoca presidente del Comitato rivoluzionario del Caucaso settentrionale, si sono conservati i documenti di una delle operazioni di questo tipo che si svolsero tra la fine di ottobre e la metà di novembre del 1920. Il 23 ottobre Ordzonikidze ordinò:
"1. bruciare totalmente l'insediamento di Kalinovskaja;
2. evacuare tutti gli abitanti degli insediamenti di Ermolovskaja,
Romanovskaja, Samascinskaja e Mihajlovskaja; le case e le terre
appartenenti agli abitanti saranno distribuite ai contadini poveri e
in particolare ai ceceni, che hanno sempre dato prova di profondo
attaccamento al potere sovietico;
3. caricare su convogli tutta la popolazione maschile dai diciotto ai
cinquant'anni dei suddetti insediamenti e deportarla sotto scorta
verso nord, per eseguire lavori forzati di categoria pesante;
4. espellere donne, vecchi e bambini, autorizzandoli tuttavia a
trasferirsi in altri borghi più a nord;
5. requisire tutto il bestiame e tutti i beni degli abitanti degli
insediamenti summenzionati".
Tre settimane dopo, un rapporto inviato a Ordzonikidze descriveva così lo svolgimento delle operazioni:
"Kalinovskaja: borgo interamente bruciato, tutta la popolazione (4220)
deportata o espulsa.
Ermolovskaja: ripulita di tutti gli abitanti (3218).
Romanovskaja: deportati 1600; ancora da deportare 1661.
Samascinskaja: deportati 1018; ancora da deportare 1900.
Mihajlovskaja: deportati 600; ancora da deportare 2200.
Inoltre, sono stati spediti a Groznyj 154 vagoni di prodotti
alimentari. Nei tre insediamenti in cui la deportazione non è ancora
conclusa sono state deportate innanzi tutto le famiglie degli elementi
bianco-verdi e quelle degli elementi che hanno partecipato all'ultima
insurrezione. Fra quanti non sono stati ancora deportati figurano
simpatizzanti del regime sovietico, familiari di soldati dell'Armata
rossa, funzionari e comunisti. Il ritardo nelle operazioni di
deportazione è dovuto alla mancanza di vagoni. Per portare a termine
le operazioni riceviamo in media soltanto un convoglio al giorno. Per
concludere le operazioni di deportazione, si richiedono d'urgenza 306
vagoni supplementari".
Come si conclusero le «operazioni»? Purtroppo non abbiamo documenti che lo attestino. Sappiamo però che andarono per le lunghe e che alla fine la maggior parte non fu inviata verso il Grande Nord, come sarebbe accaduto in seguito, ma verso le miniere del Donec, che erano più vicine. Date le condizioni dei convogli ferroviari alla fine del 1920, l'amministrazione non riusciva a reggere il passo. Ma sotto molti aspetti le operazioni di decosacchizzazione del 1920 prefiguravano le grandi operazioni di dekulakizzazione avviate dieci anni dopo: stesso principio della responsabilità collettiva, stesso metodo di deportazione su convogli, stessi problemi amministrativi, luoghi di destinazione impreparati ad accogliere i deportati, stessa idea di sfruttarli adibendoli ai lavori forzati. Le regioni cosacche del Don e del Kuban' pagarono un pesante tributo per essersi opposte ai bolscevichi. Secondo le stime più affidabili, nel periodo 1919-1920 furono uccise o deportate da 300 mila a 500 mila persone, su una popolazione complessiva non superiore a 3 milioni di individui.
I massacri di detenuti e ostaggi incarcerati soltanto perché appartenenti a una «classe nemica« o «estranea alla società» sono operazioni repressive tra le più difficili da classificare e da valutare. Rientrano nella continuità e nella logica del Terrore rosso della seconda metà del 1918, ma su scala ancora più vasta. Quest'orgia di massacri «su base di classe» era sempre giustificata dal fatto che stava nascendo un mondo nuovo. Tutto era permesso, come spiegava ai lettori l'editoriale del primo numero di «Krasnyj Mec» (Il gladio rosso), giornale della Ceka di Kiev:
"Respingiamo i vecchi sistemi di moralità e «umanità» inventati dalla borghesia allo scopo di opprimere e sfruttare le «classi inferiori». La nostra moralità non ha precedenti, la nostra umanità è assoluta perché si basa su un nuovo ideale: distruggere qualsiasi forma di oppressione e di violenza. A noi tutto è permesso, poiché siamo i primi al mondo a levare la spada non per opprimere e ridurre in schiavitù, ma per liberare l'umanità dalle catene... Sangue? Che il sangue scorra a fiotti! Perché solo il sangue può tingere per sempre la nera bandiera della borghesia pirata, trasformandola in uno stendardo rosso, la bandiera della Rivoluzione. Poiché solo la morte definitiva del vecchio mondo può liberarci per sempre dal ritorno degli sciacalli!".
Questi appelli all'omicidio istigavano l'antico substrato di violenza e il desiderio di vendetta sociale di molti cekisti, che spesso venivano reclutati fra gli «elementi criminali e socialmente degenerati della società», come ammettevano perfino diversi dirigenti bolscevichi. In una lettera del 22 marzo 1919 indirizzata a Lenin, il dirigente bolscevico Gopner descriveva così le attività della Ceka di Ekaterinoslavl': «In quest'organizzazione marcia di criminalità, violenza e arbitrio, dominata da canaglie e criminali comuni, uomini armati fino ai denti giustiziavano tutti quelli che non trovavano di proprio gusto, perquisivano, saccheggiavano, profanavano, imprigionavano, spacciavano denaro falso, esigevano bustarelle, poi facevano cantare quelli cui avevano estorto le bustarelle, e li liberavano in cambio di somme dieci o venti volte maggiori». Gli archivi del Comitato centrale e quelli di Feliks Dzerzinskij contengono innumerevoli rapporti di responsabili del Partito o di ispettori della polizia politica che descrivono la «degenerazione» delle Ceka locali «ebbre di violenza e di sangue». Spesso la scomparsa di tutti i principi giuridici e morali favoriva una totale autonomia dei responsabili locali della Ceka, che non rispondevano delle proprie azioni nemmeno ai superiori e diventavano tiranni sanguinari, incontrollati e incontrollabili. Questa deriva della Ceka in un contesto di arbitrio assoluto e di totale assenza del diritto è documentata da tre brani di rapporti, fra decine di altri dello stesso tenore.
Ecco il rapporto di Smirnov, istruttore della Ceka, inviato a Dzerzinskij da Sysran', nella provincia di Tambov, in data 22 marzo 1919:
"Ho verificato la faccenda dell'insurrezione di kulak nella volost' Novomatrionskaja. L'inchiesta è stata condotta in modo caotico. Sono state interrogate sotto tortura 65 persone, e dai verbali delle testimonianze non si riesce a capire nulla.... Il 16 febbraio sono state fucilate 5 persone, l'indomani 13. Il verbale delle condanne e delle esecuzioni è datato 28 febbraio. Quando ho chiesto spiegazioni al responsabile della Ceka locale, mi ha risposto: «Non abbiamo mai tempo di scrivere i verbali degli interrogatori. E comunque a che cosa servirebbe, visto che sterminiamo i kulak e i borghesi come classe?»".
Ecco il rapporto inviato da Jaroslavl' il 26 settembre 1919 dal segretario dell'organizzazione regionale del Partito bolscevico:
"I cekisti saccheggiano e arrestano chi capita. Sapendo che resteranno impuniti, hanno trasformato la sede della Ceka in un immenso bordello, dove portano le «borghesi». Il vizio del bere è generalizzato. Fra i piccoli dirigenti si fa largamente uso di cocaina".
Ecco il rapporto di missione inviato da Astrakhan il 16 ottobre 1919 da N. Rozental', ispettore della direzione delle Divisioni speciali:
"Atarbekov, capo delle divisioni speciali dell'Undicesima Armata, non riconosce nemmeno più il potere centrale. Il 30 luglio scorso, quando il compagno Zakovskij, inviato da Mosca a controllare il lavoro delle divisioni speciali, si è recato da Atarbekov, questi gli ha detto: «Dica a Dzerzinskij che non mi lascerò controllare...». Nessuna norma amministrativa viene rispettata e il personale è composto per la maggioranza da elementi equivoci, o addirittura criminali. I fascicoli della Divisione operativa sono quasi inesistenti. Riguardo le condanne a morte e le esecuzioni delle sentenze, non ho trovato protocolli processuali né sentenze individuali, ma solo liste, spesso incomplete, con la dicitura «Fucilato per ordine del compagno Atarbekov». Per quanto riguarda i fatti di marzo, è impossibile farsi un'idea su chi è stato fucilato e perché ... I bagordi e le orge sono all'ordine del giorno. Quasi tutti i cekisti fanno largo uso di cocaina. Questo permette loro, a quanto dicono, di sopportare meglio la vista quotidiana del sangue. Ebbri di violenza e di sangue, i cekisti fanno il proprio dovere, ma sono indubbiamente elementi incontrollati che devono essere tenuti sotto stretta sorveglianza".
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I rapporti interni della Ceka e del Partito bolscevico confermano oggi le numerose testimonianze raccolte a partire dagli anni 1919-1920 dagli avversari dei bolscevichi e in particolare dalla Commissione speciale di inchiesta sui crimini bolscevichi, creata dal generale Denikin, i cui archivi sono oggi accessibili dopo essere stati trasferiti nel 1945 da Praga a Mosca, dove rimasero a lungo coperti dal segreto. Dal 1926 lo storico socialista rivoluzionario russo Sergej Mel'gunov aveva tentato nel suo libro "La Terreur rouge en Russie" di catalogare i principali massacri di detenuti, ostaggi e semplici civili giustiziati in massa dai bolscevichi, quasi sempre su una «base di classe». L'elenco dei principali episodi legati a questo genere di repressione riportato in quest'opera precorritrice, sebbene incompleto, è pienamente confermato da una serie di fonti documentarie provenienti dai due schieramenti contrapposti, molto differenti tra loro ma concordanti. Dato il caos organizzativo che regnava nella Ceka resta però incerto il numero delle vittime giustiziate durante i principali episodi repressivi oggi individuati con precisione. Attingendo da fonti diverse si può arrivare al massimo ad azzardare qualche ipotesi sull'ordine di grandezza delle stragi.
I primi massacri di sospetti, ostaggi e altri «nemici del popolo», rinchiusi preventivamente in prigione o in campo di concentramento con semplice provvedimento amministrativo, erano incominciati nel settembre del 1918, all'epoca del primo Terrore rosso. Una volta stabilite le categorie di «sospetti», «ostaggi», «nemici del popolo», e resi operativi in tutta fretta i campi di concentramento, la macchina repressiva era pronta a mettersi in funzione. L'elemento scatenante, in una guerra con fronti molto mobili e in cui ogni mese le sorti militari si invertivano più volte, era, com'è logico, la conquista di una città occupata fino a quel momento dall'avversario, oppure il suo abbandono precipitoso.
L'imposizione della «dittatura del proletariato» nelle città conquistate o riconquistate seguiva le stesse tappe: scioglimento di tutte le assemblee elette in precedenza, interdizione di qualsiasi commercio (provvedimento che comportava l'immediato rincaro di tutte le derrate, e poi la loro scomparsa), confisca delle imprese, nazionalizzate o municipalizzate, imposizione di un tributo finanziario assai ingente alla borghesia (600 milioni di rubli a Har'kov nel febbraio del 1919, 500 milioni a Odessa nell'aprile dello stesso anno). Per garantire il puntuale versamento venivano presi in ostaggio e rinchiusi in campi di concentramento centinaia di «borghesi». In realtà, il tributo era sinonimo di saccheggio, esproprio e vessazione, prima tappa dell'annientamento della «borghesia come classe».
«In conformità alle risoluzioni del soviet dei lavoratori, la giornata odierna, 13 maggio, è stata decretata giorno di espropriazione della borghesia» si poteva leggere su «Izvestija Odesskogo Soveta rabocih deputatov» (Notizie del Consiglio dei deputati operai di Odessa) il 13 maggio 1919. «Le classi possidenti dovranno riempire un questionario dettagliato elencando i prodotti alimentari, le calzature, gli abiti, i gioielli, le biciclette, le coperte, le lenzuola, l'argenteria, il vasellame e altri oggetti indispensabili al popolo lavoratore ... Tutti devono assistere le Commissioni di espropriazione in questo sacro compito ... Chi non obbedirà agli ordini delle Commissioni di espropriazione sarà arrestato immediatamente. Chi resisterà verrà fucilato sul posto».
Lacis, capo della Ceka ucraina, in una circolare alle Ceka locali ammetteva che tutte le «espropriazioni» finivano in tasca dei cekisti e di altri piccoli dirigenti di innumerevoli squadre di requisizione, Commissioni di espropriazione, unità di Guardie rosse sempre assai numerose in simili occasioni.
La seconda tappa delle espropriazioni era la confisca degli appartamenti borghesi. In questa «guerra di classe», anche l'umiliazione dei vinti aveva la sua importanza: «Il pesce ama essere condito con la panna. La borghesia ama l'autorità che infierisce e che uccide» si poteva leggere nel già citato giornale di Odessa il 26 aprile 1919. «Se giustizieremo qualche decina di questi buoni a nulla e di questi idioti, se li ridurremo a spazzare le strade, se obbligheremo le loro donne a lavare le caserme delle Guardie rosse (e per loro sarebbe un onore non indifferente), capiranno che il nostro potere è saldo, e che non devono aspettarsi niente dagli inglesi o dagli ottentotti».
L'umiliazione delle «borghesi» costrette a pulire le latrine e le caserme dei cekisti o delle Guardie rosse era un tema ricorrente in molti articoli di giornali bolscevichi a Odessa, Kiev, Har'kov, Ekaterinoslav, ma anche Perm', negli Urali, e Niznij-Novgorod: a quanto pare si trattava di una pratica corrente. Ma era anche una versione edulcorata e «politicamente presentabile» di una realtà assai più brutale: lo stupro, fenomeno che, secondo molte testimonianze concordi, assunse dimensioni spaventose soprattutto nel 1920, durante la seconda riconquista dell'Ucraina, delle regioni cosacche e della Crimea.
E' dimostrato che in molte città conquistate dai bolscevichi furono giustiziati detenuti, sospetti e ostaggi incarcerati per il semplice fatto di appartenere alle «classi possidenti»; era l'ultima fase, la conseguenza logica, dello «sterminio della borghesia come classe». A Har'kov tra il febbraio e il giugno del 1919 furono giustiziate da 2000 a 3000 persone; da 1000 a 2000 alla seconda riconquista della città, nel dicembre del 1919. A Rostov sul Don nel gennaio del 1920 avvennero circa 1000 esecuzioni; a Odessa 2200 fra il maggio e l'agosto del 1919, poi da 1500 a 3000 fra il febbraio del 1920 e il febbraio del 1921; a Kiev almeno 3000 tra il febbraio e l'agosto del 1919; a Ekaterinodar almeno 3000 fra l'agosto del 1920 e il febbraio del 1921; ad Armavir, una cittadina del Kuban', da 2000 a 3000 fra l'agosto e l'ottobre del 1920. Si potrebbe proseguire l'elenco. In realtà furono uccise molte persone anche altrove, ma tali esecuzioni non sono state registrate nelle inchieste condotte pochissimo tempo dopo i massacri. Così si sa molto di più di quanto è accaduto in Ucraina o nel sud della Russia che non nel Caucaso, in Asia centrale o negli Urali. In effetti, di solito le esecuzioni si intensificavano all'approssimarsi del nemico, nel momento in cui i bolscevichi abbandonavano le loro posizioni e «scaricavano» le prigioni. A Har'kov, nel corso dei due giorni precedenti all'arrivo dei Bianchi, l'8 e il 9 giugno 1919, furono giustiziate centinaia di ostaggi. Fra il 22 e il 28 agosto 1919 a Kiev furono abbattute oltre 1800 persone, prima che i Bianchi riprendessero la città il 30 agosto. Stessa situazione a Ekaterinodar, una cittadina che prima della guerra contava meno di 30 mila abitanti, dove in tre giorni, dal 17 al 19 agosto 1920, il capo della Ceka locale, Atarbekov, fece giustiziare 1600 «borghesi» perché le truppe cosacche stavano avanzando.
I documenti delle Commissioni di inchiesta delle unità dell'Armata bianca, arrivate sul posto alcuni giorni, o addirittura alcune ore dopo le esecuzioni, contengono una miriade di deposizioni, testimonianze, rapporti autoptici, fotografie riguardanti i massacri e l'identità delle vittime. Mentre i giustiziati «dell'ultima ora», eliminati in fretta con un proiettile alla nuca, in generale non presentavano tracce di tortura, le cose andavano diversamente per i cadaveri esumati dalle fosse comuni più vecchie. L'uso di torture terribili è attestato da rapporti autoptici, elementi concreti e testimonianze. Descrizioni dettagliate di tali torture compaiono in particolare nella raccolta già citata di Sergej Mel'gunov e in quella dell'Ufficio centrale del Partito socialista rivoluzionario, "Ceka", pubblicata a Berlino nel 1922.
I massacri raggiunsero l'apogeo in Crimea, durante l'evacuazione delle ultime unità bianche di Vrangel' e dei civili che fuggivano di fronte all'avanzata dei bolscevichi. Nel giro di alcune settimane, dalla metà novembre alla fine di dicembre del 1920, furono fucilate o impiccate circa 50 mila persone. Un gran numero di esecuzioni ebbe luogo subito dopo l'imbarco delle truppe di Vrangel'. A Sebastopoli il 26 novembre molte centinaia di scaricatori furono fucilati per aver contribuito all'evacuazione dei Bianchi. Il 28 e il 30 novembre, il Notiziario del Comitato rivoluzionario di Sebastopoli pubblicò due liste di fucilati. La prima conteneva 1634 nomi, la seconda 1202.
All'inizio di dicembre, quando la febbre delle prime esecuzioni di massa era calata, le autorità incominciarono a procedere a una schedatura il più completa possibile, date le circostanze, della popolazione delle principali città della Crimea, dove si presumeva che si nascondessero decine, o addirittura centinaia di migliaia di borghesi, evacuati da tutta la Russia nei loro tradizionali luoghi di villeggiatura. Il 6 dicembre Lenin dichiarò davanti a un'assemblea di responsabili a Mosca che 300 mila borghesi si erano ammassati in Crimea. Assicurò che in un futuro prossimo quegli «elementi», che costituivano «una fonte di speculazione, di spionaggio, da cui muoverà ogni aiuto ai capitalisti», sarebbero stati «sottomessi».
I cordoni militari che circondavano l'istmo di Perekop, unica via di fuga terrestre, furono rinforzati. Dopo aver chiuso la trappola, le autorità ordinarono che ogni abitante si presentasse alla Ceka per compilare un lungo formulario di inchiesta, contenente una cinquantina di domande sull'origine sociale, il passato, le attività, gli introiti, ma anche il modo di impiegare il tempo nel novembre del 1920, le opinioni sulla Polonia, su Vrangel', sui bolscevichi eccetera. Sulla base di queste «inchieste», la popolazione fu divisa in tre categorie: da fucilare, da mandare in campo di concentramento, da risparmiare. Le testimonianze dei rari sopravvissuti, pubblicate sui giornali dell'emigrazione nel 1921, descrivono Sebastopoli, una delle città colpite con maggior durezza dalla repressione, come una «città di impiccati». «La prospettiva Nahimovskij era piena di cadaveri impiccati di ufficiali, soldati, civili arrestati per strada.... La città era morta, la popolazione si nascondeva nelle cantine e nei granai. Tutti i muri delle case, le palizzate, i pali telegrafici, le vetrine dei negozi, erano coperti di manifesti "Morte ai traditori".... Impiccavano nelle strade per dare l'esempio».
L'ultimo episodio dello scontro fra Bianchi e Rossi non mise fine alla repressione. I fronti militari della guerra civile non esistevano più, ma la guerra di «pacificazione» e di «sradicamento» sarebbe continuata quasi per altri due anni.
Ultima modifica 05.12.2003