Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusione
12.
L'ALTRA FACCIA DELLA VITTORIA
Un segreto particolarmente ben custodito ha rappresentato a lungo uno
dei molti «spazi bianchi» della storia sovietica: il fatto che durante
la «Grande guerra patriottica» popoli interi siano stati deportati, in
quanto la collettività alla quale appartenevano era sospettata di
«atti di diversione, spionaggio e collaborazionismo» a favore degli
occupanti nazisti. Prima che le autorità cominciassero ad ammettere
che nell'accusa di «collaborazione collettiva» si erano verificati
«eccessi» e «generalizzazioni» si dovette arrivare alla fine degli
anni Cinquanta. Negli anni Sessanta fu ripristinato lo statuto
giuridico di un certo numero di repubbliche autonome cancellate dalla
carta geografica per aver collaborato con l'occupante. Tuttavia,
soltanto nel 1972 gli appartenenti ai popoli deportati ricevettero
finalmente una teorica autorizzazione a «scegliere liberamente il
proprio domicilio», e soltanto nel 1989 i tatari di Crimea furono
pienamente «riabilitati». Fino a metà degli anni Sessanta, la
progressiva abrogazione delle sanzioni inflitte ai «popoli puniti»
avvenne nella massima segretezza, e i decreti anteriori al 1964 non
furono mai pubblicati. Perché finalmente lo Stato sovietico
riconoscesse «la criminale illegalità delle barbarie commesse dal
regime staliniano nei confronti dei popoli deportati in massa» si
dovette attendere la dichiarazione del Soviet supremo del 14 novembre
1989.
Il primo gruppo etnico a subire la deportazione collettiva fu quello tedesco, poche settimane dopo l'invasione dell'URSS a opera della Germania nazista. Secondo il censimento del 1939, in URSS vivevano un milione 427 mila tedeschi, discendenti per la maggior parte dai coloni chiamati a popolare gli immensi territori disabitati della Russia meridionale da Caterina Seconda, originaria dell'Assia. Nel 1924 il governo sovietico aveva creato una Repubblica autonoma dei tedeschi del Volga, tuttavia questo gruppo etnico, composto da circa 370 mila persone, rappresentava soltanto un quarto della popolazione di origine tedesca, ripartita fra la Russia (nelle province di Saratov, Stalingrado, Voronez, Mosca, Leningrado eccetera), l'Ucraina (390 mila persone), il Caucaso settentrionale (nelle province di Krasnodar, Ordzonikidze, Stavropol'), e presente perfino in Crimea o in Georgia. Il 28 agosto 1941 il presidium del Soviet supremo approvò un decreto in base al quale tutta la popolazione tedesca della Repubblica autonoma del Volga, delle province di Saratov e di Stalingrado, doveva essere deportata in Kazakistan e in Siberia. Secondo il testo del decreto, si trattava di una misura preventiva ispirata da motivi umanitari!
Da informazioni degne di fede raccolte dalle autorità militari risulta
che la popolazione tedesca insediata nella regione del Volga ospita al
suo interno migliaia e decine di migliaia di sabotatori e di spie, le
quali al primo segnale proveniente dalla Germania dovranno organizzare
attentati nelle zone di residenza dei tedeschi del Volga. Poiché
nessuno ha notificato alle autorità sovietiche la presenza di una tale
quantità di sabotatori e di spie fra i tedeschi del Volga, se ne
deduce che la popolazione tedesca del Volga occulta nel proprio seno i
nemici del popolo e del potere sovietico...
Se nella Repubblica dei tedeschi del Volga o nei distretti limitrofi
si verificheranno atti di sabotaggio compiuti su ordine della Germania
da sabotatori e spie tedesche, scorrerà il sangue e il governo
sovietico, in conformità alle leggi vigenti in tempo di guerra, sarà
costretto a infliggere provvedimenti punitivi all'intera popolazione
tedesca del Volga. Per evitare tale deplorevole situazione e gravi
spargimenti di sangue, il presidium del Soviet supremo dell'URSS ha
stimato necessario trasferire in altre zone tutta la popolazione
tedesca residente nella regione del Volga, assegnandole dei terreni e
un soccorso dello Stato per insediarla nelle nuove contrade.
Si indicano come luoghi di destinazione di tale trasferimento i
distretti delle regioni di Novosibirsk e di Omsk, del territorio
dell'Altaj, del Kazakistan e di altre regioni limitrofe, dove le terre
abbondano.]
Mentre l'Armata rossa arretrava su tutti i fronti e le perdite quotidiane di combattenti, uccisi o fatti prigionieri, si contavano a decine di migliaia, per attuare la deportazione di questi gruppi Berija distaccò circa 14 mila uomini dalle truppe dell'N.K.V.D., assegnando il comando al vicecommissario del popolo per gli Affari interni, il generale Ivan Serov, che si era già distinto nella «ripulitura» dei paesi baltici. Considerando le circostanze e la disfatta senza precedenti dell'Armata rossa, le operazioni furono sbrigate con risolutezza. Fra il 3 e il 20 settembre 1941 furono deportati 446480 tedeschi, suddivisi in 230 convogli di 50 vagoni in media: circa 2000 persone per convoglio! Spostandosi a una velocità media di pochi chilometri orari, i convogli impiegavano fra le quattro e le otto settimane per arrivare a destinazione: nelle province di Omsk e Novosibirsk, in quella di Barnaul, nella Siberia meridionale, e nel territorio di Krasnojarsk, in Siberia orientale. Come era già accaduto nelle precedenti deportazioni dei popoli baltici, secondo le direttive ufficiali gli «sfollati» avevano avuto «un preciso lasso di tempo [sic] per prendere con sé provviste e vettovaglie sufficienti a un periodo di almeno un mese»!
Mentre si svolgeva l'«operazione principale» della deportazione, si succedevano le «operazioni secondarie» della stessa natura, determinate dalle contingenti necessità militari. Già il 29 agosto 1941 Molotov, Malenkov e Zdanov proposero a Stalin di «ripulire» la provincia e la città di Leningrado da 96 mila individui di origine tedesca e finlandese. Il 30 agosto le truppe tedesche giunsero alla Neva e interruppero le comunicazioni ferroviarie tra Leningrado e il resto del paese. Di giorno in giorno si faceva sempre più concreta la minaccia di un assedio della città, senza che le autorità competenti avessero provveduto a predisporre l'evacuazione della popolazione civile di Leningrado, né ad assicurare le riserve alimentari necessarie. Nondimeno, quello stesso 30 agosto Berija firmò una circolare che ordinava la deportazione di 132 mila persone della provincia leningradese, 96 mila in treno e 36 mila per via fluviale. L'N.K.V.D. fece in tempo ad arrestare e a deportare soltanto 11 mila cittadini sovietici di nazionalità tedesca.
Nelle settimane seguenti, analoghe operazioni si svolsero nelle province di Mosca (9640 tedeschi deportati il 15 settembre), Tula (2700 il 21 settembre), Gor'kij (3162 il 14 settembre), Rostov (38288 fra il 10 e il 20 settembre), Zaporoz'e (31320 dal 25 settembre al 10 ottobre), Krasnodar (38136 alla data del 15 settembre), Ordzonikidze (77570 al 20 settembre). Durante il mese di ottobre del 1941 la deportazione colpì ancora oltre 10 mila tedeschi residenti in Georgia, Armenia, Azerbaigian, nel Caucaso settentrionale e in Crimea. Da una valutazione in cifre dell'evacuazione dei tedeschi risulta che alla data del 25 dicembre 1941 erano state deportate 894600 persone, perlopiù nel Kazakistan e in Siberia; se si tiene conto dei tedeschi deportati nel 1942, il totale arriva a un milione 209430 unità, frutto di meno di un anno di operazioni, dall'agosto del 1941 al giugno del 1942. Ricordiamo che, secondo il censimento del 1939, la popolazione tedesca nell'URSS era costituita da un milione 427 mila persone. Fu quindi deportato oltre l'82 per cento dei tedeschi sparsi sul territorio sovietico, nello stesso momento in cui la situazione catastrofica del paese, sull'orlo dell'annientamento, avrebbe richiesto che i contingenti militari e di polizia concentrassero tutti gli sforzi nella lotta armata contro il nemico anziché essere impiegati nella deportazione di centinaia di migliaia di innocenti cittadini sovietici. In realtà la percentuale di cittadini sovietici di origine tedesca colpiti dal provvedimento era ancora più alta, se si tiene conto delle decine di migliaia di soldati e ufficiali di origine tedesca espulsi dai ranghi dell'Armata rossa e trasferiti nei battaglioni di disciplina dell'«Armata del lavoro», operante a Vorkuta, Kotlass, Kemerovo, Celjabinsk. In quest'ultima città, oltre 25 mila tedeschi lavoravano per costruire un complesso industriale metallurgico. Occorre precisare che nei battaglioni di disciplina le condizioni di vita e di lavoro erano del tutto analoghe a quelle del gulag.
Quanti deportati scomparvero durante il viaggio di trasferimento? Oggi non abbiamo ancora a disposizione la cifra complessiva, mentre la guerra e le violenze di quel periodo apocalittico impediscono di aggregare i dati sparsi relativi all'uno o all'altro convoglio. Ma nel caos dell'autunno del 1941, quanti dovettero essere i convogli che non giunsero mai a destinazione? Secondo il «piano», 29600 deportati tedeschi sarebbero dovuti giungere nella provincia di Karaganda verso la fine di novembre, ma nel conteggio stilato al primo gennaio 1942 si calcolano soltanto 8304 arrivi. Per la provincia di Novosibirsk il «piano» prevedeva 130998 individui, ma ne furono censiti soltanto 116612. Dov'erano finiti gli altri? Erano morti durante il viaggio? Erano stati mandati altrove? Nella regione dell'Altaj, in cui era stato «pianificato» di accogliere 11 mila deportati, ne arrivarono 94799! I rapporti dell'N.K.V.D. sull'insediamento dei deportati sono assai più eloquenti di questa sinistra aritmetica: sottolineano infatti all'unanimità quanto fossero «impreparate le regioni ad accoglierli».
Per obbligo di segretezza l'arrivo imminente di decine di migliaia di deportati fu annunciato alle autorità locali soltanto all'ultimo momento. Poiché non si erano potuti allestire alloggi, nonostante l'inverno incipiente i deportati furono acquartierati dove capitava: in baracche, nelle stalle o all'aria aperta. Tuttavia, dal momento che la mobilitazione aveva mandato al fronte gran parte della manodopera di sesso maschile, e che le autorità, in dieci anni, avevano avuto modo di farsi una certa esperienza in materia, l'«assegnazione economica» dei nuovi arrivati fu attuata in tempi più rapidi rispetto a quanto era avvenuto con i kulak deportati nel 1930 e abbandonati in mezzo alla taiga. Nel giro di pochi mesi la maggior parte dei deportati fu sistemata come gli altri coloni speciali, ossia in situazioni abitative, di lavoro e di approvvigionamento caratterizzate da particolare precarietà e durezza, e di solito alle dipendenze di un comando dell'N.K.V.D., di un kolhoz, di un sovhoz o di un complesso industriale .
***
Fra il novembre del 1943 e il giugno del 1944, alla deportazione dei tedeschi seguì una seconda, massiccia ondata di deportazioni. Sei popoli - i ceceni, gli ingusci, i tatari di Crimea, i caraciai, i balcari e i calmucchi - furono deportati in Siberia, in Kazakistan, in Uzbekistan e in Kirghizistan, colpiti dall'accusa pretestuosa di «avere collaborato in massa con l'occupante nazista». Fra il luglio e il dicembre del 1944 questa ondata principale, che travolse oltre 900 mila persone, fu seguita da altre operazioni, destinate a «ripulire» la Crimea e il Caucaso da altri gruppi nazionali ritenuti «di dubbia lealtà»: i greci, i bulgari, gli armeni di Crimea, i turchi mescheti, i curdi e i chemscini del Caucaso.
Per quanto riguarda il «collaborazionismo» con i nazisti, di cui si sarebbero macchiati i popoli delle montagne del Caucaso, i calmucchi e i tatari di Crimea, gli archivi e i documenti resi da poco accessibili agli studiosi non hanno portato nessuna nuova certezza. Su questo punto, perciò, dobbiamo limitarci a ricordare un certo numero di fatti che permettono soltanto di presumere, per induzione, l'esistenza di ristretti nuclei di collaborazionisti (in Crimea, nella Repubblica autonoma dei calmucchi, nella provincia autonoma dei caraciai e circassi e nella Repubblica autonoma di Cabardino-Balcaria), ma non quella di una situazione generale di collaborazionismo configurabile in una vera e propria politica. Gli episodi di collaborazionismo più controversi si riferiscono al luglio del 1942, quando l'Armata rossa aveva perduto Rostov sul Don, e all'occupazione tedesca del Caucaso, dall'estate del 1942 alla primavera del 1943. Nell'intervallo fra la partenza dei sovietici e l'arrivo dei nazisti, per colmare il vuoto di potere alcuni personaggi locali costituirono dei «comitati nazionali»: così avvenne a Mikojan-Sahar, nella provincia autonoma dei caraciai e circassi, a Nal'cik, nella Repubblica autonoma di Cabardino-Balcaria, e a Elista, nella Repubblica autonoma dei calmucchi. L'esercito tedesco riconobbe l'autorità dei comitati locali, che per qualche mese poterono godere di una certa autonomia in materia di economia, politica e religione. E poiché l'esperienza del Caucaso aveva alimentato ancor più il «mito musulmano» vagheggiato dal potere di Berlino, a Simferopol' i tatari di Crimea furono autorizzati dai tedeschi a creare un proprio «Comitato centrale musulmano».
Tuttavia, nel timore di dover fronteggiare una rinascita del movimento panturanico, stroncato dal potere sovietico nei primi anni Venti, le autorità naziste non accordarono mai ai tatari di Crimea l'autonomia di cui per qualche mese beneficiarono i calmucchi, i caraciai e i balcari. In cambio di una dose di autonomia concessa col contagocce, le autorità locali dovettero radunare un certo contingente di truppe per combattere i partigiani rimasti fedeli al regime sovietico, che si erano dati alla macchia. Si trattò complessivamente di alcune migliaia di uomini che componevano unità dal ridotto numero di effettivi: sei battaglioni tatari in Crimea e un corpo di cavalleria calmucca. Per quanto riguarda la Repubblica autonoma di Ceceno-Inguscezia, i nazisti ne occuparono soltanto zone molto limitate e per una decina di settimane appena, fra i primi di settembre e la metà di novembre del 1942; qui non vi fu ombra di collaborazionismo, ma è pur sempre vero che il popolo ceceno, avendo resistito alla colonizzazione dell'impero russo fino al 1859, anno della capitolazione, era rimasto indomito anche sotto il potere sovietico. Nel marzo-aprile del 1930, e ancora nell'aprile-maggio del 1932, per sopraffare i «banditi» contro i quali combattevano, le truppe speciali dell'N.K.V.D. avevano dovuto ricorrere all'artiglieria e all'aviazione. Esisteva quindi un pesante contenzioso tra il potere centrale e questo popolo indipendente che aveva sempre respinto la tutela di Mosca.
Le cinque grandi retate-deportazioni, che si verificarono fra il novembre del 1943 e il maggio del 1944, si svolsero secondo un procedimento collaudatissimo e, a differenza delle prime deportazioni di kulak, «con notevole efficienza operativa», secondo l'espressione usata dallo stesso Berija. La fase di «preparazione logistica» fu organizzata con cura per varie settimane, sotto la personale supervisione di Berija e dei suoi assistenti Ivan Serov e Bogdan Kobulov, presenti sul posto con il loro treno speciale blindato. Il numero di convogli da allestire era impressionante: 46 convogli di 60 vagoni ciascuno per deportare 93139 calmucchi in quattro giorni, dal 27 al 30 dicembre 1943, e 194 convogli di 65 vagoni ciascuno per deportare 521247 ceceni e ingusci in sei giorni, dal 23 al 28 febbraio 1944. Per queste operazioni di carattere eccezionale l'N.K.V.D. non lesinò i mezzi. In un momento in cui la guerra era nella sua fase cruciale, per il rastrellamento di ceceni e ingusci furono impiegati non meno di 119 mila uomini appartenenti alle truppe speciali dell'N.K.V.D.!
Le operazioni, di cui erano stati «cronometrati» i tempi ora per ora, cominciavano con l'arresto degli «elementi potenzialmente pericolosi», ossia di una quota compresa fra l'1 e il 2 per cento della popolazione, composta in massima parte da vecchi, donne e bambini, poiché la maggioranza degli uomini validi era sotto le armi. Se vogliamo credere ai «rapporti operativi» spediti a Mosca, tutto si svolse con grande celerità. Per esempio, durante il rastrellamento dei tatari di Crimea, fra il 18 e il 20 maggio 1944, la sera del primo giorno Kobulov e Serov, responsabili dell'operazione, telegrafarono a Berija: «Alle 20 di oggi abbiamo effettuato il trasferimento di 90 mila individui alle stazioni. Sono già partiti 17 convogli che portano a destinazione 48 mila individui; per 25 convogli sono in corso le operazioni di carico. L'operazione non ha provocato alcun incidente. L'operazione prosegue». Il giorno dopo, 19 maggio, Berija informò Stalin che al termine della seconda giornata si trovavano radunati nelle stazioni 165515 individui, 136412 dei quali erano stati caricati sui convogli partiti verso «la destinazione specificata nelle direttive». Il terzo giorno, 20 maggio, Serov e Kobulov inviarono a Berija un telegramma per comunicargli che alle 16.30 l'operazione si era conclusa. In totale stavano per mettersi in viaggio 63 convogli con 173287 persone; quella sera stessa sarebbero partiti gli ultimi quattro convogli con le rimanenti 6727.
A giudicare dai rapporti stilati dai burocrati dell'N.K.V.D., le operazioni necessarie per riuscire a deportare centinaia di migliaia di persone non sarebbero state altro che pure formalità: tant'è vero che ognuna di esse appariva più «riuscita», più «efficiente», più «economica» della precedente. Dopo la deportazione di ceceni, ingusci e balcari, un certo Mil'shtejn, funzionario dell'N.K.V.D., compilò un lungo rapporto sulle... «economie di vagoni, tavole, secchi e badili ... ottenute nelle ultime deportazioni rispetto alle precedenti»:
Ma qual era la spaventosa realtà di quel viaggio, dissimulato dalla visione burocratica di un'operazione perfettamente riuscita secondo i criteri dell'N.K.V.D.? Ecco alcune testimonianze di superstiti tatari raccolte alla fine degli anni Settanta:
"Il viaggio fino alla stazione di Zerabulak, nella regione di Samarcanda, durò 24 giorni. Di là ci portarono al kolhoz Pravda. Ci costrinsero a riparare delle carrette ... Noi lavoravamo e avevamo fame. Molti di noi non si reggevano in piedi. Dal nostro villaggio avevano deportato trenta famiglie. Sopravvissero una o due persone in cinque famiglie. Tutti gli altri morirono di fame o di malattia".
Un altro superstite ha raccontato:
"Dentro i vagoni, che erano ermeticamente chiusi, si moriva come mosche, per la fame e la mancanza d'aria; non ci davano niente, né da bere né da mangiare. Nei villaggi che attraversavamo la popolazione era stata aizzata contro di noi - avevano detto alla gente che sui treni erano rinchiusi dei traditori della patria - e le pareti dei vagoni rimbombavano per i sassi che ci tiravano contro. Quando si aprirono le porte, nel bel mezzo delle steppe del Kazakistan, ci dettero da mangiare delle razioni militari, ma nulla da bere, e ci ordinarono di gettare i nostri morti lungo i binari, senza seppellirli. Poi ripartimmo".
Arrivati «a destinazione», in Kazakistan, in Kirghizistan, in Uzbekistan o in Siberia, i deportati erano assegnati ai kolhoz o alle industrie, e ogni giorno si trovavano a dover affrontare problemi di alloggio, di lavoro, di sopravvivenza, come attestano tutti i rapporti inviati alle autorità centrali dai dirigenti periferici dell'N.K.V.D., conservati nel ricchissimo fondo d'archivio dedicato agli «insediamenti speciali» del gulag. Per esempio, in un rapporto del settembre del 1944 proveniente dal Kirghizistan si dice che avevano ricevuto un'abitazione soltanto 5000 famiglie sulle 31 mila deportate da poco. Oltretutto, il concetto di «abitazione» era molto elastico. Leggendo il testo con attenzione si scopre che nel distretto di Kameninskij le autorità locali avevano alloggiato 900 famiglie in... 18 appartamenti di un sovhoz, ossia 50 famiglie per ciascun appartamento! Da una simile cifra inconcepibile si deduce che nell'imminenza dell'inverno le famiglie deportate dal Caucaso, nelle quali era spesso presente un gran numero di bambini, dormivano a volte negli «appartamenti» e a volte all'aperto.
In una lettera a Mikojan del novembre del 1944, ossia quasi un anno dopo la deportazione dei calmucchi, Berija stesso riconosceva che questi ultimi «si trovavano in condizioni di vita e in una situazione sanitaria di straordinaria difficoltà: nella maggior parte dei casi non hanno né biancheria, né vestiti, né scarpe». Due anni dopo, due responsabili dell'N.K.V.D. riferivano: «Il 30 per cento dei calmucchi in condizione di lavorare non lavora perché non possiede scarpe. La totale assenza di adattamento al clima rigido, a situazioni inconsuete e l'ignoranza della lingua si fanno sentire e provocano ulteriori difficoltà». In genere i deportati erano pessimi lavoratori: privi di radici, affamati, si trovavano aggregati a fattorie collettive che non erano neppure in grado di assicurare la sopravvivenza al personale abitualmente in dotazione, oppure erano collocati dalla direzione dell'azienda a svolgere mansioni per le quali non avevano nessuna preparazione. Scriveva a Stalin D. P. Pjurveev, ex presidente della Repubblica autonoma dei calmucchi:
"La situazione dei calmucchi deportati in Siberia è tragica: hanno perduto il proprio bestiame; sono arrivati in Siberia privi di tutto ... Non si adattano alle nuove condizioni, in cui per vivere bisogna produrre ... I calmucchi assegnati ai kolhoz non ricevono nessun vettovagliamento, perché gli stessi colcosiani non hanno niente. Quanto a coloro che sono stati assegnati a imprese industriali, non sono riusciti a integrarsi nella nuova situazione di operai, e quindi si trovano in uno stato di indigenza che non permette loro di approvvigionarsi in modo adeguato".
Proviamo a tradurre il linguaggio cifrato del messaggio: i calmucchi, allevatori nomadi, di fronte alle macchine si smarrivano, e tutto il loro magro salario serviva a pagare le multe in cui incorrevano per le mancanze commesse sul lavoro!
Per avere un'idea dell'ecatombe che colpì i deportati consideriamo alcune cifre. Nel gennaio del 1946 l'amministrazione degli insediamenti speciali censì 70360 calmucchi rispetto ai 92 mila deportati due anni prima. Allo scadere del primo luglio 1944 erano arrivate in Uzbekistan 35750 famiglie tatare, per un totale di 151424 persone; sei mesi dopo le famiglie erano 818 di più, ma gli individui erano 16 mila in meno! Sulle 608749 persone deportate dal Caucaso, 146892 erano morte al primo ottobre 1948 (ossia quasi una su quattro) e nel frattempo si erano avuti soltanto 28120 nati. Sulle 228392 persone deportate dalla Crimea, quattro anni dopo ne erano morte 44887, mentre nello stesso periodo le nascite erano state solo 6564 . Il fenomeno dell'eccesso di mortalità appare con ancor maggiore evidenza se consideriamo che una quota fra il 40 e il 50 per cento dei deportati era costituita da bambini sotto i sedici anni; perciò tali decessi erano dovuti a «morte naturale» soltanto per una percentuale infima. E per quanto riguarda i giovani sopravvissuti, quale avvenire potevano aspettarsi? Su 89 mila bambini in età scolare deportati nel Kazakistan, meno di 12 mila ricevevano un'istruzione scolastica... e questo nel 1948, ossia quattro anni dopo la deportazione. Del resto, le disposizioni ufficiali stabilivano che ai figli dei «coloni speciali» dovesse essere assicurato l'insegnamento esclusivamente in lingua russa.
***
Durante la guerra le deportazioni collettive colpirono anche altri popoli. Pochi giorni dopo aver concluso la deportazione dei tatari di Crimea, il 29 maggio 1944 Berija scrisse a Stalin: «L'N.K.V.D. stima ragionevole [sic] espellere dalla Crimea tutti i bulgari, i greci e gli armeni». Ai primi si rimproverava di avere «attivamente prestato la propria opera per fabbricare pane e prodotti alimentari destinati all'esercito tedesco durante l'occupazione nazista», nonché di avere «collaborato con le autorità militari tedesche per cercare soldati dell'Armata rossa e partigiani». I greci, «dopo l'arrivo degli occupanti», avevano «creato piccole imprese industriali»: «le autorità tedesche li hanno aiutati a fare commercio, trasporto di merci eccetera». Gli armeni, infine, erano accusati di aver creato a Simferopol' un'organizzazione collaborazionista, detta «Dromedar», presieduta dal generale armeno Dro, la quale «si occupava, oltre che di questioni religiose e politiche, di sviluppare il piccolo commercio e l'industria». Secondo Berija, tale organizzazione aveva «raccolto fondi per le esigenze militari dei tedeschi e per contribuire alla creazione di una Legione armena».
Quattro giorni dopo, il 2 giugno 1944, Stalin firmò un decreto del Comitato statale per la difesa in cui si ordinava di «completare l'espulsione dei tatari di Crimea con l'espulsione di 37 mila bulgari, greci e armeni, complici dei tedeschi». Così come per gli altri contingenti di deportati, il decreto fissava arbitrariamente le quote per ciascuna «regione di accoglienza»: 7000 per la provincia di Gur'ev, nel Kazakistan, 10 mila per quella di Molotov, negli Urali, 6000 per la provincia di Kemerovo, 4000 per la Repubblica dei baschiri. Secondo la terminologia classica, «l'operazione si svolse con pieno successo» il 27 e 28 giugno 1944. In questi due giorni furono deportate 41854 persone, «ossia il 111 per cento del previsto», come si faceva notare nel rapporto.
Dopo aver «epurato» la Crimea dai tedeschi, dai tatari, dai bulgari, dai greci e dagli armeni, l'N.K.V.D. decise di «ripulire» le frontiere del Caucaso. Tali operazioni su vasta scala erano in effetti il naturale prolungamento, in forma più sistematica, delle operazioni «antispie» degli anni 1937-1938, e si ispiravano appunto alla stessa sacralizzazione ossessiva delle frontiere. Il 21 luglio 1944 un nuovo decreto del Comitato statale per la difesa, con la firma di Stalin, ordinò di deportare 86 mila turchi mescheti, curdi e chemscini dalle regioni confinarie della Georgia. Questi popoli dell'ex Impero ottomano erano da secoli insediati in territori di montagna. Inoltre, poiché alcuni di essi conducevano vita nomade, avevano la consuetudine di attraversare liberamente la frontiera turco-sovietica nelle due direzioni, sicché i preparativi del rastrellamento furono particolarmente lunghi. L'operazione richiese una decina di giorni, dal 15 al 25 novembre 1944, e fu condotta da 14 mila uomini appartenenti ai corpi speciali dell'N.K.V.D. Per attuarla furono usati 900 camion Studebaker, inviati dagli americani in base alla legge sugli affitti e prestiti, che impegnava gli Stati Uniti a fornire materiale bellico a quasi tutte le potenze alleate!.
In un rapporto a Stalin del 28 novembre, Berija vantava l'impresa di essere riuscito a trasferire 91095 persone in dieci giorni «in condizioni di particolare difficoltà». Come spiegava lo stesso Berija, tutti questi individui, il 49 per cento dei quali era costituito da bambini sotto i sedici anni, erano potenziali spie turche: «Una frazione considerevole della popolazione di questa regione ha legami di famiglia con gli abitanti delle regioni confinarie della Turchia. Era gente che faceva del contrabbando, manifestava la tendenza a voler emigrare e forniva reclute ai servizi di informazione turchi oltre che ai gruppi di banditi operanti sulla linea di frontiera». Secondo le statistiche del Dipartimento insediamenti speciali del gulag, il totale delle persone deportate in Kazakistan e Kirghizistan durante tale operazione avrebbe raggiunto le 94955 unità. Fra il novembre del 1944 e il luglio del 1948 morirono 19540 fra mescheti, curdi e chemscini deportati, ossia il 21 per cento del contingente. Un simile tasso di mortalità, fra il 20 e il 25 per cento in quattro anni, risulta più o meno uguale in tutte le nazionalità «punite» dal regime.
Durante la guerra il contingente di coloni speciali si rinnovò e crebbe in misura considerevole, passando da circa un milione 200 mila persone a oltre 2 milioni 500 mila in conseguenza dell'arrivo in massa di centinaia di migliaia di persone deportate in base a criteri di appartenenza etnica. Mentre prima della guerra il grosso dei coloni speciali era costituito dai «dekulakizzati», il numero di questi ultimi crollò da circa 936 mila all'inizio del conflitto a 622 mila nel maggio del 1945. Infatti i «dekulakizzati» adulti di sesso maschile furono chiamati a decine di migliaia sotto le armi, con l'eccezione tuttavia dei capifamiglia deportati; le mogli e i figli degli arruolati ricuperavano la condizione di liberi cittadini ed erano cancellati dagli elenchi dei coloni speciali, ma a causa della guerra non potevano lasciare il luogo del domicilio coatto loro assegnato, tanto più che avevano subito la confisca di tutti i beni, compresa la casa di abitazione.
Senza dubbio le condizioni in cui erano costretti a sopravvivere i detenuti del gulag non furono mai tanto terribili come negli anni 1941-1944. Carestia, epidemie, sovraffollamento, sfruttamento disumano: ecco il destino che toccava a ogni "zek" (detenuto) sopravvissuto alla fame, alla malattia, all'obbligo di completare ogni giorno una quota di lavoro sempre più alta, alle denunce dello stuolo di informatori incaricati di smascherare le «organizzazioni controrivoluzionarie di detenuti», ai processi e alle esecuzioni sommarie.
Nei primi mesi della guerra l'avanzata tedesca costrinse l'N.K.V.D. a evacuare un gran numero di prigioni, di colonie di lavoro e di campi che erano sotto la sua giurisdizione e rischiavano di cadere in mano nemica. Fra il luglio e il dicembre del 1941 furono trasferiti a oriente 210 colonie, 135 prigioni e 27 campi, per un totale di circa 750 mila detenuti. Il capo del gulag, Nasedkin, nello stendere un bilancio dell'«attività del gulag durante la Grande guerra patriottica», affermava che «generalmente l'evacuazione dei campi fu compiuta in modo organizzato». Però Nasedkin aggiungeva: «A causa della mancanza di mezzi di trasporto i detenuti furono evacuati perlopiù a piedi, su percorsi che spesso superavano il migliaio di chilometri». Si può immaginare in quali condizioni arrivassero a destinazione! Quando non c'era il tempo di evacuare i campi, come spesso avvenne nelle prime settimane della guerra, i detenuti venivano sommariamente giustiziati. In particolare fu così nell'Ucraina occidentale, dove, alla fine del giugno del 1941, l'N.K.V.D. massacrò 10 mila prigionieri a Leopoli, 1200 nella prigione di Luck, 1500 a Stanyslaviv, 500 a Dubno eccetera. Quando arrivarono nelle regioni di Leopoli, Zitomir e Vinnica, i tedeschi scoprirono decine di fosse comuni. Adducendo il pretesto delle «atrocità giudaico-bolsceviche», i "Sonderkommando" nazisti si affrettarono a massacrare decine di migliaia di ebrei.
In tutti i rapporti stilati dall'amministrazione del gulag per gli anni 1941-1944 si riconosce che durante la guerra le condizioni di vita nei campi avevano subito uno spaventoso degrado. Nei campi sovraffollati la «superficie abitativa» che toccava a ciascun detenuto subì un crollo, da 1,5 a 0,7 metri quadrati per persona. In termini più espliciti, ciò significava che i detenuti dormivano su tavolacci facendo i turni, perché ormai le reti da letto erano un «lusso» da riservare ai «lavoratori delle squadre d'assalto». Nel 1942 la «razione calorica alimentare» precipitò al 65 per cento di quella fissata prima della guerra. I detenuti furono ridotti alla fame e nel 1942 tifo e colera fecero la loro ricomparsa nei campi. Secondo dati ufficiali, quell'anno morirono 90 mila prigionieri. Nel 1941 il tasso di mortalità annuo si era avvicinato all'8 per cento, con circa 101 mila decessi registrati soltanto nei campi di lavoro, senza contare le colonie.
Le notizie ricevute dal dipartimento operativo dell'N.K.V.D. della
regione di Novosibirsk segnalano un forte aumento della mortalità fra
i detenuti dei dipartimenti del Siblag di Ahlursk, Kuzneck e
Novosibirsk...
Tale elevata mortalità, alla quale si accompagna una diffusione
massiccia delle malattie fra i detenuti, è senza dubbio provocata dal
generale dimagrimento dovuto alla sistematica carenza di alimentazione
associata allo svolgimento di lavori pesanti; contemporaneamente si
osserva l'insorgenza della pellagra e l'indebolimento dell'attività
cardiaca.
Il ritardo nel prestare cure mediche agli ammalati e la gravosità dei
lavori compiuti dai detenuti, con orari prolungati e mancanza di
razioni alimentari suppletive, costituiscono un altro complesso di
cause che spiegano l'alto grado di morbilità e di mortalità...
Fra i detenuti avviati ai campi dai vari centri di selezione si sono
osservati numerosi casi di mortalità, di pronunciata magrezza e di
epidemie. Per esempio, sui 539 detenuti avviati in convoglio al
dipartimento Mariinskoe dal centro di selezione di Novosibirsk, l'8
ottobre 1 941, più del 30 per cento presentava caratteri di estrema
magrezza di origine pellagrosa ed era gravemente infestato dai
pidocchi. Oltre ai deportati, sono arrivati a destinazione sei
cadaveri [1]. Nella notte dall'8 al 9 ottobre sono morte altre cinque
persone dello stesso convoglio. Nel convoglio proveniente dallo stesso
centro di selezione e giunto al dipartimento Mariinskoe il 20
settembre, il 100 per cento dei detenuti era coperto di pidocchi, e
una percentuale notavole era priva di biancheria intima...
Negli ultimi tempi nei campi del Siblag si sono accertati numerosi
atti di sabotaggio compiuti dal personale medico costituito da
detenuti. Per esempio, l'aiutante sanitario del campo di Ahzer
(dipartimento di Tajginsk), condannato ai sensi dell'articolo 58-10
[2], ha organizzato un gruppo di quattro detenuti avente lo scopo di
sabotare la produzione [3]. I membri del gruppo mandavano ai lavori
più faticosi i detenuti ammalati e non li curavano in tempo, nella
speranza di riuscire a impedire al campo di attuare le quote di
produzione stabilite dal piano.
Il vicecapo del dipartimento operativo del gulag,
capitano delle forze di Sicurezza, Kogenman]
Nel 1942 l'amministrazione dei campi del gulag registrò 249 mila decessi, ossia un tasso di mortalità del 18 per cento; nel 1943 i decessi furono 167 mila, equivalenti a un tasso del 17 per cento. Considerando soltanto gli anni 1941-1943 e sommando le esecuzioni di detenuti ai decessi avvenuti in carcere e nei campi di lavoro forzato, possiamo stimare a circa 600 mila il numero di morti nel gulag. I superstiti erano peraltro in condizioni penose. Secondo dati forniti dall'amministrazione, alla fine del 1942 solo il 19 per cento dei detenuti era idoneo a svolgere lavori «pesanti», il 17 per cento lavori «mediamente faticosi», mentre il 64 per cento poteva svolgere «lavori leggeri», ovvero era invalido.
Il «forte degrado della situazione sanitaria del contingente», per usare un eufemismo coniato dall'amministrazione del gulag, a quanto pare non impedì alle autorità di esercitare una pressione costante sui detenuti, fino all'esaurimento. Il capo del gulag riferisce in un suo rapporto: «Dal 1941 al 1944 il valore medio di una giornata di lavoro è aumentato da 9,5 a 21 rubli». Diverse centinaia di migliaia di detenuti furono assegnati alle fabbriche di armi, in sostituzione della manodopera arruolata nelle forze armate. Il ruolo avuto dal gulag nell'economia bellica si dimostrò importantissimo. Secondo le stime dell'amministrazione carceraria, il lavoro compiuto dai detenuti avrebbe assicurato circa un quarto della produzione in alcuni settori chiave dell'industria degli armamenti, della metallurgia e dell'estrazione mineraria.
Nonostante la «compattezza patriottica» [sic] dimostrata dai detenuti, «impegnati al 95 per cento nella competizione socialista», la repressione non si allentava, soprattutto nei confronti dei «politici». Grazie a un decreto approvato il 22 giugno 1941 dal Comitato centrale, neppure uno dei «58» (i detenuti condannati in base all'articolo 58 del Codice penale, che sanzionava i «delitti controrivoluzionari»), poteva essere liberato prima della fine della guerra, anche se avesse terminato di scontare la pena.
L'amministrazione del gulag creò dei campi speciali, «a regime rafforzato», situati nelle regioni più inospitali (la Kolyma e l'Artico), in cui isolava una parte dei politici condannati per aver «militato in un'organizzazione trotzkista o destrorsa» o in un «partito controrivoluzionario», oppure per «spionaggio», «terrorismo», «tradimento». In questi campi il tasso di mortalità annuo arrivava al 30 per cento. Un decreto del 22 aprile 1943 istituiva i «bagni penali a regime rafforzato», veri e propri campi della morte nei quali i detenuti venivano sfruttati in condizioni tali da non lasciare possibilità di sopravvivenza: un lavoro massacrante di dodici ore al giorno nelle miniere d'oro, di carbone, di piombo, di radio, soprattutto nelle regioni della Kolyma e di Vorkuta.
In tre anni, dal luglio del 1941 al luglio del 1944, i tribunali speciali dei campi pronunciarono sentenze di ulteriore condanna a carico di 148 mila detenuti, 10858 dei quali furono giustiziati: 208 di essi per «spionaggio», 4307 per «atti di diversione terroristica», 6016 per «aver organizzato nel campo un'insurrezione o una sommossa». Secondo l'N.K.V.D., durante la guerra furono smantellate nei campi del gulag 603 «organizzazioni di detenuti». Una tale cifra doveva in primo luogo confermare la «vigilanza» di un corpo che a sua volta era stato in larga misura rinnovato (una parte delle truppe speciali che sorvegliavano i campi era stata infatti assegnata ad altri compiti, in particolare alle retate-deportazioni), ma è altresì vero che proprio durante gli anni del conflitto nei campi ebbero luogo le prime evasioni collettive e le prime insurrezioni di rilievo.
In realtà, durante la guerra la popolazione del gulag subì notevoli mutamenti. In seguito al Decreto del 12 luglio 1941 furono liberati, per essere subito arruolati nell'Armata rossa, oltre 577 mila detenuti che, secondo quanto riconoscevano le stesse autorità, erano stati condannati «per reati insignificanti, come assenze ingiustificate dal lavoro o piccoli furti». In totale, negli anni di guerra - calcolando anche i detenuti che terminavano di scontare le loro condanne - un milione 68800 persone furono trasferite direttamente dal gulag al fronte. I detenuti più deboli, quelli che non riuscirono a adeguarsi alle spietate condizioni di vita dei campi, entrarono nel novero delle quasi 600 mila persone morte nel gulag nel solo biennio 1941-1943. Mentre i campi e le colonie penali si svuotavano di una vera e propria folla di detenuti, costituita dai condannati a pene minori, rimasero e sopravvissero gli individui più solidi, e anche più duri, sia fra i politici sia fra i detenuti per reati comuni. La percentuale di quanti dovevano scontare pene prolungate (oltre gli otto anni) ai sensi dell'articolo 58 del Codice penale subì un forte aumento: dal 27 al 43 per cento del numero complessivo di internati. L'evoluzione della popolazione carceraria, che era cominciata nei primi tempi del conflitto, si sarebbe accentuata dal 1944-1945 in poi. Infatti, in questi due anni il gulag avrebbe visto un aumento notevolissimo di effettivi, con un picco del 45 per cento in più fra il gennaio del 1944 e il gennaio del 1946.
***
L'immagine dell'anno 1945 in Unione Sovietica, quale è apparsa in generale al mondo esterno, riflette esclusivamente la faccia dorata della medaglia, la glorificazione di un paese senza dubbio devastato, ma trionfante. Fran‡ois Furet afferma: «Nel 1945 l'URSS si presenta come il grande Stato vittorioso, in cui alla forza materiale si associa il messianismo dell'uomo nuovo». Nessuno vede - nessuno vuol vedere - i retroscena della situazione, peraltro occultati con la massima cura. Gli archivi del gulag mostrano invece come l'anno della vittoria abbia segnato al tempo stesso un nuovo apogeo del sistema concentrazionario sovietico. Il ritorno della pace sul fronte esterno non ebbe come conseguenza attenuazioni o pause nel controllo esercitato dallo Stato all'interno, su una società straziata da quattro anni di guerra. Al contrario, nel 1945 si assistette a un ricupero del controllo totale, sia sulle regioni incorporate dall'Unione Sovietica a mano a mano che l'Armata rossa avanzava verso ovest, sia sui milioni di cittadini sovietici che per un certo periodo si erano trovati «fuori dal sistema».
I territori annessi nel 1939-1940 (le repubbliche baltiche, la Bielorussia occidentale, la Moldavia, l'Ucraina occidentale), che per quasi tutta la durata del conflitto erano rimasti fuori dal sistema sovietico, subirono una seconda «sovietizzazione» dopo quella del 1939-1941. I movimenti nazionali che vi si erano costituiti, e che si opponevano all'incorporazione nell'Unione Sovietica, innescarono un meccanismo di azione e reazione fra resistenza armata, persecuzione e repressione. Il rifiuto dell'annessione fu particolarmente ostinato nell'Ucraina occidentale e nelle repubbliche baltiche.
Con la prima occupazione dell'Ucraina occidentale, dal settembre del 1939 al giugno del 1941, era nata un'organizzazione armata clandestina abbastanza potente, l'OUN ("Ob''edinen'e ukrainskih nacionalistov", Unione dei nazionalisti ucraini), alcuni membri della quale si aggregarono a unità delle S.S. per combattere ebrei e comunisti. Nel luglio del 1944, con il sopraggiungere dell'Armata rossa, l'OUN costituì un Consiglio supremo di liberazione dell'Ucraina. Roman Suhovic, capo dell'OUN, prese il comando dell'UPA ("Ukrainskaja partizanskaja armija", Armata ucraina partigiana), la quale, secondo fonti ucraine, nell'autunno del 1944 avrebbe avuto una consistenza di oltre 20 mila uomini. Il 31 marzo 1944 Berija firmò un decreto che prescriveva di arrestare e deportare nella regione di Krasnojarsk tutti i membri delle famiglie degli affiliati alle formazioni resistenziali dell'OUN e dell'UPA: dal febbraio all'ottobre del 1944 furono deportati con questa motivazione 100300 civili, vecchi, donne e bambini. I 37 mila combattenti catturati in questo periodo furono inviati nel gulag. Alla morte di monsignor Sceptickij, metropolita della Chiesa uniate di Ucraina, avvenuta nel novembre del 1944, le autorità sovietiche obbligarono questa Chiesa a fondersi con la Chiesa ortodossa.
Per troncare alla radice le resistenze alla sovietizzazione gli agenti dell'N.K.V.D. visitavano le scuole, dove esaminavano gli elenchi e le pagelle degli alunni che avevano studiato nel periodo prebellico, quando l'Ucraina occidentale era parte della Polonia «borghese». Dalle loro ricerche ricavavano liste di nomi degli individui da sottoporre ad arresto preventivo, in cui figuravano ai primi posti gli allievi più dotati, che a giudizio degli agenti erano considerati «potenzialmente ostili al regime sovietico». Secondo un rapporto di Kobulov, uno degli assistenti di Berija, nella Bielorussia occidentale fra il settembre del 1944 e il marzo del 1945 furono arrestati oltre 100 mila «disertori» e «collaborazionisti». Questa regione, così come l'Ucraina occidentale, era considerata «brulicante di elementi ostili al regime sovietico». Sulla base di statistiche molto parziali si calcola che nella sola Lituania, tra il primo gennaio e il 15 marzo 1945, siano state effettuate 2257 «operazioni di pulizia».
Il risultato di tali operazioni fu la morte di oltre 6000 «banditi» e l'arresto di oltre 75 mila fra «banditi, affiliati ai gruppi nazionalisti e disertori». Nel 1945 furono deportati dalla Lituania oltre 38 mila «membri delle famiglie di elementi estranei alla società, banditi e nazionalisti». E' significativo che negli anni 1944-1946 la percentuale di ucraini e di appartenenti alle popolazioni baltiche presente fra i detenuti del gulag abbia avuto una spettacolare impennata: rispettivamente il 140 e il 420 per cento in più. Alla fine del 1946 gli ucraini erano il 23 per cento degli internati nei campi, mentre i baltici arrivavano quasi al 6 per cento: una percentuale assai maggiore rispetto a quella che tali nazionalità rappresentavano sul totale della popolazione sovietica.
L'incremento della popolazione del gulag nel 1945 si deve anche al trasferimento nei campi di centinaia di migliaia di individui provenienti dai «campi di verifica e di filtraggio», istituiti alla fine del 1941 parallelamente ai campi di lavoro del gulag. In essi erano relegati i prigionieri di guerra sovietici liberati o sfuggiti alle mani del nemico, sui quali cadeva il sospetto pregiudiziale di essere spie potenziali, o almeno individui «contaminati» dall'aver trascorso un periodo al di fuori del «sistema». In tali campi erano inoltre internati gli uomini, in età tale da poter essere arruolati, provenienti dai territori già occupati dal nemico (che a loro volta avevano subito la contaminazione), oltre agli "starosta" (capigruppo) e alle altre persone che sotto il regime degli occupanti avevano svolto una qualche funzione di autorità, per quanto minima. Secondo dati ufficiali, dal gennaio del 1942 all'ottobre del 1944 nei campi di verifica e di filtraggio transitarono oltre 421 mila persone.
A mano a mano che l'Armata rossa avanzava verso ovest e si riappropriava dei territori rimasti sotto occupazione tedesca per due o tre anni, e mentre riottenevano la libertà milioni di prigionieri di guerra sovietici e di deportati nei campi di lavoro, la questione delle modalità di rimpatrio alla quale sottoporre i militari e civili sovietici acquistava una portata senza precedenti. Nell'ottobre del 1944 il governo sovietico istituì una Direzione per gli affari relativi al rimpatrio e ne affidò la responsabilità al generale Golikov. Quest'ultimo, in un'intervista pubblicata dalla stampa l'11 novembre 1944, rilasciò le seguenti significative dichiarazioni: «Il potere sovietico si preoccupa della sorte dei suoi figli caduti nella schiavitù nazista. Essi saranno degnamente ricevuti nella loro casa, come figli della patria. Secondo il governo sovietico, perfino i cittadini sovietici che sotto la minaccia del terrore nazista hanno commesso atti contrari agli interessi dell'URSS non saranno chiamati a rispondere delle loro azioni, purché ritornando in patria siano pronti a compiere con lealtà il proprio dovere di cittadini». Questo genere di dichiarazioni, che ricevette ampia diffusione, non mancò di trarre in inganno gli Alleati, altrimenti non si spiegherebbe lo zelo con cui questi ultimi applicarono una clausola degli accordi di Jalta riguardante il rimpatrio in URSS di tutti i cittadini sovietici «presenti fuori dai confini della loro patria». In base agli accordi, gli unici a essere costretti con la forza a rientrare dovevano essere coloro che avevano indossato l'uniforme tedesca o collaborato con il nemico. Invece, tutti i cittadini sovietici «fuori dai confini» vennero consegnati agli agenti dell'N.K.V.D. incaricati di sovrintendere all'inquadramento militare del loro rientro.
L'11 maggio 1945, tre giorni dopo la cessazione delle ostilità, il governo sovietico ordinò di allestire cento nuovi campi di verifica e di filtraggio, ciascuno della capacità di diecimila posti. I prigionieri di guerra sovietici rimpatriati dovevano tutti passare la «verifica» dell'organizzazione di controspionaggio, la Smers, mentre i civili erano filtrati dai servizi dell'N.K.V.D. costituiti ad hoc. Tra il maggio del 1945 e il febbraio del 1946, in nove mesi, furono rimpatriati oltre 4 milioni 200 mila sovietici: un milione 545 mila prigionieri di guerra superstiti, sui 5 milioni catturati dai nazisti, e 2 milioni 655 mila civili, fra deportati nei campi di lavoro e persone fuggite verso ovest durante i combattimenti. Dopo il passaggio obbligatorio in un campo di filtraggio e di verifica, il 57,8 per cento dei rimpatriati, perlopiù donne e bambini, fu autorizzato a rientrare nelle proprie case, il 19,1 per cento arruolato nell'esercito, spesso in battaglioni di disciplina, il 14,5 per cento assegnato, in genere per un periodo di due anni, ai «battaglioni della ricostruzione» e circa 360 mila persone, l'8,6 per cento del totale, vennero internate nei campi del gulag, perlopiù con l'accusa - che comportava dai dieci ai vent'anni di reclusione - di essere «traditori della patria», o inviate in una delle zone sotto la giurisdizione dell'N.K.V.D. con lo statuto di «coloni speciali».
Un destino particolare fu riservato ai "vlasovec", i soldati sovietici che avevano seguito il generale Andrej Vlasov, comandante della Seconda Armata caduto prigioniero dei tedeschi nel luglio del 1942. Vlasov, antistalinista convinto, aveva accettato di collaborare con i nazisti per liberare il proprio paese dalla tirannide bolscevica. Con l'approvazione delle autorità tedesche aveva costituito un «Comitato nazionale russo» e radunato due divisioni di una «Armata di liberazione russa». Dopo la sconfitta della Germania nazista, gli Alleati consegnarono ai sovietici il generale Vlasov e i suoi ufficiali, che furono giustiziati. I soldati che costituivano la sua armata, amnistiati da un decreto del novembre del 1945, furono deportati per sei anni in Siberia, nel Kazakistan e nell'estremo nord. Al principio del 1946 gli elenchi del Dipartimento degli esiliati e dei coloni speciali presso il ministero dell'Interno citavano 148079 "vlasovec"; inoltre, parecchie migliaia di "vlasovec", in massima parte sottufficiali, furono accusati di tradimento e mandati nei campi di lavoro del gulag.
Insomma, gli «insediamenti speciali», i campi e le colonie penali del gulag, i campi di verifica e filtraggio e i penitenziari sovietici non erano mai stati così affollati come nell'anno della vittoria: in totale ospitavano circa 5 milioni e mezzo di persone, senza distinzione fra le varie categorie. Tale record è rimasto a lungo eclissato dai festeggiamenti in onore della vittoria e dall'«effetto Stalingrado». Infatti, con la fine della seconda guerra mondiale si aprì un periodo, durato all'incirca un decennio, durante il quale il modello sovietico avrebbe esercitato un fascino particolare, mai più eguagliato, su decine di milioni di persone in un gran numero di paesi. Il fatto che l'URSS avesse pagato la vittoria sul nazismo con il tributo più pesante, in termini di vittime, mascherava il carattere stesso della dittatura staliniana, facendo svanire i sospetti che i processi di Mosca o il patto Hitler-Stalin avevano suscitato a suo tempo nei confronti del regime. D'altronde, quei tempi sembravano allora assai remoti.
13.
APOGEO E CRISI DEL GULAG.
Negli ultimi anni dello stalinismo non vi furono grandi processi
pubblici, né vi fu il Grande terrore. Ma nel clima pesante e
conservatore del dopoguerra la criminalizzazione dei comportamenti
sociali raggiunse il culmine. La società, straziata dalla guerra,
sperava di assistere a una liberalizzazione del regime, ma fu delusa.
«Il popolo aveva sofferto troppo, il passato non poteva ripetersi»
aveva scritto Il'ja Erenburg nelle sue memorie il 9 maggio 1945;
conosceva dall'interno gli ingranaggi e la natura del sistema, e
quindi aveva subito aggiunto: «Tuttavia sono pieno di perplessità e di
angoscia». Il suo presentimento si sarebbe rivelato giusto.
«La popolazione è divisa fra la disperazione per le condizioni
materiali molto difficili e la speranza che "cambi qualcosa"»
affermano molti rapporti inviati a Mosca fra settembre e ottobre del
1945 dagli istruttori del Comitato centrale che giravano il paese per
ispezionare le province. Secondo tali rapporti nel paese la situazione
era sempre «caotica». La ripresa della produzione era ostacolata
dall'immenso movimento migratorio spontaneo di migliaia di operai
deportati a oriente durante l'evacuazione del 1941-1942. L'industria
metallurgica degli Urali era scossa da un'ondata di scioperi di vasta
portata, come il regime non ne aveva mai conosciute. Ovunque regnava
un'indicibile miseria. Nel paese c'erano 25 milioni di senzatetto, e
le razioni di pane per i lavoratori manuali non superavano i 500
grammi al giorno. Alla fine di ottobre del 1945 i responsabili del
Comitato regionale del Partito di Novosibirsk arrivarono a proporre di
non far sfilare i «lavoratori» della città in occasione
dell'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre: «Infatti la popolazione
è priva di abiti e di scarpe». Nella miseria e nell'indigenza generali
si diffondevano le voci più incredibili, soprattutto quelle relative
all'«imminente» liquidazione dei kolhoz, che ancora non riuscivano a
compensare i contadini per la loro stagione di lavoro, nemmeno con
qualche pud di grano.
La situazione rimaneva drammatica soprattutto sul «fronte agricolo».
Le campagne erano devastate dalla guerra, colpite da una grave
siccità, i macchinari e la manodopera scarseggiavano; di conseguenza,
l'ammasso dell'autunno del 1946 fu catastrofico. Il governo dovette di
nuovo rimandare la fine del razionamento promessa da Stalin nel
discorso del 9 febbraio 1946. Il governo, che non voleva capire le
ragioni del fallimento agricolo e imputava i problemi alla «speranza
di lucrare sui lotti individuali», decise di «liquidare le violazioni
allo statuto giuridico dei kolhoz» e di perseguitare gli «elementi
ostili ed estranei sabotatori dell'ammasso, chi ruba e spreca il
raccolto». Il 19 settembre 1946 creò la Commissione per gli affari dei
kolhoz, presieduta da Andreev e incaricata di ricuperare le terre
«occupate illegalmente» dai colcosiani durante la guerra. In due anni
l'amministrazione ricuperò quasi 10 milioni di ettari «rosicchiati»
dai contadini che per sopravvivere avevano cercato di estendere i
propri piccoli lotti individuali.
Il 25 ottobre 1946 un decreto governativo dal titolo esplicito, "Sulla
difesa dei cereali di Stato", intimava al ministero della Giustizia di
istruire nel giro di dieci giorni tutti i processi per furto,
applicando con severità la Legge del 7 agosto 1932, che era caduta in
disuso. Fra novembre e dicembre del 1946 furono processati per aver
rubato qualche spiga o un po' di pane oltre 53300 individui, in
maggioranza colcosiani, e quasi tutti vennero condannati a pesanti
pene di internamento nei campi. Migliaia di presidenti di kolhoz
furono arrestati per «sabotaggio della campagna di ammasso». In quei
due mesi la realizzazione del «piano di ammasso» passò dal 36 al 77
per cento. Ma a che prezzo! Molto spesso l'eufemismo «ritardo
nella campagna di ammasso» nascondeva una realtà drammatica: la
carestia.
La carestia dell'autunno-inverno del 1946-1947 interessò soprattutto
le regioni più colpite dalla siccità dell'estate del 1946, le province
di Kursk, Tambov, Voronez, Orel, e la regione di Rostov. Fece almeno
500 mila vittime. Come era accaduto per la carestia del 1932, anche su
quella del 1946-1947 fu mantenuto un totale riserbo. Una delle cause
determinanti che trasformarono una situazione di penuria alimentare in
carestia vera e propria fu il rifiuto di ridurre i prelievi
obbligatori su un raccolto che nelle regioni colpite dalla siccità
aveva una resa di appena 2 quintali e mezzo per ettaro. Per
sopravvivere, spesso i colcosiani affamati non avevano altra soluzione
che quella di rubacchiare le magre riserve stivate qua e là. In un
anno il numero dei furti aumentò del 44 per cento.
Il 5 giugno 1947 la stampa pubblicò il testo di due decreti emanati il
giorno prima dal governo, assai vicini nello spirito alla lettera
della famosa Legge del 7 agosto 1932: stabilivano infatti che
qualsiasi «attentato alle proprietà dello Stato o di un kolhoz» era
punibile con un periodo di internamento nei campi da cinque a
venticinque anni, a seconda se il furto fosse stato commesso
individualmente o in gruppo, per la prima volta o con recidiva.
Chiunque fosse stato al corrente della preparazione di un furto o del
furto stesso, e non l'avesse denunciato alla polizia, era punibile con
due o tre anni di internamento nei campi. Del resto, una circolare
riservata ricordava ai tribunali che i piccoli furti sul posto di
lavoro, passibili fino ad allora della pena massima di un anno di
reclusione, rientravano ormai nei casi previsti dai Decreti del 4
giugno 1947.
Durante il secondo semestre del 1947 furono condannate in base alla
nuova «legge scellerata» oltre 380 mila persone, fra cui 21 mila
adolescenti minori di sedici anni. Di solito si beccavano da otto a
dieci anni di campo per aver rubato qualche chilo di segale. Ecco un
estratto della sentenza del tribunale popolare del distretto di
Suzdal', nella provincia di Vladimir, datata 10 ottobre 1947: «I
minorenni N. B. e B. S., di quindici e sedici anni, incaricati della
sorveglianza notturna dei cavalli del kolhoz, sono stati sorpresi in
flagranza di reato mentre rubavano tre cetrioli negli orti del
kolhoz.... Condannare N. B. e B. S. a otto anni di reclusione in una
colonia di lavoro a regime ordinario». In sei anni, ai sensi dei
Decreti del 4 giugno 1947, furono condannate un milione 300 mila
persone, il 75 per cento delle quali a oltre 5 anni; nel 1951
rappresentavano il 53 per cento dei detenuti comuni del gulag, e quasi
il 40 per cento del numero totale dei detenuti. Alla fine degli
anni Quaranta la rigida applicazione dei Decreti del 4 giugno 1947
aumentò considerevolmente la durata media delle condanne inflitte dai
tribunali ordinari; le pene di oltre cinque anni passarono dal 2 per
cento del 1940 al 29 per cento del 1949! In questo momento di apogeo
dello stalinismo, la repressione «ordinaria», quella dei «tribunali
popolari», si sostituì alla repressione «extragiudiziaria», quella
dell'N.K.V.D., che aveva prosperato negli anni Trenta.
Fra le persone condannate per furto c'erano molte donne, vedove di
guerra, madri di famiglia con bambini piccoli, ridotte a mendicare e a
rubare. Alla fine del 1948 il gulag contava oltre 500 mila detenuti,
cioè il doppio rispetto al 1945, e 22815 bambini con meno di quattro
anni accuditi nelle «case del neonato» dipendenti dai campi femminili.
All'inizio del 1953 questa cifra salì a oltre 35 mila. Per evitare
che in conseguenza della legislazione ultrarepressiva instaurata nel
1947 il gulag si trasformasse in un gigantesco asilo d'infanzia,
nell'aprile del 1949 il governo fu costretto a decretare un'amnistia
parziale che permise di liberare quasi 84200 donne e bambini in tenera
età. Tuttavia, fino al 1953 continuarono ad affluire nei campi
centinaia di migliaia di persone condannate per piccoli furti, e la
percentuale delle donne rimase alta, fra il 25 e il 30 per cento dei
detenuti.
Fra il 1947 e il 1948 l'arsenale repressivo venne completato con molti
altri testi giuridici che rivelavano il clima dell'epoca: un decreto
che vietava i matrimoni fra sovietici e cittadini stranieri del 15
febbraio 1947, e un decreto sulla «responsabilità per la divulgazione
di segreti di Stato o la perdita di documenti contenenti segreti di
Stato» del 9 giugno 1947. Il più noto è il Decreto del 21 febbraio
1948, in base al quale «allo scadere del periodo di internamento nei
campi, tutte le spie, i trotzkisti, i diversionisti, i destrorsi, i
menscevichi, i socialisti rivoluzionari, gli anarchici, i
nazionalisti, i Bianchi e altri elementi antisovietici» dovevano
essere «esiliati nelle regioni della Kolyma, della provincia di
Novosibirsk e di Krasnojarsk ... e in alcune regioni remote del
Kazakistan». L'amministrazione penitenziaria, preferendo che questi
«elementi antisovietici» fossero tenuti sotto stretta sorveglianza,
assai spesso decise di prorogare di dieci anni, senza altra forma di
processo, la pena inflitta a centinaia di migliaia di «58» condannati
fra il 1937 e il 1938.
Sempre il 21 febbraio 1948, il presidium del Soviet supremo approvò un
altro decreto che ordinava di deportare dalla Repubblica sovietica
ucraina «tutti gli individui che rifiutassero di compiere il minimo di
giornate lavorative previste nei kolhoz e che vivessero come
parassiti». Il 2 giugno 1948 questo provvedimento fu esteso a tutto il
paese. Dato lo sfacelo dei kolhoz, che nella maggior parte dei casi
non riuscivano a garantire alcuna remunerazione ai lavoratori in
cambio delle giornate di lavoro, molti colcosiani non eseguivano il
numero minimo di giornate lavorative imposto nell'arco dell'anno
dall'amministrazione. Perciò milioni di essi potevano incorrere nelle
sanzioni previste dalla nuova legge. Le autorità locali, rendendosi
conto che mettere in atto con rigore il «decreto sul parassitismo»
avrebbe disorganizzato ancora di più la produzione, applicarono la
legge con lassismo. Tuttavia, nel solo anno 1948 furono deportati e
assegnati a domicilio coatto nei comandi dell'N.K.V.D. oltre 38 mila
«parassiti». Tutti questi provvedimenti repressivi eclissarono
l'abolizione simbolica ed effimera della pena di morte, stabilita per
decreto il 26 maggio 1947. Il 12 gennaio 1950 la pena capitale fu
ripristinata, soprattutto per permettere di giustiziare gli imputati
del «processo di Leningrado».
Negli anni Trenta la questione del «diritto al ritorno» dei deportati
e dei coloni speciali aveva dato luogo a scelte politiche spesso
incoerenti e contraddittorie. Alla fine degli anni Quaranta questo
problema fu risolto in modo radicale: si decise che tutte le
moltitudini deportate fra il 1941 e il 1945 sarebbero rimaste al
confino «per sempre». Così il problema del destino dei figli dei
deportati arrivati alla maggiore età non si poneva più. Loro e tutti i
discendenti sarebbero stati per sempre coloni speciali!
Nel corso degli anni 1948-1953 il numero dei coloni speciali non cessò
di aumentare, e passò da 2 milioni 342 mila all'inizio del 1946 a 2
milioni 753 mila nel gennaio del 1953. Questo incremento dipendeva da
molte nuove ondate di deportazioni. Il 22 e il 23 marzo 1948, in
Lituania, dove si continuava a resistere alla colonizzazione forzata
della terra, l'N.K.V.D. lanciò un'immensa retata denominata Operazione
Primavera. Nel giro di quarantott'ore furono arrestati e deportati su
32 convogli 36932 uomini, donne e bambini. Erano tutti classificati
come «banditi, nazionalisti e familiari di queste due categorie». Dopo
un viaggio di quattro o cinque settimane furono ripartiti in vari
comandi della Siberia orientale e assegnati a complessi industriali di
sfruttamento delle foreste, dove il lavoro era particolarmente duro.
Una nota dell'N.K.V.D. riferiva:
Durante il solo 1948 furono deportati come coloni speciali 50 mila
lituani, e 30 mila furono inviati nei campi del gulag. Inoltre,
secondo i dati del ministero degli Interni, durante le «operazioni di
pacificazione» furono uccisi 21259 abitanti della Repubblica lituana,
che rifiutava ostinatamente la sovietizzazione e la
collettivizzazione. Alla fine del 1948, nonostante le pressioni sempre
più energiche delle autorità, nei paesi baltici era stato
collettivizzato meno del 4 per cento delle terre.
All'inizio del 1949 il governo sovietico decise di accelerare il
processo di sovietizzazione dei paesi baltici, e di «sradicare
definitivamente il banditismo e il nazionalismo» nelle repubbliche
appena annesse. Il 12 gennaio il Consiglio dei ministri approvò il
Decreto «sull'espulsione e la deportazione dalle Repubbliche
socialiste sovietiche di Lituania, Lettonia ed Estonia dei kulak e
delle loro famiglie, delle famiglie dei banditi e dei nazionalisti che
si trovano in una situazione illegale, delle famiglie dei banditi
abbattuti durante scontri armati, condannati o amnistiati e che
continuano a condurre un'attività ostile, e delle famiglie dei
complici dei banditi». Le operazioni di deportazione si svolsero fra
marzo e maggio del 1949 e colpirono quasi 95 mila persone deportate in
Siberia dai paesi baltici. Secondo il rapporto inviato da Kruglov a
Stalin il 18 maggio 1949, fra gli «elementi ostili e pericolosi per
l'ordine sovietico» erano annoverati 27084 ragazzi minori di sedici
anni, 1785 bambini in tenera età senza famiglia, 146 invalidi e 2850
«vecchi decrepiti»!. Nel settembre del 1951, in seguito a nuovi
rastrellamenti furono inviati al confino quasi 17 mila «kulak
baltici». Per gli anni 1940-1953 si valuta che il numero dei baltici
deportati fosse superiore a 200 mila, di cui 120 mila lituani, 50 mila
lettoni e un po' più di 30 mila estoni. A queste cifre vanno
aggiunti i baltici nei campi del gulag, oltre 75 mila nel 1953, di cui
44 mila nei campi «speciali» riservati ai detenuti politici più
incalliti; i baltici rappresentavano un quinto del contingente dei
campi. In totale era stato deportato o internato nei campi il 10 per
cento della popolazione adulta dei paesi baltici.
Fra le altre nazionalità da poco forzatamente annesse all'URSS
figuravano i moldavi, anch'essi contrari alla sovietizzazione e alla
collettivizzazione. Alla fine del 1949 le autorità decisero di
procedere a una vasta retata-deportazione degli «elementi ostili ed
estranei alla società». L'operazione si svolse con la supervisione del
primo segretario del Partito comunista moldavo, Leonid Il'ic Breznev,
futuro segretario generale del Partito comunista dell'URSS. Un
rapporto di Kruglov a Stalin datato 17 febbraio 1950 stabiliva che il
numero dei moldavi deportati per sempre come «coloni speciali» era di
94742. Ammettendo che il tasso di mortalità durante il trasferimento
fosse identico a quello degli altri deportati, si arriverebbe a una
cifra nell'ordine dei 120 mila moldavi deportati, cioè circa il 7 per
cento della popolazione globale. Fra le altre operazioni dello stesso
tipo citiamo, sempre per il 1949, la deportazione nel mese di giugno
di 57680 greci, armeni e turchi dalle coste del Mar Nero verso il
Kazakistan e l'Altaj.
Per tutta la seconda metà degli anni Quaranta i partigiani dell'OUN e
dell'UPA catturati in Ucraina continuarono a fornire nutriti
contingenti di coloni speciali. Dal luglio del 1944 al dicembre del
1949 le autorità sovietiche chiesero per ben sette volte agli insorti
di deporre le armi, promettendo loro un'amnistia, ma senza risultati
concreti. Fra il 1945 e il 1947 le campagne dell'Ucraina occidentale,
cioè le zone interne del paese, erano controllate in gran parte dagli
insorti, spalleggiati dai contadini, che respingevano qualsiasi idea
di collettivizzazione. Le forze ribelli operavano ai confini della
Polonia e della Cecoslovacchia, passando da un paese all'altro per
sfuggire alle persecuzioni. Si può valutare quanto fosse importante il
movimento dall'accordo che il governo sovietico fu costretto a firmare
con la Polonia e la Cecoslovacchia nel maggio del 1947 per coordinare
la lotta contro le «bande» ucraine. In seguito a questo accordo, e per
privare la ribellione delle sue basi naturali, il governo polacco
trasferì la popolazione ucraina verso la parte nordoccidentale della
Polonia.
La carestia del 1946-1947, che costrinse decine di migliaia di
contadini dell'Ucraina orientale a rifugiarsi nell'Ucraina
occidentale, meno colpita, fornì ancora per qualche tempo nuove
reclute alla ribellione. A giudicare dalla seconda proposta d'amnistia
firmata dal ministro ucraino degli Interni il 30 dicembre 1949, le
«bande insorte» non erano reclutate esclusivamente tra i contadini.
Tra le categorie di banditi il testo citava infatti «giovani fuggiti
dalle fabbriche, dalle miniere del Donec e dalle scuole
professionali». L'Ucraina occidentale fu pacificata definitivamente
solo alla fine del 1950, dopo la collettivizzazione forzata delle
terre, il trasferimento di interi villaggi, la deportazione o
l'arresto di quasi 300 mila persone. Secondo le statistiche del
ministero degli Interni, fra il 1945 e il 1952 furono deportati in
Kazakistan e in Siberia come coloni speciali quasi 172 mila «membri
dell'OUN e dell'UPA», spesso insieme ai loro familiari.
Le operazioni di deportazione di «contingenti vari», secondo la
classificazione del ministero degli Interni, continuarono fino alla
morte di Stalin. Nel periodo 1951-1952 furono deportati con operazioni
circoscritte di piccola portata 11685 mingreli e 4707 iraniani della
Georgia, 4365 testimoni di Geova, 4431 kulak della Bielorussia
occidentale, 1445 kulak dell'Ucraina occidentale, 1415 kulak della
regione di Pskov, 995 membri della setta dei «veri cristiani
ortodossi», 2795 "basmac" del Tagikistan e 591 «vagabondi». L'unica
differenza rispetto ai deportati appartenenti ai vari popoli «puniti»
era che questi svariati contingenti non erano deportati «per sempre»,
ma per un periodo che andava da dieci a vent'anni. ***
Come testimoniano gli archivi del gulag aperti di recente, nei primi
anni Cinquanta il sistema dei campi di concentramento conobbe un vero
e proprio apogeo: nei campi di lavoro e nei «villaggi di
colonizzazione» non c'erano mai stati tanti detenuti e tanti coloni
speciali; ma gli stessi anni furono caratterizzati da una crisi senza
precedenti di tale sistema.
All'inizio del 1953 il gulag conteneva circa 2 milioni e 450 mila
detenuti, suddivisi in tre tipi di insediamento:
Naturalmente lo era soprattutto nei «campi a regime speciale», dove i
«politici» arrivati dal 1945 - «nazionalisti» ucraini e baltici
esperti di lotta armata, «elementi estranei» delle regioni appena
annesse, «collaborazionisti» reali o presunti e altri «traditori della
patria» - dimostravano assai maggior decisione rispetto ai «nemici del
popolo» degli anni Trenta, ex quadri del Partito convinti che il loro
internamento fosse dovuto a qualche terribile equivoco. Questi
detenuti erano condannati a pene da venti a venticinque anni, e non
nutrivano alcuna speranza di essere liberati prima del tempo; insomma,
non avevano più niente da perdere. Inoltre, il loro isolamento nei
campi a regime speciale li aveva liberati dalla convivenza quotidiana
con i detenuti per reati comuni. Come ha osservato Aleksandr
Solzenicyn, proprio la promiscuità dei politici con i detenuti per
reati comuni costituiva uno dei principali ostacoli all'instaurarsi di
un clima di solidarietà. Una volta eliminato tale ostacolo, i campi
speciali diventarono subito focolai di opposizione e di rivolta contro
il regime. Erano particolarmente attive le reti ucraine e baltiche,
intessute nella clandestinità della resistenza. Aumentarono le
astensioni dal lavoro, gli scioperi della fame, le evasioni di gruppo,
le sommosse. Secondo ricerche ancora incomplete, soltanto nel periodo
1950-1952 si verificarono sedici sommosse e rivolte di una certa
portata, in ciascuna delle quali furono coinvolte centinaia di
detenuti.
Le «ispezioni Kruglov» del 1951 rivelarono anche il degrado della
situazione nei campi «ordinari», che si traduceva in un «allentamento
generale della disciplina». Nel 1951 andò perduto un milione di
giornate lavorative per il «rifiuto di lavorare» da parte dei
detenuti. E all'interno dei campi aumentarono la criminalità e gli
incidenti fra detenuti e sorveglianti, mentre la produttività dei
condannati subì un brusco calo. Secondo l'amministrazione, questa
situazione era in gran parte dovuta allo scontro fra bande rivali di
detenuti: infatti i «ladri nella legalità», che rifiutavano di
lavorare per rispettare la «regola della mala», si scontravano con le
«cagne», che si sottomettevano al regolamento del campo. Il
proliferare delle fazioni e delle risse minava la disciplina e
generava «disordine». Ormai si moriva più spesso per una coltellata
che per malattia o denutrizione. Lo ammise anche il Consiglio dei
responsabili del gulag, tenutosi a Mosca nel gennaio del 1952:
«L'amministrazione, che fino a ora ha saputo abilmente trarre
vantaggio dai contrasti fra i diversi gruppi di detenuti, sta perdendo
il controllo delle dinamiche interpersonali ... In certi campi, le
fazioni stanno prendendo in pugno gli affari interni». Per dividere
gruppi e fazioni l'amministrazione era costretta a ricorrere a
incessanti trasferimenti di detenuti e a riorganizzare costantemente
svariate sezioni di immensi complessi penitenziari, che spesso
contenevano da 40 mila a 60 mila detenuti.
Tuttavia, a parte il problema delle fazioni che aveva una portata
troppo vasta per passare inosservato, molti rapporti di ispezione
stilati nel 1951-1952 si concludevano parlando della necessità di
riorganizzare in modo radicale le strutture penitenziarie e
produttive, e addirittura di ridurre nettamente gli effettivi.
Per esempio, nel rapporto del gennaio del 1952 inviato al generale
Dolgih, capo del gulag, il colonnello Zver'ev, responsabile del grande
complesso di campi di Noril'sk in cui erano ospitati 69 mila detenuti,
proponeva le seguenti misure:
1. isolare i membri delle fazioni. Zver'ev precisava: «Ma dato il
grande numero di detenuti che sono parte attiva in una fazione o
nell'altra ... riusciamo a isolarne soltanto i capi, e non sempre»;
Quest'ultima proposta di Zver'ev era tutt'altro che incongrua nel
contesto dell'epoca. Nel gennaio del 1951 il ministro degli Interni
Kruglov aveva chiesto a Berija la liberazione anticipata di 6000
detenuti, che dovevano essere inviati come lavoratori liberi
nell'immenso cantiere della centrale idroelettrica di Stalingrado,
dove pativano oltre 25 mila internati, a quanto pare senza grandi
risultati. La prassi di liberare anticipatamente i condannati,
soprattutto se lavoratori qualificati, era assai frequente all'inizio
degli anni Cinquanta. Essa mette in luce il problema fondamentale di
assicurare il rendimento economico in un sistema di campi ipertrofico.
Di fronte al rapido dilagare di effettivi meno facilmente malleabili
di quanto non lo fossero in passato, a problemi di organizzazione e di
sorveglianza - il gulag aveva quasi 208 mila dipendenti - l'enorme
macchina amministrativa aveva difficoltà sempre crescenti a
smascherare la "tufta" (i falsi bilanci) e a garantire un rendimento
che era sempre stato incerto. Per risolvere questo eterno problema
l'amministrazione poteva scegliere soltanto fra due soluzioni: o
sfruttare al massimo la manodopera penitenziaria, senza tener conto
delle perdite di vite umane, o utilizzarla in modo più razionale,
prolungandone la sopravvivenza. La prima soluzione prevalse fin verso
il 1948. Alla fine degli anni Quaranta il regime si rese conto
dell'immensa carenza di manodopera nel paese dissanguato dalla guerra,
e le autorità penitenziarie decisero di sfruttare i detenuti in
maniera più «economica». Per tentare di stimolare la produttività
furono introdotti premi e «salari», e vennero aumentate le razioni
alimentari per chi riusciva a realizzare gli standard; il tasso annuo
di mortalità crollò al 2-3 per cento. Questa «riforma» si scontrò
immediatamente con la realtà dell'universo concentrazionario.
All'inizio degli anni Cinquanta le infrastrutture produttive erano in
uso già da quasi un ventennio e in generale non avevano beneficiato di
alcun investimento recente. Le immense unità penitenziarie, che
raggruppavano decine di migliaia di detenuti, erano state istituite
negli anni precedenti con la prospettiva di un utilizzo estensivo
della manodopera: si trattava di strutture pesanti, difficilmente
riformabili nonostante i numerosi tentativi fatti dal 1949 al 1952 per
frammentarle in unità produttive più piccole. Poiché il salario
corrisposto ai detenuti ammontava a qualche centinaio di rubli l'anno,
cioè da quindici a venti volte meno del salario medio di un lavoratore
libero, il suo valore di incentivo per garantire una produttività più
alta era pressoché nullo, soprattutto in quel momento. Infatti, un
numero sempre crescente di detenuti si rifiutava di lavorare,
proliferavano le bande organizzate e cresceva il bisogno di
sorveglianza. In fin dei conti il detenuto meglio pagato e meglio
sorvegliato, sia che si assoggettasse alle regole
dell'amministrazione, sia che preferisse obbedire alla «legge della
mala», costava sempre più caro.
Tutti i dati parziali riferiti dai rapporti di ispezione degli anni
1951-1952 danno la stessa indicazione: il gulag era diventato una
macchina sempre più difficile da gestire. Del resto, tutti gli ultimi
grandi cantieri staliniani che avevano fatto largamente ricorso alla
manodopera penitenziaria, quelli delle centrali idroelettriche di
Kujbyscev e di Stalingrado, del canale del Turkmenistan e del canale
Volga-Don, si trovarono in netto ritardo. Per accelerare i lavori le
autorità dovettero trasferirvi numerosi lavoratori liberi o anticipare
la liberazione dei detenuti più motivati.
La crisi del gulag getta nuova luce sull'amnistia che Berija concesse
a un milione 200 mila detenuti il 27 marzo 1953, appena tre settimane
dopo la morte di Stalin. A parte le considerazioni di carattere
politico, non è possibile prescindere dalle ragioni economiche se si
vogliono comprendere i motivi che portarono i candidati alla
successione di Stalin a proclamare l'amnistia. Essi erano consapevoli
delle immense difficoltà di gestione del gulag, sovrappopolato e
sempre meno «redditizio». Tuttavia, proprio mentre l'amministrazione
penitenziaria chiedeva un «alleggerimento» dei contingenti di
detenuti, Stalin, che invecchiando era preda di una paranoia sempre
più accentuata, preparava un'altra grande epurazione, un secondo
Grande terrore. Nel clima pesante e inquieto della fine dello
stalinismo, aumentavano le contraddizioni...
14.
L'ULTIMO COMPLOTTO
I documenti oggi accessibili confermano che il complotto dei
camici bianchi fu un momento decisivo nello stalinismo del dopoguerra.
Questo caso segnava il coronamento di una campagna «anticosmopolita»,
cioè antisemita, lanciata all'inizio del 1949 ma di cui si erano già
gettate le basi fra il 1946 e il 1947, e allo stesso tempo il
probabile inizio di un'altra epurazione generale, di un altro Grande
terrore. Se non prese il via, fu soltanto a causa della morte di
Stalin, avvenuta alcune settimane dopo l'annuncio pubblico del
complotto. A queste due dimensioni se ne aggiungeva una terza: la
lotta tra le diverse fazioni del ministero degli Interni e del
ministero della Sicurezza di Stato, che dal 1946 erano divisi e
sottoposti a costanti rimaneggiamenti . Questi scontri in seno alla
polizia politica erano già di per sé il riflesso di una lotta fra i
massimi esponenti degli apparati politici, tutti potenziali eredi di
Stalin, che si muovevano ormai nella prospettiva della successione.
Resta infine un'ultima dimensione inquietante: otto anni dopo la
pubblica denuncia dei campi di sterminio nazisti, il «processo» faceva
riaffiorare il vecchio fondo antisemita dello zarismo contro cui i
bolscevichi si erano battuti, mettendo così in rilievo la deriva
imboccata dallo stalinismo nella sua ultima fase.
Non è questa la sede per tentare di dipanare la matassa del processo,
o meglio dei processi che confluirono verso questo momento finale. Ci
limiteremo perciò a ricordare brevemente le tappe principali che
portarono all'ultimo complotto. Nel 1942 il governo sovietico creò un
Comitato antifascista ebraico sovietico presieduto da Solomon
Mihoel's, direttore del famoso teatro jiddisch di Mosca. Nelle
intenzioni del potere, il Comitato avrebbe dovuto premere sugli ebrei
americani perché convincessero il governo statunitense ad aprire al
più presto un «secondo fronte» in Europa contro la Germania nazista.
Vi partecipavano attivamente centinaia di intellettuali ebrei: il
romanziere Il'ja Erenburg, i poeti Samuil Marsciak e Perec Markish, il
pianista Emil' Gilel's, lo scrittore Vasilij Grossman, il grande
fisico P‰tr Kapica, padre della bomba atomica sovietica eccetera. Ben
presto il Comitato sconfinò dal suo ruolo di organismo ufficioso di
propaganda per proporsi come organo rappresentativo dell'ebraismo
sovietico. Nel febbraio del 1944 i dirigenti del Comitato, Mihoel's,
Fefer ed Epshtejn, giunsero persino a inviare a Stalin una lettera in
cui proponevano di instaurare una repubblica autonoma ebraica in
Crimea, che avrebbe potuto far dimenticare l'esperienza tentata negli
anni Trenta di uno «Stato nazionale ebraico» nel Birobidzan,
esperienza sfociata in un fiasco clamoroso. Infatti, in quella regione
sperduta, paludosa e desertica dell'estremo oriente siberiano, ai
confini con la Cina, in dieci anni si erano stabiliti meno di 40 mila
ebrei.
Il Comitato si dedicò anche a raccogliere testimonianze sui massacri
di ebrei da parte dei nazisti e sui «fenomeni anomali riguardanti gli
ebrei», un eufemismo con cui si indicavano le manifestazioni di
antisemitismo fra la popolazione. E queste ultime erano numerose.
Forti tradizioni antisemite erano ancora vive in Ucraina e in certe
zone occidentali della Russia, soprattutto nell'ex «zona di
insediamento» dell'impero, dove il potere zarista aveva concesso agli
ebrei di risiedere. Le prime sconfitte dell'Armata rossa rivelarono
quanto fosse diffuso l'antisemitismo fra la popolazione. Alcuni
rapporti dell'N.K.V.D. sullo «stato d'animo nelle retrovie»
ammettevano che larghe fasce della popolazione erano sensibili alla
propaganda nazista secondo cui i tedeschi facevano guerra soltanto
agli ebrei e ai comunisti. Nelle regioni occupate dai tedeschi,
soprattutto in Ucraina, i massacri degli ebrei, pur avvenendo sotto
gli occhi di tutta la popolazione, a quanto pare suscitarono ben poca
indignazione. I tedeschi reclutarono quasi 80 mila fiancheggiatori
ucraini, alcuni dei quali parteciparono ai massacri. Per controbattere
su questo punto la propaganda nazista, e mobilitare il fronte e le
retrovie invocando la lotta dell'intero popolo sovietico per la
sopravvivenza, gli ideologi bolscevichi rifiutarono nettamente di
riconoscere la specificità dell'Olocausto. Fu proprio su questo
terreno che si sviluppò l'antisionismo, e poi l'antisemitismo
ufficiale, a quanto sembra particolarmente violento negli ambienti
dell'Agit-prop (agitazione e propaganda) del Comitato centrale.
Nell'agosto del 1942 questo dipartimento aveva stilato una nota
interna sulla Posizione dominante degli ebrei negli ambienti
artistici, letterari e giornalistici.
L'attivismo del Comitato finì ben presto per indisporre le autorità.
All'inizio del 1945 fu decretata la censura delle opere del poeta
ebreo Perec Markish e la pubblicazione del "Libro nero" sulle atrocità
naziste contro gli ebrei fu annullata con questa scusa: «Il filo
conduttore di tutto il libro è l'idea che i tedeschi abbiano fatto la
guerra contro l'URSS all'unico scopo di annientare gli ebrei». Il 12
ottobre 1946 il ministro per la Sicurezza di Stato, Abakumov, inviò
una nota al Comitato centrale intitolata "Sulle tendenze
nazionalistiche del Comitato antifascista ebraico", Stalin, che
per ragioni di strategia internazionale intendeva portare avanti una
politica estera favorevole alla creazione dello Stato di Israele, non
reagì immediatamente. Abakumov ebbe carta bianca per intraprendere la
liquidazione del Comitato solo dopo il 29 novembre 1947, data in cui
all'ONU l'URSS votò a favore del piano di spartizione della Palestina.
Il 19 dicembre 1947 molti membri del Comitato furono arrestati. Alcune
settimane dopo, il 13 gennaio 1948, Solomon Mihoel's fu trovato morto
a Minsk. Secondo la versione ufficiale era stato vittima di un
incidente automobilistico. Alcuni mesi dopo, il 21 novembre 1948, il
Comitato antifascista ebraico fu sciolto con il pretesto che era
diventato un «centro di propaganda antisovietica». Le varie
pubblicazioni curate dal Comitato furono proibite, in particolare il
giornale jiddisch «Einikait», cui collaborava la crema degli
intellettuali ebrei sovietici. Nelle settimane successive tutti i
membri del Comitato vennero arrestati. Nel febbraio del 1949 la stampa
lanciò una vasta campagna «anticosmopolita». I critici teatrali ebrei
furono denunciati per la loro «incapacità di capire il carattere
nazionale russo»: «Che idea può avere un Gurvic o uno Juzovskij del
carattere nazionale dell'uomo russo sovietico?» scriveva la «Pravda»
il 2 febbraio 1949. Nei primi mesi del 1949 centinaia di intellettuali
ebrei furono arrestati, specialmente a Leningrado e a Mosca.
Di recente la rivista «Neva» ha pubblicato un documento esemplare di
questo periodo: la sentenza emessa il 7 luglio 1949 dal collegio
giudiziario del tribunale di Leningrado che condannava Akila
Grigor'evic Leniton, Il'ja Zejlkovic Serman e Rul'f Aleksandrovna
Zevina a dieci anni di internamento nei campi. Gli imputati furono
riconosciuti colpevoli di avere «criticato» fra loro «la risoluzione
del Comitato centrale sulle riviste "Zvezda" e "Leningrad" partendo da
posizioni antisovietiche ... interpretato le opinioni internazionali
di Marx in uno spirito controrivoluzionario, lodato gli scrittori
cosmopoliti ... e calunniato la politica governativa sovietica sulla
questione delle nazionalità». Dato che gli imputati avevano ricorso in
appello, furono condannati a venticinque anni dal collegio giudiziario
della Corte suprema, che giustificò così la sentenza: «La pena
inflitta dal tribunale di Leningrado non ha tenuto conto della gravità
del reato commesso ... Gli imputati hanno infatti condotto agitazione
controrivoluzionaria basandosi su pregiudizi nazionalistici e
affermando la superiorità di una nazione sulle altre nazioni
dell'Unione Sovietica»!
Il siluramento degli ebrei fu eseguito in modo sistematico,
soprattutto negli ambienti della cultura, dell'informazione, della
stampa, dell'editoria, della medicina, insomma nelle professioni in
cui occupavano posti di responsabilità. Gli arresti si moltiplicarono
nei settori più svariati: da un certo gruppo di «ingegneri
sabotatori», per la maggior parte ebrei, arrestati nel complesso
industriale metallurgico di Stalino, condannati a morte e giustiziati
il 12 agosto 1952, alla moglie ebrea di Molotov, Pavlina Zemciuzina,
dirigente superiore nell'industria tessile, che fu arrestata il 21
gennaio 1949 per «smarrimento di documenti contenenti segreti di
Stato», processata e internata nei campi per cinque anni, e ancora
alla moglie, sempre ebrea, del segretario personale di Stalin,
Aleksandr Poskrebyscev, accusata di spionaggio e fucilata nel luglio
del 1952. Molotov e Poskrebyscev continuarono a servire Stalin
come se nulla fosse accaduto.
Tuttavia, l'istruttoria sugli imputati del Comitato antifascista
ebraico andava per le lunghe. Il processo, che si svolse a porte
chiuse, incominciò soltanto nel maggio del 1952, cioè due anni e mezzo
dopo gli arresti. Perché tanto ritardo? In base alla documentazione
oggi accessibile, ancora lacunosa, la durata eccezionale
dell'istruttoria può essere spiegata in due modi. Nello stesso periodo
Stalin stava orchestrando, sempre nel massimo segreto, un altro
processo, detto «di Leningrado», un tassello importante che, insieme
al fascicolo istruttorio sul Comitato antifascista ebraico, doveva
preparare la grande epurazione finale. Contemporaneamente stava
mettendo in atto una profonda riorganizzazione dei servizi di
Sicurezza. In quest'ambito l'episodio più importante fu nel luglio del
1951 l'arresto di Abakumov, che aveva per bersaglio principale
l'onnipotente Berija, vicepresidente del Consiglio dei ministri e
membro dell'Ufficio politico. Il processo al Comitato antifascista
ebraico era basilare all'interno delle lotte per assicurarsi la
successione e la supremazia, un elemento centrale del dispositivo che
doveva sfociare nel processo ai camici bianchi e in un secondo Grande
terrore. ***
Ancora oggi il processo di Leningrado, che si concluse con
l'esecuzione dei principali dirigenti della seconda organizzazione per
importanza all'interno del P.C.U.S., è il più misterioso di questi
eventi. Il 15 febbraio 1949 l'Ufficio politico adottò una risoluzione
"Sulle azioni antipartito di Kuznecov, Rodionov e Popkov", tre alti
dirigenti del Partito. Furono tutti destituiti dalle loro funzioni; lo
stesso accadde a Voznesenskij, presidente del Gosplan (l'organo di
pianificazione di Stato), e alla maggior parte dei membri
dell'apparato di partito di Leningrado, una città che Stalin aveva
sempre guardato con sospetto. Fra l'agosto e il settembre del 1949
tutti questi dirigenti furono arrestati con l'accusa di aver
organizzato un gruppo «antipartito» legato... all'Intelligence
Service! Abakumov sferrò allora una vera e propria caccia ai «veterani
del partito di Leningrado», che ricoprivano cariche di responsabilità
in altre città di altre repubbliche. Centinaia di comunisti di
Leningrado furono arrestati e circa duemila espulsi dal Partito e
cacciati dal posto di lavoro. La repressione assunse forme
sconvolgenti, colpendo la città stessa in quanto entità storica. Per
esempio, nell'agosto del 1949 le autorità chiusero il Museo della
Difesa di Leningrado, dedicato alle gesta eroiche compiute nel periodo
del blocco della città durante la «Grande guerra patriottica» (la
seconda guerra mondiale). Alcuni mesi dopo Mihail Suslov, responsabile
per l'ideologia, fu incaricato dal Comitato centrale di istituire una
«commissione di liquidazione» del museo, che lavorò sino alla fine del
febbraio del 1953.
I principali accusati del processo di Leningrado (Kuznecov, Rodionov,
Popkov, Voznesenskij, Kapustin, Lazutin) furono giudicati a porte
chiuse il 30 settembre 1950 e giustiziati l'indomani, un'ora dopo che
era stata pronunciata la sentenza. Tutto il processo si svolse nella
più totale segretezza. Nessuno ne fu informato, nemmeno la figlia di
uno degli accusati più importanti, benché fosse la nuora di Anastas
Mikojan, ministro e membro dell'Ufficio politico! Durante il mese di
ottobre del 1950, in altri processi farsa furono condannati a morte
decine di quadri dirigenti del Partito, tutti ex membri
dell'organizzazione di Leningrado: Solov'ev, primo segretario del
Comitato regionale di Leningrado; Badaev, secondo segretario del
Comitato regionale di Leningrado; Verbickij, secondo segretario del
Comitato regionale di Murmansk; Basov, primo vicepresidente del
Consiglio dei ministri della Russia eccetera.
Non è chiaro se l'epurazione dei «leningradesi» fu un semplice
regolamento di conti tra fazioni dell'apparato o un anello della
catena di processi che andava dalla liquidazione del Comitato
antifascista ebraico al complotto dei camici bianchi, passando per
l'arresto di Abakumov e per il «complotto nazionalista mingrelo». La
seconda ipotesi sembra la più probabile. Il processo di Leningrado fu
senza dubbio una tappa decisiva nella preparazione di una grande
epurazione, cui venne dato pubblicamente inizio il 13 gennaio 1953. E'
indicativo che i crimini imputati ai dirigenti leningradesi decaduti
collegassero tutto il processo ai sinistri anni 1936-1938.
Nell'ottobre del 1949, durante l'assemblea plenaria dei quadri di
partito di Leningrado, il nuovo primo segretario Andrjanov annunciò
all'uditorio sbalordito che gli ex dirigenti avevano pubblicato testi
trotzkisti e zinovievisti: «Fra i documenti pubblicati per ordine di
quegli individui venivano inseriti surrettiziamente e in modo
mascherato alcuni articoli dei peggiori nemici del popolo: Zinov'ev,
Kamenev, Trockij e altri». Per i quadri dell'apparato era chiaro il
messaggio implicito nella grottesca accusa: tutti dovevano prepararsi
a un altro 1937.
Dopo l'esecuzione dei principali imputati del processo di Leningrado,
avvenuta nell'ottobre del 1950, all'interno dei servizi di Sicurezza e
dei servizi del ministero degli Interni si susseguirono innumerevoli
manovre e contromanovre. Stalin, che era diventato diffidente nei
confronti di Berija, inventò un fantomatico complotto nazionalista
mingrelo che aveva lo scopo di annettere alla Turchia la Mingrelia, la
regione della Georgia di cui per l'appunto era originario Berija.
Questi fu costretto a decimare i propri «compatrioti» e a dirigere
l'epurazione del Partito comunista georgiano. Nell'ottobre del
1951 Stalin inferse un altro colpo a Berija, facendo arrestare un
gruppo di vecchi quadri ebrei della Sicurezza e della Procura, fra cui
il tenente colonnello Ejtingon, che nel 1940 aveva organizzato
l'assassinio di Trockij su ordine di Berija, il generale Leonid
Rajhman, che aveva partecipato alla montatura dei processi di Mosca,
il colonnello Lev Shvarcman, che aveva torturato Babel' e Mejerhol'd,
il giudice istruttore Lev Scenin, braccio destro del pubblico
ministero dei grandi processi di Mosca del 1936-1938, Vyscinskij, e
altri. Furono tutti accusati di avere organizzato un vasto «complotto
nazionalista ebraico» diretto... da Abakumov, ministro della Sicurezza
di Stato e intimo collaboratore di Berija.
Abakumov era stato arrestato e incarcerato alcuni mesi prima, il 12
luglio 1951. Fu accusato innanzi tutto di aver fatto sparire
deliberatamente Jakob Etinger, famoso medico ebreo arrestato nel
novembre del 1950 e morto in prigione poco tempo dopo. Secondo le
accuse, «eliminando» Etinger - il quale nel corso della sua lunga
carriera aveva curato fra gli altri Sergej Kirov, Sergo Ordzonikidze,
il maresciallo Tuhacevskij, Palmiro Togliatti, Tito e Georgi Dimitrov
- Abakumov aveva tentato di «impedire che fosse smascherato un gruppo
criminale costituito da nazionalisti ebrei infiltrati al più alto
livello del ministero della Sicurezza di Stato». Alcuni mesi dopo lo
stesso Abakumov venne presentato come il «cervello» del complotto
nazionalista ebraico! Insomma, l'arresto di Abakumov nel luglio del
1951 costituì una tappa decisiva nella montatura di un vasto
«complotto giudeo-sionista»; garantì il collegamento fra la
liquidazione, ancora segreta, del Comitato antifascista ebraico e il
complotto dei camici bianchi, destinato a diventare il segnale
pubblico dell'epurazione. Perciò, tutta la trama prese corpo non alla
fine del 1952, ma nel corso del 1951.
Il processo ai membri del Comitato antifascista ebraico si svolse a
porte chiuse e nella massima segretezza fra l'11 e il 18 febbraio
1952. Tredici imputati furono condannati a morte e giustiziati il 12
agosto 1952, contemporaneamente ad altri dieci «ingegneri sabotatori»,
tutti ebrei, della fabbrica automobilistica «Stalin». In totale il
«processo» del Comitato antifascista ebraico si concluse con 125
condanne, di cui 25 alla pena capitale, tutte eseguite, e 100 condanne
a pene da dieci a venticinque anni di internamento nei campi.
Nel settembre del 1952 la sceneggiatura del complotto giudeo-sionista
era pronta. La sua attuazione fu rimandata di alcune settimane, il
tempo necessario per lo svolgimento del Diciannovesimo Congresso del
P.C.U.S., che finalmente si riunì nell'ottobre del 1952, tredici anni
e mezzo dopo il Diciottesimo. Alla fine del congresso furono
arrestati, incarcerati e torturati moltissimi dei medici ebrei
chiamati in causa in quello che per il pubblico doveva diventare il
caso dei camici bianchi. Parallelamente agli arresti, per il momento
tenuti segreti, il 22 novembre 1952 si aprì a Praga il processo a
Rudolf Sl nsky, ex segretario generale del Partito comunista
cecoslovacco, e a tredici altri dirigenti comunisti; undici di loro
furono condannati a morte e impiccati. Questa parodia giudiziaria,
montata da cima a fondo dai consulenti sovietici della polizia
politica, aveva fra l'altro la peculiarità di essere apertamente
antisemita: undici dei quattordici imputati erano ebrei, accusati di
aver costituito un partito «trotzkista-titoista-sionista». La
preparazione di questo processo fu l'occasione per una vera caccia
agli ebrei negli apparati dei partiti comunisti dell'Europa orientale.
Il giorno dopo l'esecuzione degli undici condannati a morte del
processo Sl nsky, avvenuta il 4 dicembre 1952, Stalin fece votare al
presidium del Comitato centrale una risoluzione intitolata "Sulla
situazione nel ministero della Sicurezza di Stato", che ordinava agli
organi di partito di «far cessare l'assoluta mancanza di controllo
all'interno degli organismi della Sicurezza di Stato». La Sicurezza fu
messa sul banco degli imputati: aveva dato prova di «lassismo»,
mancato di «vigilanza», permesso ai «medici sabotatori» di esercitare
la loro funesta attività. Si era fatto un altro passo avanti. Stalin
contava di utilizzare il caso dei camici bianchi contro la Sicurezza e
contro Berija. Quest'ultimo, grande specialista di intrighi
all'interno dell'apparato, non poteva ignorare il significato di ciò
che si stava preparando.
Si sa ancora assai poco su quanto accadde nelle settimane che
precedettero la morte di Stalin. Dietro alla campagna «ufficiale» che
chiedeva di «rinforzare la vigilanza bolscevica» e di «lottare contro
qualsiasi forma di negligenza», dietro ai comizi e alle riunioni in
cui si invocava una «punizione esemplare» per gli «assassini
cosmopoliti», proseguivano le istruttorie e gli interrogatori dei
medici arrestati. I nuovi arresti davano ogni giorno maggiore ampiezza
al complotto.
Il 19 febbraio 1953 venne arrestato Ivan Majskij, sottosegretario agli
Esteri, braccio destro di Molotov e già ambasciatore dell'URSS a
Londra. Majskij, sottoposto a interrogatori continui, «confessò» di
essere stato reclutato come spia britannica da Winston Churchill,
insieme ad Aleksandra Kollontaj, figura eminente del bolscevismo. Nel
1921 la Kollontaj aveva dato vita all'«Opposizione operaia» insieme a
Shljapnikov, giustiziato nel 1937, e poi era stata ambasciatrice
dell'URSS a Stoccolma fino alla fine della seconda guerra mondiale.
Ciò nonostante, malgrado i «progressi» sensazionali nelle indagini sul
complotto, non si può fare a meno di notare che, a differenza di
quanto era accaduto nel 1936-1938, fra il 13 gennaio e il 5 marzo,
giorno della morte di Stalin, nessuno dei grandi dignitari del regime
si impegnò per denunciare pubblicamente il processo. Secondo la
testimonianza di Bulganin, raccolta nel 1970, solo quattro dirigenti
«erano della partita», a parte Stalin, principale ispiratore e
organizzatore di tutta la manovra: Malenkov, Suslov, Rjumin e
Ignat'ev. Di conseguenza, tutti gli altri potevano sentirsi
minacciati. Sempre secondo Bulganin, il processo contro i medici ebrei
doveva aprirsi a metà marzo e proseguire con le deportazioni in massa
degli ebrei sovietici verso il Birobidzan. Allo stato attuale
delle conoscenze, dato che gli archivi presidenziali dove vengono
conservati gli incartamenti più segreti e più «delicati» sono per ora
accessibili solo in misura assai limitata, è impossibile sapere se
all'inizio del 1953 fosse allo studio tale piano di deportazione in
massa degli ebrei. Una sola cosa è certa: la morte di Stalin capitò al
momento giusto per interrompere finalmente la serie dei milioni di
vittime della sua dittatura. NOTE
1. Passo sottolineato a matita; in margine, a matita: «Viene da
chiedersi a che serve "portarli a destinazione"?».
"Le famiglie lituane inviate come forza lavoro nell'azienda di
sfruttamento forestale di Igara (territorio di Krasnojarsk) sono
alloggiate in locali inadatti all'abitazione: tetti che lasciano
passare l'acqua, finestre senza vetri, nessun mobile, nemmeno il
minimo necessario per dormire; i deportati si sistemano per terra, su
uno strato di muschio o di fieno. Il sovraffollamento e l'inosservanza
delle norme sanitarie hanno fatto insorgere fra i coloni speciali casi
di tifo e di dissenteria, talvolta mortali".
"- circa 500 «colonie di lavoro» presenti in ogni regione, che
contenevano in media da 1000 a 3000 detenuti ciascuna, il più delle
volte condannati per reati comuni, la metà dei quali scontava pene
inferiori a cinque anni;
In questo immenso universo di campi ai detenuti si aggiungevano altri
2 milioni 750 mila coloni speciali, che dipendevano da un'altra
direzione del gulag. La struttura aveva grossi problemi di
organizzazione e di sorveglianza, ma anche di rendimento economico.
Nel 1951 il generale Kruglov, ministro degli Interni, preoccupato per
il calo costante della produttività dei condannati ai lavori forzati,
lanciò una vasta campagna di verifica delle condizioni nel gulag. Le
commissioni inviate in loco riferirono che la situazione era molto
tesa.
- una sessantina di grandi complessi penitenziari, i «campi di
lavoro», situati principalmente nelle regioni settentrionali e
orientali del paese, che ospitavano ciascuno molte decine di migliaia
di detenuti condannati per la maggior parte a pene superiori a dieci
anni per reati comuni o politici;
- una quindicina di «campi a regime speciale» istituiti in base a una
direttiva segreta del ministero degli Interni del 7 febbraio 1948, in
cui erano detenuti esclusivamente prigionieri politici considerati
«particolarmente pericolosi», ovvero circa 200 mila persone".
2. liquidare le immense zone di produzione dove attualmente lavorano
senza scorta decine di migliaia di detenuti appartenenti a fazioni
rivali;
3. creare delle unità produttive più piccole per assicurare una
miglior sorveglianza dei detenuti;
4. aumentare il personale di sorveglianza. Zver'ev aggiungeva: «Ma è
impossibile organizzare questa sorveglianza come si deve, dato che la
carenza degli organici raggiunge il 50 per cento»;
5. separare nei luoghi di produzione i detenuti dai lavoratori liberi.
«Ma i rapporti tecnologici fra le diverse imprese del complesso di
Noril'sk, la necessità di produrre a ritmo continuo e i gravi problemi
di alloggio non permettono di isolare adeguatamente i detenuti dai
lavoratori liberi ... In linea generale, il problema della
produttività e della omogeneità del processo produttivo potrebbe
essere risolto soltanto liberando anticipatamente 15 mila detenuti,
che dovrebbero essere costretti a restare sul posto».
Il 13 gennaio 1953 la «Pravda» annunciò la scoperta di un complotto
del «gruppo terrorista dei medici», costituito prima da nove e poi da
quindici medici famosi, oltre la metà dei quali erano ebrei. L'accusa
era di aver approfittato delle alte funzioni che ricoprivano al
Cremlino per «accorciare la vita» ad Andrej Zdanov, membro
dell'Ufficio politico morto nell'agosto del 1948, e ad Aleksandr
Scerbakov, morto nel 1950, e di aver tentato di assassinare alcuni
grandi capi militari sovietici per ordine dell'Intelligence Service e
di un'organizzazione di assistenza ebraica, l'American Joint
Distribution Committee. La donna che li aveva denunciati, la
dottoressa Timaciuk, ricevette solennemente l'Ordine di Lenin, mentre
gli imputati, sottoposti agli interrogatori di prassi, continuavano a
«confessare». Com'era già accaduto fra il 1936 e il 1938, si tennero
migliaia di comizi per invocare la punizione dei colpevoli,
l'ampliamento delle inchieste e il ritorno a un'autentica «vigilanza
bolscevica». Nelle settimane successive alla scoperta del «complotto
dei camici bianchi» tornarono d'attualità i temi degli anni del Grande
terrore, grazie a una vasta campagna di stampa che chiedeva «di far
cessare l'incoscienza criminale diffusa tra le file del Partito e
liquidare definitivamente il sabotaggio». Prendeva piede l'idea di una
grande cospirazione in cui erano coinvolti intellettuali, ebrei,
militari, alti funzionari del Partito e dell'economia, funzionari
delle repubbliche non russe: sembravano i momenti peggiori della
"ezovscina".