REFERENCE ARCHIVE

George Bernard Shaw

Il credo politico di chiunque

 

29. Lo Stato di fronte al problema genetico
30. La corruzione dello Stato
31. La corruzione municipale
32. Coercizioni e sanzioni
33. Legge e tirannia
34. Giurie e ministri di Grazia, difendeteci!
35. Obiezione di coscienza e sciopero generale
36. Saggi di antropometria
Intermezzo
37. Della fede e della condotta
38. Ribalderia collettiva
39. Il Governo dei cosiddetti grandi uomini
40. Per i critici
41. Sommario economico
42. Sommario politico
43. Sommario religioso
44. Congedo

PARTE TERZA.

29. LO STATO DI FRONTE AL PROBLEMA GENETICO
Abbiamo dunque concluso che lo statista può fare a meno di preoccuparsi dei microbi. Sappiamo pure che la selezione o una appropriata concimazione possono produrre qualità di piante immuni dalle malattie da cui prima erano distrutte. Dopo minuziose ricerche i nostri allevatori hanno scoperto il segreto per migliorare la razza negli equini, nei suini, nel bestiame e nel pollame: basta dare un giusto valore ai loro ascendenti. Adolf Hitler, che pur non è un allevatore, è arrivato con l'aiuto del suo cervello alle stesse conclusioni per quanto concerne la razza umana. Poiché è tedesco e nazionalista, egli ritiene che i destini della suddetta razza umana debbano essere conquistati e guidati dai migliori suoi figli, cioè i nordici, i quali sono atti a governare slavi e latini sterminando incidentalmente ebrei, polacchi e ogni razza sfavorevole alle sue teorie. Egli è riuscito a convincere i suoi tedeschi a lasciarsi organizzare per un'eroica guerra mondiale, e in questo momento essi stanno spargendo fiumi di sangue e denaro per raggiungere la necessaria conquista. L'esperimento, nonostante i primi sensazionali successi sui campi di battaglia, non ha giustificato l'efficacia di un sistematico accoppiamento fra consanguinei nordici. Gli scandinavi e gli anglo-americani si sono dimostrati tanto recalcitranti da costringere Adolf a escluderli dal numero degli stalloni eventuali del mondo e a scegliere per questa missione i soli uomini della Germania. All'epoca in cui questo libro sarà dato alla stampa, egli avrà probabilmente scoperto che anche i cugini del Nord non sono migliori degli ebrei e dei polacchi e forse molto più stupidi, e condurrà certamente il suo esperimento fino all'estrema conclusione, a prezzo anche della propria vita, se i tedeschi sopravvissuti, i cui genitori avranno pagato il prezzo del suo esperimento, non gli si rivolteranno contro.

Speriamo, comunque, che egli riesca a cavarsela e a godersi un comodo esilio in Irlanda o in altro paese neutrale, come già fecero Luigi Napoleone a Chislehurst e il Kaiser a Doorn. Quale razza, alla luce del suo odierno esperimento, ci consiglierà allora di allevare? Può darsi che egli disperi dell'intiera specie poiché le razze tutte gli avranno fallito. Ma, dato il suo straordinario ottimismo, egli scoverà forse l'esistenza di una via d'uscita. I nostri genetici sono d'accordo nel riconoscere che il segreto dell'eugenetica è di sostituire l'incrocio all'accoppiamento fra consanguinei: muta la materia, rimane il metodo.

Il futuro dell'umanità appartiene ai bastardi e non ai levrieri, belli, sì, ma privi di cervello. Lo stesso Fuhrer non è un puro prussiano; dal punto di vista genealogico egli è un essere del tutto estraneo, prescelto dalla natura a vincere. Si dice che i lavandai cinesi in unione con le ragazze irlandesi producano una eccellente nidiata di figli. L'albero inglese innestato su quello italiano genera disposizione sia per gli affari in grande stile sia per le belle arti. In Russia, dove un'intera generazione di bei signori e di belle signore è stata costretta a fingersi figlia di lavoratori della gleba, e dove la promiscuità fra ogni tipo di creatura è cosa naturale, la civiltà sta facendo passi tanto lunghi da lasciarsi indietro a miglia di distanza un'Europa dal fiato mozzo. Frattanto, nei villaggi remoti in cui l'incrocio è reso impossibile per mancanza di forestieri, e la popolazione è formata tutta da cugini, la razza decade e i difetti congeniti sono comuni. Le genealogie partono da incroci esogami e terminano ignominiosamente in una chiusa casta di consanguinei dove parassiti generano parassiti. Lo statista deve perciò evitare ogni forma di endogamia, sia di casta sia di nazione o colore, e dare invece le più ampie possibilità alla naturale scelta fra i sessi. Questo non è sempre facile; ne abbiamo una prova nel nostro vastissimo impero. Non siamo riusciti a popolare la Nuova Zelanda nella quale, invece delle decine di milioni di bianchi che ognuna delle sue due isole potrebbe contenere, ne abbiamo soltanto immesso un milione e mezzo. Quando ero a Durban, nel 1935, il ministro dei Trasporti fece un appello per incoraggiare l'immigrazione britannica nel Sud-Africa, allo scopo di mantenervi la nostra supremazia. L'Australia è stata da noi considerata inabitabile fuorché in poche determinate regioni. L'abbiamo perciò abbandonata. Nel frattempo, gli aborigeni inventori del miracoloso "boomerang", come pure le tribù nere d'Africa, e i maori della Nuova Zelanda, stanno moltiplicandosi con ritmo decisamente impressionante, tanto più adesso che hanno cessato di divorarsi tra di loro. Il vero rimedio pare essere quello della mescolanza genetica. Nell'isola di Giamaica questa mescolanza è stata tanto ampiamente praticata, che nel 1911, quando la visitai, alcuni dei bianchi più civili da me incontrati avevano per padre un uomo di colore. Nelle Hawaii, dove desideravo udire un po' di musica locale genuina invece delle canzoni popolari inglesi e americane con le quali i nostri turisti sono presi in giro, mi resi conto che i puri discendenti dei vecchi abitanti delle isole Sandwich sono ora curiosità da museo. I giapponesi soli sono endogami. Anch'essi stanno provando in Oriente l'esperimento selettivo di Hitler, ma, se fossi un giocatore, punterei sulla vittoria dei bastardi. In questo, come in ogni altro settore riguardante la pubblica amministrazione, vediamo che lo statista non è stato educato nella sfiducia vaga e generica verso la scienza, quale parola vuota, adornata da lettera maiuscola, ma in quella verso i naturalisti, fisiologi, biologi e filosofi viventi, chiusi nelle loro sette battagliere di selezionisti e di evoluzionisti (neo-darwinisti guidati ora da Julian Huxley, bergsoniani condotti da Joseph Needham). Nemmeno contro l'Arte (con l'A maiuscola) è stato educato lo statista, ma contro ogni scuola che abbia per scopo preponderante la disputa su questioni concernenti musica, pittura, scultura, letteratura, e soprattutto architettura. Nella maggior parte dei casi l'uomo di Stato si trova del tutto impotente se privato dell'aiuto e del consiglio di abili studiosi di statistica non corrotti da interessi pecuniari antisociali, o sviati da una passione più forte di quella matematica che, in alcune persone, è la più salda e di gran lunga la più duratura di tutte le passioni. Il matematico nato è il fagocito che la natura ha creato per divorare il profittatore.

30. LA CORRUZIONE DELLO STATO
Il socialismo, nel trapasso dalla dottrina alla pratica, ha esteso le attività e i poteri dello Stato aumentando al medesimo tempo la possibilità di corruzione e le occasioni di guadagni illeciti. I socialisti richiedono la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio; essi ci esortano a Educare, Agitare e Organizzare, in vista di questo scopo. Dal punto di vista economico tutto questo è logico, ma renderà il capitalismo e l'imperialismo più forti che mai, tanto più se il trapasso degli affari da privati a pubblici verrà attuato come sta attuandosi ora, da capitalisti e imperialisti finanziati dallo Stato (fascisti) che combattono per il loro interesse, piuttosto che dai comunisti i quali mirano al benessere della comunità. Perché, lo ripeto, è possibile nazionalizzare i mezzi di produzione, distribuzione e scambio, sfruttandoli ben più a fondo di come non lo siano, dato che oggi servono soltanto ad aumentare i redditi non sudati e ad alleggerire i proprietari dalle tasse, mentre producono un rialzo nel costo della vita del proletariato, riducendogli i mezzi per sostenere un onere maggiore. I nostri ottimisti puntano esultanti sull'aumento dei salari; i salari delle donne impiegate nei lavori di guerra sono, ad esempio, saliti dai due pence e mezzo orari del 1914 ai sei pence del 1941, il che fa sei scellini al giorno per dodici ore di lavoro invece di mezza corona. Ma quando la donna porta a casa i suoi sei scellini il proprietario confisca immediatamente da otto pence a due scellini. Con quello che le rimane, la donna compera cibo e vestiario a prezzi sensibilmente maggiori di quelli del 1914. I salari dei lavoratori specializzati sono saliti da due sterline la settimana a settanta- ottanta scellini; ma lessi tempo fa che uno di questi aristocratici del lavoro pagava un affitto di ventotto scellini la settimana. Ieri (febbraio 1943), il Governo annunciò la costruzione per conto dello Stato di 6000 case per lavoratori agricoli. L'affitto deve essere di tredici scellini la settimana, e questo con un salario di due sterline. Tali affitti sarebbero stati considerati mostruosi prima dell'aumento dei salari.

Non dimentico che, non appena case e terreni fossero comprati dallo Stato, come ho scritto nel capitolo 13, non vi sarebbero più proprietari né tasse per loro. Il proprietario, però, pagato per l'abbandono dei suoi beni, si troverebbe caricato d'un tratto di danari da impiegare, e diventerebbe un capitalista, mutando tutt'al più l'appellativo affitto in quello di reddito, ciò che non è di alcun profitto per il proletariato. I capitalisti possono essere rimunerati, e probabilmente lo saranno, per la cessione delle loro industrie allo Stato, e pure i proprietari terrieri quando abbandoneranno le loro terre; ma che cosa riuscirà a impedir loro che, con un qualsiasi pretesto, non si mutino in pensionati a vita, se la distribuzione della rendita, degli interessi e dei profitti è lasciata nelle loro mani? I proprietari terrieri e i capitalisti possono essere aboliti con relativa facilità; ma la rendita e l'interesse rimarranno a disposizione del Governo che, controllando la produzione e i mercati, può profittarne, se gli garba. E non potrà fare a meno di trarre qualche profitto poiché dovrà pure assicurarsi una certa solvibilità. La distribuzione dei profitti e delle rendite da esso ottenuti rimarrà a sua discrezione. Facendone uso potrà pagare stipendi e pensioni giganteschi ai membri del Parlamento, compresi i pari che sono praticamente irriducibili sinecuristi, e istituire un sistema di privilegi graduati che dalla nobiltà si estendano con paghe da fame al semplice operaio, facendo sì che l'auspicato trapasso della proprietà privata in quella pubblica risulti un mutamento in peggio.

E' del tutto secondo natura che il vecchio liberale sogni istituzioni politiche dalle quali scaturisca automaticamente una millenaria prosperità, e questo senza restrizione alcuna della libertà individuale, e senza che lo Stato interferisca nelle questioni di carattere politico e religioso. Questo suo sogno è potentemente appoggiato dall'individualismo cristiano, il quale pone in rilievo l'infinito valore dell'anima di ogni uomo, da Dio creata immortale e dotata di libero arbitrio, in contrapposizione all'espediente di autorità totalitaria su cui si appoggiano gli Stati artificiali di questo mondo, nei quali il nostro passaggio è soltanto un breve e peccaminoso episodio dell'eternità. Un Governo socialista può risultare cattivo quanto qualsiasi altro tipo di Governo. L'eterna vigilanza è il prezzo che il socialismo e la libertà devono pagare per esistere e, a meno che questa vigilanza non sia molto illuminata, essa può produrre parecchio male, pur partendo da ottime intenzioni. E' più sicuro respingere ogni sistema automatico, giudicandolo un facile schermo posto a nascondere tendenze di pigrizia politica, e considerare invece con dovuto rispetto ogni sistema che comporti una direzione giornaliera e riguardosa dell'individuo. La fede nella salvezza automatica ha rovinato il capitalismo, e ha estinto il liberalismo di Cobden; abbandonandoci a questa utopia produrremmo lo stesso disastro nel socialismo.

La storia degli Stati costituzionali ha, in questo punto, qualcosa da dire. Il monopolio governativo della terra e del capitale non è cosa nuova. Virtualmente è già nella lettera della legge in vigore, dove la proprietà terriera non poggia su alcuna base legale. La terra appartiene tutta al re, e può essere posseduta da un privato soltanto come proprietà passeggera donata dal monarca, il quale in qualsiasi momento ha la facoltà di riprendersela. Il diritto per cui il sovrano impone tasse sui suoi soggetti non è limitato da alcuna restrizione. Egli sta attualmente confiscando i redditi dei più ricchi fra i suoi sudditi alfine di impiegarli alla difesa del regno. Così, la completa «espropriazione degli espropriatori», facendo del Governo l'unico capitalista proprietario terriero e datore di lavoro, potrebbe essere attuata con la presente legge. Enrico ottavo s'impadronì delle terre della Chiesa, senza per questo promuovere una rivoluzione. Allo stesso modo il Tesoro si sta ora impossessando di tutto il denaro che può spillarci, senza provocare per questo la rovina dell'intero sistema capitalistico. La legge è socialista, come d'altronde è nella natura di tutte le leggi costituzionali. Perché, allora, gli attuali Governi sono nella pratica tanto antisocialisti da far ribollire ovunque, fuorché in Russia, il malcontento rivoluzionario?

La risposta è che tanto il re, quanto i ministri che esercitano i suoi poteri, non sono socialisti; neppure lo sono coloro che li eleggono. Le proprietà terriere vengono concesse a privati affinche essi ne estraggano un profitto personale. I sovrani solevano vendere i loro diritti di tassazione a gabellieri che spellavano senza pietà i contribuenti. I Cancellieri dello Scacchiere, nello stabilire i loro bilanci, danno alla tassa diretta sul reddito il valore di un ultimo espediente da imporsi soltanto allorché ogni altra fonte di reddito sia stata sfruttata al massimo. Quando l'iniziativa privata si rifiuta di imbarcarsi in affari, indispensabili sì, ma giudicati di scarso rendimento (il servizio postale, a esempio), i Governi s'impegnano loro. Essi si guardano bene, però, dal fornire i servizi richiesti al prezzo di costo: ne traggono invece un profitto che serve loro ad alleggerire, o addirittura annullare, le imposte sui redditi non sudati. Questo è accaduto per avere affidato allo Stato i mezzi di produzione, distribuzione e scambio, lasciando di pari passo le redini del Governo nelle mani di ministri antisocialisti, educati al concetto che la prosperità nasce dal libero ed egoistico commercio fra privati. Ne sono risultate povertà, schiavitù, prostituzione, e morte prematura in sì vasta scala, da promuovere quel particolare movimento da noi chiamato socialismo. Purtroppo, movimenti a sfondo sociale essi pure, quali il liberalismo, l'anarchia, il sindacalismo o qualsiasi altro credo a sfondo scettico sulla capacità dello Stato, appoggiano la tesi del libero scambio fra privati.

Prendete il caso della vantata abolizione della schiavitù in Inghilterra e in America. Se ho uno schiavo o un servo della gleba e se sono responsabile del suo benessere anche nelle ore in cui non lavora, e se la legge lo protegge contro gli abusi che potessi compiere nei suoi riguardi, a che cosa gli servirebbe di essere buttato sul lastrico in nome della libertà? Egli si troverebbe di colpo nell'alternativa di dover morire di fame o vendersi come "libero lavoratore". Crederebbe, forse, di potersi scegliere il padrone, ma quando si trovasse davanti al dilemma: «trovar lavoro o crepar di stenti» si avvedrebbe ben presto che è il padrone a scegliere, non lui. All'istante in cui perde il suo signore, perde pure i diritti inerenti allo stato di schiavitù, e allora non appena è incapace di lavorare può finire anche sul letamaio. Quando la schiavitù insita nel sistema feudale venne abolita in Inghilterra, le morti per stenti sarebbero diventate innumerevoli se la regina Elisabetta non vi avesse provveduto per mezzo della Legge sui Poveri. La rivoluzione industriale rese la voce "morte di fame" d'uso comune nei registri degli uffici di stato civile. Venne poi l'armistizio a conclusione della prima guerra mondiale, e milioni di smobilitati esperti soltanto nell'uso delle armi, induriti dalla carneficina, e abituati a mangiare regolarmente la loro razione di carne in scatola, si trovarono nell'impossibilità di procurarsi un impiego. Per tema di una rivolta la Legge sui Poveri fu ampliata coll'aggiunta di sussidi, aggregando così una massa di parassiti, miserabili e affamati, a quella dei ricchi super-nutriti.

E' accaduto spesso che ferrovie gestite dallo Stato decadessero a un limite scandaloso d'inefficienza. Questo soltanto perché il Governo, invece che impiegare in riparazioni necessarie o a favore del perfetto andamento dei servizi il danaro pagato dal pubblico per i trasporti, lo usava per ridurre tasse. Se poi c'erano profitti, questi erano devoluti a diminuire il prezzo delle tariffe, o a migliorare le condizioni degli impiegati della ferrovia stessa.

Il paragone tra ferrovie statali, cioè male in arnese, e ferrovie private inglesi o americane, paragone ben sfavorevole alle prime, è sovente usato per screditare il progetto socialista sulla nazionalizzazione delle nostre strade ferrate. Ciò non è molto logico, dato che le nostre compagnie ferroviarie, tutte private e in competizione l'una con l'altra, sono riuscite a stabilire una rete ferroviaria così inadatta al fabbisogno del paese che è a volte meno dispendioso spedire le nostre merci, se destinate a uno dei nostri porti, via mare in America e da quel continente dirottarle qui, piuttosto che inviarle direttamente a destinazione via terra. In Italia i treni non furono mai in orario finché il Duce, reggitore assoluto alla maniera di Luigi quattordicesimo, non li ebbe messi sotto la tutela dello Stato. Così fece in Spagna Primo de Rivera. In Russia, il ministro dei Trasporti Zerzinskij uccise un capostazione troppo amante dei suoi ozi. Dato però che gli amanti dell'ozio erano più numerosi dei Zerzinskij, il Sovièt dovette organizzare una polizia con speciali poteri di vita e di morte prima di riuscire a stabilire l'ordine.

Ogni servizio ferroviario statale può essere reso efficiente, attivo e proficuo, se il ministro dei Trasporti è deciso a volerlo tale. Se invece il Cancelliere dello Scacchiere ritiene meglio farlo diventare un monito contro l'iniziativa di Stato, piuttosto che un esempio, egli può molto facilmente riuscirvi. La gente non saprà rendersi conto di ciò che accade e dichiarerà lo Stato colpevole della disfunzione ferroviaria. Dato poi che il socialismo patrocina l'amministrazione governativa, la gente darà la colpa anche al socialismo, perché l'idea millenaristica che essa si è fatta di quel movimento non è giunta a tanto da capire che uno Stato socialista, retto da spiriti corrotti e incapaci, risulta più dannoso che non una egoistica plutocrazia.

Una cattiva amministrazione del Tesoro posta alla mercè di governanti poco scrupolosi e scelti a casaccio (poco importa che si chiamino socialisti o conservatori), non potrà condurre se non a una calamità nazionale. Sappiamo tutti cosa sia un treno e, se ci prendiamo la briga di studiarlo, potremo anche capire l'intero funzionamento ferroviario. Nessuno, invece, intende che cosa sia la moneta. Se da un venditore ambulante comperate mele per il valore di due pence e pagate con una moneta d'argento di sei pence, egli vi restituirà quattro pence di bronzo, dopo di che potrete concludere che il venditore conosce perfettamente il meccanismo della moneta. Se poi gli domandate da dove quelle monete provengono, egli vi risponderà che nascono dalla Zecca. Ma se volete farvi spiegare il perché vi dona due mele gradite al palato in cambio di due piccoli dischi di bronzo, egli rimarrà muto. Sa tutti i Che Cosa, i Quando, i Dove, e i Come; ma non conosce una risposta. Il governatore della Banca d'Inghilterra, nell'ultima discussione sulla base aurea, dovette ammettere di essere incapace di trovare una soluzione soddisfacente a questo perché fondamentale.

Immaginate, ora, che il nostro venditore ambulante diventi membro laburista del Parlamento, fatto possibilissimo nell'attuale stato di cose, purché egli sia dotato di una certa loquela e purché, assistendo a comizi, o leggendo opuscoli, si sia impadronito degli argomenti astratti a favore del socialismo e a discredito del capitalismo. Ho condiviso il palco oratorio con parecchi di questi eloquenti rivenditori che riscuotevano maree di applausi, sebbene la loro pronuncia fosse alquanto trascurata. Immaginate che il vostro venditore ambulante diventi membro del Governo, Primo Ministro o, se volete, Duce, Fuhrer, Commissario. Cose che capitano, al giorno d'oggi. Egli si troverà nella stupenda posizione di poter creare un illimitato benessere con la semplice stampatura di pezzetti di carta contrassegnati dieci scellini, una sterlina, cinque sterline, cento sterline. Ne può stampare milioni di questi pezzetti, e dar loro corso legale. I Governi rivoluzionari, formati di uomini privi d'esperienza che troppo conoscono la povertà e il centesimo, e troppo poco i milioni, si lasciano quasi sempre abbagliare da simili follie. Nessun Governo può creare una pagnotta, un uovo, un paio di scarpe, e neppure riparare una finestra rotta, stampando numeri su pezzi di carta. Quei pezzi di carta possono avere valore come buoni per il pane, il burro, le scarpe, i mattoni e per ogni altra cosa, compresi i servizi personali che pure si possono comprare, purché esistano sul mercato gli oggetti, o il personale, ricercati dalla domanda. Nel caso contrario, i possessori dei buoni possono anche fischiare... Allo stesso modo potrebbero possedere azioni di una inesistente miniera d'oro!

Dapprincipio, le merci che una onesta moneta potrebbe pagare non mancano del tutto. Supponete che il Governo, abituato a dare un penny per ogni uovo che compera, ritenga di potere in qualche modo ottenere sempre una abbondante quantità di uova a questo prezzo, e poggiando su tale assunto emetta buoni capaci di acquistare una dozzina di uova per ogni mezza dozzina che si trovi sul mercato: il prezzo delle uova salirà matematicamente a due pence l'uno. Questo indisporrà il Governo che accuserà i rivenditori di voler trar migliori profitti a mezzo del mercato nero. Pur di combattere questo rialzo, i governanti promulgheranno una legge sui prezzi massimi che imporrà una multa di 100 sterline, o diversi anni di prigione, o che so io, da infliggersi a chiunque sia sorpreso a vendere uova a un prezzo superiore a quello fissato. La polizia, però, non può far rispettare questa legge, non avendo essa a disposizione il numero necessario di guardie, tanto più che per ottenere un risultato ci vorrebbe una guardia per ogni negozio e una a ogni angolo di strada. D'altra parte, la polizia può unicamente rilevare l'infrazione alla legge quando è chiamata dalla parte lesa. Ma se ambedue le parti si mettono d'accordo, non vi è parte lesa, e nessuno chiama la polizia. Nulla può evitare che la scarsità delle uova provochi un aumento del loro prezzo, tanto più se il Governo stampa buoni in eccesso sulla disponibilità, e lascia il traffico delle uova nelle mani della libera concorrenza e del commercio privato. Dopo la guerra dei Quattro Anni l'affrancatura di una lettera da Londra a Berlino costava due pence e mezzo. Da Berlino a Londra, in moneta tedesca, si dovevano sborsare 12 sterline e mezzo. Poiché lo stipendio dell'impiegato postale era basato su una scala mobile, egli non ci faceva molto caso; ma chi viveva dei redditi fissi, i pensionati, le zitelle a cui i genitori avevano provveduto per mezzo di lasciti, i possessori di obbligazioni, i creditori ipotecari, e i creditori tutti in genere, furono rovinati. Al momento dell'armistizio, nel 1918, possedevo un credito di migliaia di sterline presso editori e impresari teatrali tedeschi. La parola d'ordine generale era allora «Fate pagare la Germania». Ho infatti ancora il milione di marchi con cui la Germania mi pagò; valgono forse qualche centesimo... di curiosità. La stessa cosa accadde al rublo in Russia nel 1917, al dollaro americano dopo la Guerra Civile, ai buoni- moneta durante la Rivoluzione francese e in centinaia di altri casi in cui il denaro eccedette di molto i beni disponibili. Questa cattiva condotta finanziaria dello Stato si chiama inflazione. E' una variante della truffa all'americana. D'altra parte, i debitori si sentono sollevati, potendo adempiere ai loro obblighi con moneta svalutata; anche le società commerciali si alleggeriscono dei loro debiti usufruendo di questa truffa legale. Gli speculatori lungimiranti comprano merci con danaro svalutato e le rivendono all'estero contro buona valuta, oppure le tengono in disparte per rimetterle sul mercato in patria quando il Governo, non potendo più a lungo autotruffarsi, sarà costretto a ritornare a una moneta basata sui beni reali o sull'oro. A ogni modo, una quantità rilevante di persone approfitta di questa truffa dello Stato. Esse incitano il Governo all'inflazione e si oppongono in tutti i modi alla deflazione. Un anno d'inflazione è per certuni un anno di prosperità. Il Governo che spoglia Pietro per pagare Paolo può sempre contare sull'appoggio di Paolo.

L'inflazione, comunque, si sconfigge ben presto da sé sola. In Germania, quando milioni e anche miliardi di marchi non potevano comperare un uovo, o pagare il biglietto di un tram, gli uomini d'affari forestieri stabilirono di farsi pagare in dollari americani o in oro; questo obbligò il Governo tedesco a emettere una nuova moneta basata sui beni disponibili. Il ritorno ai prezzi normali salva i pensionati, ma rovina i debitori e rende la cura calamitosa quanto la malattia, poiché ora è Paolo che viene spogliato per pagare Pietro. Tuttavia, l'illusione della cartamoneta è irresistibile per i finanzieri ignoranti posti al potere dalla rivoluzione e dal suffragio universale.

L'educazione che diamo ai nostri governanti e agli elettori non serve. Le inflazioni tedesca e russa non furono provocate da venditori ambulanti, ma da persone che, avendo frequentato le scuole e l'università, sapevano tutto quello che si riesce a imparar dai libri e dagli studi finanziari. Enrico ottavo, uno degli uomini più istruiti e compiti del suo tempo, e non certo uno sciocco, svilì il suo danaro prima ancora che la carta moneta fosse di moda. Egli sapeva di commettere una truffa; ma non capì che alla lunga il Tesoro non avrebbe guadagnato nulla dalla frode, e che nel frattempo essa avrebbe causato molte sofferenze. Forse, dopo tutto, lo capì; certo è che non se ne curò. A quasi tre secoli di distanza un altro monarca, Luigi quindicesimo di Francia, agì allo stesso modo e alle rimostranze mossegli dai saggi rispose col famoso «Après moi le déluge!».

Mentre scrivo queste righe, il Governo inglese è ricorso a decreti di razionamento dei generi di prima necessità, fissandone il prezzo massimo, e infliggendo severe pene a chi disobbedisce (mercato nero). Nello stesso tempo - e qui viene il nuovo - esso compensa i negozianti per le eventuali perdite subite nell'osservanza della legge, concedendo un sussidio. Ecco ancora un provvedimento abbastanza intelligente; ma, poiché i sussidi devono essere pagati dai contribuenti, compresi i negozianti, ciò che corrisponde a dare la differenza fra il massimo prezzo autorizzato e il vero valore della merce - valore di scarsità, cioè - l'inflazione non è affatto sconfitta e il suo peso, invece che ricadere indirettamente sui compratori, è portato un po' da tutti: provvedimento d'inflazione nazionalizzata, tutto lì. I Governi privi di illusioni sulla circolazione monetaria possono essere disonesti quanto gli altri. Il Governo francese finanziò la prima guerra mondiale chiedendo prestiti quando il franco valeva dieci pence. Dopo la guerra esso «svalutò» la sua moneta e dette al franco il valore di due pence. In conseguenza di ciò, coloro che avevano imprestato dieci pence alla Francia furono ripagati con due e la Francia non si curò certo di chiedere scusa. Il Governo francese si comportò come un privato il quale, essendo fallito, si confessa insolvente e offre di pagare a sconto dei suoi debiti quattro scellini per ogni sterlina dovuta. I francesi, che non si sognarono neppure di fare una simile confessione, svalutarono senza fallire. Essi ripudiarono semplicemente i quattro quinti dei loro debiti. I sottoscrittori inglesi del prestito s'indignarono, giudicandosi defraudati, come infatti lo erano. Il più bello fu che l'Inghilterra, dopo essersi fatta imprestare una grossa somma dagli Stati Uniti, ripudiò a sua volta il debito scusandosi con il fatto che le nazioni alleate, per agevolare le quali essa aveva richiesto il prestito, si erano comportate allo stesso suo modo. La Finlandia, che aveva ricevuto prestiti direttamente dall'America, rimase l'unica nazione solvente.

Possiamo dedurre da ciò che la fiducia in un Governo non dipende soltanto dalla sua solvibilità e onestà, ma anche dal sapere i ministri ciò che stanno facendo.

I datori di lavoro e i proprietari terrieri possono equiparare il valore dei pubblici servizi a quello delle pensioni, sia col crescere gli affitti, sia impiegando pensionati ai quali vengono offerti stipendi che, addizionati alla loro pensione, siano di poco inferiori al minimo di categoria. Quando nel creare una nuova arteria stradale o un nuovo giardino pubblico si valorizzano proprietà private, i proprietari equiparano l'incrementato valore dei loro beni aumentando gli affitti. Non è necessario che i datori di lavoro e i proprietari prendano l'iniziativa di queste transazioni. Essi devono soltanto aspettare che i pensionati e gli stessi costruttori comincino a litigare fra loro, chi per la terra, chi per il lavoro, offrendo stipendi più bassi e affitti più alti. I pensionati finiscono per regalare ai datori di lavoro il valore delle loro pensioni e i costruttori regalano ai proprietari quello che si può chiamare "valorizzazione senza sforzo', sebbene la valorizzazione sia in pratica dovuta agli sforzi riuniti di tutti i contribuenti. Questa non è corruzione colpevole; è una inevitabile automatica conseguenza della proprietà privata sulla terra e sul capitale unita all'imposizione di contratti privati.

Ma se lo Stato o il Municipio acquistano i terreni ove tracciare nuove strade o giardini, omettendo di acquistare o municipalizzare le proprietà che vengono beneficate dai lavori, se ne rendano conto o no, essi mettono in moto la macchina di una vera corruzione. Se Stato o Municipi pagano una pensione insufficiente o, pur dandone una sufficiente, non la sospendono quando il pensionato accetta un lavoro per il quale gli viene corrisposto uno stipendio inferiore al minimo di paga, gli effetti della corruzione vengono pure automaticamente prodotti. A questo punto, e messo di fronte a sì forte probabilità di corruzione, il proletariato può giustamente esclamare: «E' questo, dunque, il risultato della vostra decantata nazionalizzazione e municipalizzazione, della confutazione della dottrina del "laisser- faire" patrocinata dalla scuola di Manchester, delle dimostrazioni che la società fabiana è sempre pronta a dare a favore delle economie realizzabili in un regime d'iniziativa e di controllo di Stato, della socializzazione dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio?! I capitalisti si arricchiranno maggiormente di quanto sarebbe stato loro possibile in un regime di "laisser-faire"; gli affitti, di già troppo onerosi, aumenteranno a nostro scapito, e a noi toccherà essere più che mai sfruttati. Nessun ringraziamento, perciò! Al diavolo il vostro socialismo costituzionale che promette e non mantiene! Intonate la Marsigliese: "Aux armes, citoyens!"».

Ma la Marsigliese non salverà la situazione. Il sabotaggio e l'assassinio, usati quali metodi di cura contro gli abusi politici, non sono medicamenti di lunga efficacia e spesso aggravano la malattia. Perché ne temono gli effetti, Governi corrotti riescono a trattenersi dal condurre i loro governati alla disperazione; ma al giorno d'oggi gran parte della corruzione è preterintenzionale e automatica e i Governi non sanno riconoscerla né, riconoscendola, sanno quali provvedimenti prendere. Posti di fronte a una rivolta, essi mettono in opera la polizia, chiamano i militari alla riscossa, dichiarano lo stato d'assedio, durante il quale ogni legge è sospesa a eccezione della legge marziale, e ripagano gli insorti con la loro stessa moneta. Se gli insorti, come accadde nella Rivoluzione francese, sconfiggono il Governo, essi sapranno meno ancora che cosa fare per migliorare le loro proprie condizioni, di ciò che non sapessero i governanti caduti; cosicché il loro Regno del Terrore si dimostrerà inutile quanto il terrore ufficiale che lo provocò. Il terrore produce terrore e ancora terrore a non finire. Fouquier- Tinville, l'amministratore ufficiale della ghigliottina, finì decapitato; mentre già sul palco stava subendo gli improperi della folla, egli gridò: «Credete con ciò che il pane sarà domani a miglior prezzo?». Fu, difatti, più caro e il ridicolo ricadde sulla folla, non su Fouquier. Nella mia Irlanda natia il sabotaggio, l'assassinio, gli incendi dolosi e le canzoni dei soldati ebbero ognuno la loro ora nella lotta fra gli Shinners e i soldati inglesi. Michael Collins, l'eroe degli insorti, disse, quando gli inglesi bruciarono le latterie: «Per ogni latteria incendiata, incendierò due case di campagna». Egli mantenne la parola e con questo metodo riuscì, nominalmente almeno, a fare della cattolica Irlanda uno Stato libero. Dopo di che i cattolici irlandesi fucilarono Michael e s'impelagarono in un pasticcio economico altrettanto intricato di quello che era stato combinato per loro dal Governo inglese e dalle vecchie Grandi Giurie.

Era logico: essi non possedevano esperienza alcuna delle questioni civili, nessun concetto economico, nessuna filosofia della storia, nessuno scopo ben definito, nessuna capacità di organizzare gli accantonamenti di merci necessarie al commercio. Si accontentavano di romantiche ubbie e, ben presto, incominciarono a brontolare per i prezzi e per gli affitti più alti che mai. Le statistiche della mortalità erano tali da atterrire l'Europa, se l'Europa non avesse perso il donchisciottesco interesse che aveva provato per l'Irlanda ai giorni in cui il mio paese era oppresso dall'Inghilterra invece che da se stesso.

La morale è la medesima in tutti questi capitoli. Le aspirazioni eroiche, la devozione incondizionata, l'impavido coraggio, lo spargimento di sangue sono molto più dannosi che utili quando i combattenti non sanno riconoscere ciò che va per traverso o, riconoscendolo, ignorano come rimetterlo per dritto.

Tuttavia parecchi socialisti credono che il Governo socialista sia incorruttibile. E', di fatto, più corruttibile di un altro, in quanto impiega i poteri e le ricchezze dello Stato a incremento della produzione agricola e industriale invece di lasciare che questa si sviluppi da sola, limitandosi a garantire i servizi di polizia e altri indispensabili, che per natura loro non possono dare profitti commerciali o sono al di là delle risorse del capitale privato. Naturalmente una simile estensione del potere e dell'attività statali sfocia in una formidabile estensione di possibili abusi.

Fortunatamente nessun Governo, per quanto corrotto, può essere completamente antisociale. Fabbricare strade attraverso le quali ognuno cammina senza pagar pedaggio è comunismo puro e semplice, mentre il fabbricare scarpe con cui gli stessi uomini possano andare sulle dette strade è opera da lasciare all'iniziativa privata. In campagna le strade e i ponti possono essere costruiti da privati, e pagati dai pedoni mediante tasse di pedaggio, ma ben presto ciò crea confusione. I posti di pedaggio sono una noia per coloro che non amano essere ritardati da ripetute fermate e relativi pagamenti, e sono inutili ai proletari che, non avendo denaro in tasca, devono sfuggire ai posti di controllo sviando per i campi o sgattaiolando di tra le siepi. Per questa ragione, ponti e strade sono liberi alla circolazione: mediante le tasse si paga l'uso che se ne fa, attuando in tal modo un'organizzazione comunista possibile soltanto quando lo Stato è sufficientemente organizzato per intraprendere l'amministrazione dei servizi pubblici. Gli antichi romani, che erano grandi costruttori di strade e di ponti, lasciarono il suolo della Britannia nel quinto secolo, da allora, fino al secolo diciannovesimo, nessun ponte fu costruito in Inghilterra. Oggi ancora i nostri fiumi ne scarseggiano. Per recarsi al suo ufficio, proprio nel centro di Dublino, mio padre doveva attraversare la Liffey, varcandone uno dei ponti con diritto di pedaggio. La tassa ammontava a mezzo penny e mio padre per burletta si compiaceva di esclamare: «Questo ponte maledetto mi rovinerà!».

A ogni modo, eccetto in pochi casi in cui l'iniziativa privata si ridusse all'assurdo, come nel caso delle strade e dei ponti a pagamento, il mondo in cui nacqui considerava sacro il principio che il Governo non debba fare nulla di quanto l'iniziativa privata voglia accaparrare a proprio profitto. Appena raggiunsi l'età della ragione mi sentii pronto a discutere l'assurdità di un sistema che obbligava mio padre a pagare mezzo penny ogni volta che il suo lavoro lo chiamava dall'altra parte del fiume, e il ponte da attraversare non era che uno stretto e arrugginito pontile di ferro a uso dei soli pedoni, mentre gli era concesso di bighellonare a piacimento su bei ponti di pietra con marciapiedi e carreggiate.

Riflettendoci su, mi resi conto che mio padre pagava mediante tasse comunali la sua parte per le spese di manutenzione dei ponti pubblici. La sua parte era però molto inferiore al mezzo penny imposto come pedaggio dal ponte privato, ed era evitata la seccatura del soldino pronto a ogni passaggio. Ecco un esempio pratico di capitalismo da una parte e comunismo dall'altra. A poche centinaia di metri di distanza, il comunismo forniva una superiore comodità a un prezzo inferiore. Karl Marx e altri filosofi ebbero a occuparsi del come mai, a onta di fatti così probanti, il comunismo debba essere aborrito e il capitalismo considerato invece fonte di ogni prosperità. A Londra, il medesimo problema venne sollevato da un gruppo di giovani, più o meno della mia specie, che formarono una società chiamata «fabiana». Vi aderii io pure, provvedendo così a fornirmi di abilissimi colleghi capaci di riempire i vuoti lasciati nella mia cultura da una educazione esclusivamente estetica, la quale ebbe un unico merito, un po' istrionico, di farmi giudicare da loro idoneo a servire quale oratore o capo popolo. Uno di essi, Sidney Webb, a me ben superiore sia per la cultura politica, sia per l'esperienza amministrativa, e per quella miracolosa capacità di rapida assimilazione e memoria che distingue i Newton e i Napoleone dagli altri uomini - capacità di cui sono totalmente privo - addusse una così poderosa valanga d'esempi a favore dei vantaggi economici realizzabili in una oculata amministrazione pubblica coadiuvata dai poteri governativi e dalle risorse fiscali, che, a pochi anni di vita della società fabiana, la politica del "laisser-faire" era già gravemente colpita e un programma socialista si era imposto all'ultra-individualista partito liberale, prima ancora che Gladstone fosse morto.

Questo notevole successo raggiunto dalle prime generazioni dei fabiani mancò purtroppo il segno. Parve necessario far rappresentare in Parlamento, da un partito nuovo e indipendente, il proletariato al cui beneficio si mirava. Webb e io componemmo un opuscoletto intitolato "Piano di una campagna a vantaggio del lavoro". La messa in pratica del nostro piano richiedeva però ben più denaro di quanto ne disponesse il nostro gruppetto di socialisti fabiani. Soltanto i Sindacati operai sarebbero stati in grado di appoggiarlo. Webb, il primo storico capace del Sindacato operai, spiegò le nostre teorie ai capi del movimento, e, in uno con la fiducia, ne conquistò il rispetto. Egli li iscrisse nel nuovo partito e persuase alcuni di loro a chiamarsi socialisti; ma iscrizione non vuol dire conversione; infatti, quando nel 1906 il nuovo partito vinse la sua battaglia ed entrò a far parte del Parlamento, soppiantando tosto all'opposizione il partito liberale, e raggiungendo il dicastero del Tesoro con un Primo Ministro a tutta prima intransigente socialista, la vinse in realtà quale partito laburista, soltanto nominalmente socialista. Cosicché i suoi deputati denunciarono la rivoluzione comunista russa con violenza paragonabile a quella dimostrata dai più codini tra i conservatori.

Il partito conservatore ebbe agio, allora, di convincersi che nessun mutamento rivoluzionario si sarebbe mai sviluppato sotto un Governo laburista e adottò il capo del partito socialista, prima tanto intransigente, quale suo capo partito. Il partito liberale promosse una giusta legge che stabilì il salario da corrispondersi ai deputati. Il risultato più evidente fu che la Camera dei Comuni parve sempre più mutarsi in una casa di riposo a favore dei segretari delle Trade Unions colpiti dai limiti d'età, segretari pronti ad adornarsi dell'appellativo di "socialista" quando veniva loro detto di farlo, ma che tutti ignoravano il significato di questa parola. La supposta conversione a un socialismo costituzionale, per opera della società fabiana, condusse a mutamenti ancora più trascurabili di quelli che si ebbero quando Costantino convertì l'impero romano al cristianesimo. I lauri del successo non furono assegnati alla società fabiana, bensì al defunto Disraeli, il quale, nella sua veste di capo del partito conservatore, si era incamminato per primo sulla via dell'affrancamento del proletariato, ricordando che all'alba della sua carriera la Camera dei Comuni gli aveva rifiutato il diritto di parola. «Verrà il giorno in cui dovrete ascoltarmi» era il suo "slogan"! Egli imparò, così, che i baluardi del conservatorismo non si elevavano nel frivolo quartiere di Mayfair ma nella poverissima Mile End. L'estendersi dei provvedimenti per garantire sempre maggiori diritti al proletariato rese la situazione più precaria ancora. L'affrancamento esteso alle donne, e il voto concesso a qualsiasi categoria di cittadini, furono realizzazioni dei Governi oligarchici vittoriani di Disraeli e di Gladstone, il che li fa apparire rivoluzionari al confronto di quelli capeggiati da Baldwin o da Ramsay MacDonald.

Il lato negativo di questo problema viene spiegato a mezzo della generale paralisi in cui incorse il Parlamento dalla fine del diciannovesimo secolo in poi; paralisi dovuta al trucco di Sunderland. Altri fatti, carichi di conseguenze gravi, maturavano intanto nel diciannovesimo secolo. Il fenomeno di un socialismo sviato in un movimento mirante a stabilire i partiti laburisti al potere non fu unicamente un fenomeno inglese. In Europa l'iniziativa era stata presa dal partito social-democratico tedesco capeggiato da Wilhelm Liebknecht e da August Bebel. Quest'ultimo, che era il più facondo oratore d'Europa, vantò a un Gongresso Internazionale Socialista i trionfi elettorali ottenuti dal suo partito. Jaurès, l'altrettanto facondo capo socialista francese, rispose: «Se in Francia avessimo tutti quei voti e tutti quei seggi, qualcosa accadrebbe». Poiché dal punto di vista parlamentare nulla accadeva in Germania, e nemmeno altrove, il proletariato deluso si disgustò del Governo parlamentare, senza comprendere bene quale ne fosse la pecca. Gli anarchici, i sindacalisti, i socialisti, e i socialisti corporativi oppressi dal fabianesimo, sollevarono nuovamente il capo, dimostrando chiaramente che le masse militanti cittadine eran più temute dai despoti che non i partiti laburisti parlamentari dall'oligarchia capitalista. I dittatori dispotici diventarono di moda con la stessa rapidità con cui i Primi Ministri lib-laburisti furono smascherati. Pietro il Grande che costruisce una nuova capitale sulla Nevà, Napoleone che spazza le stalle augee, rompe catene arrugginite, prosciuga paludi, costruisce strade di traffico internazionale e, aureolato di gloria rivoluzionaria, si fa mecenate dei maggiori geni suoi contemporanei; Napoleone terzo che romanizza Parigi, Mussolini che ricostruisce Roma, un Primo de Rivera e un Hitler che tracciano strade nuove, contrastano con l'incapacità del Parlamento britannico a costruire financo un solo ponte sulla Severn e coll'impotenza di un Liebknecht e di un Bebel oppressi dal tallone di Bismarck prima, e del Kaiser dopo. Nessun Parlamento è mai riuscito ad abolire la disoccupazione che è di gran lunga il male più temuto dal proletariato, né a trattare degnamente i disoccupati. Il fatto più strano accadde in Russia, dove per raggiungere un potere duraturo il socialismo e la democrazia dovettero ingigantire l'apparato della polizia, tanto da far sembrare minuscola quella esistente all'epoca degli zar, e questo a comprova della saggezza con cui Ruskin, il vecchio tory, previde che la salvezza sociale non può essere basata sul minor Governo e la maggior libertà, bensì proprio sull'opposto. Adolf Hitler e Benito Mussolini capirono, e prima di loro Cromwell ne aveva fatto l'esperienza, che con un esercito modello ben pagato, e un gruppo di prefetti scelti spalleggiati dall'esercito, essi potevano fare tutto ciò che a loro piaceva, financo gettare nella spazzatura, vivi o morti, i parlamentari recalcitranti. Molti credettero perciò che i dittatori, purché lo volessero, fossero in grado di adempiere ogni loro promessa, e i partiti parlamentari invece, volenti o no, riuscissero per natura del tutto impotenti. Nessuna meraviglia, quindi, se i plebisciti dettero ai dittatori maggioranze tanto cospicue. I dittatori, però, non erano assoluti quanto può sembrare. I plutocrati, forti e ricchi come non mai, erano pur sempre i padroni della situazione. Avevano fatto proprio l'insegnamento ricavato dallo scacco subito dai fabiani, e ne avevano tratto profitto. Capivano, è vero, altrettanto poco gli ingranaggi del sistema capitalista quanto i partiti laburisti capivano quelli del socialismo. Sapevano però che seguendo la traccia segnata dal profitto sarebbero diventati ricchissimi, e infinitamente più potenti, senza per questo abbisognare di cultura o conoscenza speciali; bastava abbandonare il "laisser-faire", sostituendo alla libera concorrenza, e al risparmio privato, l'organizzazione statale. I fabiani avevano devoluto il guadagno a beneficio del proletariato; ma la provvidenza divisò altrimenti, e sia la produzione sia il risparmio dello Stato furono utili a Faraone quanto a Fabio (o Shavius).

I dittatori saliti al potere sbandierando concetti socialisti furono fatti segno a rivoltellate e messi ogni tanto in prigione fino a quando non raccolsero il denaro sufficiente a creare un esercito di nuovo modello, fornendolo di camicie nere o brune. Così, come i vecchi fabiani finirono strumenti delle Trade Unions che pure li avevano sfruttati per ottenere libera entrata al Parlamento, e persero ogni consistenza politica, i dittatori divennero strumenti dei plutocrati, per ottener quei fondi senza i quali Adolf Hitler non starebbe ora dettando legge, ma giacerebbe sul selciato di qualche strada in compagnia delle pallottole dei plutocrati, lanciate a turbini su di lui.

Quando cominciai la mia carriera politica, le concessioni date dai capitalisti allo Stato si compendiavano in quanto segue: «Via le mani dall'industria, via dall'agricoltura, via dalle banche, dalla navigazione, dalle miniere; via le mani da tutto, fuorché dalla politica estera e dalla polizia istituita a protezione della proprietà privata». Nel 1888, a un convegno dell'Associazione britannica di Bath, dichiarai la necessità di nazionalizzare la terra. Henry Sidwick, un professore di etica e di economia politica rinomato per la sua immutabile pacatezza, fu tanto indignato dalla mia dichiarazione che si mise a urlare chiamando delitto qualsiasi perorazione a favore della nazionalizzazione terriera, delitto al quale egli non intendeva dare l'appoggio della sua presenza. E se ne andò sbattendo violentemente la porta. Il brutto è che mai mi riuscì a persuadere gli amici di Sidwick non presenti della violenza dimostrata da questa degna persona. E' che la parola "nazionalizzazione" agisce da detonatore anche tra gli uomini più pacifici.

Oggi invece, l'ordine del capitalismo è: «Nazionalizzate ciò che volete; municipalizzate tutto il possibile; trasformate le corti di giustizia in corti marziali, i parlamenti e le corporazioni in consigli di amministrazione presieduti dai vostri oratori più popolari, purché la rendita, l'interesse e i profitti defluiscano nelle nostre tasche con l'abbondanza di prima, e purché il proletariato ricavi da tutto ciò quanto basti per non morir di stenti».

Ecco il pericolo che ci minaccia oggi e che proviene dalla corruzione del socialismo. Questa corruzione in Italia si chiama fascismo, in Germania nazional-socialismo (abbreviato in "nazismo"), "New Deal" negli Stati Uniti, e con rara intelligenza è rimasta priva di nome in Inghilterra. Significa però dovunque la stessa cosa: produzione secondo i canoni socialisti, distribuzione contraria a tali canoni. E dalla padella si è caduti nella brace. Infatti, sebbene il fascismo (una abbreviazione per capitalismo di Stato) abbia distribuito qua e là alcuni sostanziali benefici al proletariato, e abbia dato uno stato giuridico a funzionari che prima erano semplici impiegati avventizi, sebbene abbia potenziato i pubblici servizi e predicato il culto dello Stato (chiamato totalitarismo) che condurrà logicamente a un socialismo genuino, esso ha prodotto una guerra mondiale in cui il fascismo anglo-americano combatte il fascismo tedesco e italiano perché il fascismo è internazionale, mentre i capitalisti sono ancora fortemente nazionalisti. Infatti, se la Germania si propone di fascistizzare il mondo sottoponendolo alla guida di Adolf Hitler e l'Italia vuole ottenere lo stesso scopo con Benito Mussolini, i fascisti anglo-americani si proporranno la distruzione della Germania e dell'Italia, pur di soggiogare qualsiasi fascismo non creato da loro e non guidato dai loro Duci. I fascisti anglo-arnericani si battono contro lo straniero come i loro predecessori si batterono contro Napoleone quando l'Imperatore dei francesi tentò di promuovere gli Stati Uniti d'Europa sotto l'egida dei Bonaparte e l'amministrazione dei marescialli imperiali, concedendo una spiccata preferenza ai mariti delle sorelle. I fascisti sono ulteriormente divisi in due correnti: quella che vorrebbe adattare il fascismo al vecchio sistema parlamentare decretato dall'esperienza a prova di qualsiasi rivoluzione, e quella che concepisce invece la necessità per il fascismo di evolversi in nuove istituzioni, in quanto gli sarebbe difficile svilupparsi senza un Governo efficiente e rapidamente attivo, e si vede perciò costretta a sbarazzarsi del sistema dei partiti immobilizzati quali sono nelle loro tradizioni, nella loro inerzia, nei baluardi dei comitati irresponsabili e utili a chiunque desideri seguire la routine e non sappia muoversi coi tempi.

Se i nostri miopi belligeranti si rendessero conto della situazione o se, per lo meno, avessero studiato qualche rudimento di politica, essi si accorderebbero contro il genuino socialismo dell'U.R.S.S. e regolerebbero le loro divergenze dopo essersi spartita la Russia. Allo stato attuale delle cose, i fascisti occidentali si stanno invece accordando con la Russia per distruggere i fascisti centrali e centro- meridionali, e con la Cina comunista per sconfiggere il Giappone capitalista. Tali contraddizioni e confusioni finiranno per chiarirsi; i belligeranti si allineeranno ognuno dalla parte che gli spetta: plutocrazia contro democrazia, fascismo contro comunismo; il più bello è che le idee socialiste si adatteranno a entrambi. Come può il cittadino distinguere nella pratica giornaliera la differenza che corre fra il socialismo fascista e quello comunista? Come può accertarsi che buona parte dei redditi da lui versati a mezzo delle imposte nelle casse dell'erario sarà industrialmente capitalizzata e che il suo denaro gli frutterà in merci, in pubblici servizi, in stipendi, o in tutte e tre queste cose, invece di essere regalato a spendaccioni privilegiati che, a sue spese, saranno così messi in grado di vivere improduttivamente nel lusso? Se poi il cittadino è egli stesso uno dei soprannominati spendaccioni, o se, aspirando a diventarlo, è disposto a tentar fortuna sotto la bandiera fascista, come potrà accettare una forma di Governo che gli prometta il contrario dei suoi desiderata?

E' impossibile rispondere a queste domande ponendo teoremi intesi a dimostrare i maggiori meriti del vecchio liberale "laisser-faire" capitalista, o del nuovo capitalismo fascista, o del democratico comunismo. Quando i partiti fascisti e comunisti promuovono uguali misure di nazionalizzazione e municipalizzazione, uguali sostituzioni del capitale e controllo privati con quelli pubblici, tanto da convenire entrambi sull'impossibilità di aprire una nuova miniera al lavoro, o varare una grande nave, senza l'aiuto dello Stato; quando contadini e braccianti sono spazzati via da un'ondata d'agricoltura collettiva; quando nemmeno il "laisser-faire" si distingue dalla "nuova economia politica" di Lenin del 1921 (N.E.P); quando, in breve, i mezzi sono gli stessi e gli scopi differenti quanto il nero lo è dal bianco, le teorie non sono d'alcun aiuto per gli elettori; questi, se non vogliono votare all'impazzata, quasi prendessero parte a un giuoco d'azzardo, non avranno altra via d'uscita che tentar di mettersi al corrente delle varie forme di corruzione.

31. LA CORRUZIONE MUNICIPALE
La corruzione municipale è attualmente in pieno sviluppo. Quanto più è attiva, tanto più voti ottiene. E' tempo di far qualcosa per prevenire questo mal costume. Tutti si condanna il sistema d'imbrogli e mercanteggiamenti associati alla parola corruzione, ma al confronto delle principali truffe attuate dalle giunte municipali, truffe che nella nostra ignoranza non siamo capaci di distinguere dai legittimi profitti privati, la corruttela di cui sopra diviene trascurabile. Ai maggiori utili dei municipi, corrispondono sempre più vivaci applausi. Ora, un municipio non dovrebbe trarre profitti. In qualche caso non può forse farne a meno, poiché i servizi che concede ai suoi utenti sono goduti da tutti senza ricevere in cambio un pagamento diretto. L'illuminazione stradale, la pavimentazione, la polizia, i pompieri, il servizio di fognatura, il rifornimento dell'acqua, costano parecchio; ma tutto è pagato con tasse, imposte agli abitanti senza alcuna valutazione dell'uso che essi fanno di tali servizi. Gli abitanti, dal canto loro, elevano continue proteste rivolte a diminuire le tasse, cosicché i municipi non osano aumentarle. I municipi che sovente provvedono abitazioni, illuminazione, gas, bagni e lavatoi per abluzioni e bucati privati si fanno pagare individualmente per questi servizi; essi possono, perciò, traendo esempio dalle società private, stabilire un prezzo oltre il costo reale, realizzando così un profitto. Il risultato più ovvio e naturale di questi profitti tratti dalle varie amministrazioni municipali sembra essere quello di versare il guadagno all'ufficio di finanza, ottenendo al più presto una diminuzione delle imposte, il che dovrebbe servire a calmare le proteste dei contribuenti. Questa è però una procedura corrotta. Ammettiamo che io viva in qualche possedimento appartenente a una contea e paghi al Consiglio comunale il mio affitto più il conto della luce; se quello che pago oltre al costo reale dei servizi di cui godo l'uso viene detratto da ciò che i miei vicini non consumano e perciò non pagano - dato che illuminano le loro case con lampade a petrolio e con candele - io vengo a essere sovraccaricato di tasse loro spettanti e sono praticamente sfruttato e derubato a loro vantaggio.

Teoricamente, il rimedio è semplice. Non sovraccaricare di tasse; fornire i servizi a prezzo di costo. Praticamente, non è però così semplice. Anche quando i municipi mantengono onestamente i loro prezzi al più basso livello compatibile con una certa sicurezza (in commercio si usa fare proprio l'opposto), un profitto, sia esso minimo o massimo, si riscontra sempre. I conti sono complicati dal fatto che i consumatori truffati e i contribuenti beneficati sono in massima parte le stesse persone Questa mancanza di equilibrio può, è vero, produrre vantaggi altamente desiderabili dal punto di vista del pubblico benessere, tanto più quando riesce a sovraccaricare gli abitanti delle strade più eleganti, favorendo coloro che vivono negli "slums". Qualsiasi municipio può onestamente ricavare profitto dagli abbienti per equilibrare le perdite derivate dai non abbienti. Quando ci si trovi di fronte a dannose disuguaglianze di reddito, ogni provvedimento mirante ad uguagliarle diventa lecito. Anche in questo caso, simili provvedimenti si possono approvare alla sola condizione che i municipi si rendano conto esatto di quello che fanno. Ora, purtroppo, i più non lo sanno. Pilotati da persone esperte negli affari privati, ma del tutto ignoranti di politica, l'assunto che in una amministrazione, non importa se municipale o privata, il profitto debba essere spinto al massimo, e che esso sia la prova di ogni buona gestione, fa sì che i sostenitori del buon profitto commerciale nella pubblica amministrazione vengano licenziati come teorici o sognatori.

Coloro che appoggiano il diritto ai profitti anche nelle organizzazioni municipali, propongono l'esempio della posta. Essa mi porta a destinazione lettere e cartoline e spedisce i miei telegrammi; mentre, però, tempo addietro sborsavo un penny per le lettere, mezzo penny per le cartoline e i miei telegrammi erano inoltrati per sei pence, la tassa è ora rispettivamente di due pence e mezzo, due pence, e uno scellino. Il profitto ricavato da questo aumento viene devoluto alla diminuzione della tassa sul reddito. A me, personalmente, questo fatto non importa in quanto spedisco, è vero, parecchie lettere, cartoline e telegrammi, ma pago anche la tassa sul reddito. Ha importanza, invece, per chi, possedendo un reddito troppo misero per essere tassato, debba pagare la somma, sovente troppo elevata, di due pence e mezzo, ogni qualvolta intenda spedire una lettera. Stando così le cose sarebbe più giusto concedere la franchigia postale ai proletari che direttamente non pagano tasse sui redditi (indirettamente, la loro prestazione di lavoro insufficientemente rimunerata è già di per se stessa una tassa) e rifarsi della perdita a mezzo dell'imposta complementare.

Tutte queste complicazioni scompariranno se e quando un socialismo genuino e democratico livellerà i redditi. Ci stiamo sempre più avviando verso realizzazioni consimili: ecco perché diventerà via via meno scusabile l'abitudine oggi invalsa del profitto tratto dalla pubblica gestione. Allorquando il socialismo avrà raggiunto il suo pieno sviluppo, si dovrà fornire ogni servizio a prezzo di costo, senza maggiorazione di profitto.

Il prezzo di costo, che per un negoziante è facilmente determinabile, non lo è altrettanto per il fabbricante. Nella prima guerra mondiale, il disastroso fallimento dell'iniziativa privata nel rifornire di munizioni l'esercito ci costò migliaia di vite e varie sconfitte nelle Fiandre. Il Governo dovette scegliere allora tra il gestire direttamente le fabbriche di munizioni o il perdere la guerra. Decisosi per la prima alternativa, scoprì ben presto che le industrie private stabilivano prezzi mostruosi, non soltanto perché consideravano loro dovere verso gli azionisti e verso se stessi ottenere i massimi profitti possibili, ma anche perché ignoravano i particolari del costo dei loro prodotti, né d'altra parte si curavano di saperlo, ponendo unicamente il loro impegno a far sì che i dividendi risultassero soddisfacenti. Il Governo s'impose il dovere di trovare per l'acquisto di ogni voce il più economico dei mercati e costrinse le ditte private a stabilire i loro prezzi in base al minimo ottenuto, permettendo una maggiorazione fissa dalla quale ricavare il profitto necessario a mantenere l'industria in vita. Per la prima volta le industrie furono costrette ad accertarsi dei loro prezzi di costo e a tenerne conto, realizzando un tale miglioramento da farle trovare in posizioni ben più stabili, quando vent'anni dopo scoppiò la nuova guerra.

Dopo tutto, il costo di produzione è l'ammontare della spesa in cui incorre il produttore per riuscire a vivere, lavorare, riprodursi, riparando nel contempo l'usura del macchinario e degli attrezzi, e provvedendo risparmi atti a creare nuove industrie e nuovi esperimenti. Questo calcolo non possiede dati fissi. Varia tra sesso e sesso, epoca ed epoca, paese e paese. Le fluttuazioni delle offerte e delle domande sul mercato del lavoro possono deprimere tale mercato sotto il livello del minimo necessario alla sussistenza, ciò che l'alta mortalità infantile e l'accorciamento della media nella vita degli adulti rendono subito evidente, oppure sollevarlo a livelli d'abbondanza, come nell'attuale momento, in cui alcuni ragazzi fortunati si guadagnano 12 sterline la settimana per un semplice lavoro manuale, giornalisti un dollaro la parola per effimeri articoli di giornali, chirurghi somme con tre zeri per operazioni che durano un'ora, commediografi 20000 sterline per la sceneggiatura d'un film. In pari tempo i genitori del ragazzo campano forse con un quarto di quanto il figlio guadagna, e i mercati rigurgitano di merci fabbricate da lavoratori cinesi e giapponesi che guadagnano un penny all'ora.

Di conseguenza, quando un municipio ricava dalla sua gestione profitti commerciali, non sono i contribuenti i soli a protestare. All'epoca in cui ero consigliere regionale gli spazzini ricavavano per il loro lavoro diciotto scellini la settimana; oggi, sono pagati quattro volte tanto. Gli impiegati organizzati in sindacati, non soltanto intascano paghe più alte quando il loro genere di lavoro è scarso, ma nei periodi d'abbondanza rifiutano di lasciarsi impoverire da operazioni non controllate di domanda e di offerta e reclamano «un minimo di paga» per poter mantenere il loro abituale livello di vita.

In base a queste considerazioni, la questione del costo di produzione comprende pure il problema del livello di vita del lavoratore. Quale è il più alto livello che ci sia consentito raggiungere con le nostre attuali risorse? Quando, in base a fantastiche dicerie giornalistiche, mi si taccia di milionario affogato nel lusso, rispondo che nessuno chiede meno di me per vivere. Datemi un alloggio conveniente in città, una comoda villa in campagna, più qualche ettaro di prato e di giardino, due automobili, una per i viaggi brevi l'altra per i lunghi, del denaro che non ha necessariamente da superare le duemila sterline, e non troverete uomo più lieto di me sulla terra.

Questo mio dire viene classificato tra i caratteristici scherzi alla Shaw. Mi fa ben piacere se le mie parole divertono qualcuno; soltanto il vero scherzo sta nella mia assoluta serietà in materia. Per riuscire a dedicarmi completamente al mio lavoro professionale sono obbligato a farmi servire in tutto, quasi fossi un bambino. Coloro che provvedono per me devono a loro volta ricavare un utile dai servizi che mi procurano. Questo utile esce di tasca mia. Spero con tutto il cuore di valere il lavoro a cui essi si sottopongono per mio e loro beneficio. La cifra di 4000 sterline fissata da Wells come minimo guadagno decoroso è derisa perché calcolata frutto di prodigalità da chi la considera quale mezzo di sostentamento di una sola persona. Se la si considera invece sotto la specie di reddito familiare guadagnato dal cittadino con l'esercizio di una professione o di un lavoro che occupino tutto il suo tempo lavorativo e tutta la sua energia, il riso scomparirà, secondo il detto dell'Ecclesiaste, «come scricchiolio di spini sotto un vaso». Coloro che mantengono una famiglia debbono necessariamente essere liberati dalle cure casalinghe e pagare per questo sollievo. Essi non hanno tempo per farsi gli abiti, per abbrustolirsi il pane, per cucinarsi il cibo, per rullare i loro prati e zappare il loro giardino, e neppure per ripulirsi le scarpe o rifarsi il letto. Non mi dilungo poi sul fatto che essi devono mantenere ed educare i figli e offrire gran parte dei loro guadagni ai proprietari di casa che, in compenso, concedono loro soltanto il permesso di vivere sulla terra, poiché questi carichi dovrebbero essere assunti dallo Stato socialista. Abbiamo dunque per il capo famiglia l'onere educativo e di abitazione; le 4000 sterline l'anno dovranno servire a mantenere direttamente non soltanto una persona, bensì anche mezza dozzina, e indirettamente, nonché parzialmente, tutta una filza di negozi. Ecco che le 4000 sterline l'anno per famiglia diventano al massimo 600 a testa. Questa somma può sembrare generosa al lavoratore a cui viene richiesto di mantenere una famiglia con 104 sterline l'anno (quando riesce ad averle); ma nessuna nazione può vantarsi di essere altamente civile, se la maggioranza dei suoi cittadini vive in simile stato di povertà. Bisogna provvedere a che i guadagni familiari raggiungano le 15 sterline settimanali almeno e, in un modo o nell'altro, è bene che l'amministrazione statale si arrangi a produrre denaro bastevole affinché a ogni lavoratore capo famiglia venga assicurata tale somma, poiché il livello medio di due sterline è assolutamente intollerabile.

Questi dati hanno soltanto valore come rappresentazione numerica del presente livello medio di vita. Certo è che un commercio a base municipale e un'organizzazione nazionale e supernazionale riescono, socializzando le fonti naturali della produzione, a fornire i generi di prima necessità a prezzo di costo, e possono ridurre i prezzi al punto che due unità di una moneta duodecimalizzata permetteranno senz'altro di fare ciò che si usa chiamare una vita gradevole. Se, a esempio, i trasporti fossero socializzati (sarebbe errato dirli "liberi"), e se soltanto col richiederle si potesse ottenere la maggior parte delle cose di cui tutti beneficiamo e che tutti usiamo, finirebbe col venire a noia il doversi portare dietro biglietti e monete, o l'andare alla banca tanto spesso come si suole fare adesso. Sollevati da simili impacci, potremmo vivere tutti da signori, e sentirci liberi dall'intollerabile noia, sovente demoralizzatrice, che proviene dal non potersi occupare di qualche lavoro utile.

Che cosa dovrebbero dunque fare i municipi per i membri delle loro comunità? Come sarebbe giusto tassare i vari cittadini? Quanta parte delle imposte bisognerebbe devolvere in stipendi e quanta utilizzare per il ribasso dei prezzi dei servizi? E' meglio sopratassare i consumatori oppure sottotassarli a spese dell'intero corpo dei contribuenti? Simili domande non possono essere capite, e tanto meno possono ottenere risposta da consiglieri privi dello speciale sapere necessario al trattamento intelligente di siffatti problemi. In una riunione di consiglieri regionali composta di negozianti locali, osti, costruttori, banditori d'asta, più qualche medico e un prete metodista, venne richiesto a me, commediografo, il parere su tali problemi, quasi credessero fosse in mio potere illuminarli di qualche luce. I due più capaci tra noi erano un erbivendolo e un calzolaio, che mi parvero sorpassare in accortezza la maggioranza dei membri del parlamento. Certo è che per riuscire a essere un buon negoziante, o meglio anche un buon oste, ci vogliono carattere e abilità. Mentre invece chi possiede un bel gruzzolo di denaro può facilmente sedere in parlamento senza aver mai fatto nulla di buono. I due negozianti citati furono per me una eccellente compagnia; li rispettai per le loro qualità e provai simpatia per loro. Membri di una municipalità che avesse un Richelieu come sindaco, o soltanto come funzionario, essi sarebbero riusciti a realizzare imprese notevoli a mezzo dell'iniziativa municipale. Purtroppo, non soltanto i Richelieu non abbondano, ma nemmeno sono immortali. In quanto a noi, privi di un Richelieu, ci trovammo del tutto impari all'importanza del compito affidatoci, e cioè di governare nel modo migliore un quarto di milione di uomini. L'educazione e l'istruzione ricevute da giovani ci rendevano capaci di lavorare per l'attuazione di profitti privati o personali, ma erano del tutto inadatte a essere applicate a profitto di una amministrazione pubblica. Non soltanto non potevamo risolvere certi problemi, ma nemmeno sapevamo che esistessero. Delle varie contingenze a cui il fluire del tempo ci poneva di fronte, non conoscevamo che un lato solo. Da fabianista quale ero, mi rendevo conto di parecchi interrogativi, e per qualcuno di essi avevo anche pronta una soluzione dottrinaria. Il mio amico metodista, il fu Ensor Walters, era in sé una forza spirituale sempre volta verso la giusta direzione; ma, nell'insieme, eravamo altrettanto ignoranti di questioni politiche quanto lo era la massa dei nostri elettori i quali non avrebbero certo mai eletto una persona come me, se avessero avuto il più vago sospetto delle mie fondamentali opinioni politiche. La corruzione nei frangenti accennati era inconscia e automatica. La si praticava con le migliori intenzioni del mondo, e in perfetta onestà. Spesso, la famosa saggezza intuitiva inglese, così accuratamente osservata e descritta dal mio amico Keyserling nel suo libro sull'Europa di quattordici anni fa, servì da ancora di salvezza. Keyserling, detto tra parentesi, è un barone baltico, certamente privo delle prevenzioni che fanno di me irlandese un osservatore non sempre sereno. Egli fondò a Darmstadt una università di saggezza della quale avremmo avuto gran bisogno nel mio collegio elettorale di San Pancrazio. So benissimo che la pratica e l'allenamento razionale di cui i miei colleghi erano privi e che essi disprezzavano, menano talvolta a gravi errori evitabili sovente con l'uso della saggezza intuitiva. Ho sufficiente pratica e intelligenza per poter sorridere all'illusione giacobina sull'infallibilità della ragione. L'intelletto può prendere cantonate madornali; altrettanto però l'intuizione se ignorante. Solo coll'aiuto di fatti esaurienti, l'intelletto e l'intuizione potranno entrambi raggiungere qualche solida conclusione. D'altra parte, se i fatti conosciuti sono troppo pochi, o essendo immaginari non sono per nulla dei fatti, le deduzioni e le congetture saranno assai zoppicanti. I fatti non conducono sempre a illazioni ragionate. Essi possono essere causa di risentimenti vendicativi, di dolcezze sentimentali, di speranze e paure, pregiudizi e cupidigie, col risultato di provocare esplosioni emotive tali da obliterare la ragione nelle menti che non posseggono la qualità innata della serenità di giudizio e non vi sono state severamente educate. Non basta nascere con le doti necessarie a far di noi competenti consiglieri municipali; bisogna anche educarci ad acquisirle, quelle doti. Non per questo la corruzione nelle amministrazioni municipali è sempre innocente, sebbene sia in massima parte troppo infantile per rivestire importanza. L'esperienza mi insegna che la corruzione è lungi dall'essere sfrontatamente consapevole, dato che chi ne usa la considera piuttosto un dono dovuto che un compromesso illecito. Mi meraviglierei certo, e mi asterrei del credervi, se qualcuno mi venisse a dire che un imprenditore qualsiasi, desideroso di ricevere in appalto la costruzione di bagni, lavanderie e simili, andasse dal presidente della commissione municipale incaricato della questione e gli promettesse 50 sterline in cambio dell'accettazione del suo progetto. L'appaltatore e il presidente giudicherebbero entrambi estremamente scorretto un siffatto modo d'agire. Se vi fosse invece una consuetudine, che acconsentisse all'appaltatore scelto di offrire al suddetto presidente un servizio di piatti d'argento il cui costo sarebbe implicitamente compreso nel progetto d'appalto, il presidente potrebbe accettare con coscienza pulita, come accetterebbe un qualsiasi provento casuale, e l'appaltatore, a cui il regalo non costerebbe nulla, diventerebbe senz'altro persona grata al municipio e avrebbe molta probabilità di riuscita quando vi fossero altri appalti in vista.

Supponiamo, invece, che un'importante azienda voglia acquistare spazio chiudendo una strada. Non verranno certo distribuiti biglietti da dieci sterline ai consiglieri comunali. No. L'amministratore delegato si fa eleggere in qualche carica municipale. Appena eletto acquista popolarità tra i suoi colleghi invitandoli a banchetti esilarati da abbondante "champagne", e mostrandosi pronto ad aderire a qualsiasi giusta causa i consiglieri vogliano patrocinare. Ben presto il convincimento che la strada in questione sia inutile, anzi dannosa, e che dev'essere abolita, si farà largo. Cosicché la via si chiude, e l'imprenditore scompare dalla vita pubblica; nessuno gli vedrà più indossare la sua veste assessorile.

Non è però tra i consiglieri che la corruzione ha i più numerosi aderenti; gli impiegati sono da sorvegliare. In ogni paese il cittadino comune, indisciplinato e politicamente ineducato, non considera il servizio pubblico come un lavoro serio che per dovere e punto d'onore personale egli debba fare quanto meglio può senza falsi riguardi verso terzi e verso se stesso, ma una sinecura in cui la sua dignità ufficiale gli richiede di essere insolente verso il pubblico. Ogni qualvolta è deluso nell'aspettativa che il suo impiego sia un'espressione del dolce far niente, egli si crede in diritto di pretendere un compenso dal cittadino per il quale è stato costretto a fare qualcosa. Fin dall'alba della mia carriera propagandistica pro- socializzazione municipale mi resi conto che questo punto di vista era riscontrabile tanto fra i personaggi di maggior importanza quanto nelle file dei semplici impiegati.

Una domenica mattina, mentre passeggiavo nel giardino pubblico di una città di provincia, notai compiaciuto che il municipio aveva provveduto uno spogliatoio per i giocatori di football e di cricket. Entrai curioso nello spogliatoio e vi fui testimonio di un'accesa discussione tra il custode e un giocatore di football reo di avere omesso il rito dell'unzione palmare. Alla presenza di parecchio pubblico, sicuro dei suoi diritti, il custode domandava al colpevole se gli pareva giusto usufruire dello spogliatoio «senza lasciare un regalino». Il giocatore rispondeva di non poter lasciare danaro visto che non ne possedeva. Al che il custode di rimando: «Chi è senza danaro non usi lo spogliatoio».

Quest'opinione parve essere condivisa dai presenti, persino dallo stesso malfattore, il quale con tutta evidenza ignorava come un semplice rapporto, fatto in municipio, sarebbe bastato a far licenziare il custode, resosi colpevole di pretendere gratifiche. Quello che nell'accaduto veramente mi turbò fu la visibile ignoranza delle istituzioni municipali mostrata dai presenti. Senza dubbio alcuno, parecchi dei giocatori, in gran parte poveri diavoli, avevan già dato o stavano per dare la mancia al custode, ed erano pronti a regalare qualche penny in nome del compagno meno abbiente; essi non scorgevano nel fatto stesso alcunché di disonesto e di antisociale. Se una guardia di città avesse preteso una gratifica per lasciarli passeggiare nella via principale del luogo, essi ne avrebbero provato scandalo. L'abitudine li conduceva a credere che, per quanto ben illuminata, pavimentata, spazzata e sorvegliata una strada fosse, essa lo fosse per dono di natura, per la stessa legge misteriosa che ci gratifica della luce solare e dell'acqua piovana. Ai custodi di spogliatoi, invece, si era sempre dato qualcosa, cosicché la richiesta di colui di cui scrivo sembrava a tutti regolarissima. Che l'ignoranza nelle questioni di politica ed economia sociale non sia soltanto l'appannaggio di persone di poca cultura è dimostrato da un ridicolo incidente avvenuto durante il periodo in cui Ramsay MacDonald fu Presidente del Consiglio: in base a ottimi elementi, egli aveva raccomandato un suo amico affinché gli venisse concessa una baronia. Appena esaudito il suo desiderio, qualcuno scoprì che l'amico di cui sopra gli aveva regalato un'automobile. Ne venne fuori un grande scalpore, del resto comprensibile, perché un Primo Ministro non dovrebbe accettare regali da chiunque possa aver un motivo interessato a farglieli. Il povero Ramsay, che non essendosi mai soffermato su simili problemi era del tutto innocente di ogni intenzione meno che retta, si liberò subito dell'auto. Lo scalpore non si riferiva però al vero punto debole della questione. L'agitazione dei giornali e del pubblico era causata dalla controversia sorta sul diritto o meno per un socialista di possedere un'automobile. Secondo alcuni un socialista è una specie di francescano, il quale, dopo aver rinunciato agli abiti lussuosi, vende tutto quel che possiede e ne sparge per strada il ricavato a miglior beneficio dei poveri. Ciò farebbe supporre che, se MacDonald non avesse professato il socialismo, gli sarebbe stato concesso di possedere una dozzina, almeno, di macchine regalate da preminenti persone. Anthony Trollope, noto romanziere del secolo scorso e abile funzionario civile, aveva creduto riscontrare in Thackeray le qualità degne di un eroe, e aveva eletto l'artista a suo proprio modello letterario. A onta della riverenza provata per Thackeray, Trollope non poté fare a meno di sentirsi scandalizzato nell'assistere alla svergognata manovra operata un giorno dallo scrittore desideroso di ottenere una sinecura.

Se un uomo del calibro mentale di un Thackeray concepiva le sinecure come parti naturali della nostra "routine" politica, si può immaginare quale possa essere sulla questione l'atteggiamento dei cittadini di minore cervello. Tempo fa, un aristocratico che avesse voluto risparmiarsi il carico di pagare una pensione al suo vecchio maggiordomo gli procurava un posto nell'amministrazione civile (sotto- governo, la si diceva). Lo stesso posto si offriva ai vecchi parlamentari la cui abilità nei dibattiti era indispensabile in Parlamento.

Alla fine, questo abuso non fu più tollerato, e venne istituita l'attuale legge di selezione a mezzo concorsi.

Il vecchio sistema, e il concetto che il pubblico se ne fa, prevalgono ancora nell'Europa meridionale dove s'incontrano Stati nei quali ogni funzionario civile si appropria il salario del suo immediato subordinato, che a sua volta agisce allo stesso modo, finché si giunge all'ultimo gradino della scala impiegatizia su cui sta il poverello a cui non resta nessuno da derubare. Questi, pertanto, si rifiuta di fare il suo dovere a meno che non gli vengano corrisposte congrue mance.

Espedienti simili non sono soltanto messi in pratica dagli impiegati più umili. Li vediamo in uso pure fra gli alti gradi. Durante la guerra di Crimea un rinomato appaltatore, allo stesso tempo mercante di legname, nell'attraversare in carrozza assieme alla moglie una città del Midland si trovò a passar di fronte a uno dei suoi depositi in cui la legna marciva. Proprio in quei giorni i giornali avevano reso pubbliche le sofferenze alle quali erano sottomessi i soldati al fronte e un'ondata d'indignazione si stava riversando sul paese. La moglie del commerciante, che aveva letto i giornali, disse: «Non si potrebbe usare la legna per farne baracche ai soldati?». Il commerciante accettò il suggerimento e riuscì a collocare gran parte del suo legname presso l'esercito francese. Quando volle poi riscuotere il prezzo del legname, si accorse che era meglio andarselo a prendere. A Parigi fu ricevuto con molta cortesia da un ministro, il quale gli disse che il leggero ritardo nel consegnargli il danaro proveniva da alcune formalità ormai quasi del tutto compiute. Ritornasse. Sembrava però che le formalità non dovessero mai aver fine, e il commerciante ne era seriamente preoccupato, quando un giorno incontrò un appaltatore esperto più di lui sul modo di trattare con i Governi. Saputo l'imbarazzo in cui si trovava l'amico, gli domandò: «Avete fatto il necessario?». «Che necessario?» si stupì il commerciante. «Un centinaio di sterline posate distrattamente sul tavolo del ministro e ivi dimenticate» fu la risposta.

Il commerciante seguì le istruzioni dell'amico, e ricevette l'assegno che fin dalla sua prima visita era pronto sullo scrittoio del ministro.

Raccontai una volta a un filosofo del Sud Europa, che una compagnia mineraria alla ricerca di ottenere una concessione nella zona si lamentava di aver dovuto spargere gratifiche a un esercito di persone di poca importanza, prima di riuscire a concludere la transazione. Il filosofo rispose che la compagnia non aveva saputo fare: una forte somma offerta in alto avrebbe risparmiato le molteplici noie coi più piccini. Quando ero bimbo, sentivo dire da mio nonno che nessun uomo, nemmeno se altolocato, era capace di rifiutare un biglietto da cinque sterline agitatogli sotto il naso. Bisogna oggi aggiornare la cifra, sia di fronte al valore della moneta nei paesi ricchi, sia per il mutato valore della nostra. Io però considero il detto di mio nonno così utile e giusto, da tenerlo presente quando mi occupo di affari.

E' errato supporre che corruzione e imbrogli siano unicamente caratteristiche dei servizi pubblici. In una plutocrazia come la nostra, ogni strato sociale è inevitabilmente contaminato dal sistema delle mance. Nel corso della sua esperienza di avvocato e di giudice il primo lord Russell di Killowen aveva contratto sì forte sdegno per il suddetto sistema e per i danni che arrecava, da farsi promotore della legge contro le gratifiche segrete e cose del genere. Il guaio è che simili leggi risultano di scarsa utilità, se nessuna delle parti interessate si cura di usufruirne. Ammettiamo che i borsaioli e le loro vittime si accordino per non chiamare la polizia: fare il borsaiolo diventa di colpo un mestiere privilegiato, e una moltitudine di persone per le quali la moralità è soltanto questione di abitudine si metterà a praticare un simile lavoro. Per la stessa ragione, dato che l'olio del palmo di mano serve da lubrificante in commercio, un uomo d'affari avveduto deve saperne fare uso con perizia.

Circostanze di famiglia fecero sì che a sedici anni diventassi cassiere di una importante agenzia d'affari di Dublino. Rientrava nelle mansioni a me affidate di pagare i conti dei nostri clienti campagnoli. Nel mio primo giorno di lavoro, dopo aver ritirato dalla Banca il danaro necessario, decisi di fermarmi nei negozi creditori e pagarli in contanti. Quale fu la mia sorpresa quando i negozianti mi porsero una percentuale sull'ammontare del conto! Ero ancora innocente, tanto che meravigliai i donatori rifiutando la mancia. Debbo dire che il mio gesto non nasceva da scrupolo sorto all'idea di essere pagato due volte per lo stesso lavoro, ma dallo snobismo naturale alla mia classe, snobismo che non ammette di poter ricevere danaro in regalo da gente addetta al negozio.

Questo accadeva prima che avessi imparato da Karl Marx come nel nostro sistema la mancia non serva ad arrotondare la paga di colui che la riceve, poiché, nella lotta per ottenere un impiego rimunerato da uno stipendio sufficiente per vivere, il lavoratore chiede unicamente quel poco necessario a non mutare il suo tenore di vita. Se l'impiego trovato comporta l'uso di gratifiche, il lavoratore automaticamente diminuisce le sue pretese e raggiunge a volte l'assurdo di accettare l'impiego facendo a meno di stipendio, quando addirittura non paga il datore di lavoro! Sovente, poi, gli tocca a sua volta dar mance: il cameriere di un piroscafo vive in massima parte sulla generosità dei passeggeri; egli deve però lasciar correre gratifiche nelle cucine di bordo per affrettare il servizio e non incorrere nel rischio di scontentare chi gli ha unto la mano. Il dar mance è virtualmente una necessità dei sistemi a libera concorrenza. Qualche volta la legge stessa ne rende l'uso obbligatorio; in Austria, per esempio, un cameriere di albergo a cui non sia stata elargita la sommetta consueta ha il diritto di trattenere il bagaglio del cliente fino a quando non sia stato soddisfatto nelle sue pretese. In Austria, sempre, il dieci per cento è calcolato ormai il giusto obolo, tanto che un cameriere vi darà il resto se la moneta che gli avete messa in mano supera la suddetta percentuale. Questo genere di convenzione libera chi dà mance da ogni incertezza sul quanto dare; esclude, però, sia la generosità sia la relativa gratitudine, ragione per cui in Inghilterra preferiamo lasciare incerto l'ammontare delle mance e rendere il dono legalmente volontario anche se in realtà non lo è sempre.

All'inglese piace essere generoso e ricevere in cambio un servizio mosso da gratitudine; gli ci vogliono però anni di viaggi prima che egli riesca a superare l'agonia in cui lo piomba l'incertezza del quanto e a chi dare mance: colui che gli rende servizi non avrà mai con lui alcuna sicurezza di ricevere un compenso adeguato alle sue fatiche. Aggiungete a ciò che, alla lunga, coloro che ricevono mance non stanno affatto meglio dei compagni privi di contatti personali con i clienti, e capirete il perché i più saggi organizzatori di masse, nel loro intento di riunire in sindacati camerieri, garzoni, autisti di piazza e tutti coloro che per usanza ricevono gratificazioni, siano contrari al sistema delle mance e con gioia vedrebbero gli iscritti alle varie categorie rifiutarle altezzosamente, richiedendo invece stipendi decorosi.

Non appena riuscii a liberarmi dal mio sportello di cassiere, mi gettai con disperata impudenza nel mare letterario di Londra, dove ben presto mi toccò convincermi che nessuno si sognava di pubblicare i miei tentativi libreschi; per alcuni anni mi guadagnai da vivere facendo il critico letterario, artistico, musicale, eccetera. Una mia parola elogiativa aveva a quell'epoca un certo valore, ma nessun pittore, negoziante d'arte, compositore, attore o direttore di teatro che fosse, mi offrì mai danaro per invogliarmi a buone recensioni. Una volta, un giovane provinciale mi mandò una pipa di marca accompagnata da una lettera nella quale mi pregava di essere gentile con un suo diletto fratello il quale si era votato alla carriera teatrale. Non fumo, ma colpito da tanta fraterna devozione avrei certamente fatto del mio meglio se mi fosse capitato di veder recitare il fratello o se, per lo meno, non ne avessi scordato il nome. I metodi usati dagli impresari teatrali erano meno primitivi: dopo aver acquistato i diritti d'autore su qualche commedia straniera, e prima di decidere se metterla in scena o no, domandavano il mio parere. Nel caso di un giudizio favorevole mi offrivano di tradurre l'opera, e, se questo mi garbava, di vendere dopo sei mesi per 5 sterline l'opzione dei miei diritti di rappresentazione. Si noti bene che, se la commedia era qualche noto lavoro forestiero, soprattutto francese, non mi sarebbe riuscito difficile vendere l'opzione due volte all'anno, incassando così un centinaio di sterline. Un eminente attore e capocomico si offerse di accettare una mia commedia, e senza compromettersi per la data della rappresentazione mi propose un anticipo sulle mie competenze ogni qualvolta lo avessi desiderato. Nelle serate di prima, sul palcoscenico del mio teatro aveva luogo un banchetto al quale si giudicava un privilegio l'essere ammessi. I critici solevano ricevere l'invito di prendervi parte appena transitavano di fronte al botteghino del teatro. Non rifiutai mai quell'invito, che mi pareva un cortese tributo alla mia influente posizione, ma nemmeno sedetti al banchetto.

Nell'ambiente pittorico nessuno si sognò di offrirmi danaro in cambio di una critica favorevole. I mercanti di quadri stabilivano il giorno in cui ricevere la stampa prima dell'apertura delle mostre; alcuni di loro, esperti nell'arte di ingannare i giornalisti pivellini incapaci sovente di distinguere un Greco da un Guido Reni un Frith da un Burne- Jones, cosicché per cavarsela lodavano unicamente i pittori eminenti, riuscivano a dar a intendere a questi novizi del giornalismo che la loro ultima speculazione sull'opera di un principiante era invece la scoperta di un genio. Al mio primo apparire in uno di questi ricevimenti stampa un famoso mercante d'arte, defunto da lungo tempo, mi rivolse cortesemente la parola per esaltare i pregi di una mezza dozzina di mediocri disegni esposti da un pittore sconosciuto. Lo ascoltai con l'attenzione dovuta e gli dissi poi: «Signor..., come potete dirmi simili sciocchezze? Valete di più». Egli, di rimando, mi fece un cenno confidenziale; lo seguii allora nel suo studio dove potei ammirare alcuni tesori d'arte antica, di primitivi specialmente. Il suo principale concorrente, morto anch'egli, usava un metodo più sottile. Egli m'invitò un giorno a vedere le ultime opere di un noto pittore, e mi ricevette mostrando l'umore di un uomo nauseato dal cattivo gusto imperante. «Ecco» mi disse «siete venuto anche voi a vedere queste croste! Già, roba dipinta per gente della vostra fatta, e a noi tocca propinarvela! Guardate qui!», e indicava un quadro appeso al muro, in un posto poco appariscente. «Ecco un dipinto che vale dieci volte gli altri. A voi però non interessa: se vi dicessi il nome del pittore, dovreste confessare di non averlo mai udito nominare. Che tocco, invece! Guardate il cielo! Ma voi signori della stampa passate davanti a queste meraviglie senza neppure degnarle di uno sguardo.» Naturalmente, i giornalisti che non sapevano distinguere il gesso dal formaggio si affrettavano a dimostrare la loro competenza esaltando il valore del genio dimenticato. A me non la diede a bere, ma mi mancò il cuore di rovinare al vecchio uomo la gioia di credere riuscita una commedia tanto ben congegnata. Tosto i negozianti di arte mi qualificarono critico avveduto e tra loro e me si stabilirono quei rapporti di piacevole cameratismo d'uso tra i critici genuini e i più seri commercianti di quadri. Tra di noi non si facevano trucchi, tanto che i migliori critici ignoravano in genere il mercanteggio a base d'inganni praticato su giornalisti novellini impiegati da direttori privi d'ogni dimestichezza con l'arte e mal tolleranti il costume che li costringeva a non trascurarla. Rassegnati a dare a Cesare quel che è di Cesare, essi solevano mandare i reporters più verbosi alle gallerie d'arte, nei teatri, e all'opera, riservando i migliori per i convegni politici e i tribunali.

A me, personalmente, nessun mercante d'arte propose mai gratifica alcuna né, dopo i miei primi passi nel mestiere, tentò d'ingannarmi. Rinunciai una volta, è vero, a collaborare a un importante settimanale perché mi venne richiesto l'elogio incondizionato di pitture eseguite dagli amici del principale; e non facessi lo schizzinoso, visto che mi si permetteva di fare altrettanto per i miei amici. Un po' dopo rinunciai pure a una importante collaborazione perché la proprietaria del periodico perseverava nell'interpolare a mio nome trafiletti laudativi di mediocri quadri di pittori di second'ordine che, all'ora del tè, solevano invitarla nei loro studi.

L'ambiente musicale non mi premiò mai direttamente, né seppi di alcun collega che accettasse doni interessati. All'Opera, come pure nei teatri e in tutti i luoghi di pubblico ritrovo, era certo molto più semplice lodare ogni cosa e passare sotto silenzio le manchevolezze, piuttosto che attenersi a una critica obiettiva. All'Opera i miei colleghi faciloni erano soliti dilungarsi durante gli intervalli sui demeriti del nuovo famoso cantante italiano, la cui voce pareva quella di uno strillone e i cui modi si erano palesati degni di un barocciaio, tanto da mostrare proprio in quella data sera la sua assoluta incapacità a rappresentare degnamente Manrico o Lohengrin. Il direttore d'orchestra, poi, era tutt'al più degno di trovar posto tra le seconde viole; i tagli inflitti allo spartito dovevano giudicarsi imperdonabili vandalismi; con tutta evidenza non vi erano state prove o, tutt'al più, una mezza prova; nel duetto d'amore, tenore e soprano non si erano mostrati all'altezza dovuta. Gli strumenti a corda, i legni, gli ottoni riproducevano ognuno per conto proprio i motivi wagneriani tanto da rendere irriconoscibile l'insieme; i capi coristi avevano ormai raggiunto la settima o ottava decade, non avevano quasi voce e non imboccavano mai il centro della nota; ben inteso, si doveva sopportarli data la loro abilità d'attacco, e così via, da una impostura all'altra, come d'uso negli spettacoli lirici. Questo sistema rende il teatro d'opera un inferno, sia per i compositori sia per i critici. «Bisognerà far rilevare tutto ciò» mi dicevano i colleghi faciloni. Ma si guardavano bene dal mettere in pratica il suggerimento. Preferivano descrivere il fulgore dei diamanti con i quali le signore dei grandi palchi di prima fila sfoderavano le ricchezze dei mariti. I critici compiacenti erano d'altronde sempre ben accolti anche a teatro completo, ciò che li obbligava a ramingare qua e là alla ricerca d'un posto. Mi capitò di ricevere allettamenti dall'impresario e dai cavalieri serventi della prima donna allora in voga, con allusioni a biglietti per ogni concerto della medesima e a qualche probabile invito in un delizioso castello nel Galles, purché omettessi di menzionare che la diva, mal sicura ormai del suo "fa diesis", preferiva raggiungere soltanto il "mi bemolle". Il castello del Galles non mi ebbe suo ospite, nemmeno dopo aver chiesto all'accompagnatore della signora in quale chiave essa cantasse: «Ah non giunge».

L'andava proprio così. Si tolleravano i critici incorruttibili perché i loro articoli sollevavano controversie interessando il pubblico all'arte, terreno di sfruttamento degli impresari. Una critica sfavorevole ma di gradita lettura costituisce migliore pubblicità che non un noioso articolo laudativo. Senza dubbio, il timore della lingua biforcuta del critico indipendente c'entra per qualcosa nell'autorità e prestigio di cui lo si aureola. I critici compiacenti non sono alla loro volta tutti corrotti; essi ignorano sovente di essere influenzati da menti più abili delle loro; sovente, pure, non hanno abbastanza cultura per sapere che le cose non vanno e, quando a poco a poco se la sono fatta, la cultura, non sono abbastanza sicuri di sé o non trovano in sé il coraggio necessario per affermare un'opinione contro corrente.

Queste mie esperienze non hanno nulla a che fare con la corruzione municipale. Le cito soltanto per dimostrare che un alto livello di moralità privata non è sicura garanzia del minimo barlume di coscienza morale nella vita pubblica. Tra i letterati, la posizione sociale e le qualità dell'educazione ricevuta, combinate con l'ingegno che tutti si spera possedere, vengono considerate superiori a quelle dei commercianti e negozianti dominatori della moralità municipale. Nessuno di noi si vergogna però di aspettar favori e accettarne da gente sulla quale possiamo trovarci nell'obbligo di dover emettere qualche giudizio. Benché non si prendano apertamente gratifiche in danaro, accettiamo senza arrossire l'equivalente di abbondanti mance. In una città italiana, il direttore dell'albergo di lusso a cui avevo chiesto le camere mi pregò di insediarmi quale ospite d'onore, e per tutto il tempo che mi fosse piaciuto, nel migliore appartamento del suo albergo. In altri casi, di fronte a conti ridicolmente bassi, fui obbligato a insistere affinché mi si facesse pagare come a chiunque altro. E' questo un fatto d'uso comune, tanto che i più rispettabili giornalisti lo sfruttano come cosa normale e pagano mediante articoli laudativi. Usano altresì reclamare sconti nei negozi, libero ingresso nei locali di divertimento, e sarebbero meravigliati se qualcuno osasse tacciare di corruzione il loro agire. Non sono veri delinquenti; mancano soltanto di educazione politica.

In un mondo onesto non ci si dovrebbe dipartire dall'assunto fondamentale che la giustizia e la verità non possono essere vendute né comperate, e che di tutti i mali commerci il negozio del falso è il peggiore. Ogni cosa, invece, in una società commercializzata è da vendere o comprare. Per aver venduto troppe polizze sulla vita eterna, la Chiesa cattolica perdette metà dei suoi fedeli. I giudici, oggi, non usano più ricevere doni dai contendenti, come si faceva una volta; l'avvocato invece è ancora venale in quanto vende i suoi servigi al più alto offerente, ciò che risulta un notevole svantaggio per i miserelli dalle tasche vuote. Stando così le cose, non può certo riuscire di sorpresa se le autorità municipali devono essere continuamente in guardia per aiutare i loro amministrati a non pagar più volte, con mance, gratifiche, tasse, i servizi che i funzionari municipali hanno a piacimento il potere di rendere o meno. Essere pagati due volte per uno stesso lavoro e un insperato guadagno a cui pochi impiegati sanno resistere, tanto più che non è necessario esigerlo per ottenerlo. In un tempio solenne come pochi, cioè nel mausoleo di Napoleone a Parigi, il cui vestibolo è tappezzato di cartelli nei quali si avverte essere severamente proibito dare mance, ho sentito i guardiani chiedere gratifiche ad alta voce, ciò che mi ricordò quell'altro impiegato municipale di uno spogliatoio, in un giardino pubblico, all'epoca dei miei primi passi come predicatore di socialismo nelle pubbliche amministrazioni. Senza dubbio alcuno, gli impiegati al mausoleo avevano lottato per ottenere il loro posto ed erano pagati meno dello stretto necessario.

32. COERCIZIONI E SANZIONI
Nell'occuparmi delle richieste avanzate dalle professioni liberali, desiderose di non sottostare nell'esercizio della loro attività alle limitazioni imposte dalla legge comune, e dalla loro istanza in favore di una energica presa di posizione del Governo al fine di garantire mediante crudeltà inveterate, generalmente connesse allo stato di guerra, un sistema di polizia dei costumi del tutto indispensabile, secondo loro, al mantenimento dell'ordine necessario a una società civile, considerai fuori legge sia le punizioni sia le crudeltà. Posi quindi un problema: quali sanzioni debbono oggi rimpiazzare la pantofola, il bastone, la bacchetta, la mazza, il gatto a nove code, la prigione, la forca, l'ascia, la ghigliottina, la ruota, il rogo, il palo e ogni altro sistema di tortura e di assassinio con i quali i governanti costringono i loro sudditi all'obbedienza?

Notiamo subito che l'abbandono della tortura quale punizione, e della pena di morte, non comportano ciò che si usa comunemente chiamare l'abolizione della pena capitale: esse implicano cioè l'abolizione della pena capitale in quanto punizione, ma non della sentenza di morte. Il diritto di partecipare all'umana società non può essere incondizionato; ecco perché è bene non sia concesso a persone inadatte al vivere, ché, se fossero invece autorizzate a rimanere al mondo, verrebbero sprecate altre vite utilissime, al solo scopo di tener sotto controllo esseri nocivi. Mettiamo il caso di un uomo violento al punto di giungere all'omicidio; non vedo quale legge morale possa autorizzarci a trasformare il suo vicino in una guardia carceraria, per la sola ubbia di voler tenere in vita l'assassino. Contempliamo, ora, un'avvelenatrice, oppure una donna che abbia gettato del vetriolo sul viso di qualcuno. E' contrario al più elementare buon senso far sprecare la vita di una donna di buoni costumi mettendogliela al fianco quale guardiana. Mi sembra doveroso compatire i mostri e procurar loro una morte indolore, così come la si procura a un cane arrabbiato. Allo stesso modo dovrebbero trattarsi tutti coloro che non valgono il pane con cui si nutrono e sciupano la vita di chi, invece, non soltanto vale quel suo pane, ma rimane ancora creditore verso la comunità, come d'altra parte dovrebbe rimanerlo qualsiasi cittadino desideroso di meritarsi il rispetto e la considerazione sociale concessi, per ora, soltanto ai signori di una certa classe.

Ai pensatori che rovinano ogni discussione proponendo di «riformare il criminale» dobbiamo dire, usando modi più o meno pazienti, di andare al diavolo o di attenersi al problema. Il cattivo soggetto che può essere riformato non è un criminale congenito e non solleva quindi alcun problema; il nostro dovere è appunto di riformarlo. Egli farà poi, se saremo veramente riusciti nel nostro intento, tutte le ammende possibili per i suoi misfatti. Il problema sorge invece capitale nei riguardi del criminale congenito che non possiede gli elementi necessari a subire l'influenza di una riforma e che, d'altra parte, non può essere tollerato in una società civile. Lasciamo pure che i riformatori studino metodi adatti allo scopo: essi si accorgeranno subito dell'assurdità che risiede nell'infliggere al colpevole pene crudeli e spietate, e, dopo averlo bene ingiuriato ed esasperato, nel rimetterlo in circolazione pronto a commettere nuovi delitti.

Vi è poi chi, come il "Peer Gynt" di Ibsen, teme ogni azione irrevocabile e preferisce caricarsi di un'atrocità orribile quale è, a mio parere, il chiudere in carcere per tutta la vita una creatura umana, piuttosto che ucciderla, possibilmente senza farglielo sapere, mediante anestetici.

Possiamo usare di questa fobia dell'azione responsabile, facendo osservare agli abolizionisti che un giorno di prigione è irrevocabile quanto la decapitazione; se ciò non bastasse a tacitarli, null'altro potrà valere.

Eccoci giunti a una conclusione che coglierà di sorpresa i protestanti. Quando aboliamo le punizioni e «non giudichiamo per non essere giudicati» ammettendo che due neri non possono fare un bianco, che Satana non riesce - e, potendolo, non lo vorrebbe comunque fare - a scacciare Satana, e che, dopo tutto, Gesù non era l'individuo eccentrico e poco pratico da molti finora giudicato, ci troviamo nell'obbligo di far rivivere l'inquisizione. Avremmo gran bisogno di una simile istituzione. Bisogna, si capisce, liberarla dalla follia punitiva, ma per ottenere questo sarà bene preoccuparci senza indugi di mettere l'eutanasia al servizio dei nostri Torquemada. La funzione principale di una onesta inquisizione, quella cioè di sbarazzarsi dei non atti a vivere, assumerà maggior urgenza quando i vecchi rimedi, dimostratisi peggiori delle malattie, saranno aboliti. I membri di questo tribunale supremo dovrebbero essere scelti in una lista di giurati qualificati allo scopo, poiché la questione di vita o di morte, sebbene abbastanza semplice nei casi di assassinio e di egoismo spinto a tal punto da condurre ad assenza di scrupoli verso il bene comune, può diventare difficile e sottile nei casi di tradimento e di eresia. Ma se anche non esistesse una lista di simili giurati a cui ricorrere, dobbiamo cercar di fare del nostro meglio valendoci di chi abbiamo sottomano. I delitti non aspetteranno certo per svolgersi che il tribunale ideale sia impiantato; meglio perciò accontentarci di una qualsiasi giuria la quale varrà sempre meglio di niente. Il veneziano Consiglio dei Dieci, il Vehmgericht, la Star Chamber, il Politburò con la sua Cekà, la Cabala nazista con la sua Gestapo, le Ribbon Lodges, i Ku-Klux-Klan furono e sono organismi di inquisizione; ben più semplici e giusto sarebbe il chiamarli a questo modo, invece che glorificarli con nomi altisonanti, come si glorificò la vecchia Inquisizione, sotto la specie addirittura di Santo Ufficio.

Per quanto ci sia dato prevedere, le cose si svolgeranno più o meno come segue: la polizia dovrà fissare l'eccezionalità di un caso e presentare l'imputato ai giurati di un tribunale. Il giudice, invece di dare esecuzione alla sentenza promulgata, riporterà il caso e il verdetto all'inappellabile giudizio dell'Inquisizione, affinché questa esamini se l'accusato possa rimanere in vita senza mettere in pericolo la sicurezza della comunità. Se, a esempio, il colpevole si è sposato diverse volte e le sue mogli sono finite tutte annegate per caso nel bagno domestico, o bruciate nella stufa, lo si troverà un bel mattino morto nel letto in cui si era adagiato la sera prima senza alcun sospetto e godendo di perfetta salute.

Per quanto indolore possa essere la morte somministrata dall'Inquisizione, ogni cittadino dovrebbe meditare sul fatto che essa vigila in attesa di colpire i delinquenti pericolosi, incorreggibili. Il colpevole, poi, sapendo il suo caso preso in esame dall'Inquisizione, non sarebbe mai sicuro la sera di svegliarsi vivo l'indomani. L'incertezza in proposito non riguarderebbe soltanto il colpevole, ma un po' tutti, poiché il problema della maggiore o minore attitudine a vivere potrebbe coinvolgere ognuno, prescindendo dal fatto che un delitto sia o non sia stato commesso. Questo "memento homo" dovrebbe produrre un senso di responsabilità sociale, che non soltanto è oggi inesistente, ma ancora discreditato dalla chiassosa insistenza con cui reclamiamo la nostra libertà, al confronto della piccola voce con cui ci riferiamo convenzionalmente ai nostri doveri. Parecchi anni addietro suggerii che dovremmo essere obbligati a comparire ogni cinque anni di fronte a un consiglio (praticamente una Inquisizione), al fine di giustificare la nostra esistenza, correndo il rischio, se l'Inquisizione non fosse del tutto soddisfatta di noi, di incappare nella pena di morte. Poco tempo fa, invece, scrissi una commedia intitolata "The Simpleton of the Unexpected Isles", ove terminavo con la rappresentazione del Giorno del Giudizio che immaginavo aver luogo in una bella mattina priva di qualsiasi manifestazione di terrore apocalittico, in cui veniva chiesto di rispondere a un'unica domanda, e cioè: se in coscienza l'interrogato si sentiva di asserire che faceva del suo meglio per mantenere a galla la barca sociale. Chi si dimostrava un peso morto scompariva misteriosamente. Debbo però confessare che nessun impresario a Londra ha giudicato il mio soggetto abbastanza interessante da attrarre un pubblico a pagamento.

A ogni modo non riesco a concepire una civiltà duratura priva di questo potere di inquisizione e di un costante e generale senso di responsabilità rivolto a sostenerlo. Null'altro può distruggere la profonda convinzione radicata in noi, che il lavoro sia una maledizione, il servire un atto degradante, la raffinatezza l'inseparabile attributo dell'opulenza oziosa e improduttiva.

Tutti i casi, però, non pongono in questione il diritto di vita o meno dell'accusato. La Dichiarazione americana d'indipendenza rivendica, per i cittadini tutti, il diritto alla vita, alla libertà e al conseguimento della felicità. Ma la forca e la sedia elettrica hanno tenuto poco conto di questo diritto di vivere mentre il conseguimento della felicità è il sistema più semplice per andare incontro alla delusione e al suicidio, dato che la felicità è un sottoprodotto di attività benefica e di circostanze favorevoli. Che cos'è allora la libertà, e quanta libertà bisogna considerare? Fra la vita e la morte non vi sono gradi intermedi, ma fra la legge e la libertà ne esistono invece molti. Rousseau, il cui "Contratto Sociale" fu il precursore della Dichiarazione americana, disse che gli uomini nascono tutti liberi, proferendo a questo modo la più grossa bugia che persona sana di mente abbia mai detta. Tutti gli uomini nascono in stato d'impotenza, ciò che li sottopone al buon volere dei genitori e dei tutori, e crescono per arrivare a vivere del proprio lavoro, il quale può essere evitato solo a prezzo di rendere schiavi i propri simili. Ogni Governo deve dire alla maggioranza dei suoi amministrati: «Lavora o muori di fame; questa è la legge della natura». E poiché al giorno d'oggi pochi cittadini possono trovar lavoro se non in qualche elaborata e costosa organizzazione industriale, la cui messa in efficienza è ben superiore alla capacità dei più, è bene che i Governi facciano essi stessi da elargitori di lavoro. Ed ecco che il diritto alla libertà viene distrutto, mentre giungiamo alla constatazione che, fuori dal socialismo, libertà significa schiavitù o fame; e che col socialismo addio libertà di vivere oziosamente sul lavoro altrui, ciò che costituisce la principale attrattiva del capitalismo.

E' chiaro che il "Contratto Sociale" e la Dichiarazione americana sono troppo poco considerati per essere di qualche utilità all'Inquisizione, la quale dovrà decidere sul problema di quanta libertà possa essere affidata a un cittadino, ammesso ch'egli sia abbastanza utile da essere lasciato in vita. L'Inquisizione dovrà rivedere la posizione di molteplici persone, oggi in prigione; ne troverà certo parecchie inabili a fare un uso normale della libertà e tuttavia capaci di lavorare per sostentarsi, purché poste sotto speciale controllo. Queste persone sono invece lasciate alla mercé delle crudeltà e privazioni inflitte dal nostro codice penale senza vero riguardo alla qualità del peccatore, risultando esse pene a puro vantaggio dei datori di lavoro: capitalisti i quali insistono sull'utilità di porre in miserando stato i fuori legge allo scopo di condurre i proletari ad accettare stipendi di fame e una abbietta servitù, pur di non condividere la sorte dei malcapitati compagni. In Russia ho visitato uno stabilimento di correzione diretto con sistemi umanitari. Sorgeva in un fiorente centro industriale dove i carcerati, allo spirar della pena, finivano sovente per rimanere, simili in ciò a molti soldati i quali, benché sotto le armi godano della minima libertà possibile, rinnovano la ferma, considerando grande sventura la fine del servizio militare. Anche nelle prigioni britanniche i peggiori cittadini sono spesso i migliori ospiti. Questi prigionieri esemplari non dovrebbero essere rilasciati, ma sarebbe doveroso trattarli con intelligente senso di umanità tanto da impedir loro di desiderare la liberazione. Meglio ancora sarebbe se giungessero a temerla. Al punto in cui tutti siamo, i "liberi" poveri di oggi finirebbero per rompere i vetri delle prigioni pur di entrarvi; ma quando la gente onesta se ne potrà stare comodamente in pace a casa propria, questo pericolo verrà scongiurato.

Nulla può limitare l'estensione del pubblico potere sulla vita privata, all'infuori dell'estensione del potere individuale su quello collettivo. Se a ogni individuo fosse dato di annullare con un gesto della mano le forze che il Governo può usargli contro, l'Uomo giudice, trasformato dalla fantasia di Shakespeare in una scimmia irata rivestita di temporanea autorità, non dovrebbe più causare terrore; le sue vittime infatti, benché prive della minima autorità, diverrebbero altrettante scimmie irate pronte a imitare un meschino sottufficiale qualsiasi «to use his heaven for thunder, nothing but thunder» [1]. Nelle varie utopie lasciateci in dono dai nostri profeti politici, vediamo come essi non siano stati capaci di concretare un piano di società umana perfetta, senza conferire allo Stato, o a qualche individuo, il potere di vita o di morte.

Il letterato Bulwer Lytton, uomo di lunga esperienza politica, ci ha lasciato una sua Utopia intitolata "The Coming Race" [2], nella quale ogni individuo è dotato di un innato potere chiamato "Vril", con cui può metter fuori combattimento vuoi un drago, vuoi un dittatore o un esercito. Di conseguenza, in quella terra purtroppo favolosa, non esistono né draghi né dittatori, e l'orrore dell'assassinio è tale da risultare impossibile il commetterne. H. G. Wells, invece, ha scritto un racconto in cui la guerra è abolita grazie alla invenzione di una bomba capace di disintegrare l'atomo in modo così decisivo, da produrre senza indugio la decomposizione dell'universo intiero. Qualsiasi ambizioso tenti dare quell'arma in dotazione alle sue truppe provoca una spontanea Lega delle Nazioni, la quale con assoluta umanità decreta la fine del malcapitato. Shakespeare, dovendo spiegare in qualche modo la sopravvivenza del filosofo Prospero in un'isola abitata da un solo abitante, il selvaggio Calibano, fornito del potere di uccidere qualsiasi filosofo ponesse mai piede nel suo territorio, dovette ridurre la personalità di Prospero a quella di un mago volgare, procurandogli per madre la sfortunata strega-mostro Sicorace, e facendogli da questa lasciare in dono il potere di procurare doglie dolorosissime e fortissime febbri ai suoi nemici. Swift fornì i governanti della sua immaginaria Laputa di una isola volante, che potevano scagliare quale gigantesco mattarello sopra una eventuale massa di rivoltosi.

Queste favole non illuminano la storia di luce alcuna, perché né Vril, né magia, né isole volanti sono mai esistite, e nemmeno bombe atomiche di siffatta potenza. L'interesse pratico di simili fantasie sta nel notare che neppure i poeti maggiori, e i romanzieri più fantasiosi, sono riusciti a concepire una società nella quale non sia ritenuto necessario tenere in scacco l'istinto che conduce gli uomini a uccidersi scambievolmente. Quando, in una serie di commedie riunite sotto il nome di "Back to Methuselah" [3], diedi il mio contributo all'utopia conferendo alla mente sulla forza fisica un potere altrettanto irresistibile di quello conferito a Propero su Calibano, dovetti pur ricorrere a un simbolo; ma, non accontentandomi di pura fantasia perché con le utopie non si giungerà mai ad alcun risultato pratico, m'indussi a scegliere quale stimolo capace di tenere a bada gli uomini una forza usata comunemente, atta perciò a poter anche subire mutamenti rivoluzionari nella sua applicazione. Questa forza si chiama soggezione. Essa sola permette al maestro di mantenere la disciplina fra la massa degli scolari che altrimenti, e con ogni facilità, lo farebbero a pezzi, allo stesso modo con cui nel 1672 la plebaglia olandese trattò de Witt. L'uomo di Stato deve saper sfruttare il sentimento di soggezione perché esso ha da conferire autorità non soltanto a persone superiori che già di per se stesse la ispirano, ma anche a qualsiasi zoticone a cui abbigliamenti, seguiti, livree e uniformi risultano essere un corredo necessario affinché possa imporsi ai comuni mortali, diventando una specie di idolo animato.

La reazione a questo stato di soggezione fittizia ha prodotto a tutta prima i "Roundhead" [4], i quaccheri inglesi, e in un secondo tempo i diplomatici americani che usano presentarsi a corte, fra altezze reali e aristocratici rivestiti di sontuose uniformi, mentre essi non indossano che un abito borghese e si chiamano semplicemente "Mister". Persino questi iconoclasti sono impotenti di fronte a coloro che per loro natura ispirano riverenza. Sono irriverente e sarcastico quanto sia dato esserlo a un onesto pensatore: eppure ricordo che a venti anni, in una data occasione in cui conobbi un rabbino, questi m'incusse un tale senso di soggezione da farmi rimanere muto. Non so trovare una causa al mio sentire: non ci eravamo mai incontrati prima, e quel giorno scambiammo appena qualche idea, in pochi minuti di conversazione, su ordinarie questioni d'affari. Emanava da lui un ignoto potere magnetico, mesmerico o ipnotico che fosse, tanto che al suo cospetto mi ridussi in uno stato di soggezione da me totalmente ignorato fino allora, e mai più provato di poi. Di fronte al rabbino, senza ragione alcuna, mi ero disanimato. Da quel giorno lo spirito di osservazione e le storie lette su tribù primitive in cui la forza vitale si disgrega all'apparire dell'invasore civile mi hanno convinto che ogni persona vivente possiede un campo magnetico di maggiore o minor intensità, che permette a chi è più carico di energia di dominare chi lo è meno, o chi, a causa di timidezza eccessiva, rimane più suscettibile alla sua influenza. Ho assegnato a questa mia opinione un valore scientifico nella quarta parte di "Back to Methuselah"; ma so già che i biologi non vorranno credermi fin tanto che uno di loro non riesca a far sì che in una prova di laboratorio un cane non provi soggezione per un porcellino d'India. Può darsi che un giorno o l'altro un intelligente bio-fisico riesca a misurare la suddetta energia come oggi si misura l'elettricità. Nel frattempo non si può negarne l'esistenza, per cui ogni governante dotato di senso pratico farebbe bene a riconoscerla e anche a sfruttarla.

Nella mia Utopia ricorsi pertanto alla Soggezione naturale e artificiale quale mezzo grazie a cui la mia "razza a venire" teneva in soggezione gli zoticoni. E poiché l'età è fonte naturale di rispetto, tanto da assicurare la necessaria sottomissione dei figli ai genitori o ai tutori, liberai la mia razza dalla morte naturale, seguendo in ciò Weismann che suggerì essere la morte il rimedio propinato dalla natura contro la sovrapopolazione, causa unica della caducità umana. Non fosse per essa causa, l'uomo potrebbe essere immortale come le amebe.

Ecco come, senza dover ricorrere ad alcuna magia, riuscii a rendere accetta una favola in cui, grazie allo sviluppo evoluzionista delle sole forze naturali, la saggezza si era fatta temibile sino al punto da diventare mortale. La soggezione, difatti, ingenera scoramento e lo scoramento, nel suo ultimo grado, significa morte.

E' chiaro che l'uomo di Stato debba tener conto sia della soggezione naturale sia di quella artificiale, e ricorrere all'artificiale quando la naturale non è sufficiente a mantener la disciplina popolare. Corrispondente alla Soggezione, quale forza sociale, si riscontra il Disprezzo, che può esso pure venir maneggiato a piacimento. Gli uomini sono per lo più classificati dai vestiti che indossano. I nudisti dimenticano talvolta che se il terrazziere e il re si mostrassero attorno nudi, non fosse che per convenienza sociale il primo dovrebbe per lo meno riprendere il suo berretto in mano e il secondo la sua corona; questo anche se si giungesse al punto di considerare i terrazzieri più rispettabili dei re. Il pagliaccio da circo, la cui professione è di far la parte dell'indolente, vigliacco, ladruncolo, ingordo, ubriacone e dispettoso, e di sollevare lo scherno in ogni sua attività, sia questa l'inciampare, o il cadere, o il prendere botte e calci, indossa a questo effetto un abito ridicolo e si dipinge assurdamente il volto. Se si mettesse le uose di un decano o l'ermellino di un giudice, sebbene con l'andar del tempo questi ornamenti appaiano ormai ben poco meno bizzarri del multicolore vestito con cui si acconcia il buffone, egli non riuscirebbe a far pagliacciate, anche se le autorità glielo permettessero. Un attore che si accinge alla parte di generale deve omettere qualche piccolo particolare dell'usuale divisa, alfine di stabilire una frontiera, non importa se minima, fra la realtà e il simulacro. Non è questo soltanto un costume d'arte, ma l'applicazione al teatro della legge generale che nega ai cittadini di usare distintivi di grado o di sesso a cui non abbiano ufficialmente o naturalmente diritto.

Qualsiasi Governo può promuovere a volontà Soggezione e Disprezzo e può anche abusare sia dell'una sia dell'altra cosa. Il sistema feudale si era creato una aristocrazia usando il sistema della ereditarietà, ciò che produsse un numero rilevante di baroni, i quali, incapaci di incutere per loro propria natura un minimo di soggezione, furono differenziati dai comuni mortali mediante vesti, ricchezze e rendite. All'epoca in cui la peste ridusse di tanto il numero dei popolani da far aumentare la paga di un umile lavoratore sino al punto di permettere alla sua donna il lusso di comperarsi ornamenti d'argento, l'emanazione della legge suntuaria proibì al popolino di portare gioielli; gli insorti della Rivoluzione francese furono chiamati "sans culottes" perché le brache, a quell'epoca, le portavano soltanto gli aristocratici. Quando la Rivoluzione americana proclamò per tutti il diritto alle armi, quella categoria di americani che Dickens rese celebre con il signor Hannibal Chollop ne abusò a tal punto che i Governi americani furono alla fine costretti a proibire a tutti il porto della pistola, così come il Governo italiano, per la stessa ragione, proibì molto tempo fa il porto del pugnale. Non mi è dato oggi possedere un fucile senza aver prima ottenuto un regolare permesso, e in tutta Europa oggi si è uccisi se trovati in possesso di armi. Non c'è fine alle Azioni e Reazioni messe in moto all'epoca in cui si ricorse alla soggezione artificiale per colmare la deficienza in natura di questa qualità ritenuta necessaria.

E' certamente assurdo credere che la natura abbia commesso una deficienza proprio in questo campo. La natura è incorreggibilmente prodiga e produce governanti e organizzatori in misura più che sufficiente a riempire tutte le liste delle necessarie gerarchie, fornendo altresì un sovrappiù bastevole a facilitare ai governati il controllo democratico degli eletti. Di questa generosa abbondanza deve essere partecipe la popolazione intiera, dalla cui totalità risulta poi la piccola percentuale di capi scelti per doti naturali. Inoltre, per rendere più proficua la selezione, è necessario che cultura ed educazione siano alla portata di tutti. Se, causa l'indigenza proletaria, il 90 per cento della popolazione è escluso da questa cultura, viene matematicamente escluso il 90 per cento dei possibili governanti o organizzatori, ottenendo il risultato di dover ricorrere al vecchio sistema che riveste d'orpello "the tenth transmitter of a foolish face" [5] tanto per conferirgli un aspetto abbastanza autorevole e permettergli di prender parte alla cosa pubblica dove non saprà far altro se non quello che sempre è stato fatto.

Muoiono imperi a causa di queste finzioni; lo ricordino gli Stati democratici, che andranno alla rovina se non vorranno rivolgere i loro sforzi ad aprire a tutti le porte della cultura e dell'educazione; ciò che in pratica significa uguaglianza, di guadagno per tutti. La sanzione finale di questa uguaglianza, ora che non si crede ciecamente a un potere divino di remissione o di condanna eterni conferita ai sacerdoti, è il potere di vita e di morte posseduto dai Governi secolari che mai, e per nessuna ragione, lo delegano ai duellanti. I monarchi si abituano presto a firmare condanne a morte, specialmente nei paesi molto popolosi. La vita umana non è certamente più sacra in Irlanda che in Inghilterra; purtuttavia, quando ero ragazzo, in Irlanda una esecuzione capitale avveniva forse ogni sei mesi, e per qualche tempo costituiva il fatto saliente del giorno, rappresentato a caratteri vistosissimi sui giornali. In Inghilterra, invece, dove si ha una popolazione dieci volte superiore a quella dell'Irlanda, la regina Vittoria firmava settimanalmente condanne a morte, ciò che mi fa credere che ella non desse al fatto maggior importanza di quanta ne ponesse per la firma di un assegno. Gilbert Chesterton, un giorno in cui assolveva ai suoi doveri di giurato, fece osservare che allorquando si debba ricorrere a qualche misura radicale, bisognerebbe dar voce in capitolo a persone non di mestiere, la cui sensibilità cioè non sia incallita del tutto ancora dall'abitudine quotidiana all'imposizione di crudeltà.

I poteri di vita e di morte necessari alla disciplina degli Stati civili trovano la loro più ampia applicazione nell'istituto chiamato Guerra, mediante il quale un'intiera nazione, o un blocco di nazioni si costituisce inquisitore internazionale, e, se stabilisce che qualche altra nazione (o blocco di nazioni) è indegna di vivere, procede a sterminarla. Tale decisione è naturalmente reciproca, poiché la nazione giudicata non accetterà il verdetto, cosicché non le rimarrà altra soluzione all'infuori di sterminare chi ha deciso di distruggerla. Ora, i poteri di vita e di morte cominciano ad aver la loro prima applicazione in patria; poiché gli eserciti, per poco avessero un po' di buon senso, fraternizzerebbero gli uni con gli altri o si darebbero alla fuga invece di accingersi a una carneficina in cui chiunque può lasciar la pelle, se non sapessero che all'alba chi non ha ucciso, devastato, incendiato, chi non si è comportato come un pazzo omicida, verrà fucilato dai suoi compagni.

Tutto questo sterminio, per quanto logicamente perfetto, non produce l'effetto desiderato. Portarlo alle estreme conseguenze diverrebbe troppo costoso, e d'altra parte né i soldati né i cittadini lo sopporterebbero; accadrebbe così quello che è avvenuto in Germania nel 1918. D'altronde, per sterminare una nazione è inutile perder tempo a uccidere gli uomini che le donne possono subito rimpiazzare. Tanto vale uccidere le donne. A onta dell'evidenza di questo ragionamento, nessuno sterminatore ha ancora osato proporlo come obiettivo, di guerra. Adolf Hitler, la cui fobia anti-semita superò la fobia anti- cananita di Giosuè o il furore reciproco fra i crociati e i saraceni, si arrestò davanti alla decisione di uccidere le donne e lasciare in pace gli uomini.

I casi estremi servono soltanto a fissare gli estremi limiti entro cui dobbiamo stabilire la nostra scelta. Sebbene non si possano sterminare le nazioni nemiche, né permettere loro di invaderci e ridurci in schiavitù, noi possiamo, anzi dobbiamo sterminare i singoli individui e uccidere un numero bastevole di nemici da far ragionevolmente sperare di poterli sconfiggere poi tutti, e, giuste o no, imporre le nostre condizioni ai sopravvissuti. Non esiste, purtroppo, una legge abbastanza perfetta in base alla quale i governanti possano decidere, mettendo da un canto il loro giudizio personale, quando possano o debbano uccidere.

C'è forse un altro limite al potere esercitato dallo Stato sugli individui: le sentenze devono essere eseguite così come sono state decretate e approvate; ma può darsi riesca impossibile trovare l'esecutore materiale della sentenza. Finora, tuttavia, questo pericolo non mi pare essersi avverato, ché non ricordo casi di tortura non applicata per carenza di boia. Il rogo per donne vive, l'esecuzione capitale dei ribelli inventata per intimidire patrioti insorti della tempra di un William Wallace, l'uso romano della crocifissione applicato a Gesù, il sistema trovato dai francesi per punire i parricidi usato contro Damiens e Ravaillac, e gli orrori messi in opra per torturare l'Anabattista Giovanni di Leyden (ho visto appesa alla torre della cattedrale di Munster la gabbia dove i suoi carnefici rinchiusero quel poco che dopo la tortura rimaneva di lui, per finirlo con la fame), sembrano esaurire l'inventiva della crudeltà umana; non si ricorda tuttavia esempio, in cui la ricerca del volontario disposto a fare da boia per un compenso nemmeno troppo lauto abbia causato difficoltà. Alla folla piace contemplare i condannati a morte sulla via del supplizio. Essa si rovescia per strada e paga somme considerevoli pur di ottenere un posto a una finestra dalla quale osservare la macabra funzione. Dopo tutto, un'esecuzione capitale è uno spettacolo popolare. La gente si assiepa fuori delle mura della prigione in cui un assassino deve essere impiccato, sebbene sappia che nulla potrà vedere dell'esecuzione. La generazione di parigini contemporanea di san Francesco di Sales si divertiva a contemplare i condannati le cui ossa venivano stritolate dal supplizio della ruota, supplizio del quale l'usanza continuò nei secoli. Sui miei vent'anni conobbi persone che ricordavano di aver assistito a qualche cosa del genere. Di proposito mi astengo dal parlare dei circhi equestri, sebbene oggi ancora godrei di ciò che nella mia giovinezza chiamavo equitazione, perché non posso sopportare di veder eseguire da animali esercizi in antitesi alla loro natura, mentre sarei pronto a uccidere i loro allenatori purché fossi sicuro di ottenere un'assoluzione per omicidio giustificato.

I Governi possono trar vantaggio da simili manifestazioni di ferocia primitiva, usandone per imporsi sui loro amministrati. Ecco perché i governanti dovrebbero essere scelti con molta cura; in ogni Stato moderno vi è infatti un numero sufficiente di furfanti pronti a procurare a un Governo di malfattori le forze armate alle quali i cittadini disorganizzati non possono resistere. Le migliori coscienze sono ben più umane dei codici penali e militari; la breccia fra gli uni e gli altri non può essere colmata se non si affida il comando alle nostre migliori coscienze. Finirà, altrimenti, per capitarci quello che è avvenuto in Cina; squisita civiltà nelle classi colte, e i criminali tagliati a pezzi per divertire la folla.

33. LEGGE E TIRANNIA
La storia si è fin troppo occupata delle tirannidi esercitate da re, usurpatori o conquistatori e delle fasi terroristiche a cui ogni rivoluzione va soggetta. Tutto il dicibile su questo argomento è ormai stato detto e ripetuto. Ciò che urge è studiare come liberarci dalle tirannidi, che, con le migliori intenzioni, i nostri governanti c'impongono perché tratti in inganno da una scienza bugiarda e dai grossolani errori commessi da intelletti mediocri del tipo di un Jenner, di un Lister o di un Pavlov. Parlo per esperienza perché da giovane patii dello stesso male che acceca molti. A un dato momento della mia evoluzione intellettuale trasferii la fede nell'infallibilità e autorità assolute delle epistole dei santi Pietro e Paolo, fede che fin dalla fanciullezza mi era stata inculcata, agli scritti di Helmholtz e di Tyndall; allora, il primo capitolo della Genesi mi apparve una favola ridicola, mentre "Le origini delle specie" di Darwin assunsero la forza di una rivelazione. Tutti, più o meno, facciamo la stessa cosa. San Tommaso d'Aquino e san Giovanni Battista credevano che l'acqua santa, specialmente se proveniente dal fiume Giordano, avesse proprietà magiche; devo però riconoscere che essi non si esaltavano per questa loro credenza quanto i nostri scienziati allorché s'incominciò a parlare di radio. Giovanni e Gesù, che sostituirono il battesimo alla circoncisione, furono molto meno creduli e intolleranti del contadino Jesty e del dottor Jenner i quali sostituirono al battesimo la vaccinazione. A noi fanno tanta impressione gli sciamani africani che scoprono le streghe al fiuto e le fanno uccidere, che li tacciamo d'infamia con la stessa risolutezza con cui tacciamo d'infamia gli stregoni Vudu: eppure, Dio sa quali grida sappiamo lanciare contro i "portatori" di malattie, e con quale terrore considerammo Mary la portatrice di tifo, quasi fosse stata la terribile strega di Endor.

Non intendo dire con ciò che tutte queste forme della nostra credulità siano dannose. Noi non proponiamo di bruciare viva la "Typhoid Mary": coloro che ne reclamavano la segregazione o la soppressione arrivavano al massimo all'idea di una morte indolore.

Né bisogna dedurre che tutte le scoperte scientifiche siano mistificazioni, basandosi sul fatto che oggi si crede nella scienza altrettanto ciecamente di quanto tempo fa si credesse nel sole fermatosi un bel giorno ad aspettare Giosuè. Quello su cui insisto è che l'uomo di Stato non deve accettare qualsiasi sanzione professionale di una proposta scientifica, quale prova della sua efficacia. Può darsi che sia efficace, ma può anche darsi che non lo sia. La chirurgia antisettica di Lister, che gli fruttò una statua a Londra e un altare nel tempio di Esculapio, si dimostrò in pratica un errore grossolano; ciò non di meno è bene non dimenticare l'esistenza dei fagociti, esseri lunghi meno di un bimilionesimo di pollice che, grazie al nuovo microscopio elettronico, possiamo ormai contemplare. Bisogna comunque tener presente che gli errori non sono sempre del tutto disastrosi. La chirurgia antisettica di Lister si mostrò dannosa per il paziente e per il chirurgo ma, incidentalmente però. riuscì a debellare la cancrena ospedaliera, imponendo una pulizia scrupolosa là dove prima aveva regnato la pestilenza. Però, dopo aver raggiunto questo risultato, si giunse a tali estremi che, allorquando la guerra rinnovò l'urgenza d'interventi tempestivi e di fortuna, i feriti sovente morivano nell'attesa che le infermiere listeriane avessero finito di bollire l'acqua e di sterilizzare tutti i ferri. Dei listeriani, con loro gran sorpresa, si finì per doversi sbarazzare.

Quando l'approvazione di una nuova legge richiama l'attenzione su questioni fin allora trascurate, si provoca un mutamento che richiede l'uso di un'accurata interpretazione. Io stesso, quale membro di un consiglio d'igiene, ho avuto la mia parte di responsabilità nell'imporre ai proprietari di case attrezzature igieniche che, si scoprì poi, erano molto più dannose dei vecchi gabinetti. A ogni modo, l'aver rivolta l'attenzione del pubblico verso un problema a lungo trascurato per falso pudore, migliorò di tanto le statistiche di vita, da farci credere che le nostre decantate vaschette igieniche fossero un ritrovato miracoloso.

Scoprimmo poi di aver errato e ci rimettemmo a perseguire coloro che non si decidevano ad abbandonare gli utensili sanitari da noi imposti poco prima, pena una multa.

Per l'appunto in questi giorni mi capitò di udire un ministro portare a difesa delle iniezioni anti-difteriche praticate ai bambini una statistica che egli giudicava del tutto convincente, e cioè che dei bimbi vaccinati uno solo era morto, mentre 418 casi letali si erano riscontrati fra i non vaccinati. L'uomo della strada si convince subito nel leggere questo genere di statistiche. Esse invece non eliminano neppure il sospetto che l'inoculazione e la vaccinazione possano essere più mortali delle malattie che dovrebbero prevenire. I bambini vaccinati appartengono alla categoria dei figli di genitori coscienziosi e colti i quali si prendono molto a cuore la salute della loro prole e si preoccupano di far ispezionare una volta all'anno gli impianti sanitari delle loro comode abitazioni. Quelli non vaccinati sono invece i figli di genitori sbandati, o ignoranti, oppure poveri, i quali ultimi non possono permettersi il lusso di obbedire alle prescrizioni mediche. La mortalità infantile, in simili ambienti sovente sovrapopolati, è sempre altissima per cause assai diverse da quelle trattabili con vaccini o simili. Le statistiche che lumeggiano la resistenza all'infezione fra i bimbi ben nutriti e ben alloggiati da una parte, e dall'altra bimbi denutriti nati e cresciuti in squallide case o appartenenti comunque a un agglomerato composto del 90 per cento di proletari, sono sempre di gran lunga a favore dei primi. I fautori della inoculazione affermano che la differenza sta a dimostrare il valore del loro sistema; dato questo, non vedo il perché i gioiellieri e gli eleganti empori di West End non debbano sostenere che il merito della minor mortalità deriva tutto dal padre, in quanto esso possiede un orologio d'oro o un cappello a cilindro. Gli statisti seri si guardano da simili affrettate deduzioni sottoponendo ogni novità a un controllo sperimentale. Se dopo aver praticato a tutti i ragazzi di Eton una puntura anti-morbo, e aver lasciato a quelli di Harrow le sole forze naturali per combattere esso morbo, si riscontrassero differenze notevoli di contagio a favore dei primi, allora sì che si riuscirebbe a provare l'efficacia del farmaco, mentre invece un paragone tra l'una di queste scuole e un'altra di un distretto molto più povero non proverebbe altro se non che la miseria e la sporcizia sono dannose alla salute.

Oltre a ciò, le statistiche possono essere falsificate. L'esperienza da me fatta quale consigliere di amministrazione nella mia parrocchia comprende l'ultima seria epidemia londinese di vaiolo. La gente si affrettava a farsi rivaccinare e, poiché davamo mezza corona per capo vaccinato, i medici si affrettavano a rivaccinare. Dopo poco ci capitò di riscontrare che tra i pazienti, da noi mandati all'ospedale contumaciale perché affetti da vaiolo, se ne trovavano alcuni già rivaccinati. Detto e fatto, li spediamo dal contumaciale a un ospedale di medicina ordinario, battezzando questa volta il male: eczema pustolare o vaioloide. Di conseguenza, per parte nostra la rivaccinazione ne uscì probante quanto mai, sebbene, a mio parere, essa abbia provocato gravi malattie e temporanei malesseri anche fra noi del consiglio parrocchiale. In quanto a me non mi feci rivaccinare. Nemmeno il nostro ufficiale medico si sottopose alla puntura, sebbene nelle sue conferenze al pubblico si mostrasse ardente fautore della teoria di Jenner. Entrambi uscimmo indenni dall'epidemia, ma nessuno si degnò di far figurare i nostri casi nelle statistiche ufficiali.

Sulla scienza della diagnosi mi sono già pronunciato: dovrebbe essere l'esatta classificazione delle cause di malattia e di morte, mentre invece ci si accontenta di pura nomenclatura. Far apparire e scomparire malattie è un gioco; questione di nomi. Ci è facile ridurre 1000 casi di tifo a soli 500, purché la metà di questi 1000 li classifichiamo come enteriti.

L'ingannevole scienza sorta dal trucco che consiste nel far credere che una semplice nomenclatura sia un'importante scoperta è così delusiva, che chiunque veda attraverso le apparenze è tentato di promuovere agitazioni allo scopo di indurre la legge a dichiarare illegale l'uso di ogni parola nuova finché il suo significato non venga chiarito da un atto parlamentare. Siccome il rimedio sarebbe forse peggiore della stessa malattia, è una vera fortuna che i moderni testi scientifici siano così pieni di parole nuove da diventare per lo più illeggibili. Quando il signor A. annunzia di aver ottenuto in laboratorio un dato risultato, e il signor B. risponde che i risultati da lui conseguiti non sono gli stessi, da qualche parte deve pur esservi un errore; si riesce a parare questo inconveniente definendo importanti scoperte sia i risultati ottenuti da A. sia quelli ottenuti da B., battezzandoli con nomi differenti e scegliendo l'appellativo tra nomi greci possibilmente polisillabi. Ecco come i libri di testo, mettendo da un canto la logica, acclamano quali inventori certi messeri che non altro han scoperto all'infuori dei loro errori.

I governanti che si lasciano ingannare da simili raggiri dovrebbero essere cancellati dalle liste elettorali.

Quando si tratta di salute pubblica o di diplomazia, l'uomo di Stato non deve mai dimenticare che, come disse Ferdinand Lassalle, «la menzogna è una forza europea». Nelle questioni di medicina, essa è addirittura una forza mondiale. La pubblicità fa abbondante uso di bugie, e questo le è permesso perché il commercio è ricco e potente, così come lo era permesso ai principi, secondo l'insegnamento del Machiavelli. La vaccinazione produsse un fiorente commercio di vaccini. Più tardi la parola vaccino fu applicata a profilattici che nulla avevano a che fare con il vaiolo e ora abbiamo una intiera industria dedicata ai vaccini, pseudo-vaccini, sieri terapeutici, estratti ghiandolari detti ormoni, antigeni, antitossine, in aggiunta alle vecchie pillole, purganti, tonici, cinti elettrici e simili, i quali tutti si vantano di prevenire o curare qualsiasi male conosciuto o immaginato; alcuni di essi promettono persino di ringiovanire i loro compratori e di prolungare la vita di una cinquantina d'anni. Frammenti di greco o di latino, con l'aggiunta di suffissi in «osi», a ina», «ax», «on», sostituiscono i vecchi nomi o ne creano di nuovi, riuscendo a impressionare il pubblico, così come la lunga parola Mesopotamia pare impressionare in senso religioso la gente semplice. Noi tutti leggiamo gli avvisi di questi prodotti, comperiamo i prodotti stessi, ci curiamo con la nostra "vis medicatrix naturae" e, attribuendo la guarigione alla medicina, mandiamo ai fabbricanti numerosi atti di testimonianza i quali vengono debitamente pubblicati e talvolta debitamente pagati. Una signora di mia conoscenza ricevette 800 sterline in cambio di una lettera nella quale attribuiva la bellezza della carnagione - e Dio sa che se ne scorgeva da lontano il trucco a un rinomato unguento per il viso. Anche a me è stata offerta una somma considerevole affinché mettessi le mie facoltà al servizio di un corso educativo per corrispondenza. Non vi è dubbio che le guarigioni sono talvolta genuine, le testimonianze disinteressate, e che coloro che decantano i pregi di certi medicamenti sono abbastanza onesti da averli almeno provati; ciò non toglie, però, che l'impudenza venale di queste menzogne sia enorme.

Ora, se una menzogna è popolare, come lo sono i racconti di fate o di miracoli, è impossibile fermarla una volta entrata in circolazione. Per quanta autorevolezza si impieghi nello smentirla, gli ignoranti continuano a ripeterla e i giornalisti a copiarsela l'uno con l'altro, fintantoché cessi il bisogno di credervi. Allora, e soltanto allora, l'inganno muore di morte naturale. Ma la morte è lenta e può anche durare un secolo o più; di questa lentezza fanno prova le molteplici falsità contro le quali già si lottava nella mia giovinezza, e che oggi, alla fine della mia lunga vita, serbano tuttora il loro potere di illusione. I governanti debbono stare in guardia contro di esse. Possono utilizzarle a uso di governo, come faceva Cesare Borgia (meglio non parlare dei nostri statisti contemporanei); ma se prestano fede anch'essi all'inganno, sono perduti. Si dice che lord Melbourne, il Virgilio della regina Vittoria quando essa era appena salita al trono, mettesse il Gabinetto da lui presieduto con le spalle al muro dicendo: «Poco m'importa quale maledetta bugia si abbia da dire, ma nessuno di voi uscirà di qua se prima non ci siamo messi d'accordo di dire tutti la medesima bugia». Prescindendo dalla verità o meno di questa storiella, sta di fatto che anche l'uomo di Stato più onesto deve governare dicendo al popolo ciò che è bene che esso creda, sia questo secondo verità o meno. Se la settimana dopo il detto del governante si mostrerà di già falso, nessuno vi farà caso in Inghilterra, perché il popolo inglese non ricorderà mai un discorso politico oltre l'intervallo che decorre fra il giornale del mattino e quello della sera. Dissi una volta in pubblico (stavo facendo un brindisi ad Albert Einstein), che la religione ha sempre ragione e la scienza sempre torto. Lord Melbourne si sarebbe espresso in altro modo: avrebbe detto, cioè, che i preti dicono sempre la stessa bugia e mai l'abbandonano, mentre gli scienziati cambiano storiella ogni tanti anni, e trascorrono gran parte del loro tempo a contraddirsi vicendevolmente, cercando di mettere in evidenza gli errori l'un dell'altro. In fisica astrale, per esempio, il libro della Genesi è rimasto immutabile come roccia per quelle che sono ormai decine di migliaia d'anni, mentre durante il semplice corso della mia vita l'universo astronomico, che dapprincipio mi si presentava accompagnato dal desolante vaticinio del sole in via di raffreddamento, e della terra ricoperta di ghiacci in cui ogni forma di vita si sarebbe inevitabilmente estinta, oggi viene più piacevolmente raffigurato: pare che l'azione ritardatrice delle maree condurrà alla fine all'immobilità tutti i corpi celesti, i quali si fracasseranno poi l'un contro l'altro formando un'unica massa di inimmaginabile mole, dotata in seguito all'urto di una temperatura tanto elevata da rendere difficile il farsi un'idea su quale forma di vita vi potrebbe attecchire. La legge newtoniana del movimento rettilineo deviato dalla gravitazione è stata soppiantata dall'ipotesi della traiettoria curva, la quale c'induce a chiederci se la più lontana stella, rivelataci dai telescopi, non sia altro che il nostro sole rifratto tutto attorno all'universo. Ci hanno regalato poi un universo in espansione le cui stelle si allontanano da noi a una velocità terrificante, secondo quanto ci viene indicato dallo spostamento del rosso sullo spettro; in base alla stessa evidenza, ci è stato poscia dimostrato che alcune stelle si avvicinano a noi con velocità pari a quella propria delle stelle che da noi si allontanano, ciò che fino a nuovo ordine pare condurci alla conclusione che un bel giorno Sirio ci urterà, simile, salvo le dovute proporzioni, a una palla di cricket lanciata contro un palo, riducendo l'universo a un eruttante vulcano. La conoscenza semplicistica dell'atmosfera nella sua composizione di tre gas è stata sconvolta dalla scoperta dell'argon con il suo seguito di nuovi gas. Tyndall, che meravigliò il mondo annunciando com'egli riscontrasse nella materia la promessa e la potenzialità di tutte le forme esistenti, è dimenticato e sostituito dai fratelli De Broglie, che ci convincono della non-esistenza della materia soppiantata ormai dal moto.

Da un punto di vista intellettuale tutto ciò è molto divertente in quanto dà alla scienza un certo fascino di novità, priva della quale l'attenzione non riuscirebbe ad applicarsi a lungo senza incorrere in una noia intollerabile; ma l'uomo di Stato non può governare senza una fede stabile, vera o falsa che sia. Questa è la ragione per cui egli deve limitarsi alle certezze virtuali e diffidare delle incerte speculazioni. Alcune certezze esistono; si sa, ad esempio, che il sole sorgerà e tramonterà pure domani, che il cittadino privo per dodici ore di cibo e bevande diventerà pericolosamente vorace e antifilosofico, e che, se col prolungarsi delle privazioni non si indebolirà fino a morirne, finirà col ribellarsi e rubare. L'uomo di Stato possiede con ciò elementi sufficientemente solidi per affrontare con una certa sicurezza il problema agricolo. Tuttavia, senza l'aiuto di qualche conoscenza di chimica agraria, anche le terre più fertili s'inaridiscono, come stanno ora facendone la triste scoperta alcuni amici miei i quali qualche anno fa avevano fattorie in America. In Russia, con la collettivizzazione della terra e la meccanizzazione dei metodi di coltivazione della medesima, si è raggiunto un meraviglioso progresso; ma entrambi i sistemi finirebbero per mutare la Russia in un deserto di Gobi, se non fossero coadiuvati dall'uso di fertilizzanti chimici, ciò che riconduce l'uomo di Stato a fare i conti con lo scienziato, il quale si farà un dovere di provargli che la terra abbisogna di un concime a base di vitamine A o B o C, o X o Y o Z. Ammetto che l'uomo di Stato troverebbe alcune difficoltà a rispondere: «Questa è scienza; e il signor Shaw dice che la scienza sbaglia sempre».

L'uomo di Stato si trova di continuo davanti allo stesso dilemma: senza una stabilità governativa, che di per sua stessa natura impedisce il naturale svolgersi di cambiamenti progressivi, egli non riesce a governare; d'altro canto il signor Wells lo ammonisce dicendogli che una comunità è condannata a finire, se non sa adattare le istituzioni che la reggono ai mutamenti risultanti da invenzioni e scoperte, comunicazioni veloci, meccanizzazione del lavoro, distribuzione dell'elettricità, che permette alle officine di soppiantare le fabbriche così come le fabbriche soppiantano le industrie casalinghe, sfruttamento delle maree e uso del vapore vulcanico, ciò che gli italiani stanno ora facendo.

Nella Nuova Zelanda per esempio esiste un soffione naturale la cui forza sarebbe sufficiente a mettere il mondo sottosopra.

Tutto questo moltiplica la produzione di cose immangiabili, mentre le rudimentali cognizioni agricole dei contadini mantengono la produzione alimentare al vecchio livello; cosicché gli uomini chiedono bensì pane, ma si offron loro tonnellate di acciaio e, come ho già detto, i deserti del Sahara e di Gobi minacciano di distruggerci più rapidamente di quanto fecero i ghiacciai. Il sapere sino a che punto si possa governare secondo i dogmi conservatori, senza incorrere nel pericolo di stagnare negando al Governo l'elasticità necessaria per adattarsi ai mutamenti che possono avvenire in zone esterne al suo controllo, non è dato ai Tom, Dick e Harriet qualsiasi. Soltanto i migliori possono giungere a tanto discernimento, ed essi debbono essere scelti a tale scopo, ed a tale scopo elencati nominativamente in liste da consultare al momento del bisogno. Il miglioramento della produzione, delle comunicazioni e simili, non è la sola forza che sospinga gli uomini politici conservatori verso cambiamenti rivoluzionari. Mentre il Sahara e il Gobi lambiscono le radici della produzione, il cancro, il diabete e la malaria colpiscono quelle della vita umana. Gli inebrianti e deliziosi veleni, dal gin alla cocaina, possono demoralizzare un'intera civiltà e distruggere tribù e razze, se il loro commercio non viene controllato. L'uomo di Stato deve occuparsi di simili problemi ed è questa una necessità che rappresenta un vantaggio per i mercanti di scienza, i quali impongono ai legislatori le loro cure e i loro profilattici facendo mostra del medesimo fanatismo con cui l'Inquisizione imponeva messe, assoluzioni, battesimi, privilegi, sacramenti e preghiere. I laboratori scientifici hanno le stesse camere di tortura dell'Inquisizione e pretendono di possedere i medesimi privilegi, gli stessi poteri di legare e sciogliere. Naturalmente, i preti e gli scienziati, da rivali che sono, si trovano in lotta mortale per accaparrarsi in esclusiva la formazione e il controllo delle nostre menti.

L'uomo di Stato ha le sue camere di tortura a Dartmoor e altrove. Mentre scrivevo queste righe, due ladri stavano ricevendo 108 frustate (nove a ogni colpo), in aggiunta alla pena di detenzione; e ora che le sto correggendo, una recluta inferma è stata trattata con la maniera forte in uso nell'esercito britannico, perché è sospetta di malattia simulata, e ridotta così a mal partito da finire per morire. I carnefici del soldato furono, è vero, condannati dalla corte marziale, ma la sentenza è stata molto meno severa di quella che un tribunale civile avrebbe emesso verso i borghesi, e cioè l'impiccagione. Siamo usi a condannare dall'alto il terrorismo tedesco, eppure il rilassamento europeo nell'applicazione delle dottrine umanitarie, vanto del diciannovesimo secolo, ci ha talmente guastati che è necessario ricordare al più presto come la crudeltà, sia essa vendicativa o sadista, metta in rapida attuazione la legge di Gresham, la quale afferma che la cattiva moneta scaccia la buona. E' legge applicabile così alle questioni morali come a quelle monetarie.

34. GIURIE E MINISTRI DI GRAZIA, DIFENDETECI!
La legge non rispetta né le persone né le circostanze: altrimenti non sarebbe legge. Tuttavia, siccome ha sempre a che fare con le persone e le circostanze, s'incorrerebbe in ingiustizie e violenze intollerabili se fosse in maniera inesorabile amministrata. La legge, s'intende, deve essere inflessibile; ma tra la legge e il cittadino bisogna porre gli uffici di qualche istituzione più elastica, mossa da misericordia, compassione, rispetto per la persona umana, e dalla considerazione delle circostanze o delle pressioni esercitate da qualche urgente caso politico. La mano che firma la condanna di morte deve poter anche firmare il perdono, perché, se esiste una convenzione per la legge, bisogna pure che ve ne sia una per la grazia.

Nella costituzione britannica le due principali dispensatrici di grazia sono la prerogativa sovrana del perdono, e la giuria. Il sovrano ha molti altri doveri; la giuria esiste, invece, unicamente in funzione di cuscinetto fra il cittadino e la legge. Sfortunatamente questa funzione della giuria è generalmente male intesa, tanto che in pratica esula spesso dallo scopo per cui fu creata. Almeno il 99 per cento dei cittadini britannici iscritti alle liste dei giurati credono che non appena la polizia abbia fissato lo stato di fatto, e il giudice li abbia edotti in riguardo alla legge, essi debbano automaticamente sapersi pronunciare sulla colpevolezza o meno dell'imputato. Fosse realmente così, non vi sarebbe bisogno di giuria; il caso potrebbe venir sistemato dalla polizia e dal giudice, senza richieder la partecipazione di dodici promiscui contribuenti. Ma non è così: la funzione della giuria è del tutto emancipata da quella della polizia e del giudice, e ha inizio quando termina il compito di ambedue.

Per meglio illustrare ciò, soffermiamoci a un caso popolare: un processo per omicidio. Tom è nella gabbia, accusato dalla polizia di avere assassinato Dick. In primo luogo la polizia deve convincere i giurati che Dick è stato ucciso, e in un secondo tempo che è stato Tom a ucciderlo, e che ha voluto ucciderlo. Se fallisce in questi intenti, il processo non ha più luogo e giuria, giudice, polizia e imputato possono fare i bagagli e andarsene. Se riesce, il giudice comincia lui il suo compito e spiega alla giuria il significato della legge in rapporto al caso specifico. Dopo di che la giuria è a conoscenza della legge e dei fatti. Essa allora si ritira in disparte applicandosi all'unico scopo per cui è stata convocata: decidere cioè se l'omicidio intenzionale commesso da Tom in persona di Dick sia stato un atto lodevole o malvagio, necessario o per lo meno scusabile. Si deve impiccare Tom, o è bene chiedere al Parlamento di concedergli una gratifica di 20000 sterline? E' egli colpevole o innocente?

A questo modo il verdetto deriva soltanto dal semplice studio dei fatti. I dodici contribuenti, tutti correttamente informati, sia dell'accaduto sia della legge, possono non risultare d'accordo nel concedere a Tom una giustificazione per il suo operato. Se Dick ha sedotto la moglie di Tom mentre Tom se ne stava combattendo per il suo paese, essi lo assolveranno. Se Tom è un fanatico rivoluzionario e Dick un uomo di Stato conosciuto, Tom può esser sicuro di esser giudicato colpevole. Nel caso che la polizia non sia riuscita a convincere la giuria della responsabilità di Tom nell'assassinio di Dick, ma abbia presentato prove dalle quali Tom sia risultato uomo di carattere pericoloso che meglio varrebbe tenere al sicuro o impiccare, Tom potrà senz'altro esser riconosciuto colpevole; se però le prove di colpevolezza sono troppo dubbie, il ministro degli Interni e il ministro di Casa reale annulleranno probabilmente la sentenza capitale sostituendola con quella di prigionia a vita. In ogni caso, se la giuria invece di sottoporre il proprio cervello alle parole dei giudici e degli avvocati è capace di un giudizio indipendente, il verdetto sarà il frutto della somma di educazione, sentimenti, principi morali e pregiudizi dei suoi componenti, e questo prescindendo dai fatti e dalla legge. Sarà un atto di coscienza condotto a termine di fronte alla possibilità di grazia.

L'emendamento necessario per dare credito ed efficacia al sistema della giuria sarebbe quello di limitare la scelta dei giurati a persone capaci d'intendere la missione a cui sono chiamate; ognuna di esse dovrebbe capire la funzione della giuria e conoscere la storia della lunga lotta da essa intrapresa per salvaguardare la propria indipendenza di fronte alle pressioni che re e giudici volessero esercitare. Gli emolumenti offerti ai giurati dovrebbero essere di tal natura da far giudicare un privilegio l'esser scelti, mentre ora questo privilegio è calcolato una disgrazia da evitarsi con ogni mezzo possibile.

Arrossisco nel ricordare gli espedienti con cui mi riuscì di evitare il servizio di giurato; la mia sola scusa sta nel fatto che, giudicando del tutto errato il sistema di punizioni con il quale usiamo trattare i nostri criminali, non sarei riuscito a mostrarmi un buon giurato. Perché non dovrebbe essere sufficiente che il giudice istruisca la giuria con cura sia sulle speciali funzioni che le competono, sia sulla peculiarità della legge di cui deve occuparsi? La ragione sta nell'ignoranza di cui le giurie miste danno prova e nella loro debolezza di fronte all'eloquenza venale e sofistica degli avvocati; cosicché i giudici si son convinti che qualsiasi caso sarà sempre meglio risolto da un giudice piuttosto che dai giurati. In base a questo assunto il giudice fa di tutto per mantenere la decisione finale nelle sue mani e, a questo scopo, conferma la giuria nell'errore in cui vegeta e cioè che il suo verdetto deve attenersi alla legge e ai fatti. I nostri giudici andarono oltre in questa direzione. Il Parlamento votò un giorno una legge conosciuta sotto il nome di legge Fox. Essa stabiliva il diritto della giuria a emettere un verdetto generale di colpevolezza o di innocenza, a favore o contro il querelante e il convenuto. Voleva impedire l'abito invalso, per cui i giurati si accontentavano di rispondere alle domande che il giudice credeva bene di fare, lasciandogli l'intera responsabilità della decisione ultima; intendeva pure che i giurati ascoltassero, sì, le raccomandazioni del giudice, ma in piena libertà di accoglierle o meno. Circa un secolo e mezzo è ormai trascorso da quando la legge è stata promulgata, e oggi essa è praticamente così ben soppressa che, mentre scrivo, persone del tutto innocenti, colpevoli soltanto di alcune omissioni a norme tecniche della finanza di guerra, norme da loro del tutto ignorate e di cui nemmeno la più scrupolosa moralità poteva immaginar l'esistenza, han pagato fortissime multe, certe com'erano che, con l'ammettere ciò che senz'altro giudicavano colpa, avrebbero evitato alla corte una inutile perdita di tempo.

Quanto alla polizia, non è affar suo istruire la giuria ed esporre all'accusato i diritti che gli competono. Il suo compito sta invece nel convincer l'accusato di colpevolezza, usando a ciò di ogni mezzo in suo potere, poiché è ufficialmente riconosciuto che il codice penale serve a sventolare la bandiera della paura al fine di dissuadere i cittadini da ogni violazione della legge; questo punto di vista conduce alla conclusione che qualsiasi delitto, commesso o no, deve essere punito. L'impiccagione di un innocente serve d'esempio e incute altrettanto terrore quanto quella di un colpevole, purché il pubblico sia convinto della colpevolezza del giustiziato. Per questo, un commissario di polizia può esser convinto, e in piena coscienza, che, dato un delitto, conviene giustiziare qualcuno, anche se quel qualcuno è innocente. Il filosofo che dichiarò esser dovere di ogni giuria mettere in stato d'accusa sia il giudice sia il colpevole intendeva certo porre nella lista degli accusati anche la polizia. Non appoggio questa stravaganza ma la cito, affinché serva a rammentare che il potere concesso alla giuria di liberar l'accusato tanto dalla polizia quanto dalla lettera della legge è la sola ragione per cui essa giuria è stata istituita.

Al disopra della giuria troviamo il re al quale è data la facoltà di grazia anche se la giuria ha emesso un verdetto di condanna. Nel 1876, quando venni a Londra per la prima volta, solevo leggere la rubrica dei delitti non per avere i brividi, ma perché porto interesse alle questioni giuridiche. Ricordo sempre un caso in cui un uomo e una donna erano accusati di aver ucciso la moglie dell'uomo. Lo stesso verdetto li giudicò entrambi colpevoli e li condannò a morte. Il ministro degli Interni ignorò verdetto e condanna, e confinò l'uomo all'ergastolo a vita, mentre graziava la donna la quale in virtù del momento di celebrità in cui si trovava, ottenne un buon impiego in un bar.

A volte la pressione di talune opportunità politiche protegge il violatore della legge senza l'aiuto di alcun sensazionale atto di grazia. Non sarebbe per nulla illegale che un commissario di polizia di Belfast mettesse in stato d'accusa un sacerdote cattolico colpevole di procacciarsi denaro abusando della crudeltà altrui. Infatti, i sacerdoti si fanno pagare per la celebrazione di messe a favore dei defunti, valendosi della credenza che, a questo modo, le loro pene in purgatorio verranno abbreviate. Non sarebbe dunque illegale, ma condurrebbe a una guerra civile paragonabile alla guerra dei trent'anni in Germania.

Sarebbe bene, però, abolire l'uso di lasciare nel codice leggi antiquate, adducendo a scusa che a nessuno salterà mai in mente di farle osservare. Abbiamo tuttora, contro le pratiche omosessuali e l'apostasia, leggi che comportano pene tanto mostruose da impedire allo stato attuale della nostra sensibilità qualsiasi verdetto positivo da parte della giuria, e questo non per clemenza, ma perché le punizioni prescritte sono abbominevolmente crudeli. All'epoca in cui per il reato di alto tradimento si era puniti con la confisca dei beni, pena che ricadeva sui discendenti dei colpevoli, la giuria rispondeva sempre negativamente alla domanda che le veniva fatta se l'accusato disponesse o no di qualche avere, benché sovente gli averi risultassero consistere in interi ducati. Le leggi più barbare del nostro codice, quali il rogo per le donne, o l'impiccagione dei fanciulli rei di qualche furterello, sono a questo modo cadute in disuso; ma l'arma è a doppio taglio, poiché non lascia alla giuria via di mezzo fra condannare l'imputato a una orrenda pena, oppure assolverlo anche in casi in cui, come diceva il duca di Wellington riportandosi alla disciplina militare, «tutto è meglio dell'impunità». La distinzione in uso fra assassino e massacratore, violazione di domicilio e furto con scasso, è di un certo aiuto, ma la giuria si trova sovente in condizioni di non potere in coscienza assolvere l'accusato e di non sentirsi d'altra parte il coraggio necessario a infliggergli la pena prevista dalla legge. I giurati risolvono il problema inoltrando al sovrano una domanda di grazia, e aggiungono al verdetto di colpa da loro emanato un appello alla clemenza.

Tutti questi espedienti provano quanto sia necessario procedere a periodiche revisioni dello statuto. Provano altresì un bisogno più fondamentale ancora, e cioè quello di eliminare dal nostro codice penale la caterva di punizioni e crudeltà che vi si trova inclusa. Né giuria né giudici né sovrano dovrebbero aver il diritto di considerare se un colpevole ha da esser tormentato o no. Le nostre prigioni sono inferni artificiali a cui non saprei trovare scusanti; le brutalità fisiche usate nei campi di concentramento, o nelle camere di tortura, diventano effimere inezie se paragonate alla routine della prigionia descritta da Fenner Brockway dopo 28 mesi d'esperienza, e dei lavori forzati come dal libro di Jim Prelan scritto al termine della pena, cioè tredici anni dopo. Entrambi questi signori si sarebbero giudicati ben felici di cavarsela con una bella fustigazione, il che, per quanto venga giudicato selvaggio, avrebbe servito di divertimento al pubblico.

Questa crudeltà non è né umana né inglese: è specificamente capitalistica. In ogni complesso sociale ci incontriamo con persone che, del tutto incapaci di vivere in una società civile, è bene togliere di mezzo usando, s'intende, qualche mezzo indolore, e, se si vuole, chiedendo loro perdono nel segreto dei nostri spiriti. Altre persone riescono invece a mantenersi, e non fanno alcun male purché poste sotto tutela di una inflessibile disciplina. E' bene far uso della capacità di queste ultime e guidarle, tutelandole a mezzo delle necessarie restrizioni alla loro libertà; al contempo vorrei procurar loro la maggior felicità possibile. Questo sistema costringerebbe i padroni ad aumentare le paghe di quel tanto necessario a far sì che i lavoratori comuni raggiungano un livello di vita per lo meno corrispondente a quello dei detenuti, godendo in soprappiù della libertà vietata a questi ultimi. Se non fosse così, i più poveri fra gli schiavi dei salari, e l'armata sempre pronta dei disoccupati, si adoprerebbero a disubbidire alla legge al fine di barattare la loro libertà di crepar di fame contro un soggiorno nei penitenziari. In quanto alle merci da loro prodotte, esse riuscirebbero in breve tempo a imporsi a ogni altra produzione sul mercato. Oltre a ciò i capitali necessari a sovvenzionare le industrie delle case di pena non potrebbero essere cavati che dalle tasche dei capitalisti, i quali giungerebbero all'assurdo di finanziare se stessi e i loro competitori. Ecco perché il regime capitalista rende necessario che le condizioni di vita nelle prigioni siano peggiori delle condizioni dei lavoratori, per quanto abbiette esse possano essere. All'epoca in cui il capitalismo inglese raggiunse il culmine di sviluppo della proprietà privata, Karl Marx disse, e con conoscenza di causa, che le prigioni inglesi eran le più crudeli del mondo e che la caccia al profitto intrapresa dal capitale aveva ormai assunto l'aspetto di una lotta senza quartiere. Con tutto ciò, l'inglese non è certo il popolo più crudele della terra. Se si riuscisse a fargli entrare nella testa una chiara visuale della situazione, certo direbbe: «Tra un socialismo riguardoso e un capitalismo spietato, scegliamo senz'altro il primo».

E' bene ricordare che né giurie, né costituzioni e prerogative di grazia, sono a prova di bomba. Nei periodi di emergenza politica, quali a esempio le rivoluzioni e le guerre, tutti gli espedienti per render la legge più umana vengono aboliti. Ogni qualvolta il movimento nazionalista si fa più inquieto, la parte d'Irlanda posta sotto controllo inglese vede sospesa l'applicazione della legge dell'"habeas corpus" (legge che sottopone l'arresto di un individuo a un giudizio preventivo), tanto che oggi si può dire non esista più. Nell'Eire invece (sotto gli irlandesi), un consiglio formato da cinque ufficiali ha il diritto di far impiccare chiunque la pensi politicamente in modo diverso dal loro. In India, il Governo inglese nemmeno s'incarica di tenere in sospeso i processi nell'attesa del verdetto emesso dalla giuria, tanto che si son riscontrati casi in cui persone prosciolte dai giurati furon condannate tal quale fossero state giudicate colpevoli. Il fatto che le elezioni non sembrino per nulla influenzate da questi episodi d'illegittimità- nemmeno quando i partiti li sbandierano con accompagnamento di grancassa tanto per servirsene nella propaganda antigovernativa- dimostra l'inutilità per un corpo elettorale ineducato e sistematicamente ingannato di esser governato da una democrazia promiscua che nemmeno riesce a mitigare gli eccessi più impudenti di super-potere da parte dello Stato o le più volgari violazioni dei diritti popolari.

35. OBIEZIONE DI COSCIENZA. E SCIOPERO GENERALE
Quella specie di Governo di Chicchessia eletto da Tutti, che si è autonominato Democrazia, ci ha dato capi i quali, senza curarsi di capire ciò che fanno, o per lo meno di considerare le inevitabili conseguenze del loro agire, emanano decreti ogni qualvolta si trovano in difficoltà. Nell'intento di disarmare l'opposizione al servizio obbligatorio, che nel diciannovesimo secolo era considerato un'imposizione napoleonica alla quale un libero cittadino britannico non avrebbe mai potuto assoggettarsi, si stabilì che chiunque per scrupoli di coscienza non volesse fare il soldato doveva farlo presente e venire di conseguenza immediatamente esentato dagli obblighi militari. Difficile immaginare un'anomalia più insensata! Solo chi non abbia studiato la differenza che corre tra legge e diritti costituzionali può risolversi a un così misero espediente. Mosè, al ritorno dal Monte Sinai, non si sognò di aggiungere, ai «Non» eccetera, dei suoi comandamenti, codicilli di questo genere: «ma potrai fare come ti parrà meglio». Legge è legge; diritto è diritto; se entrambi coprono lo stesso oggetto l'una cosa finisce per annullare l'altra. I nostri legislatori non si preoccuparono di questa anomalia come ai suoi tempi la brava regina Elisabetta non si preoccupò del ventottesimo articolo della Chiesa d'Inghilterra, il quale prima afferma, poi nega, la transustanziazione nell'Eucaristia, accontentando così sia i prelatisti sia i puritani. Nulla di nuovo in tutto ciò; ben prima della riforma questa lotta fra autorità e giudizio privato si faceva sentire; oggi, poi, che il socialismo estende di tanto i poteri pubblici, maggiormente se ne riscontrerà la gravità. Ruskin previde il pericolo nel secolo scorso, all'epoca in cui uomini politici appartenenti ai più svariati colori presumevano, come di poi i bolscevichi nel 1917, che la civiltà punti sempre verso maggiori espressioni di libertà individuale. Finché le leggi saranno escogitate da persone le cui azioni risultano tanto sorprendenti da far sì che i cittadini più intelligenti stupiscano nel notare la scarsità di saggezza usata a governare il mondo, la scappatoia dell'obiezione di coscienza dovrà esser lasciata in uso, e, per mantenersi tale, l'autorità dovrà combatterla. E' giusto perciò spender qualche parola a favore della registrazione di obiezioni coscienziose e ragionevoli ad alcune leggi, e per accordare a taluni individui un'avveduta esenzione dall'obbligo di obbedienza. Io, tanto per dire, sono esentato dal servizio militare perché alla mia età renderei ben poco come soldato. Nessuno invece mi esenta dal pagare le tasse di guerra, alle quali si ribella la mia coscienza politica che giudica prive di senso, e decisamente cattive, la maggior parte delle guerre moderne. Pago, sia perché non posso farne a meno, e sia perché, se mi trovassi sopra una nave nella quale si è aperta una falla, darei mano alle pompe anche se sapessi che la causa del guasto è dovuta unicamente all'incompetenza del capitano e dei suoi ufficiali. L'esenzione accordatami, per cui in vista della mia età non mi vien fatto obbligo di ammazzare direttamente il mio prossimo, vien pure fruita da gente in perfetto equilibrio fisico impiegata in qualche lavoro speciale. Non c'è ragione che i tribunali chiamati a decidere sul'opportunità di concedere o no l'esenzione dalla comune legge di guerra non possano anche emettere giudizi nei casi di obiezioni alla guerra e al massacro. Mentre asserisco che io servo meglio il mio paese scrivendo libri e commedie che non facendo evoluzioni nelle piazze d'armi, o giocando a improvvisar battaglie quale parte attiva della guardia nazionale, o provandomi a uccidere giovani fra i quali c'è forse un Beethoven o un Goethe, mi trovo sullo stesso piano della donna che argomenta essere il suo apporto alla comunità più utile nei lavori domestici che non in una fabbrica a riempire bombe, e di un uomo che, troppo povero per pagare la tassa sul reddito, inoltra una domanda di rimborso.

La peggior via d'uscita da simili difficoltà sta proprio nell'emanar leggi seguite da un codicillo in cui si ammette l'eccezione alla dovuta obbedienza, per coloro che in coscienza obiettano alla legge in causa. Siccome le autorità non sono minimamente intenzionate a esentare chiunque sia atto alle armi dall'obbligo di difendere in modo diretto o indiretto la patria, esse interpretano a modo loro le parole «in coscienza»; dato poi che a nessuno è concesso stabilire se l'appellante all'esenzione è un uomo coscienzioso o no, i risultati del suo ricorso sono imprevedibili. Un mio amico, tanto poco obiettore di coscienza da avere seguito un corso volontario per l'addestramento degli ufficiali, si appellò al tribunale, esponendo quale motivo della sua obiezione, non la guerra in generale, ma quella "speciale" guerra per cui era stato chiamato sotto le armi. Lo esentarono subito, mentre dei convinti pacifisti cristiani appellatisi al Sermone della Montagna furono arruolati di forza e messi in prigione. E' detto che nessun criminale, una volta assolto, possa esser messo in giudizio sotto la stessa accusa, e che la pena dei lavori forzati non deve oltrepassare il termine di due anni. A onta di ciò, il disgraziato Conshy fu ripetutamente accusato per il medesimo reato (rifiuto d'obbedienza), e ogni volta punito con i due anni di prammatica, cosicché il suo tempo di lavori forzati divenne pressoché perpetuo e la sua salute ne ricevette il contraccolpo. In questo caso, l'assurda applicazione della legge ideata a esentarlo risultò una pena a cui pochi criminali vengono sottoposti.

L'odiosa discriminazione a cui si costringono i casi di coscienza è però del tutto logica, poiché negare l'esistenza di un diritto e di un dovere sociale, i quali portano a togliere di mezzo chi attenta al pacifico sviluppo della civiltà - sia individualmente, e sono i criminali, sia in massa, e sono gli eserciti ostili - risulta più immediatamente pericoloso di ciò che non sarebbe un'obiezione rivolta a un qualsiasi caso particolare in cui questo diritto e questo dovere, benché universalmente ammessi, vadano a cozzare contro le particolari convinzioni dell'obiettore di coscienza. Se, e non è del tutto impossibile, le Potenze occidentali dovessero dichiarare guerra all'U.R.S.S. - guerra del capitalismo di Stato contro il Governo democratico - gli obiettori di coscienza si conterebbero a milioni e la guerra non potrebbe aver luogo. Organizzare su una base sociale astensioni avvalorate dall'intima coscienza dell'individuo mi pare oggi il solo mezzo valido per evitare una guerra. Finora l'unico preventivo raccomandato è lo sciopero generale, metodo fatalmente votato all'insuccesso poiché non è che il ripetersi di un vecchio sistema in cui l'oppresso, col semplice fatto di stendersi a terra e morir d'inedia sui gradini di casa dell'oppressore, creda di aver condotto questi alla ragionevolezza. Lazzaro, si sa, è predestinato a morir di fame, ed Epulone non salterà mai un pasto; ma Lazzaro è uno sciocco e la morte se la merita. Lo sciopero, per aver successo, deve limitarsi a distogliere dal lavoro una sola categoria di lavoratori, mentre le altre devono lavorare con lena, facendo anche straordinari, se necessario, pur di mantener in vita gli scioperanti. Gli obiettori di coscienza, invece, non s'inducono a morir di fame; essi asseriscono il loro diritto semplicemente col rifiutare di battersi e, se sono abbastanza numerosi, di guerre non ve ne saranno.

La prestazione obbligatoria allo Stato di alcuni servizi i quali, come nel servizio militare, comportano alloggio, vitto, e cure mediche statali, possono condurre a seri conflitti fra lo Stato e l'individuo. Non facciamo che preoccuparci di essere d'un tratto dallo Stato comandati a batterci, quand'anche la lotta non ci paresse giusta, e dimentichiamo che, sottomettendoci, ci toccherà condividere la stanza da letto con decine di altre persone, mangiare determinati cibi, non importa se si confanno alla nostra natura o no, indossare determinati abiti anche se non ci piacciono, prendere, in caso di malattia, dati medicinali anche se nei medicinali non crediamo, e, quando viviamo in buona salute, assoggettarci a varie specie di inoculazioni, benché si possa essere convinti del danno che sovente arrecano. Pochi di noi si agitano per simili questioni perché tale è l'abitudine di veder tutto ciò deciso per noi, che più non vi facciamo caso, e seguiamo passivamente quello che fa il nostro vicino. Siamo ormai d'idea che su simili questioni non abbiano da esistere divergenze di opinioni. Alcuni di noi, però, studiano questi problemi, ed è dal loro studio che l'obiezione di coscienza si muove.

Esistono persone che, come faccio io, non bevono né birra né tè, e non mangiano carne, selvaggina o pesce. Alcuni malati per guarire scelgono medicinali omeopatici, altri, invece, cure allopatiche, e altri meglio si fidano della sola natura. Gli anti-vaccinisti non sono oggi che una tra le molteplici sette di "anti", e non soltanto mettono in pratica il loro credo, ma ancora lo propagano e soffrono per esso con lo zelo proprio dei martiri.

Fino a un certo punto lo Stato può modificare le disposizioni da esso impartite, ed accontentare quelle sette. Si potrebbero preparare ranci vegetariani e ranci a base di carne; nulla vieta di ammannire l'acqua d'orzo assieme alla birra e al rum; si può perfino provvedere ai non fumatori celle ben chiuse al fumo. Ma vi sono questioni per le quali gli obiettori non trovano spirito di comprensione.

Nel diciassettesimo secolo John Bunyan rimase dodici anni in prigione perché si ricusò di appartenere alla Chiesa d'Inghilterra. Oggi gli obiettori come lui sono tanti che mai le prigioni riuscirebbero a contenerli tutti, cosicché ognuno ha il diritto di appartenere impunemente a una Chiesa, a un'altra, a nessuna. Il nuovo Conshy è l'antico dissenziente, il quale, quando era una novità, era un eretico. Con ciò, la moderna obbligatorietà al servizio militare è ben peggior costrizione di quella che potesse essere l'obbligo domenicale di andare in una chiesa piuttosto che in una cappella. All'epoca in cui Bunyan viveva, non era certo cosa ben fatta assediare una città, prenderla d'assalto e saccheggiarla; ma distruggere una città col fuoco e con potenti esplosivi, riducendo incidentalmente i suoi abitanti, senza alcuna discriminazione di sesso o di età, a frammenti umani, come è avvenuto a Stalingrado, Kharkov, Amburgo, Colonia, Napoli, Berlino, Coventry, Plymouth, alla vecchia Londra e un po' ovunque, è una colpa così orrenda che, al paragone, le peggiori malefatte perpetrate da Tilly a Magdeburgo e da Suvarov a Ismailia appaiono atti di clemenza. Le abominazioni inglesi del 1943 si lasciano indietro la Schrecklichkeit [6] tedesca del 1915, sebbene si sia smesso di far uso dei gas perché gli alti esplosivi e le bombe incendiarie sono più micidiali e distruttivi di essi. La sola scusante che un intelletto umanitario possa trovare alla messa in opera di simili orrori sta nel fatto che, sebbene se ne possa limitare il danno ai soli nemici, entrambe le parti ne ricavano terrore: ciò che Londra fece a Berlino ieri (ieri del giorno in cui scrivo), Berlino può farlo a Londra domani. Poco tempo fa il peso delle bombe era calcolato in libbre; ora lo si numera in tonnellate e il loro contenuto esplode più violento, tanto che, dove una volta cadeva una casa, oggi precipita una strada intiera. Le obiezioni di coscienza contro l'uso di simili bombe crescono in rapporto al male che producono e vengono rafforzate da un concetto realistico: all'epoca in cui Tilly e Suvarov saccheggiavano una città, terminati i pochi giorni concessi alla rapina e al massacro, rimaneva pur sempre la città quale compenso di tante fatiche, mentre, allorché Stalingrado e Kharkov furono riconquistate, i vincitori dovettero accontentarsi di avere in loro possesso cumuli di macerie, cadaveri da seppellire, e prigionieri nemici da nutrire. L'uso di esplosivi ad alta potenza non è un buon affare; i muratori e i vetrai sarebbero tanto più proficuamente impiegati a costruire nuove città che a rimettere in piedi le vecchie, follemente distrutte.

Dato che le case possono essere sostituite in pochi mesi - poche settimane se si fosse un po' più in gamba - mentre a rifare un essere umano adulto ci vogliono vent'anni, le carneficine moderne falcidiano in modo ben più preoccupante il numero dei lavoratori validi di quanto non lo falcidiassero le vecchie guerre, all'epoca in cui si massacravano principalmente i soldati, e si riteneva la guerra un rimedio contro la sovrapopolazione, come oggi si ritengono le bombe un mezzo spicciativo di bonifica per i quartieri più miserabili delle città. Tilly, Suvarov, Wallenstein e Gustavo Adolfo, Marlborough, Saxe e Wellington, conducevano i loro battaglioni al sacrificio sapendo perfettamente che nei loro paesi l'istinto di riproduzione era sempre pronto a rimpiazzare abbondantemente gli uomini uccisi. Oggigiorno, invece, non si fanno discriminazioni tra militari e borghesi, bimbi e adulti, padri e madri, e allora le madri sopravvissute hanno imparato una tecnica che, controllando le nascite, permette loro di non fornire ai generali nuova carne da cannone. Ho già fatto notare che le guerre usavano scoppiare quando gli interessi degli investimenti sicuri scendevano al 2,1/2 per cento e terminavano non appena questi risalivano al 5 per cento, ma la guerra moderna non la si ferma tanto semplicemente; può nel giro di una settimana sorpassare il limite massimo del 5 per cento sfociando nell'inflazione e nella rovina.

Sebbene la guerra crei molteplici fortune e sia, finché dura, un'ottima cura contro la disoccupazione, il commercio s'intesta a non volerle far fronte senza una moratoria, e la moratoria, portando con sé il controllo statale dei prezzi, la limitazione dei profitti, la confisca dei redditi e dei sovraprofitti su una scala che i governanti dell'epoca vittoriana non avevano nemmeno sognata, aggiunge al numero dei soliti obiettori di coscienza la cifra degli obiettori mossi da interessi commerciali e finanziari. Gli obiettori di coscienza non hanno bisogno di essere una maggioranza; ad interrompere la guerra basterebbe una minoranza bene organizzata, come bastò agli Stati Uniti quando si volle mettere fine al proibizionismo.

Nondimeno, l'obiezione di coscienza nella sua veste d'istituzione legale è assurda; una legge dev'essere osservata o revocata o, per lo meno, posta nel dimenticatoio. Quale risultato della sempre più vasta socializzazione dello Stato si finirà per imporre l'obbligatorietà al servizio civile e, allo stesso modo in cui ogni uomo, milionario o accattone che sia, è costretto oggi a prestar servizio militare, far ginnastica e battersi, domani i fisicamente abili saranno costretti al lavoro. Potrebbero gli individualisti della scuola di Manchester sollevare il caso dell'obiezione di coscienza verso l'adozione del servizio civile obbligatorio? Certo che lo potrebbero, e chiunque altro con loro, se il socialismo avesse da produrre i disastri che la guerra porta con sé e fosse perciò da tutti odiato. Poiché il socialismo si è mostrato finora tanto produttivo quanto la guerra è distruttiva, esso non corre alcun pericolo; ma se anche ne corresse, il ritorno al capitalismo non sarebbe certo un buon rimedio, come un ritorno al militarismo a oltranza non muterebbe in nulla le manchevolezze dell'obiezione di coscienza al servizio militare in guerra, ratificata dalla legge.

In breve, la legalizzazione dell'obiezione di coscienza è l'espediente escogitato affinché leggi cattive diventino tollerabili, e questo per aspettare il giorno in cui si riuscirà a farle revocare. E' in realtà una specie di sabotaggio, e sempre significa che la legge non va. Meglio si potrebbe raggiungere gli scopi che essa si prefigge, ponendo le obiezioni mosse dal punto di vista cristiano sullo stesso piano di quelle mosse da altri punti di vista.

Verrà forse il giorno in cui chi non prova un'obiezione di coscienza contro la guerra sarà trattato come son trattati i Conshy, e anche peggio, poiché non potrà addurre a sua difesa, come fanno i Conshy, che, se tutti lo imitassero, il mondo sarebbe molto più prospero di ciò che non sia al presente.

36. SAGGI DI ANTROPOMETRIA
Le prove più efficienti stabilite finora dalla legge e dal costume al fine di misurare la capacità intellettuale degli individui sono ancora gli esami universitari e quelli di immissione nei quadri del servizio civile. Tranne in qualche particolare, queste prove si rassomigliano, e son certo meglio che niente, in quanto assicurano alla nazione una forte aliquota di persone capaci almeno di leggere, scrivere, far di conto, e anche di usare le formule dei binomi. Per dare esami basta però saper rispondere a un limitato numero di domande tosto conosciute anche da chi non dovrebbe, cosicché l'allenare esaminandi è diventata una professione. Qualsiasi testone quindi, purché rotto ai trucchi scolastici e dotato di buona memoria, può mettersi a scuola da uno di questi professionisti e farsi rimpinzare il cervello di domande e risposte già belle e preparate che lo, o la, aiuteranno a far fronte, con una buona probabilità di riuscita, alle domande prescelte per ogni prova. La maggior parte degli impiegati nel servizio civile e dei laureati si son guadagnati a questo modo posto o laurea. Il sistema di cui sopra esclude dal successo i giovani dediti alla riflessione, i quali, sovente, non riescono a ritenere le cose inutili a ricordarsi, e si sentono stomacati di fronte ai testi scolastici, appunto perché affamati di libri scritti con intendimento d'arte o comunque atti a servir d'aiuto alla critica e allo studio dell'esistenza intiera. A conti fatti, il sistema vigente esclude dai posti più necessari proprio coloro che si dovrebbero scegliere.

Non per questo abbiamo diritto di condannare tutti gli esami in massa. Ogni sistema esaminativo può esser ridotto all'assurdo, se non all'ignominia, a causa di errori volontari o non nell'applicazione del metodo usato, o per la scelta di domande insulse che comportano viete risposte sovente false. Il male sta dunque nel metodo, nelle domande e nelle risposte, ma non nell'esame usato quale prova necessaria a stabilire un giudizio. Il rimedio non è di abolire gli esami e affidarsi alla sorte, proprio ora che la fortuna si è messa a far parte delle scienze matematiche, benché si debba riconoscere che le probabilità matematiche, dopo tutto, procurerebbero ai pubblici servizi un maggior numero di bravi impiegatucci anziché di idioti. D'altro canto, e per nostra fortuna, le probabilità matematiche danno per altrettanto improbabile l'immissione in tali servizi di superuomini (o debbo chiamarli cerebrotonici, seguendo le orme di Aldous Huxley e del dottor Sheldon?); e Dio sa che per mantenere in ordine un macchinario complicato quanto quello dello Stato moderno democratico ne occorrerebbero, di cerebrotonici!

E', ahimè, estremamente pericoloso lasciar disoccupati i superuomini politici: la disoccupazione dà loro agio di veder andare a carte quarantotto parecchie cose che, se ne avessero il potere, essi saprebbero rimettere a posto. Se sono uomini d'azione, presto o tardi saranno spinti ad appellarsi agli scontenti chiedendo loro l'appoggio necessario per tentare un colpo di Stato, rovesciare il Governo, e salire al potere. Se invece, a mia sembianza, si trovano a essere uomini di lettere, finiscono per impegnarsi in una propaganda di sedizione e di rivolta ben poco raccomandabile a mantenere lo Stato in buona salute. Voltaire, Diderot, Rousseau prepararono la strada a Robespierre e a Napoleone. Senza Lassalle, Marx, Engels e Richard Wagner, non sarebbero stati possibili degli Hitler e dei Mussolini; e nemmeno dei Lenin, Stalin e Ataturk. In Inghilterra, Carlyle e Ruskin, Wells e Shaw, Aldous Huxley e Joad, stanno spianando la via a Dio sa chi: probabilmente a qualcuno che essi, i saggi, disapproverebbero appieno. La democrazia deve trovar revisori più abili di quello che non possano esserlo i suoi letterati malcontenti, o altrimenti contenere alla meglio la loro agitazione rovinosa.

Oltre agli esami, possiamo ricorrere a particolari prove, atte esse pure al vaglio dell'intelligenza, prove che tanto interesse hanno suscitato nei moderni studiosi di psicologia. Sono specie di saggi di capacità in luogo dei puri saggi di memoria, che fanno rilasciare a tanti insegnanti e scolari mentalmente difettosi un buon certificato abilitativo. In quanto a me, non mi è ancora occorso d'incappare in una prova d'intelligenza che fossi capace di superare, o in un foglietto di tesi alle quali avrei saputo rispondere, eccetto in pochi casi in cui le mie risposte non sarebbero state quelle attese, ciò che mi avrebbe pur valso la bocciatura. Se questo effetto su di me sia a favore o a danno delle prove esaminative quali vengono concretate oggi, non spetta a me dirlo.

Possediamo, poi, svariate altre prove: prove endocrine, prove del sangue, prove batteriologiche, ed elettroniche. Gli studiosi dei laboratori credono di essere le sole autorità scientifiche, e vanno già immaginando il giorno in cui gli scienziati sapranno diagnosticare un'abilità politica potenziale e, fors'anche, praticare su infanti speciali inoculazioni che riusciranno a far di loro, all'età dovuta, primi ministri in gamba. Finora però questi sapientoni si sono dimostrati inesperti e politicamente irresponsabili; troppo spesso, pure, le loro scoperte non son state altro che buchi nell'acqua, cosicché essi non sono riusciti ad acquistarsi la fiducia necessaria al buon esito dei loro esperimenti. A ogni modo esistono in questa direzione alcune possibilità che è bene non sottovalutare. Lord Samuel, per esempio, suggerì un'operazione chirurgica: nella sua Utopia gli isolani vengono sottoposti a suture speciali che permettono al cranio di svilupparsi in modo di lasciar maggiore spazio ai cervelli, ciò che fa di ognuno di loro un cerebrotonico. Verrà forse il giorno in cui la misura dei cappelli di tutti i componenti del Governo sarà per lo meno di dieci pollici. E dire che il mio cappello misura al massimo sette pollici, virgola otto! I biologi matematici, impegnati a escogitar prove di attitudini professionali, sono parecchio più interessanti e molto più intelligenti, dei vivisezionisti. Finora però non sono andati oltre a qualche tentativo di classificare quali soldati, meccanici, o contabili potenziali, dei ragazzi tra gli undici anni e mezzo e i tredici e mezzo. I ministri di Stato e i superuomini cerebrotonici non sono ancora all'altezza della situazione, sebbene il loro linguaggio si libri in sfere per lo più inaccessibili all'intendimento dei lettori di questo mio libro (e non parliamo del mio!). Chiunque desideri approfondire il mistero delle proprie regressioni o dei propri coefficienti di correlazione, saper di più sulle proprie selezioni e misure multivariabili e univariabili, farebbe bene ad abbonarsi al "British Journal of Psychology", che prosegue l'opera principiata da Karl Pearson nella sua Biometrica. Le ricerche di questi scienziati, ricerche incruenti indolori e del tutto scevre da riflessi druidici o aztechi, non sono, a simiglianza del lavoro fisiologico fatto in laboratorio, piene di attrattive per teste di legno di poca fantasia. Gli statisti avveduti dovrebbero tenerle d'occhio, perché grande utilità si potrebbe ricavare dai loro progressi, se mai se ne otterranno.

Tanto negli ordini religiosi quanto nei partiti politici più giovani, noviziato e disciplina operano da vaglio nella scelta dei capi, siano essi spirituali o politici, e nelle opere di carità affinché queste vengano svolte per puro amore del prossimo. Le suore di carità indossano una veste antiquata ma attraente, simile a quella che in Francia, nel sedicesimo secolo, qualsiasi donna da bene di umili natali usava indossare. San Francesco di Sales aveva scelto quest'abito appunto perché non avesse menomamente a dare nell'occhio distinguendosi troppo da quello abituale a una comune popolana; oggi esso è divenuto una delle più avvenenti uniformi del mondo. Le suore di carità non fanno voto se non per un anno, ciò che ogni dodici mesi permette loro, se ne hanno voglia, di tornare nel mondo quali libere cittadine; nella congregazione non si trovano, perciò, cuori tiepidi. In Russia, il partito comunista con le sue leggi, la sua disciplina e le frequenti purghe, si libera pure dei cuori tiepidi. La Lega sovietica dei Senza Dio è altrettanto ardente nell'adorazione di Marx quanto i trappisti lo sono in quella di Cristo, ma infinitamente meno egocentrica e più socievole. Eccoci però di nuovo in acque fonde. I rapporti dello statista con la religione sono complicati e importanti quanto i suoi rapporti con la scienza. Entrambe le discipline non si accontentano di essere forze sociali dalle radici assai tenaci; esse sono forze anche pericolose dalle quali s'irradia una luce di speranza. Occupiamoci di esse.

Mi sono già abbastanza dilungato nell'esporre la facilità con cui pur di avere una preparazione pappagallescamente adatta, si riesce ad aggirare gli scogli delle licenze, e sul fatto che questo metodo esclude i candidati migliori, quelli che non dedicano ai libri di testo una fede supina, ma preferiscono pensare con il loro cervello. Nelle nostre università, appena gli insegnanti ai corsi si trovano in possesso di una qualche esperienza, essi non si sbagliano nel giudicare quali studenti sia meglio spingere sulla via dello studio in vista del puro sapere, e quali lasciar semplicemente arrancare verso la laurea che, una volta ottenuta, diverrà nelle loro mani la prova della classe sociale a cui appartengono, e sicuramente non il certificato di una cultura più vasta di quella richiesta ai camerieri che rifanno loro il letto nei collegi ove studiano. Qualsiasi insegnante esperto nella professione di preparare giovani agli esami necessari per essere ammessi alle carriere statali saprà senz'altro scegliere tra i suoi allievi quali faranno meglio agli Affari Esteri e quali all'Agenzia delle Imposte.

E' bensì vero che il giudizio sulla maggiore o minor probabilità per un candidato di passare o no un esame è veramente importante solo quando ha per scopo di riempire le file dei professori universitari e dei funzionari statali corretti. Il giudizio tuttavia è un'attività umana, e perciò fallibile; d'altra parte è il solo strumento a nostra disposizione quando si siano raccolte le premesse necessarie a usarne. E poi, se buttassimo a mare qualche sacco pieno delle nostre tesi d'esame, ciò non servirebbe a nulla, visto che niente di meglio abbiamo pronto. Bisognerebbe abolire l'uso del processo esaminativo singolo, sostituendolo con una serie di prove spartite lungo un periodo di tirocinio nel quale capaci insegnanti sottomettano i candidati all'osservazione critica della loro esperienza, così come si fa nell'esercito e nella marina mercantile o da guerra.

In quanto poi all'università, essa non mi pare un asilo per scolaretti; sarebbe perciò indicato mandare per un dato periodo i suoi aspiranti in giro per il vasto mondo a guadagnarsi di che vivere, così come usano fare gli adulti, in modo di stabilire un ponte d'esperienza tra gli studi scolastici e quelli universitari. I gradi accademici non si debbono ottenere per mezzo di una abilità tecnica, come un'abilitazione tecnica non la si ottiene con un grado accademico. Sarebbe bene che nessuno, mai, fosse creato insegnante senza che prima venga ben specificato in quale arte egli sia abilitato a insegnare. E' dannoso mettere nello stesso calderone il direttore di un collegio, persona piena di sapere ma capace a nulla, con l'uomo abile che non ha sapere ma sa far di tutto. Per dirla con espressioni dotte, la specie cogitiva dovrebbe essere distinta da quella conativa, non perdendo di vista il fatto che, siccome questi due estremi non esistono nel senso assoluto della parola, gli esseri umani non dovranno essere posti che sui punti intermedi della curva sviluppata fra i due tipi.

Tanti sono i mezzi con cui dissodare questo nuovo terreno che vorrei abbandonare il detto: «nel dubbio attienti a ciò che è già stato provato», adottando invece il motto che dice: «non fare mai ciò che è già stato fatto altre volte». Al presente ci tocca operare come meglio si può, pur di principiare. Il compito è troppo arduo per le mie sole forze, ma posso tentar di studiare qualche voce almeno del problema. Deve un uomo la cui professione si risolve nel dar consigli al pubblico essere un matematico? Sì e no. Non ripeterò mai abbastanza che i tecnici, benché indispensabili come esperti e assessori, non devono servir da giudici. Un Primo Ministro può benissimo non saper fare il conto della sua lavandaia; egli deve però intendersi abbastanza di matematica da capire che il renderne pubblico l'insegnamento è un provvedimento più importante che una qualsivoglia imposta sulle cipolline sottaceto. Non vorremmo certo essere governati dalla specie di quegli uomini i quali decapitarono Lavoisier dando come spiegazione che la repubblica non ha bisogno di chimici, o di quegli altri che spogliarono Einstein, confinandolo all'esilio, perché di lui capivano soltanto la sua qualità d'ebreo. Oggi, poi, a ogni più vaga minaccia di guerra, le nostre autorità non pensano che a vuotare il British Museum o il Royal Observatory riducendoli a uffici militari o magazzeni, e a richiamare sotto le armi il personale addetto ai due importantissimi istituti. Non è necessaria una speciale competenza tecnica a salvaguardarci da simili pericoli; basta un'oncia di buon senso, e un quarto d'ora di conversazione è sufficiente a giudicare se un candidato possiede quest'oncia o no. Ben inteso la conversazione non deve svolgersi in termini astratti, quei termini detti dal popolo "belle parole", tanto più che nel campo dei termini astratti le vedute dei nostri capi risultano tutte ineccepibili. Le belle parole sono paragonabili alle lettere dell'alfabeto usate quali segni algebrici, segni del tutto inutili se applicati a questioni pratiche o a determinare quantità ben definite. Gli statisti fanno bene a trovarsi d'accordo nell'asserire che una pinta equivale a venti once liquide; se però ne desumessero che una pinta di latte è l'equivalenza di venti once di gin, essi diventerebbero pericolosissimi ogni qualvolta si trattasse dei problemi inerenti alla nutrizione dell'infanzia. Si può essere abili quanto De Quincey e Ricardo nel capire la legge della "rendita", e ignorare al contempo l'esistenza del problema fondamentale che s'impone allorché si abbia a decidere quanto del patrimonio nazionale in terra e in denaro debba essere usato per l'agricoltura, e quanto, invece, investito nell'industria. La teoria della rendita non getta luce alcuna su tale questione; eppure, se gli statisti prendono una cantonata nell'applicarla, essi potran trovarsi tra le mani una nazione di agricoltori doviziosa di campi, ma scarsa di vanghe aratri e trattori atti a coltivarli, oppure una grande abbondanza di utensili e macchinari e nulla da mangiare. L'uomo non fa che muoversi fra questi due estremi. In Russia, la ricerca del punto giusto su cui stabilirsi venne condotta tra esperimenti ed errori e fu fonte di tali disagi, che il Governo sovietico sarebbe forse anche naufragato se non fosse stato per la paura che i contadini provavano all'idea di un possibile ritorno degli antichi proprietari. Il cibo si deteriora se non viene subito consumato, mentre gli utensili durano anche tutta una vita. Porto le mie chiavi appese a un anello che comperai a Dublino sett'anni fa per il modico prezzo di quattro pence, l'anello è sempre ancora atto all'uso, mentre di tutto il pane infornato allora, o della carne macellata, nemmeno un pezzetto si mantenne mangiabile una settimana.

Non certo meno importante della teoria sulla rendita è quella del valore. Il pericolo qui non sta, come nel caso della rendita, nel non aver teorie, ma nell'essere ossessionati da una teoria sbagliata, ciò che potrebbe in special modo capitare a un devoto del socialismo marxista. Marx dedusse la sua teoria sul valore - teoria alla quale attribuiva grande importanza - dagli studi di economisti classici fra cui Petty, Adam Smith e Ricardo che ritenevano di poter misurare il valore di una merce per mezzo del lavoro necessario a produrla, istituendo perciò il lavoro a misura del valore. Questa opinione venne scossa da John Ruskin, il grande artista filosofo britannico, allorquando egli indicò che il valore di scambio degli articoli prodotti dal lavoro per essere usati in commercio non può servire da indice al suo valore sociale, di cui sovente si trova a essere l'opposto. Il colpo mortale alla teoria del "Lavoro-Valore" venne dato dai matematici quando principiarono a curarsi delle scienze economiche. Il buon senso ha sempre riconosciuto al valore di un oggetto uno stretto rapporto con il desiderio che di questo oggetto si prova. La teoria laburista, invece, ammetteva un valore di utilità ma si adombrava di fronte alle sue continue variazioni, tantoché il valore pareva incalcolabile e impossibile a misurarsi con il metro della sua durata. I matematici si divertono al sentirsi dire che le variabili non possono essere calcolate. Quel genere di calcoli sta per l'appunto alla base del loro lavoro giornaliero. Essi proposero il caso di un uomo morente di fame e di sete in un deserto. Per un primo bicchier d'acqua e un primo grappolo di datteri quest'uomo darebbe certo tutto quanto possiede, mentre al ventesimo bicchiere o al ventesimo grappolo di datteri che gli venisse offerto non proporrebbe più nemmeno un centesimo. Vero quanto questo esempio è il fatto che ogni pagnotta sfornata dai panettieri di Londra va ad aumentare il numero delle pagnotte già sul mercato e automaticamente vale un pochino meno della pagnotta sfornata subito prima. I teorici laburisti bandirono dai loro calcoli questa differenza giudicandola infinitesima e incalcolabile. «Errore» dissero i matematici: «noi possiamo calcolare gli infinitesimali come voi potete contare i fagioli; questa è la nostra abilità per cui veniamo chiamati matematici puri.»

La teoria laburista è nata morta. Un Governo convinto che un portachiave e una pagnotta debbano avere valore purché rappresentino il medesimo numero di ore lavorative fa correre a un paese il rischio di trovarsi un giorno inondato di portachiavi e all'asciutto di beni mangerecci. Oggi giorno tocca ai Governi di fissare i prezzi, e i prezzi non possono, s'intende, variare fra portachiave e portachiave, pagnotta e pagnotta, come fa invece il loro valore. Impossibile imporre su un mercato due prezzi differenti per lo stesso articolo, perché mai una massaia si rassegnerà a pagar due ciò che può ottenere per uno. I prezzi, perciò, non rispecchiano fedelmente il valore. Alcuni beni di prima necessità come il sole, per esempio, non hanno prezzo: la natura ce li dà gratis. I brillanti, invece, benché del tutto inutili fino a quando non si sia saturi di ogni altro bene, sono valutati migliaia di sterline ciascuno.

Nella pratica commerciale - e qui la teoria di Marx ha ragione quanto quella di Ricardo - i prezzi sono in rapporto al costo di produzione del lavoro. Questo costo varia moltissimo nel campo della stessa produzione. A X... un pezzo di carbone costa la fatica di chinarsi a terra, raccattarlo, portarlo alla stufa, mentre a Z... per trovarlo si deve scavare un tunnel fino a un pozzo situato a parecchie miglia sotto il livello del mare. Una misura di grano del tal campo costerà una giornata di lavoro; e del tal altro, un paio d'ore. Nessuno però coltiverà una terra arida o trasporterà in un pozzo remoto le mine necessarie ad aprirlo, se prima la scarsità sia di grano sia di carbone non avrà fatto rincarare il loro prezzo fino al punto di rendere proficuo il lavoro in più necessario a produrli. Per la stessa ragione, quando le miniere e la terra sono di proprietà privata, e i proprietari si fanno concorrenza per accaparrarsi i clienti, sarà il costo della produzione peggio rimunerata a fissare il prezzo delle merci. Mentre invece un Governo a cui appartengano tutte le fattorie e miniere, tanto le buone quanto le infruttifere, può fissare il prezzo del carbone e del grano al medio costo di produzione dell'intiera voce: ecco il "valore" quale lo intendeva Marx, valore assunto dai socialisti - benché come teoria astratta l'abbiano rigettato - quale fattore specifico e pratico del loro piano economico. Esso diminuisce di molto il prezzo dei prodotti e permette così di dividere fra i consumatori il maggior utile ricavato dalla terra o dalle miniere più ricche, utile di cui oggi traggono unicamente profitto i fortunati proprietari i quali, si capisce, sono ardenti fautori dell'uguaglianza delle entrate purché non si tratti delle loro. Sotto il regime capitalista le entrate degli agricoltori si equiparano con le maggiori o minori rendite, e i lavoratori ricevono la stessa mercede, tanto se la terra o le miniere in cui lavorano sono altamente produttive, quanto se ripagano a mala pena il lavoro fatto. In quello stesso regime noi consumatori paghiamo un unico prezzo per il nostro carbone o per il nostro grano, o per qualsiasi altra merce vendibile, costi essa un'ora di lavoro o una settimana, sborsando in tal modo un prezzo troppo alto per i prodotti delle migliori terre o miniere, e uno sempre troppo inadeguato per i prodotti delle terre e miniere peggiori.

Qualsiasi aumento nel costo lavorativo della produzione finisce, dato l'aumento delle paghe, per rendere infruttifero lo sfruttamento delle miniere o delle terre di minor rendimento, ciò che equivale al loro abbandono fuorché nel caso in cui tutti i minatori e gli agricoltori si mettano a lavorare di più, sacrificando ore di riposo allo scopo di mantenere le scorte al loro livello primitivo. Un aumento di produttività, sia esso portato da una tecnica migliorata, da trasporti più veloci, o che so io, farà sì che miniere e terre di ancor minor rendimento saranno sfruttate, mentre né i prezzi diminuiranno, né le paghe verranno aumentate, né alcun vantaggio risulterà se non ai proprietari!

E' bene che i capi di Stati moderni retti da Governi miranti al benessere della comunità, e non al solo scopo di proteggere gli averi privati e la libertà dei proprietari capitalisti, studino questi problemi e cerchino d'intenderli. Essi sono tanto più delicati, in quanto i capitalisti ricorrono al comunismo per affidargli i vari servizi o le industrie che non permettono un profitto, sebbene tutta la loro vita dipenda da essi.

Vediamo quindi come sia necessario che gli statisti sappiano per lo meno quanto Ruskin non essere i prezzi commerciali o i profitti un indice direttamente proporzionale ai valori sociali ma, anzi, se posti al servizio dell'interesse privato, risultare spesso inversamente proporzionali ai medesimi. Essi dovrebbero sapere che il lavoro, benché necessario alla loro attuazione, non può assolutamente crearli: piuttosto, sarà il valore a creare il lavoro. Dovrebbero sapere che la rendita, chiamata da Marx "plus-valore", lungi dal non partecipare alla formazione del prezzo, come c'insegnano nelle università, ci costa una parte a volte cospicua di quanto spendiamo, e non può esser distribuita con giustizia se non fissando i prezzi al valore marxista, cioè nazionalizzandola: misura a cui si accede unicamente se la terra è di proprietà pubblica e non privata. Dovrebbero sapere che l'interesse è il prezzo d'affitto del capitale, e che si deve trattarlo alla stessa stregua. In breve, dovrebbero sapere moltissime cose che nessuno sa se non dopo un accurato studio di economia politica, studio giudicato un macigno dalla maggior parte degli elettori. Sarebbe anche bene che sapessero che la vendita delle merci al loro medio costo non soppianterà il nostro comunismo odierno, comunismo di ponti, strade, illuminazione stradale, acqua potabile, pompieri, polizia, refezioni scolastiche, ispezioni sanitarie, servizio militare, eccetera, e nemmeno verrà applicato ai liquori e agli stupefacenti.

Perché la democrazia risulti vera ed effettiva, lo Stato deve garantire un produttivo e ben regolato impiego della mano d'opera e i più alti salari che il paese possa permettersi; queste due premesse a ogni buon buon Governo debbono essere riconosciute diritti fondamentali di ogni cittadino e di ogni famiglia. Edificate su queste basi, e ben inquadrate da leggi protettive, tanto l'impresa privata quanto la mano d'opera assunta privatamente non possono apportare alcun male, anzi dovrebbero rivelare nuovi orizzonti, cosicché è bene incoraggiarle e dar loro i necessari sussidi. Ne segue che, sebbene gli azionisti calcolino il valore commerciale delle azioni dall'ammontare dei profitti e delle perdite da esse subiti, gli statisti debbono misurarli dalle cifre degli uffici del registro. La teoria dell'affitto economico o legge della rendita richiede molta abilità nell'applicazione. Tra l'affitto ricavabile da due acri di terra, l'uno posto nel bel mezzo della piana di Salisbury e l'altro in Lombard Street, la differenza non è tanto grande quanto tra i profitti di un Carnegie e quelli di un qualunque negoziante scozzese. E poiché un appezzamento di terreno, venga esso destinato alla coltivazione del grano o alla costruzione di una cattedrale o di un collegio, apporta al proprietario minor lucro che se lo destinasse a impiantarvi un totalizzatore, è più facile che un abile commerciante faccia denari indulgendo ai vizi dell'umanità che non un inventore o un filantropo ponendosi al servizio delle sue virtù e dei suoi bisogni. In Inghilterra un chirurgo può guadagnarsi centinaia di sterline per un'operazione grave, e tre sole ghinee per dire che l'intervento non è necessario. Il medico perde il paziente che guarisce, il buon cliente di un bar - colui, cioè, che beve più di quanto gli si confaccia - è un cattivo cittadino, e un lattoniere previdente si adopera a non render troppo durature le sue riparazioni. Risulta perciò disastroso, per lo meno in vista dell'interesse pubblico, concedere a qualsiasi individuo un guadagno pecuniario sulle malattie e sui guasti in generale. Non dimentico, certo, che gli uomini hanno una coscienza e non solo interessi egoistici. Le coscienze, però, dipendono dalle opinioni e nulla è più evidente del fatto che la maggior parte dell'umanità crede a ciò che le arreca profitto, a cui, perciò, vuole credere. Sotto il regime della libertà di contratto e del "laisser- faire", la nazione inglese venne rovinata e sciupata, condotta alla fame, all'assassinio e alla prostituzione; ma poiché i fabbricanti e i proprietari di miniere si arricchirono in un modo che allora sembrava colossale, il "laisser-faire" divenne la religione politica della borghesia inglese, classe, ciò non di meno, altamente coscienziosa. L'opinione prodotta dal desiderio non è un ritrovato nuovo; il pensiero è sempre frutto di desiderio, e non può, anzi, manifestarsi se non suggerito da esso. Per fortuna i desideri umani includono il desiderio evolutivo che spinge a fare il bene e ad assicurarci del grado in cui una verità è vera. Gli uomini di Governo forniti di scarso appetito per la verità sono pericolosi. Il "laisser-faire" cobdeniano è un terribile esempio dell'opinione prodotta dal desiderio dei profittatori. L'organizzazione dei sindacati operai, e le leggi a governo dell'industria, hanno impedito che esso arrechi il danno peggiore; esistono però ancora parecchie ditte che si rifiutano di trattare con le camere del lavoro, non tollerano consigli di fabbrica o di gestione, e mai impiegherebbero operai iscritti ai sindacati. Se un venditore ambulante dimostrasse di avere uno spirito così antiquato, certo gli si negherebbe la licenza di commercio.

Un uomo di Stato messo di fronte al ricavo dedotto da una data abilità può tollerare il fatto o confiscarne l'uso. Se una prima donna dotata di un'ugola estesa alle tre ottave riesce a riempire un teatro o un salone da concerto con un pubblico che per udirla paghi una somma variante tra una ghinea e uno scellino, essa guadagna un centinaio di migliaia di sterline, mentre la sua cameriera non riesce a intascare nemmeno un centinaio di migliaia di pence. Lo statista di buon senso non si preoccupa di simili cose visto che chi dà alla cantante una ghinea o uno scellino non s'impoverisce certo. Da parte sua la cantante deve far scale, studiarsi le parti o le canzoni, e mantenersi in efficienza, espletando un lavoro ben più arduo di quello a cui gran parte degli uomini d'affari si sottopongono. Più che giusto se ella conferisce pieno valore a denaro offertole con tanto entusiasmo! Si compri pure anelli zibellini e vezzi di perle (purché ne trovi nei negozi), non foss'altro che per tenersi su il morale, facilitando alla propria fantasia il compito di ravvisarla regina del canto. Il diritto, però, di creare una plutocrazia di prime donne o di sconvolgere l'equilibrio dello Stato nessuno certo glielo deve concedere, e nemmeno quello di vivere più comodamente dei suoi vicini, anche se avesse a sua disposizione mezza dozzina di castelli. Bisogna pure che si accontenti di un comune marito, a meno che non voglia sposare un rivale nella persona di un tenore di grido, altrettanto innocuo dal punto di vista sociale quanto lei. E' bene che qua e là vi siano individui provvisti di denari da buttar via, e non solo in castelli di pietra, ma pure in castelli in aria, importante ramo di costruzione questo, e in cui i Governi non hanno da ficcare il naso. Se le nostre cantanti minacciassero di combinar guai, si potrà sempre parare il colpo con qualche sovraimposta, o per mezzo della tassa di successione. Importa poco che la loro classe si componga di prime donne o di pugili: il loro numero è tanto esiguo che gente siffatta può solo recar danno a se stessa. Gracie Fields e John MacCormack, Gene Tunney e Joe Louis, Charles Chaplin e Greta Garbo sono in grado di ammonticchiare pile di dollari per ogni centesimo messo da parte dal comune dei mortali e procurare gran soddisfazione ai loro tifosi, senza che per questo qualche persona al mondo stia peggio di prima. Perfino i pochi autori e commediografi che con la loro penna riescono a guadagnarsi, oltre al puro e precario mantenimento, anche un po' di companatico, possono essere lasciati in pace, non fosse che allo scopo di tener in vita la letteratura, allettando qualcuno a farne una professione.

Tutti questi lavoratori d'arte ricavano il loro guadagno dal sudore della loro fronte e non da quello delle fronti altrui. Lo ricavano divertendo, intrattenendo e coltivando gli svaghi degli industriali loro vicini; tanto vale lasciarli liberi di trattare le loro mercedi purché, mentre stanno costruendo o minando la loro reputazione artistica, si assicurino loro gli ordinari diritti di impiego e svago. Il loro valore sociale è cospicuo, ma così incalcolabile e disordinato che il Governo può soltanto tenerli d'occhio lasciandoli liberi di arrangiarsi a modo loro, a condizione, ben inteso, che essi si mantengano ossequienti agli usuali ordinamenti di polizia, i quali, al loro confronto, non han bisogno di essere applicati con soverchia rigidezza. Il ricavo ottenuto dalle doti artistiche è, politicamente parlando, trascurabile; ma gli statisti debbono capirne il perché, e non vivere nella beata ignoranza della questione.

Essi debbono pur tener presente che, al disopra di una rendita media livellatrice delle classi, qualche fortuna eccedente la norma comune non risulta politicamente dannosa. Più che un sollazzo, essa è un fardello, per colui che la detiene, né gli conferisce alcun potere sugli altri individui. Oggi, il potere di A. con qualche migliaio di sterline all'anno, su B. detentore di poche ghinee la settimana, può risolversi in tirannia: diamo però a B. un paio di migliaia di sterline all'anno ed egli potrà prendersi il lusso di fare uno sberleffo ad A., anche se A. di sterline annue ne ha qualche centinaio di migliaia. I milionari di buon senso usano scaricarsi del soverchio denaro sulle fondazioni tipo Rockefeller o Carnegie, Pilgrim o Nuffield, Peabody o Guinness e sui premi Nobel e simili; oppure fabbricano cattedrali e trasformano in solidi mattoni e cemento castelli in aria. I patrimoni dei cervelli un po' corti son tosto dissipati e dilapidati, se non alla prima, certo alla seconda generazione. Allorquando socialmente ci equivarremo, fruiremo tutti di una comune uguaglianza in tutti i campi politici anche se qualcuno di noi incorrerà nella mala fortuna di possedere cinquanta mila sterline all'anno invece di cinquemila.

La ricchezza derivante dal commercio è lungi invece dall'essere politicamente trascurabile. Sebbene appena il cinque per cento del nostro popolo sappia e voglia occuparsi di affari, resta il fatto che il cinque per cento di quaranta milioni è bastevole a formare una classe di un paio di milioni di persone il cui immediato interesse pecuniario è anti-sociale, visto che meno pagano la loro mano d'opera più denaro rimane loro. E' altrettanto vero che quanto meno pagano d'affitto ai loro proprietari di casa e ai banchieri che li finanziano, tanto più han da spendere per conto loro; ma poiché essi intendono stabilire sé e i figli nella categoria dei proprietari e dei capitalisti - dei potenti, diciamo - essi buttano il loro cospicuo peso politico sul piatto della proprietà privata. La combinazione "proprietari abili al commercio" e "proprietari terrieri o di capitali" impone sul proletariato una tassa così enorme, e sotto parecchi aspetti così dannosa, che a un certo gradino di civiltà essa diventa una minaccia al bene comune. Nel diciannovesimo secolo l'Inghilterra raggiunse questo gradino, cosicché gli aspiranti al Governo, i quali non siano coscienti di ciò, dovrebbero essere privati del diritto elettorale e classificati non idonei alla pubblica cosa.

Ed eccoci ritornati al concetto per cui ogni cittadino ha il diritto di ottenere una occupazione che gli dia i mezzi necessari al sostentamento, questo quando l'impiego che ha non gli procura benefici commerciali. Dato che le aziende commerciali private esistono unicamente in vista del profitto commerciale che se ne ricava, la difesa nazionale dal pericolo della fame dev'essere organizzata e amministrata dallo Stato allo stesso modo di qualsiasi altra difesa nazionale. Attualmente l'associazione tra possessori di abilità commerciali e possessori di terreni è tanto fruttifera da permettere il riscatto dei proletari che non può impiegare traendone profitto, riscatto ottenuto con un sussidio il quale serve a far vivere in uno stato di ozio e di povertà avvilente. Intanto, parecchi lavori pubblici quali la costruzione di ponti, il tracciamento di strade, i piani regolatori di città, il risanamento dei quartieri più poveri, l'uso della marea e della forza vulcanica per l'incremento dell'elettrificazione sono trascurati, e più ancora lasciati in disparte. Chi non è capace di comprendere lo spreco e il male arrecati da un simile sistema può, nella sua vita privata, riuscire innocuo benché stupido, ma politicamente egli è un nemico pubblico e dovrebbe essere inabilitato in merito.

Bisogna tenere a mente che la relativa scarsezza di capacità commerciale non è prodotta soltanto da difetto d'ingegno affaristico, ma pure da profonda avversione, accompagnata sovente da strapotenti preferenze volte a occupazioni di maggior interesse. Osserviamo il caso di Shakespeare. Egli abbandonò presto la scuola nell'intento di aiutare il padre, commerciante assai conosciuto nella città di Stratford. La carriera successiva del poeta sta a dimostrare che con quel bel po' di allenamento egli avrebbe facilmente potuto prosperare negli affari. Mosso invece da una irresistibile vocazione letteraria e teatrale egli recise ogni legame col paese natio ed emigrò a Londra (cosa che feci io pure), dove gli riuscì di entrare nell'ambiente teatrale e di acquistarvi un certo nome organizzando il posteggio dei cavalli appartenenti agli spettatori di rango. Marlowe "dalla magna rima" era allora re tra i commediografi; ma quando poi morì, Shakespeare di versi magni ne aveva scritti a bizzeffe, e non solo di magni, ma anche di divertenti e pieni di senno. Egli aveva avuto l'incarico di ricomporre commedie antiquate e trasformare in drammi vecchi racconti, lavoro in cui riuscì tanto meravigliosamente da non sentire mai il bisogno di operare sul suo. Difatti, una volta sola nella sua breve vita (morì a 52 anni), inventò una storia genuina. Scrivere divenne dunque la sua maggiore occupazione; tuttavia, aiutato dall'esperienza acquisita in casa, egli coltivò di pari passo, o quasi, letteratura e affari, ottenendo un ottimo successo tanto che sui quarant'anni gli riuscì di ritornare a Stratford non più come Shaxper il fuggitivo cacciator di frodo ma nella parte di William Shakespeare, gentiluomo possessore di terre, di uno stemma gentilizio e dimorante nella casa più bella e nuova della via principale. I suoi colleghi provenivano in gran parte dai banchi universitari; i casi della vita non li avevan costretti a far pratica nel ramo degli affari, mentre, ahimè, li avevano indotti a scrivere in latino le didascalie delle loro commedie, cosicché non solo conoscevan la povertà, ma vi fu chi, a simiglianza di Chapman, il rivale numero uno di Shakespeare, visse e morì in relativa indigenza. Se John Shakespeare avesse potuto pagare al figlio gli studi universitari, William, probabilmente, l'avrebbe vista brutta.

Risulta da tutto ciò che l'attrattiva per il commercio proviene dai lucri che se ne possono ricavare, ed è tuttavia assai debole e rara se paragonata a quella prodotta dalle arti e mestieri, dalla scienza, dalle occupazioni all'aria aperta, le quali ultime comportano un contatto giornaliero con i miracoli, la bellezza visiva e il poema della natura. Non dunque la capacità di far denaro è rara, bensì il gusto e l'egoismo necessario a riuscire. Sarebbe assurdo credere che il Lawrence d'Arabia non avrebbe saputo fare buona prova nel lavoro del commerciante o dello strozzino; egli, però, deliberatamente scelse di guadagnarsi la vita prestando servizio nel più basso grado dell'aeronautica: preferì cioè quell'umile stato agli alti comandi, alla diplomazia o alla letteratura. Shakespeare maneggiò abilmente il suo denaro guadagnato nel trasformare cattive commedie in buone; ma corse il rischio di rendere quelle commedie troppo belle per essere intese dai suoi spettatori. Dickens, nell'ultimo suo romanzo, dipinse un carattere gretto, piccino, avido e codardo a tal punto da riuscire a non aver altro pensiero all'infuori di quello che l'incitava a far denari e diventare molto più ricco dei cittadini migliori di lui, per i quali il denaro rappresentava unicamente una fastidiosa necessità. La capacità commerciale è sovente pura avidità. Quando il commercio fosse privato dell'appoggio proveniente dalle scorte di denaro investibile in possesso dei proprietari e dei capitalisti, e di una mano d'opera ignorante e bisognosa da sfruttare, esso procurerebbe minor guadagno del lavoro manuale o meccanico specializzato. In Russia questo è già accaduto, e da parecchio tempo anche negli Stati capitalisti; vedi i rami del commercio minuto.

Intermezzo
Non sono giunto ancora alla fine della lista di cose che ogni cittadino dovrebbe sapere e capire prima di venir qualificato a occuparsi della cosa pubblica. Completare questa lista, o preveder aggiunte e cancellature del futuro, è opera troppo oltre il mio intendimento e la mia capacità. Mi debbo accontentare di mostrare le fondamenta economiche basilari sulle quali ogni Stato dovrebbe svilupparsi, e i risultati inevitabili a cui si va incontro se su quelle basi si edificano sistemi feudali capitalisti o comunisti, illustrando il mio dire con esempi tolti dal campo limitato del mio sapere e dalla mia propria esperienza. Ho tralasciato molte cose di cui altri scrittori si sono occupati, mirando più ai soggetti in genere trascurati, o a nuovi punti di vista provenienti da angoli negletti e non studiati ancora, piuttosto che ripetere all'infinito cose ritrite. Mi sono attenuto, per quanto possibile, a fatti contemporanei e del passato di cui, per quanto parziale possa essere la mia scelta e anche le citazioni, nessuno possa mettere in dubbio l'esistenza.

Abbandono ora questo terreno relativamente solido per le mobili sabbie dell'opinione e dell'ipotesi, trasbordando dalla fisica alla metafisica e dalla storia naturale alla filosofia. Dalla regione delle sequenze in cui i fatti s'inseriscono tanto regolarmente da poterli prevedere con una certa giustezza, a quella del pensiero (cornice di referenze) dove ci tocca sistemarli prima di averli potuti capire; dal disordine in cui si presentano in realtà, alle leggende e ai drammi in cui i cantastorie tentano di dar loro un senso intelligibile; transitando, cioè, dal piano razionale su cui ogni effetto ha la sua causa da cui precede (determinismo), alle congetture evoluzioniste, dove il desiderio per l'effetto, a volte in assoluta antitesi con la ragione e la prudenza, diviene esso stesso la causa, e dove fuggiamo dalla prigione del gigante disperato per inoltrarci sul sentiero che conduce alla Città Celeste [7].

37. DELLA FEDE E DELLA CONDOTTA
Ora non proporrò più nuovi soggetti da esaminare: ciò che basta basta, tanto più che per intenderli è sufficiente uno studio attento e lo scambio delle idee, per mezzo delle parole nonché dello scritto. Essi sono soggetti elementari e indispensabili, eppure la loro padronanza implica una naturale inclinazione politica ben lungi dalle pretese conoscenze dei plutocrati e degli arrivisti che ci governano. Al loro confronto l'esaminato si trova libero di sostenere la linea di condotta che giudica migliore. Nessun dogmatismo su questo punto: nessuna risposta prescritta alle domande, e nessuna tendenza ortodossa da dover seguire nei saggi e nelle conversazioni.

Ciononostante qualche assioma e qualche postulato bisogna pure accertarli: esaminatori ed esaminandi debbono a esempio convenire che due più due fanno quattro, e che il linguaggio da usarsi deve essere quello comune e sintattico; privato di tali accordi basilari la convivenza umana riesce impossibile. Se l'esaminatore dice: «due più due fan quattro; va bene?» e l'esaminato risponde: «no, non sono d'accordo»; questi deve essere congedato perché inetto. Ma se l'esaminatore dice: «siamo d'accordo nell'asserire che due dozzine di uova fanno 24 uova?», e l'esaminato risponde «no, 20 uova secondo me, perché la mia aritmetica che sarà, lo spero, l'aritmetica ufficiale del futuro, ha basi duodecimali», la risposta dev'essere giudicata soddisfacente. Essa prova non solo che l'esaminato conosce bene la tavola pitagorica, ma che in sovrappiù capisce come il sistema numerale, a simiglianza delle regole di pronuncia, sia pura convenzione atta a subire mutamenti e migliorie. L'esaminatore non deve però proseguire nelle sue indagini e domandare: «siete favorevole a un mutamento dell'ordine odierno?» trattando la risposta, affermativa o negativa che sia, in senso squalificativo. Allo stesso modo, quando i problemi industriali e terrieri sono sul tappeto, se l'esaminando nega che al mondo sia mai esistito qualcosa come la legge della rendita o il Proletariato o la Guerra di Classe, o il sistema Feudale o quello Capitalistico, lo si deve senz'altro bocciare perché ignorante e illetterato. Se invece egli dà prova di saperne sulla legge della rendita quanto ne sapevano Tommaso De Quincey e Henry George, e sulla Rivoluzione Industriale altrettanto di Karl Marx, non si deve domandargli se le conclusioni sue personali sono il Conservatorismo di De Quincey o la Tassazione Singola di George o il Sistema Rivoluzionario di Marx. Bisogna lasciarlo libero di addivenire da solo a una conclusione, poiché egli dimostra di conoscere i fatti accertati più rilevanti, e in breve sa di che si tratta.

D'altra parte la democrazia non può impegnarsi di concedere speciali poteri a tutti coloro che riescono a provare di sapere la teoria, e conoscere la storia e gli sviluppi dei sistemi politici di cui avrebbero da occuparsi in caso ne fosse dato loro l'incarico. Un esaminando può passare a gonfie vele qualsiasi prova e lasciare i cittadini che si propone di governare nella più assoluta oscurità sull'interrogativo se egli- o ella - sia un santo o un mascalzone, uno sciocco o un saggio. Egli o ella possono essere intelligentissimi e profondi in una data materia, senza provar per questo il minimo impulso a porre questi loro doni al servizio della comunità. John Bunyan, uno dei nostri conoscitori più autorevoli alla voce natura umana, spietatamente relegò il "signor Ignoranza" all'inferno, non omettendo tuttavia di chiarire che il "signor Saggio Mondano" e il "signor Cattivo" lo avrebbero raggiunto colà, benché negli affari fossero ben più abili di "Cristiano" o di "Fedele" o di "Speranzoso". Parecchi uomini buoni sono risultati pessimi come governanti. Pietro il Grande fece tanto in Russia per la civiltà, che perfino un santo umanitario quale il suo compatriota Pietro Kropotkin ammirava di lui questa sua passione. Tolstòi, un altro santo russo, non era capace di cavarsela negli affari: la sua «pazzia applicata a migliorare il mondo», così i figli chiamavano la passione del padre, lo conduceva alla rovina nella vita privata. Akenaton, nel quattordicesimo secolo avanti Cristo, e Amanullah, ieri, caddero in disgrazia quali monarchi seguendo la via fatale intrapresa dal nostro pio e sempliciotto Giacomo secondo. Luigi undicesimo di Francia, pio quanto Giacomo ma abile, lasciò alla morte finanze fiorenti, tali da poter sopportare le follie dei suoi successori fino a che, nuovamente all'orlo dell'abisso, Enrico quarto le rimise in sesto. Dio sa se questo monarca era lungi dall'esser pio, tanto che mutò religione con un motto di spirito. La sua vita privata, imitata in ciò dal suo nipotino, il nostro Carlo secondo, fu alquanto dissoluta. Altri sovrani irreprensibili sono finiti in esilio, o decapitati o comunque uccisi. Allorquando a Waterloo la disfatta di Napoleone assunse un aspetto definitivo, Byron, il miglior cervello d'Inghilterra, si sentì "damned sorry" [8] e Beethoven, il più nobile spirito della Germania, "atterrito". E' che Napoleone, volgarmente ambizioso qual era, fece di più per la Francia, anzi per l'Europa, del virtuoso abate Siéyès. Il duca di Wellington, vincitore di Napoleone, era certo un soldato dalle vedute molto più originali e dal carattere ben più nobile dell'imperatore dei francesi; tuttavia era privo nella vita politica di quel dono di previsione che conduce ad aver fede in un possibile mutamento della natura umana, purché si provveda a migliorarne le condizioni materiali e morali. Robert Owen possedeva, lui, il dono della previsione e la fede, ma fuori dall'uscio delle sue fabbriche non sapeva più trattare con il mondo. Un giorno, mentre a un comizio stavo perorando la causa del socialismo, venni controbattuto da un oratore il quale mi disse di aver preso la parola non perché dissentisse dai miei argomenti o da quelli degli apostoli di Owen, ma perché i caratteri e la condotta di questi stessi apostoli non erano in armonia con le loro professioni.

Ne risulta che, sebbene i candidati alla vita pubblica possano essere squalificati causa la loro ignoranza e la loro incomprensione politica, il contrario non deve senz'altro garantirne la qualifica. Dovrebbe, al massimo, assicurare l'iscrizione dei loro nomi fra quelli dei cittadini ritenuti più capaci di dedicarsi all'attività politica nei suoi vari aspetti e gradi, atti, perciò, a essere eletti. Quando una persona qualsiasi presenta la sua candidatura a un dato posto, o per qualche elezione, i quesiti che gli esaminatori non gli faranno sono per l'appunto quelli che gli elettori e membri dell'amministrazione civile vorrebbero proporgli. In un esame Adolf Hitler batterebbe di gran lunga George Washington (il suo libro "Mein Kampf" contiene parecchi saggi di giusta dottrina); ma poiché le sue conclusioni includono l'egemonia tedesca, l'assoggettamento dei non ariani, la distruzione degli ebrei, e tutto un sistema di assassinio degli ostaggi e di terrorismo militare, apparve così poco saggio lasciarlo in possesso del potere politico, che sulla premessa di questa obiezione si promosse una guerra mondiale. Egli non ha mai compiuto un atto di giustizia, né ha amato la clemenza, né lo si è veduto camminare umilmente al seguito del suo dio. Nemmeno noi, o i nostri alleati, abbiamo saputo far tanto, ma questa non è una ragione per tollerare il signor Hitler: lo è, invece, per addivenire a riforme in noi stessi e debellare lui.

I nostri governanti non debbono accontentarsi di essere colti e capaci; li vogliamo anche buoni e retti. Per questo gli aspiranti alla politica farebbero bene ad avere una condotta esemplare. Ma come giudicarne? Facile risulta l'accertarsi se un esaminando ne capisce qualcosa di questioni bancarie, o di assicurazioni, o di feudalismo, o della precessione degli equinozi, poiché, qualunque siano le conclusioni a cui si addiviene a loro riguardo, queste conclusioni sono accertabili dai fatti. Il giudizio da darsi sulla condotta poggia invece su opinioni variabilissime. Il furfante di oggi può divenire il santo di domani. Nel secolo scorso Shelley, Tom Paine e Mary Wollstonecraft furono messi al bando perché nemici di Dio. Oggi, questi stessi personaggi son famosi per le loro virtù pubbliche, benché in privato si siano comportati scandalosamente. Chi può dire perché si è loro perdonato, perché anzi li si ammira?

Semplicemente perché le nostre nozioni di condotta esemplare privata passano sveltissime di moda. La Chiesa cattolica romana proibisce il matrimonio fra cugini primi e ai suoi sacerdoti nega qualsiasi matrimonio. Nella legge mosaica un uomo deve sposare la vedova del fratello sotto pena di incorrere nella pubblica ignominia. Nella tragedia di Amleto, invece, il re che agisce a questo modo è tacciato d'incesto. La legalità concessa recentemente a questo genere di matrimoni fa sì che essi appaiano oggi convenienti e naturali, cosicché la tragedia shakespeariana dovrebbe esser giudicata priva di senso, se non fosse che, il re essendo pure assassino, possiamo in ogni modo provar per lui una giusta ripulsa. In alcuni ambienti, poi, una ben più evidente consanguineità rende obbligatorio il matrimonio. All'epoca della nostra lotta contro Napoleone il destino dell'Inghilterra dipendeva da due capi: Wellington e Nelson. Di Wellington, Tennyson scriveva: «Qualsiasi azione commessa da lui venga alla luce, egli non avrà mai da provarne vergogna». Intanto, Nelson aveva abbandonato la moglie e condivideva quella di sir William Hamilton; con ciò, Nelson era certo il più popolare fra i due grandi uomini. Di Daniel O'Connell, celebre patriota irlandese e buon cattolico, veniva sussurrato a Kerry, il suo paese natio, che non si poteva buttare un sasso in loco senza colpire uno dei suoi figli illegittimi. A ogni buon conto, alle signorine del secolo scorso non era permesso di leggere, e nemmeno menzionare, Shelley o Byron, e Parnell e Dilke furono politicamente annientati causa la loro condotta sessuale dipartitasi da certe convenzioni.

Che dire dello straordinario caso impersonato dal mio santo omonimo, Bernard di Clairvaux? Egli sapeva tanto bene controllare il proprio carattere, e il carattere aveva così dolce, l'intelligenza così sicura e gli interessi volti a scopi così divini che, sebbene fosse soltanto un frate questuante promosso abate, gli riuscì in pieno turbolento dodicesimo secolo di far intender ragione e pacificare baroni, predoni e imperatori, personaggi usi tutti a guerreggiare tra loro. All'epoca in cui studiavo la sua vita scrissi: «Usiamo imparare la storia dalle gesta dei nostri furfanti: quando incominceremo a impararla da quella dei nostri santi?». Il suo posto nella storia sarebbe fra i più eminenti uomini di Stato. Se errò, come a esempio nella sua predicazione a favore della seconda crociata, il suo errore fu del tutto religioso, dovuto al culto del Cristo deificato peculiare alla Chiesa a cui apparteneva. A ogni modo la sua regola di vita personale non è da additarsi a esempio, dato che, se tutti vivessero com'egli visse, la razza umana sarebbe tosto estinta: il suo celibato è un delitto sociale e la sua auto-mortificazione un suicidio.

Queste ultime colpe a suo carico sollevano una questione d'importanza vitale. Era san Bernardo un masochista suicida o non era egli piuttosto un uomo voluttuoso, dai sani istinti volti a più alti valori, valori del tutto diversi da quelli patrocinati da un Falstaff o da un Anacreonte? Ci sarebbe da chiedersi se il concetto secondo cui la virtù consiste nella negazione della propria natura - concetto partecipatoci dallo stesso Iddio per bocca di William Law nel suo "Serious Call" non sia altro che un tradizionale e pernicioso errore, maliziosamente inculcato dai profittatori al fine di mantenere il desiderio di eterna felicità delle classi più povere fisso in un altro mondo immaginario, piuttosto che volto al socialismo e al sindacalismo. E' l'automortificazione una virtù cristiana? San Bernardo si ridusse volontariamente alla fame abbandonando il vino per l'acqua, e il lusso per la povertà. Gesù invece mutò l'acqua in vino, ricusò di digiunare, sedette a banchetto con i funzionari del Governo di Roma e si dolse di essere chiamato ghiottone e beone per il solo fatto di non praticare le austerità a cui Giovanni Battista si sottoponeva. Mai, nel Vangelo, si fa cenno a un diniego del Cristo di fronte a qualche dolcezza capitatagli fra le mani, e compatibile con la sua vocazione. Perché, allora, san Bernardo si mise tanto d'impegno a rifiutarsi ogni conforto, e fondò l'Ordine cistercense imponendo disagi e astinenza a chiunque si convincesse di dover prendere il saio? E come mai questo suo ordine raccolse tanta simpatia da riuscire a moltiplicarsi come i funghi per tutta la cristianità e anche altrove?

Forse è bene classificare fra i voluttuosi nati coloro che giudicano normale una vita di negazione della propria natura, voluttuosi, e in sovrappiù masochisti, poiché intendono di imporre il loro gusto di autotortura a gente che avrebbe tendenze gioconde... Veramente buono è chi è buono perché tale gli piace essere. La sua vita, per buona che sia, diventa allora una vita di auto-affermazione, non certo di auto- diniego: così egli è fatto, e non per merito proprio bensì del suo fattore, lo si chiami Dio oppure Evoluzione Creatrice.

Mi è capitato di trovarmi discepolo del mio santo patrono nel rifiutare di mangiar carne pesce e selvaggina, di fumar tabacco e qualsiasi altro ingrediente, di stimolare in alcun modo il mio io a mezzo di alcoli e droghe. Non vado attorno vestito di un saio, ma per vestirmi spendo forse meno di quanto alla stessa voce spende un uomo che fruisca della venticinquesima parte delle mie entrate. Da quasi cinquant'anni ho a mia disposizione una rendita da me non guadagnata che mi permetterebbe di vivere comodamente senza lavorare; eppure, come qualsiasi proletario, faccio il mio compito giornaliero. Se la santità consiste in questo genere di astinenze e fatiche, porrò forse la mia candidatura per un posto nella comunione dei santi accanto a san Bernardo o a qualsiasi altro eroe degli agiografi.

A chiarire il mio tenore di vita corre una leggenda la quale fa derivare i miei gusti dall'educazione strettamente puritana impartitami da fanciullo, educazione che avrebbe impresso nel mio carattere il marchio del "Serious Call" di Law. Poche favole sono meno consone alla verità. La sola credenza impostami nell'infanzia, colorita di protestantesimo irlandese, poneva all'inferno al momento della morte tutti i cattolici romani come tali, e in paradiso tutti i protestanti purché fossero stati bravi bambini. Abbandonai questa credenza quando le mie sottanelle si trasformarono in calzoni alla zuava; in quanto al resto della mia educazione, essa mi veniva impartita in una atmosfera familiare così scettica, così zingaresca e anarchica, e basata su un punto di vista estetico, che nella mia adolescenza mi professavo ateo e, mentre non provavo rispetto alcuno per la S.S. Trinità, ne risentivo uno profondo e duraturo per Michelangelo e Raffaello, per Handel, Mozart e Beethoven. Mi dedicai alla letteratura non per entusiasmo o ambizione, ma perché l'avevo nel sangue. Sono a ogni modo l'ultimo essere al mondo da potersi catalogare, sia nella pratica sia nella teoria, fra gli asceti. Quando rifiuto di bere il maraschino e accetto invece il succo di mele, posso unicamente apparire a qualche dissennato altrettanto eroico di san Tommaso d'Aquino o san Bernardo all'atto in cui respingevano investiture vescovili. Fatto sta che il succo di mele mi piace molto, mentre preferirei ingoiare petrolio piuttosto che maraschino. Non sarebbe più semplice trovar la verità nel fatto che, poiché i due summenzionati santi differivano nei gusti da Becket, Wolsey o Richelieu, essi davano infinitamente meno valore alle mitre, alle berrette scarlatte e alle ricchezze che non alla solitudine, ai rapimenti e alla vita semplice dei monaci? Bene conoscevo Lawrence, quello d'Arabia; so perciò che egli scelse di appartenere al più basso rango dell'esercito, rifiutandosi di dare ordini e classificandosi illetterato, non perché fosse umile e modesto, o comunque desideroso di autosacrificarsi, ma perché giudicava di poter essere più libero quale semplice aviere che non alla mensa ufficiali. Stalin superò di gran lunga Lawrence in quanto dal nulla sociale, benché privo di un titolo qualsiasi o di un portafoglio ministeriale, pervenne al fastigio del potere. Soltanto molto più tardi, quando ebbe da firmare trattati e concretare con i suoi alleati occidentali operazioni militari, egli si trovò nell'obbligo di doversi conferire i titoli di Primo Ministro e di Maresciallo. Bene sarebbe considerare questi casi mantenendosi puri da ogni pregiudizio, poiché, se basato su termini astratti, il discutere sulla rettitudine personale è una perdita di tempo.

Concesso che san Bernardo e san Tommaso fossero irriducibili egoisti del mio tipo, e che tutti e tre, andandocene per i fatti nostri, abbiamo trascurato allo stesso modo gli interessi e i desiderata delle nostre rispettive famiglie, e che sempre e a qualsiasi costo nostro o degli altri ci siamo scelti la vita a noi più consona, perché i due santi han fatto tanto da uccidersi di stenti e fatiche mentre erano ancora relativamente giovani (avevano metà degli anni che ho io oggi sulle spalle)? Non fu certo perché giudicarono di essere servi e strumenti di Dio, poiché io mi credo servo e strumento della Evoluzione Creatrice, e appunto per questa ragione mi permetto di calcolarmi religioso quanto loro; religioso: individuo cioè, per cui il mangiare, il bere e il riprodursi risultano essere necessità fastidiose, tanto più se confrontate con l'impulso verso un più vasto e profondo sapere, verso una più alta comprensione, verso una maggiore capacità di controllo su se stessi e sulle proprie condizioni di vita. Così stando le cose non vedo il perché non dovrei essere canonizzato anch'io, e dopo tutto chissà che un giorno o l'altro, dopo la mia morte, non lo sia.

A ogni modo una differenza esiste. San Bernardo credeva in una vita eterna e individuale, retaggio di ogni creatura umana dopo morte. Egli credeva che la felicità nell'altra vita, benché non certo meritata da creature peccatrici quali siamo, ci sarebbe concessa sull'assunto che tutte le nostre colpe sono già state espiate, e assai in anticipo, dalle torture subite da Gesù e dalla sua morte, da quel Gesù cui Dio aveva imposto l'obbrobrio delle nostre iniquità. Per conto mio non credo a tanto e mi stimerei ben poco se permettessi ad alcuno di scontare in vece mia i miei peccati. D'altra parte, l'idea che l'assai poco soddisfacente prodotto del l'Evoluzione Creatrice contrassegnato dalle iniziali G. B. S. debba esistere per sempre, invece di subire un processo di spersonificazione e venir rimpiazzato da qualcosa di meglio, non soltanto riesce ostica e intollerabile alla mia fantasia, ma certamente a qualsiasi altra. E qui, sia nei fatti sia nella morale da dedurne, mi trovo in aperto contrasto con l'abate di Clairvaux.

Il coraggio e l'umiltà di san Bernardo provenivano dalla sua fede per cui si credeva servo di Dio; il mio coraggio e la mia umiltà vengono invece dalla mia fede, di lontano imparentata con la sua, che mi fa credere servo della Evoluzione Creatrice e rende la mia suprema aspirazione una semplice aspirazione evolutiva. A questo punto tra me e il mio santo patrono si stabilisce un'altra profonda differenza, poiché egli concepiva Dio onnisciente, onnipotente, supremamente giusto e infallibile, mentre a mio parere l'Evoluzione Creatrice procede per mezzo di prove ed errori, fors'anzi di prove e fallimenti. Il mondo è tanto sovraccarico di questi fallimenti che ci tocca sprecare gran parte del nostro tempo a eliminarli per evitare di venir eliminati a nostra volta. Non esiste così, per me, un Problema del Male, mentre per Bernardo di Clairvaux esso è insolubile, tanto che l'unica soluzione possibile egli la trovò nel mito del demonio in contesa con Dio per il possesso della terra, e da Dio tollerato quale prova della nostra virtù.

Il vantaggio del mio punto di vista, per lo meno dal lato politico, è che non correrò mai il rischio di credere che, quale strumento dell'Evoluzione Creatrice, io sia immune da errori mentre eseguisco la parte del suo travaglio a me affidata. Poiché essa procede attraverso prove ed errori, altrettanto debbo fare io. I suggerimenti da me offerti agli uomini in questo libro sono i migliori che io possa dare all'epoca in cui vivo e alla mia età; ma nulla impedisce che essi siano errati. Avrei probabilmente fatto meglio a scrivere una commedia. Un servo di Dio, invece, sebbene convinto di essere miserabile e peccatore, è portato a credere che nell'atto in cui mortifica la propria carne, o comunque agisce in nome dell'Ente Supremo, egli sia nel giusto perché, indirizzato da Dio, esercita allora la suprema autorità divina. San Bernardo, per fortuna, credeva in un Dio di misericordia e giudicava Cristo il principe della pace. Fu questo concetto a farlo santo. Ma è quale servitore di Dio che Carlo Magno uccise per direttissima tutti i prigionieri di guerra che rifiutavano di abbracciare il cristianesimo; che Torquemada divenne uno dei più abbominevoli tiranni della storia; e che coscienziosi e pii imperatori cristiani quali Carlo quinto e suo figlio Filippo secondo sono oggi ancora esecrati per le crudeltà commesse nei Paesi Bassi. Quando Samuele Butler, il vittoriano predicatore della dottrina laodicea, ci consigliava di non prender troppo a cuore le nostre convinzioni, egli aveva sott'occhio molti ferventi che da Carlomagno e Robespierre a Hitler commisero atrocità chiamandole "sanzioni" cosicché, uguale in ciò al suo grande contemporaneo norvegese Ibsen, egli giudicava la civiltà una specie di melodramma in cui buon numero dei furfanti sono piissimi idealisti.

Da quanto sopra, si vede come la diffidenza britannica per i servitori di Dio, e la preferenza data ai personaggi cauti, scettici e opportunisti quali sono i primi ministri, affonda le sue radici in un terreno di amara esperienza. Il guaio è che un semplice opportunista non sa creare le occasioni; egli è unicamente capace di afferrarle quando altri le fanno nascere, e anche allora si corre pur sempre il rischio che egli non le scorga o che addirittura le scambi per un pericolo pubblico. Non importa se da un punto di vista intellettuale egli si trova in testa alla lista dei candidati poiché, se oltre a saper afferrare le occasioni non sa anche crearle senza per questo credersi un Jehovah o un Cristo, anche se solo di cartapesta, è meglio abbandonarlo alla vita privata.

Secondo la mia visuale del mondo lo statista deve aver qualità religiose: è bene, però, che egli sappia liberare la sua religione da qualsiasi elemento meno che universale. Nulla di male se concentra la sua visione della razza umana nell'universalità della Chiesa cattolica, purché non prenda parte decisa per il cattolicesimo anglicano o per quello romano, e, se in biologia egli è portato a personificare il fattore creativo in Dio, si astenga almeno dal nazionalizzare questo fattore in Jehovah, Allah, Budda, oppure Brahma. Soprattutto non deve aspettarsi che Dio faccia in vece sua il lavoro per cui egli è al mondo. Deve considerarsi servitore fallibile di un fallibile Iddio, e agire e pensare per quel suo Iddio, poiché Dio non potendo raggiungere i Suoi scopi senza l'ausilio di mani e di intelletti ha fatto evolvere le nostre mani e i nostri intelletti al fine di agire e pensare per Lui: in breve, noi non siamo nelle mani di Dio, ma Dio è nelle nostre. Un uomo di Stato non deve esclamare impotente: «Sia fatta la volontà tua»! Deve indovinarla, questa volontà, e tradurla in pratica. Il suo Dio non dev'essere una perfezione reale, onnisciente e onnipotente, ma soltanto un ideale verso cui l'Evoluzione Creatrice sta arrancando seguita dall'umanità, la quale, per ora, è il suo tentativo meglio riuscito per quanto lungi dall'essere soddisfacente, poiché soggetta a venir sostituita da un momento all'altro quando l'Evoluzione Creatrice, priva di illusioni, l'abbandonerà alle sue sole forze. Al male del mondo, che praticamente riduce all'assurdo la bontà divina, egli deve far fronte come a un residuato di errori, intesi in origine al bene. Può considerare eterna la vita, purché nel trattare con i contemporanei non scordi che essi sono effimeri e mortali, e che nell'oltretomba non godranno di alcun'altra vita a compensarli delle ingiustizie patite in questa.

Ma sarebbe certo difficile formulare tutto ciò in un catechismo, e stabilire quale condizione "sine qua non" alla carica di Primo Ministro la conoscenza di tale catechismo, pretendendo in soprappiù la fede giurata nel credo ivi esposto; si dovrebbe poi aggiungere un articolo che decretasse atto fellone l'apostasia. E' questo il metodo da noi oggi usato per rendere permanente il cristianesimo. La Chiesa d'Inghilterra è riuscita a elaborare 39 articoli a questo proposito, e nessun savio di mente riuscirà mai a crederli tutti; ciononostante, ogni qual volta un sacerdote sta per entrare in possesso di un beneficio ecclesiastico, e il vescovo al cospetto dell'intiera congregazione gli chiede se crede nei 39 articoli, egli deve mentire. Il vescovo, che a suo tempo dovette pure mentire, sa della menzogna, e i pochi membri della congregazione a conoscenza degli articoli lo sanno pure. E' questo il prezzo che i sacerdoti candidati a una prebenda debbono senza alcuna logica ragione pagare per seguire la loro vocazione, ed è decisamente un prezzo scandaloso, sebbene esso serva ad assicurarci che il nostro clero sia abbastanza laodiceo da saper dire in date occasioni bugie madornali, e che i quaccheri o qualche altro molesto fanatico del genere vengano scomunicati. Una Chiesa che non possiede abbastanza energia spirituale per recidere dal suo rituale ogni ramo secco ed essere alla testa dei suoi seguaci, invece di restare qualche secolo indietro a essi, non è una vera Chiesa. Il fatto, poi, che essa non incontri difficoltà nell'ottenere da maestri e da uomini politici di sapere più profondo del suo queste professioni di fede sta a dimostrare la futilità dei credo, dei catechismi, e dei giuramenti intesi quali testimonianze di condotta e di carattere.

I partiti politici quanto le Chiese stanno a dimostrare lo stesso fatto; i loro programmi e i loro credo sono ingoiati e rigurgitati proprio come si usa fare con gli articoli religiosi: ministri saliti al Governo in virtù di un più volte manifestato socialismo intransigente usano del loro potere per fare null'altro che impedire qualsiasi possibile mutamento; i più favoriti tra i conservatori, quelli appartenenti alla lega della Primula, presentano alla Camera leggi per opporsi alle quali furono eletti. Non che io li critichi per questo: il progresso è impossibile senza mutamenti, e chi non sa cambiar d'opinione non sarà mai capace di cambiar cosa alcuna. I credo, gli articoli di fede e le istituzioni religiose calcificano i nostri cervelli e li rendono inabili a mutare; sono perciò da catalogare fra le cose dannose e, in pratica, è bene ignorarli.

Credo e istituzioni religiose servono però a porre un importante quesito: poiché le fedi politiche possono e debbono cambiare, non esisterebbero dunque verità eterne e immutabili? E, in caso negativo, non dovrebbero ugualmente, statisti ed elettori, agire verso qualsiasi assunto provvisorio, se mai c'è da agire, come fossero verità eterne? Non diceva Voltaire che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo? E dopo molte prove ed errori nell'esercizio del potere mai raggiunto da Voltaire, non arrivò Robespierre alle medesime conclusioni? Non sarebbe forse bene tollerare un governante che odia la giustizia, ama la crudeltà e calpesta orgogliosamente il proprio Iddio, poiché l'ingiustizia, la crudeltà e l'infedeltà non solo risultano a volte espedienti inevitabili ma anche necessità logicissime? Logica a parte, non dovremmo noi per puro sentimento stabilire una linea divisoria tra il male e il bene?

La risposta è, che, lo si debba o meno, la linea la tracciamo, e sempre la tracceremo. Per quanto in cima alle liste di eleggibilità un cittadino sia, prima di eleggerlo o nominarlo a qualche carica dovremmo tentar di scoprire in quale punto egli abbia fissato la sua linea di demarcazione. Ignoro, però, il metodo che possa aiutarci in questo frangente. Un secolo fa, chiunque professasse il libero pensiero, o sentimenti repubblicani, o anche solo di cooperazionismo, era giudicato reprobo. Più tardi si incominciarono a tollerare i dubbi sull'esistenza delle fiamme infernali, e sulla risurrezione: alla stessa epoca fu concesso agli uomini di convivere con le sorelle delle loro defunte mogli senza per questo incorrere nell'ostracismo; le antiche leggi istituite a prevenire l'apostasia, l'oscenità e la sedizione, benché non venissero respinte come viete, furono mitigate o tacitamente ignorate, se non a volte addirittura soppiantate da qualche nuova legge. Con sempre maggiore evidenza si poté osservare che gli scettici, i ribelli e gli eretici erano sovente uomini retti e sinceri, mentre rigidi conformisti si rivelavano spesso di nessuna capacità all'infuori di quella dovuta a un fenomenale egoismo. Nel fare la divisione tra candidati buoni e cattivi - e a questa divisione, ragionevole o no, ogni elettore deve addivenire con altrettanta inevitabilità e naturalezza quanta ne impiega nel respirare - le classifiche non danno alcun affidamento. Molteplici elettori britannici hanno per regola di votare contro gli ebrei, i gesuiti, gli irlandesi appartenenti alla Chiesa cattolica, gli atei, i socialisti, i repubblicani, i proibizionisti - e chi più ne ha più ne metta - mentre altri partono proprio dall'opposta convinzione. Ecco le sole divisioni di cui sono capaci e, se la loro scelta fosse fatta da una lista, non vi sarebbe di che preoccuparsi; a ogni modo, però, sarebbe bene privarli dei diritti elettorali.

Di solito in Inghilterra la scelta elettorale non può ancora essere istintiva, e questo perché i nostri governanti sono per lo più eletti da persone che non li hanno mai veduti e che nulla sanno della loro vita intima. Le votazioni vengono perciò fatte in conformità delle liste presentate dai vari partiti, o dei credo religiosi, o dei pregiudizi sociali, e sotto la pressione di propagande e sollecitazioni più o meno attive.

Oltre alla propaganda occasionale dei comizi elettorali abbiamo l'incessante propaganda espletata dalle varie Chiese e dai movimenti di questo o quell'indirizzo, ognuno dei quali cerca di far proseliti tentando di persuadere il pubblico che sul proprio argomento esso solo è autorevole, e solo detiene il segreto della eterna verità. Alcuni, poi, si dichiarano addirittura le sole autorità esistenti, capaci a chiarire qualsiasi soggetto. A noi tocca accettare queste pretese poiché, visto che le decisioni debbono pur esser prese o da un individuo o da una congrega di individui, siamo costretti, almeno per il momento, a trattare questi "decisori" come infallibili.

Ex-cathedra, il Papa è infallibile; il Comitato giudiziario della Camera dei Lords è infallibile; l'Accademia reale delle Belle Arti è infallibile; il Consiglio generale di medicina è infallibile; la Bibbia è infallibile; il Governo è infallibile; le Corti marziali dei tribunali speciali sono infallibili; e il re non può in nessun caso commettere male azioni. Tocca a noi giudicare della verità di queste asserzioni sottoponendole alla luce delle migliaia di volte in cui tutte queste autorità hanno errato e rierrato.

38. RIBALDERIA COLLETTIVA
Ribaldo è colui che si prefigge il conseguimento della propria soddisfazione senza tenere in alcun conto i sentimenti e gli interessi altrui. Gli individui isolati riescono difficilmente a raggiungere la perfezione nella ribalderia, benché vi sia chi a questa perfezione è andato tanto vicino da aver resa necessaria la propria liquidazione. Cartouche, Titus Oates e coloro che come mezzo di sussistenza scelgono di sposarsi, mettere una assicurazione sulla vita della moglie e poi assassinarla, hanno certamente commesso qua e là qualche buona azione; ciononostante nessun governante degno di questo nome esiterebbe un istante a condannarli a morte. Nell'attesa di qualche scoperta che serva a mutar la loro natura essi debbono essere affidati al boia, così come alcune escrescenze maligne vengono affidate al chirurgo.

Per gli individui organizzati in blocchi la cosa è diversa. Se ordinati in Stati, Chiese, professioni e compagnie commerciali, essi non solo commettono le più orrende atrocità ma si appellano altresì al diritto di commetterle, gloriandosene come si glorierebbero di un trionfo nazionale. La Cristianità viene soppiantata dalla Ribalderia; e nel regno dei ribaldi i Governi incorrono nell'obbligo di sanzionare o escogitare, a salvezza dello Stato, malvagità dalle quali rifuggirebbero inorriditi nella loro vita privata. Le organizzazioni non ufficiali, se abbastanza numerose, si comportano allo stesso modo, asserendo ognuna che i suoi interessi sono altrettanto totalitari di quelli dello Stato. Le conquiste imperialistiche accompagnate dagli inevitabili assedi e bombardamenti, offensivi o difensivi che siano, i roghi di Smithfield e dell'Inquisizione, i codici penali, le crudeltà dei laboratori di fisiologia, l'abbreviamento del corso normale della vita dei proletari e il suo intristimento a favore dei profitti commerciali, tutto ciò sta a provare che la morale pubblica differisce da quella privata.

E qui c'imbattiamo in Machiavelli. Nulla gli sarebbe stato più facile che dire a Cesare Borgia come fosse suo dovere operare con giustizia, amare la clemenza e camminare umilmente al cospetto di Dio. Pii consigli, tutti, ma non certo utili al Borgia che doveva, come egli disse, «trangugiarsi l'Italia pezzo a pezzo a mo' di carciofo» al fine di poterla unificare in un unico Stato cattolico. In questo suo proposito Machiavelli non era peggiore di Garibaldi o di Cavour; non peggiore di Abramo Lincoln dedicatosi a unificare gli Stati nord- americani, di Chamberlain e Lord Randolph Churchill nell'opera espletata per mantenere l'unione fra l'Inghilterra e l'Irlanda, di Bismarck, il fondatore dell'unità germanica, e di Adolf Hitler che, dopo avere per mezzo dell'Anschluss riunita l'Austria al tronco germanico, aspirò, seguendo le orme di Napoleone, a unificare il continente eurasiano. E' evidente che Cesare Borgia non poteva unificare l'Italia soltanto con l'obbedire ai precetti del profeta Micah, facendo, cioè, unicamente quanto Dio gli richiedeva. Bisognava pur sottomettere principi ostili e creare entusiasmo in popolazioni ignoranti e superstiziose. A Cesare Borgia interessava perciò sapere quel che doveva fare per superare i principi in furberia e meglio ingannare le popolazioni, badando bene a non perdere di vista le caratteristiche di tali principi e popolazioni, e le sue proprie. L'inganno era necessario, lo spargimento di sangue pure; il tradimento, atto di ordinaria amministrazione, e l'ipocrisia, naturale. Indispensabile assicurare al popolo che i soli oggetti delle azioni politiche del Borgia erano la vittoria e l'adempimento del voler di Dio. Machiavelli elogiava il principe per la sua sagacità nell'intendere quanto sopra e per l'abilità con cui metteva in pratica quanto intendeva. Perché biasimare Machiavelli per non aver mentito? E' vero che nella sostituzione dell'ipocrisia con il candore egli scopriva il suo gioco, ma poiché era di natura ben più profonda del Borgia son certo che la sua intenzione era per l'appunto di scoprirlo. Anch'io mi sono intromesso nella cosa pubblica - e oggi ancora lo faccio sulle orme di Machiavelli - mentre scrivo questo libro. Nel frattempo le Grandi Potenze sono impegnate a bombardare città, silurare navi, affamare popolazioni, e minare i sette mari, azioni che non soltanto giudico abbominevoli ma anche diaboliche. Tutto darei al mondo affinché una legge supernazionale classificasse queste azioni fra le più criminali che vi siano ed esse perciò venissero abbandonate dall'uso civile, come ormai sono abbandonati il duello e la pirateria; tuttavia le circostanze mi costringono oggi a insistere affinché tutto questo continui e si intensifichi fin tanto che i nazisti non siano sconfitti e il loro Fuhrer messo politicamente fuori legge. Così, amici e nemici, siamo tutt'uno.

Nulla è più sconcertante che dover vivere con due specie di morali. Il re di Brobdingnag giudicò Gulliver un caro amabile piccolo essere fino a che questi non si mise a esaltargli le glorie della storia d'Inghilterra, udite le quali il re si sentì meravigliato nel constatare che il suo caro piccolo beniamino non era altri che un pericoloso furfantello. Il signor Wells trovò Pavlov umano, intelligente, simpatico e stranamente rassomigliante a me che ebbi invece a denunciarne le mostruose crudeltà. Pavlov aveva due nature, e forse parecchie, non soltanto nel senso che gli uomini differiscono gli uni dagli altri e che «tutti i tipi sono necessari a formare il mondo», ma anche nel fatto che ognuno di noi non è un singolo carattere, bensì un fascio di caratteri. Tuttavia per fini di pubblica utilità boicottiamo un individuo in quanto vigliacco e iscriviamo il nome di un altro nell'albo degli eroi. La "Victoria Cross" [9] è stata guadagnata da uomini che pure provavano un pazzo terrore dei fantasmi, dei cani, o dei dentisti. Lawrence d'Arabia racconta di aver provato una "fifa" tremenda, e per oltre una ventina di minuti, all'unica battaglia in grande stile a cui assistette. Nel 1815 nessuno avrebbe avuto la faccia tosta di fare una simile confessione. Nel 1915, invece, pochi avevano la faccia tosta di pretendere che nessuna apprensione li avesse mai colti quando il tiro di sbarramento nemico si stava aggiustando sulle linee in cui si trovavano.

La difficoltà e l'incertezza nell'arte della legislatura e del Governo si basano sul fatto che le leggi non possono esser varie quanto gli individui. Benché non esistano due persone uguali, le leggi devon presumere che tutti si sia congegnati allo stesso modo; benché si sia tutti un pozzo di contraddizioni, esse si devono basare sulla coerenza umana e fingere che tutti i matrimoni, tutte le storie d'amore, tutti i bambini, tutti i genitori, tutte le coscienze e le capacità siano simili, mentre in realtà differiscono quanto le impronte digitali. I semplici legislatori delle varie professioni si trovano di fronte allo stesso dilemma degli uomini politici. Si dice che Clifford, Allbutt, medico famoso, abbia detto ai suoi allievi disposti attorno a un letto d'ospedale: «Questo male, signori, è quanto usiamo chiamare scarlattina; ma tutti i casi di scarlattina sono differenti l'uno dall'altro». Un altro medico eminente, Bland Sutton, curava il tifo senza propinar medicine, proprio quando una mia amica lottava contro la stessa malattia ingoiando una mezza dozzina di differenti veleni ordinatigli dal suo medico. Debbo dire che guarì. D'altra parte, sia la legge sia la medicina debbono poter affermare che la scarlattina è la scarlattina, e che per il tifo una sola cura è valida. In qualsiasi direzione ci si volga, si finisce col trovarsi costretti a stabilire una scelta limitativa. E' ammesso, per esempio, che il corpo medico di un ospedale provi una nuova medicina in una corsia di bimbi (qualche volta la maggior parte dei fanciulli muore); tuttavia non è ancora stata approvata una legge che consideri quale attività scientifica normale l'uccisione di infanti a scopo di ricerca scientifica.

Nei laboratori i medicinali si provano sui cani, sui topi, sulle cavie e sulla mosca drosophila. Non siamo usi a sprecar pietà sulle mosche; anzi le nostre leggi sanitarie si prefiggono lo sterminio delle mosche, delle cimici, dei pidocchi e di altri insetti. Chi vive in campagna e coltiva la terra impara tosto che una parte importante del lavoro consiste nella lotta spietata contro volpi, conigli e scoiattoli, benché gli scoiattoli siano creaturine veramente attraenti e i conigli, purché bianchi, vengano considerati animali domestici. Un maestro di scherma francese mi disse, quando seppe che non assaggio mai carne: «Ma se non mangiamo gli animali, gli animali mangeranno noi». A ogni modo non è mangiandoli che li terremo tutti a bada, poiché ci rifiutiamo di mangiare i gatti come fanno i cinesi, e le rane come i francesi, mentre i tedeschi non intendono divorar conigli come facciamo noi e tutti gli europei ricusano di pasteggiare a scarafaggi secondo l'usanza africana. La Chiesa cattolica romana e qualche Chiesa indiana rifuggono in qualsiasi circostanza dal toglier la vita a un essere umano; tra noi vi è chi obbietta all'esecuzione capitale inflitta agli assassini, mentre rimane freddo al cospetto del carcere a vita. Simili persone non debbon salire i gradini dell'Olimpo politico. Uccidere è una necessità, sovente un dovere, che nessuno Stato, per umanitario che sia, può ignorare o abbandonare alla mercé del caso. Un genitore che trovi un cobra nel giardino in cui giocano i suoi figlioletti ed esiti a ucciderlo non è atto ad aver cura di bimbi. Tutti conosciamo la necessità di sterminare lupi e tigri. Allorché uomini e donne diventano pericolosi quanto le belve bisogna ucciderli, non per infliggere loro una punizione o per obbligarli a espiare, ma semplicemente perché non sono adatti a vivere in una società civile e perché la vita di gente a modo non deve venir sprecata a tenerli in prigione. La nostra facoltà di uccidere deve avere un gioco assai vasto: incominci con l'eliminazione degli elementi nocivi e prosegua fino alla estinzione di una specie intera. Bisogna che gli abolizionisti della pena capitale stabiliscano in questo campo una linea discriminativa.

Se ci soffermiamo a considerare non soltanto gli uccelli i pesci e gli animali in genere, ma anche gli insetti, l'alternativa di distruggere o essere distrutti risulta terrificante. Mentre scrivo, la specie umana è occupata nell'intento di autodistruggersi: metà della popolazione sulla terra fa del suo meglio per distruggere l'altra metà e, pur non riuscendovi poiché questo risultato oltrepassa la capacità di carneficina di entrambe le parti, i morti si sommano a milioni. Qualche anima semplice chiede perché Dio non ponga termine a tanta distruzione. Ma in che modo potrebbe farlo?

Fossi l'Onnipotente, so benissimo come riuscirei a metter fine alla guerra: darei vita a qualche bilione di locuste o di formiche bianche, calandole poi d'imperio sul terreno occupato dalle truppe belligeranti. Il giorno dopo, invece di battersi gli uni contro gli altri, i belligeranti volgerebbero le loro capacità distruttive verso gli eserciti di minuscole creature le quali, avanzando disciplinatamente in innumeri ondate sui cadaveri dei loro compagni uccisi, si porrebbero a distruggere con tale velocità ogni risorsa alimentare umana che perfino la pallida spirocheta e le mosca anofele verrebbero dimenticate nel terrore generale. Non avremmo allora più semiti e anti-semiti, inglesi e tedeschi, americani e giapponesi, proletari e padroni, democratici e plutocratici, musulmani e indù, bianchi e neri, gialli e rossi, nemmeno irlandesi, per questo, bensì soltanto uomini e donne uniti nella lotta affannata per il sopravvento della vita umana in pericolo, causa la violenza di un'aggressione conosciuta finora soltanto in piccolissimi esempi.

Siccome, però, la creazione ex-abrupto del numero necessario d'insetti potrebbe procurare noia e confusione, non sono certo che non adotterei un altro metodo. Supponete che domattina i giornali, al posto dei soliti titoli sulla guerra, ne portino uno solo, stampato a grandi caratteri, il quale annunci che le calotte polari stanno estendendosi. Questo fenomeno è già accaduto, dopotutto, e può riprodursi sempre. Ecco allora che i nostri imperi, i nostri grandi destini nazionali, i gloriosi passati, le frontiere gelosamente custodite, non conterebbero molto più di quanto oggi valgano per noi i dinosauri e i pterodattili. Ecco il genere di cose di cui fantastico quando mi diverto a immaginare i nostri patriotti e militaristi sgonfiati dalla tronfia boria e nudi, alfine, in tutta la loro insipienza; ma poiché nella mia presente attività mi sono proposto di dimostrare come l'importanza di uccidere sia un necessario comparto della nostra attività politica e personale, e come i nostri governanti siano costretti a ignorare il comandamento di Mosè: «Non uccidere», per adottare quello dettato dalla natura: «Uccidi o perisci», sono costretto ad abbandonare al loro destino le formiche bianche e le calotte polari. Mi accontento così di perseguitare la scelleratezza in tutti i suoi aspetti, specie quando il Governo invece di aver forma collettiva ne ha una individuale. E questo è un pericolo sempre ricorrente dato l'abito inveterato che ci volge a idolatrare i grandi uomini.

39. IL GOVERNO DEI COSIDDETTI GRANDI UOMINI
E' generalmente ammesso da tutti che due soli sono i metodi di governo: l'uno, illustrato da Lincoln, è il governo del popolo per il popolo, composto dal popolo, e lo si chiama democrazia. Il secondo è il governo dei singoli grandi uomini, e ha per nome dittatura. Spero di esser già riuscito a chiarire che la democrazia, definita come sopra, non è altro che una sciocchezza romantica. Il popolo si è sovente rivoltato contro i Governi ma non ha mai governato di fatto. L'idea del Grande Uomo necessita invece di un esame più minuzioso, esame che intraprendo con un sembiante di autorità, poiché nella setta dei shawiani
[10] mi gratificano di tale appellativo.

I due sistemi di cui tratto rappresentano gli irraggiungibili estremi di un concetto, piuttosto che una inevitabile alternativa; ma, in vista di un periodo elettorale, è bene che siano creduti tali. «Vorreste, o libere popolazioni britanniche, votare la rinuncia alla libertà conquistata dai vostri padri e diventare gli schiavi di un dittatore e della sua burocrazia?» gridano i democratici. «Non ne avete abbastanza delle scempiaggini parlamentari e dell'anarchia che generano?» strillano invece gli idolatri. «Votate dunque per un Governo effettivamente responsabile; votate per il nostro grande capo.»

Nei Governi, come in ogni altra attività umana, oltre gli scopi ultimi risultano necessari i mezzi. La saggezza ci impone di cavare tutto il bene possibile dai governanti che abbiamo, senza indulgere a lacrimare per quanto di meglio vorremmo ottenere. Il Governo di popolo è un'utopia se il popolo non si sa governare da solo e vuole d'altra parte esser governato il meno possibile ma in modo spettacolare.

Il Governo dei cosiddetti grandi uomini abbisogna di candidati capaci i quali non si trovano sempre a portata di mano; quando lo sono, invece, difficilmente appartengono tutti alla medesima specie. Ignazio Paderewski venne classificato fra i grandi uomini per le sue eccezionali doti di pianista e diventò presidente dello Stato polacco. Napoleone assurse a un posto consimile nella sua veste di genio militare. Io sono classificato un genio drammatico, ma nessuno mi ha finora invitato a governare l'Impero britannico, e nemmeno, in quanto a questo, la mia nativa Irlanda. Tanto vale suggerire che neppure Shakespeare venne eletto imperatore della terra benché fosse «grande non per un'epoca sola ma per tutti i tempi». Benito Mussolini e Adolf Hitler, autoclassificatisi grandi uomini, hanno creduto bene di prepararsi al Governo di tutte le nazioni del mondo mettendosi per intanto a capo della loro, aiutati in ciò dall'entusiasmo dei rispettivi connazionali. Titus Oates mise a morte in Inghilterra parecchie persone benché il potere regale fosse detenuto da Carlo secondo; Rasputin esercitò in Russia un'influenza dispotica perfino sul despota ufficiale ed ereditario. Cromwell, Richelieu, Federico Guglielmo di Prussia e suo figlio Federico il Grande, riorganizzarono a piacimento i loro Stati usando metodi tirannici. Allo stesso modo agì Pietro il Grande; Giulio Cesare, Gengis Khan e Attila si guadagnarono fama di grandi uomini prima di Gesù Cristo, il quale promise di risuscitare dalla tomba al fine di stabilire in terra il regno dei cieli: questa promessa, sebbene incompiuta, conta ancora su numerosi credenti.

La lista di cui sopra è lungi dall'essere completa. Semplice raccolta di esempi, vuole dimostrare che la scorta dei grandi uomini non è messa assieme dalla Provvidenza: presuntuosi mezzi-scemi, furfanti ambiziosi, indesiderabili di ogni specie, hanno adulterato a tal segno questa scorta che soltanto la reazione a simili individui è riuscita ad avvolgere di un alone romantico la parola democrazia e a conferire all'Anarchia il valore di un riflesso condizionato. E' bene d'altra parte notare che queste stravaganze hanno a loro volta prodotto varie reazioni: vedi feudalismo, oligarchia, diritto divino a favore di monarchi e la favola ora di moda nominata totalitarismo, cioè la completa sottomissione dell'individuo allo Stato. Tutti, a ogni modo, democratici e anarchici quanto militaristi ed ecclesiastici, posseggono i loro eroi, senza di cui si sentono pecorelle smarrite.

Un partito privo di capo, e uno Stato privo di governanti somigliano a una nave senza nocchiero, cosicché il problema di fronte al quale si sofferma il filosofo politico è quello di escogitare i vincoli atti a tenere a bada, per lo meno moralmente, i capi. Con ogni probabilità i francesi avevano ragione quando, per restaurare l'ordine a casa loro, scelsero Napoleone. Egli riuscì difatti a governare con maggiore abilità di quanta il Direttorio avesse saputo mostrarne al medesimo scopo. Il guaio è che ben presto egli volle assicurare a sé e ai suoi il fasto derivante da una corona regale e impose così al Papa di riconoscerlo quale imperatore del Sacro Romano Impero. Sebbene allora Napoleone fosse considerato lo spirito più realista del mondo, ecco che a Sant'Elena egli si mise a litigare con sir Hudson Lowe perché realisticamente questi gli rifiutava un titolo che più non aveva e lo chiamava: generale Bonaparte. I pochi fedeli compagni volontari del suo esilio dovevano star ritti in piedi alla sua presenza e dargli il titolo di Sire, benché in realtà egli fosse ormai men che nessuno. Quando, mercante di gloria, conobbe la bancarotta, di lui non rimase altro che il sognatore pietoso di una impossibile restaurazione, sognatore intento a ricostituirsi una figura morale scrivendo numerosi volumi letti unicamente dai più diligenti tra gli studiosi di storia. Perfino all'apice della sua fortuna egli teneva in così poco conto la realtà da cacciar via un Volney, altro spirito decisamente realista, perché si era mostrato favorevole al ritorno dei Borboni in Francia. Un'altra volta in un accesso d'ira fece giustiziare il duca d'Enghien, ciò che praticamente lo rese un assassino, mentre ai suoi nemici Enghien morto serviva molto di più che Enghien vivo.

E' quindi giusto conferire a Napoleone le qualifiche di ambizioso, vanaglorioso, assassino e mascalzone. Confrontato con generali altrettanto famosi e più originali di lui, un Marlborough, un Maresciallo di Sassonia, un Wellington, egli è ben lungi dal risultare un gentiluomo. Confrontato al suo subordinato Bernadotte, i cui eredi detengono tuttora il trono di Svezia, egli appare un fallito. Coloro fra i suoi detrattori che credono l'indomabile coraggio dote necessaria a ogni grande generale possono far rilevare che in due occasioni della sua vita egli si sentì atterrito, tanto che nella prima dovette la vita al fratello e nella seconda provò tale paura da tacciare egli stesso la propria condotta di codardia. Al confronto con l'antico compagno di scuola, e per molti anni suo segretario privato, Bourrienne, il quale si dimise da quest'ultimo incarico dopo aver gratificato il padrone con appellativi poco protocollari, egli appare simile a un povero diavolo a cavallo di un destriero lanciato al galoppo sulla via della perdizione. Difatti, oltre la rovina procurata a se stesso con la schiacciante disfatta politico-militare, si dice che egli abbia fatto perdere alla nazione francese qualche pollice della sua statura causa la falcidia di giovani vite buttate via in tante battaglie. Non sono queste che poche prove messe giù alla bell'e meglio, ma chiunque si sentisse portato a compilare una lista più completa potrebbe aggiungerne di ben più gravi.

Serio errore sarebbe concludere sulla base dei fatti sopra menzionati che Napoleone non fosse un grande uomo. I fatti dimostrano unicamente che la natura di Napoleone differiva da quella di un Dio in sembianza umana; visto però che la qualità divina è proprio quanto i suoi fedeli riscontravano in lui, si può tranquillamente affermare che grandi uomini e dèi antropomorfi sono similmente frutto di pura fantasia.

Il potere non corredato del necessario carico di responsabilità, disse lord Acton, corrompe qualsiasi uomo. A volte, vedi Nerone e Torquemada, esso produce orrendi eccessi di crudeltà e bigotteria. Altre volte, uomini come Cesare, Maometto, Cromwell e Washington riescono a trarre il miglior partito possibile dal loro potere, o, per lo meno, non il peggiore. E' doveroso confessare che, nel complesso, l'enorme maggioranza dei governanti assoluti non ha abusato della propria autorità. Questa maggioranza ha governato seguendo la falsariga stabilita dalla condotta morale, legale e rituale, ciò che risulta efficace quanto una costituzione. Il Cadi, benché apparentemente un despota, non provoca certo rivoluzioni, seduto, come si confà, sotto un palmizio. E' soltanto al momento in cui si tratta di addivenire a riforme che i despoti incominciano a intorbidare le acque e il grande uomo si fa strada. Cromwell, il birraio signorotto campagnolo, diventa Lord Protettore; lo zar Pietro diventa Pietro il Grande; Bonaparte, semplice tenente d'artiglieria, diventa l'imperatore Napoleone; Kemal, subalterno anche lui, diventa Supersultano; Mussolini, giornalista proletario, regna simile a un Arciduca; Hitler e Stalin, entrambi di nessuna importanza sociale, si trovano per sola legge di gravitazione a raccogliere ed esercitare un potere di cui nemmeno sognarono gli imperatori del Sacro Romano Impero. Fra tutti questi despoti, unicamente Cromwell con l'aiuto della sua Bibbia, e Stalin coadiuvato dalla filosofia marxista, si mantennero entro limiti costituzionali (seguirono cioè qualche principio etico), tanto che essi soli riuscirono ad aver fortuna nella loro opera di governo. Napoleone principiò la sua carriera quale strumento giacobino della Rivoluzione francese e quale collega di Siéyès, specialista in costituzioni; tosto però egli si liberò di Siéyès e proseguì il suo cammino, simile in ciò al Riccardo terzo di Shakespeare che nella sua ultima professione di fede disse: «Ci servano le nostre forti braccia di coscienza, e le spade di legge».

Troppo poco so di Kemal Ataturk per riuscire a classificarlo; certo è che la stabilità del suo successo e la consistenza delle sue riforme inducono a credere sia stata la speciale quadratura del suo cervello a servirgli da costituzione. Pietro, un terribile furfante, era fautore della civiltà occidentale, simile in ciò al nostro Governo in India; ora l'ideale occidentale, anche se ciecamente messo in pratica, distoglie i governanti dal naturale egoismo e dona loro un credo. Dato poi che di credo se ne trovano d'ogni sorta, non importa quale di essi si scelga un uomo di governo. Ateo o affiliato alla confraternita di Plymouth, giainista o musulmano o buddista, seguace di Confucio o di Lao-Tse, cattolico o protestante, cattolico romano anglicano od ortodosso, ritualista o quacchero, purché egli (o ella) militi nella fede e non sia passivo, le regole di governo a cui si atterrà saranno sempre extra-personali e perciò prevedibili; se poi queste regole sono anche accettabili, atte allo scopo e popolari, con molte probabilità esse riusciranno a durare per quanto anti-democratiche nella forma. In poche parole, benché non si possano sempre prevedere le azioni di questi tipi di autocrati, si può tuttavia prevedere quelle che non faranno mai. Hitler e Mussolini hanno fallito a questo riguardo. Essi sorsero al loro posto di preminenza perché seppero attuare alcune riforme volute dai più, ciò che assicurò loro l'idolatria di molti; ma poiché non posseggono un credo ben definito e intelligibile, nessuno riesce a immaginare dove si fermeranno. Privi di un credo, al fine di mantenere la loro supremazia si trovano costretti a nutrire i loro adoratori di glorie militari, e i loro finanziatori di successi commerciali. Tutto ciò non è però possibile a getto continuo. Napoleone rimase quindici anni al suo posto di mercante di gloria; suo nipote venti; Mussolini ventuno. Dopo solo dieci anni, a dispetto di sbalorditive conquiste, il potere di Hitler è già malamente scosso. A Sant'Elena, Napoleone può forse aver giudicato che per mezzo dei suoi effimeri successi egli era riuscito a donare al suo paese maggior bene di quanto non avessero saputo procurargliene i governanti da lui soppiantati, e nulla impedisce che anche gli altri dittatori giudichino allo stesso modo su quanto li riguarda. Ciò non serve però a perdonare la futilità e la corruzione che furon causa delle loro fortune, né lo spargimento di sangue, la distruzione e la demoralizzazione che il mercante di gloria deve, per riuscire, sostituire alla «grazia di nostro signor Gesù Cristo». Tutto il bene operato dai grandi uomini avrebbe potuto veder la luce senza di loro se i Governi o governanti che essi hanno sostituito fossero stati efficienti o per lo meno ragionevoli.

Due altre insidie rendono poco consigliabile il governo dei grandi uomini. La prima è che ben presto il lavoro li logora. Dopo sei anni di fatiche Napoleone considerava finito un generale; egli stesso non era certo il medesimo uomo a Lipsia e nemmeno a Waterloo, dopo il forzato riposo dell'Elba, di quel che era ad Austerlitz. Tuttavia il comando di una guerra è lavoro alquanto più semplice del governo civile di un Impero; infatti per conseguire la vittoria si rinuncia a qualsiasi interesse a essa opposto, a ogni salvaguardia morale o costituzionale, mentre tutto ciò in tempo di pace funziona in pieno e non può venir soppresso con la violenza. Negli Stati Uniti la carica di Presidente dura quattro anni; soltanto la pressione esercitata da una guerra o la miglior scelta fra due mali ammettono una seconda rielezione. Dato però che quattro anni sono veramente pochini, la rielezione diverrà probabilmente consuetudine ogni qualvolta un Presidente avrà operato bene.

La seconda obiezione a sfavore del potere affidato alle mani di un grande uomo sta nel fatto che questo sistema di governo diventa troppo totalitario per risultar veramente possibile. Certo è che, se il più capace tra gli autocrati dovesse dirigere da solo ogni attività del suo paese, nel volgere di pochi mesi egli se ne andrebbe all'altro mondo. Bisogna dunque che abbandoni i vari governi locali nelle mani di piccoli autocrati scelti fra i più ossequienti suoi seguaci piuttosto che tra i rivali più abili. E' degno di nota osservare che all'epoca in cui il presidente degli Stati Uniti e lo zar di Russia rappresentavano i due estremi, l'uno di un Governo responsabile, l'altro dell'Autarchia, il credito politico e commerciale concesso al presidente e ai suoi ministri era di gran lunga superiore a quello goduto dallo zar e dai suoi governanti, benché ognuno di questi godesse di tanto potere da riuscire facilmente a far radere al suolo un'officina nel caso che la loro amante non ne avesse gradita la vista.

Questi sono fatti, e poco c'è da dire contro la loro evidenza. Il governo di un singolo uomo idolatrato lascia poco campo alla civiltà. La nostra salvezza non può venire che da un consiglio di persone provate e qualificate allo scopo, soggette quanto più è possibile alla critica del pubblico e a periodiche - in caso di urgenza anche sommarie - rimozioni e sostituzioni. La finalità per cui mi sono accinto a questo libro sta appunto nel desiderio di mostrare la necessità di liste in cui includere i qualificati alle varie specialità e di suggerire le voci necessarie nei criteri di giudizio. E bene non desumere da quanto scrivo che esistono Stati i quali possano dispensarsi da qualsiasi espressione d'autorità assoluta riconosciuta infallibile. In ogni ramo debbono aversi autorità le cui decisioni siano conclusive; sì, dalla massaia nella sua cucina al papa in Vaticano. Il papa, però, si riconosce unicamente infallibile quando parla ex-cathedra, cioè in consiglio con i suoi cardinali e l'ausilio della Biblioteca vaticana. Le considerazioni fatte da Alessandro Borgia nel corso dei suoi assai scandalosi trascorsi sono tutt'altro che pontificie. Papa, in Inghilterra, è il Consiglio giudiziario della Camera dei Lords, ed è pure qualificato infallibile soltanto quando riunito in Consiglio: le conversazioni tenute dai giudici fuori consesso non hanno maggior valore delle vostre o delle mie parole. Non che il papa o il Consiglio giudiziario, il Vaticano o la Camera dei Lords siano realmente infallibili, poiché in natura non esiste cosa alcuna che pur da lontano ci autorizzi a credere in una infallibile autorità umana. Qualcuno deve, però, avere l'ultima parola: tutto è lì, ma per lo meno quest'ultima parola sia pronunciata soltanto ex- cathedra, sia l'ultima parola di un Consiglio e non di un individuo. In un Consiglio il capo può avere, è vero, abbastanza influenza da fare virtualmente di lui un dittatore; ma poiché nessun capo può sapere tutto, se realmente le decisioni dipendono soltanto da lui egli deve essere abbastanza accorto da lavorare con i suoi assessori, vedere e ascoltare ogni parte e tenersi informato di tutti i fatti locali. Gli assessori, però, non riescono a sostituire buoni consiglieri: è legge naturale che mai i fatti acquistano evidenza se non molto tempo dopo gli eventi. Gli uomini di Stato meglio informati debbono saper indovinare a priori, dato che, come disse Wellington, essi non potranno mai vedere quanto accade sull'altro versante del colle.

E bene non preoccuparci esclusivamente del come guardarci da un regime di Governi insopportabilmente cattivi poiché ve ne possono essere di insopportabilmente buoni. Da Amenhotep quarto, re dell'antico Egitto, ad Amanullah, khan dell'Afganistan, parecchi sono stati i monarchi, cerebrotonici illuminati, che tentarono di imporre ai loro soggetti riforme e nuove istituzioni troppo elevate per essere comprese. Ognuno di loro fallì nell'intento, raccogliendo una messe di odio maggiore di quella raccolta da Nerone e dallo zar Paolo. Quando, negli Stati Uniti, il movimento a favore della temperanza nel bere culminò con la legge detta del proibizionismo, i risultati ottenuti furono soddisfacentissimi; questi risultati si stanno tuttora affermando qua e là in Inghilterra per mezzo di associazioni locali e in tutta la Svezia e anche altrove. Tuttavia, dall'illecito traffico degli alcoolici sorto negli Stati Uniti a frodare la legge proibizionistica si sviluppò un tale eccesso di criminalità che l'abolizione del proibizionismo venne giudicata un male minore che non il mantenimento del medesimo nella costituzione. Fossi un despota onnipotente distribuirei le condizioni di normale vitalità in modo da procurare ai miei soggetti una totale indipendenza dagli analgesici, intossicanti, stimolanti, e dal tabacco, carne, pesce e selvaggina. Mi proverei pure a ostacolare il commercio di tutti questi generi fino ad abolirlo, né mi lascerei commuovere dalle chiacchiere sulla «libertà per ognuno di scegliersi la propria dieta» e dalle grida di: «Meglio un'Inghilterra ubriaca ma libera, che un'Inghilterra astemia e schiava». Il fatto è che non aspiro a diventare uno zar britannico e nemmeno a essere linciato: tra l'altro mi si giudica, a ragione, troppo buono per governare una nazione povera, incapace perciò di affrontare le difficoltà inerenti alla combinazione di povertà e bontà. Un amabile buontempone conoscitore di whisky, di sigari e di cavalli, fornito inoltre di esuberante energia e scarso intelletto, riuscirà sempre più popolare di quanto potrei sperare esserlo io, e per di più non provocherà come farei io un movimento regicida. Fossi quel tale onnipotente despota e morissi di morte naturale, la mia dipartita sarebbe seguita da una reazione al cui confronto quella scatenatasi alla morte di Cromwell parrebbe un'inezia. E' bensì vero che la licenziosità della corte inglese all'epoca della restaurazione non toccò l'intera nazione, la quale è tuttora puritana; in quanto all'opera moralizzatrice di Calvino e di Knox, ottima quanto quella svolta da Cromwell, essa non andò del tutto perduta benché, omettendo di concedere al demonio quanto gli era dovuto, essi istigassero una reazione imponente del tutto inutile. Senza questa omissione mai avrebbero confuso il Divino Artefice con il Principe delle Tenebre... Eppure questi puritani filistei riuscirono a intravedere sprazzi di luce grazie alla parola musicale della Bibbia inglese. Cromwell riteneva immorale l'arte drammatica ma approvava l'opera. Un ministro a cui chiedevo un giorno una dotazione in danaro a favore di una scuola drammatica a cui mi interessavo mi rispose: «Non potreste mettere un organo in qualche parte della scuola?». Acconsentii e ricevetti la somma voluta. Lo stesso ministro si distinse quale capo dell'opposizione al tentativo fatto in Parlamento di rivedere il "Book of Common Prayer" [11], documento del tutto sorpassato in parecchie questioni essenziali ma che, come opera d'arte, riveste ancora l'antico fascino.

Per fortuna la Bibbia non si accontenta di essere la più alta espressione dell'arte letteraria inglese. Molto in essa ci appare pericoloso e barbaro, ma l'insieme tutto nella sua costante associazione con il campo spirituale si ispira alla musica, esentando a questo modo la più incantevole delle arti dalla dannazione in cui incorrono le arti figurative, le quali persistono nel rappresentare immagini a somiglianza di quanto esiste in cielo, giù in terra e sotto nell'acqua, fino a travestire volgari istrioni con i paramenti devoluti ai personaggi sacri.

Morale: i capi e comunque i governanti dovrebbero essere muniti di una buona cultura estetica, così da non cadere troppo facilmente nell'errore popolare che suole confondere l'arte ricreativa con lo sconcio di quanto, imitandola, la prostituisce. Cromwell finì per convincersi che, sebbene il regno dei Peccatori [12] risultasse tanto cattivo da indurlo a decapitare re Carlo, il regno dei Santi rendeva impossibile ogni arte di governo. Venticinque anni fa la Russia abolì Dio, soppresse la Bibbia e fece sua la massima dell'abazia di Thélème: «Fa' ciò che vuoi». Oggi la Russia è il paese più puritano del mondo e non palesa il minimo segno di una controreazione.

Se dovessi scegliere fra due Governi, l'uno retto da fanatici, l'altro da fautori di Laodiceo, darei il mio voto a quest'ultimo. A entrambi preferisco però un Governo retto da uomini equilibrati e illuminati.

40. PER I CRITICI
Ecco che la necessità di por fine a questo interminabile libro si fa imperativa. Vi ho trattato in massima di questioni sovente ripetute da me, e da altri prima di me. Eppure bisognerà ridirle ancora, più sovente di quanto un martello abbia da battere su un chiodo per farlo penetrare in un muro, se si vuole che queste cose entrino nella coscienza del signor Ognuno.

Debbo pure considerare i critici e per questo mi ripeto qui. I miei primi passi nella carriera letteraria li feci appunto come critico, e so benissimo che la lettura di un libro da parte del revisore dipende dalla somma che riceverà per la sua recensione. A volte è un semplice giudizio sulla copertina; in questo caso l'autore è fortunato perché il giudizio suona sempre laudativo. Spero perciò anch'io in un giudizio attraente sulla copertina del mio libro. La questione è, che alcuni critici, essendo ben pagati, si possono permettere il lusso di fare un esame coscienzioso. Dato però che a leggere interamente un libro perderebbero troppo tempo, non può far loro altro che piacere se qualcuno riassume lo scritto.

In ultimo è bene non dimenticare il lettore il quale, lui, paga per ottenere il privilegio di leggere ciò per cui sono pagati i critici. Egli, o ella che sia, raggiunto il trentesimo capitolo ha sovente una tale confusione in capo che abbisogna, a ritrovar equilibrio, di un breve riassunto il quale serva a ricordargli quanto era scritto nelle prime pagine.

Ecco perché intendo fare un giro a volo d'uccello sui vari campi da me sorvolati in questo mio libro.

Cinque sono i rami in cui una civiltà, specialmente se antiquata e appesantita da superstizioni innestatesi sul suo tronco per mancanza di cure, potature eccetera può perdersi, e cioè: l'economia, la politica, la scienza, l'educazione, la religione. A mio parere in tutti e cinque questi rami siamo pericolosamente in ritardo sui tempi e finiremo a catafascio come le precedenti civiltà a nostra conoscenza, se non ci decideremo a revisionare con una certa frequenza le nostre istituzioni.

Sorge ora una questione: sotto quale punto di vista ci troviamo arretrati? Per il signor Ognuno e Consorte non solo non siamo in ritardo con i tempi, ma addirittura in notevole anticipo, e questo perché il signor Ognuno e Consorte son tanto ignoranti e ineducati nelle questioni economiche, politiche, scientifiche e religiose da non sapersi autogovernare e, meno ancora, scegliersi con una certa saggezza i propri governanti. Così, i loro mal scelti governanti li conducono in tali pasticci che, colti dalla disperazione, i poveri signori Chiunque cadono in balia di dittatori autonominatisi tali, i quali tosto si corrompono nell'esercizio del potere assoluto. E qual è l'uomo, ammettendolo incorruttibile, che sarebbe capace da solo di maneggiare un simile potere? Presto o tardi questi despoti invecchiano e muoiono lasciando i loro adoratori sperduti e angosciati fino a che non sorga un nuovo avventuriero a raccogliere la sua messe di idolatria.

La sola cura radicale a tanta ignoranza la si troverebbe in una educazione completamente aggiornata e a portata di tutti, tecnica e obbligatoria fino a un dato punto (si obbligano bene i ragazzi a studiare la tavola pitagorica), e, oltre quel dato punto, volontaria razionale ed estetica, spinta al limite dell'umana conoscenza e capacità. Questo limite varia tanto da un individuo all'altro, che i nostri tentativi di imporre a menti di media levatura l'istruzione superiore senza lasciarsi guidare da un qualche concetto discriminativo è non soltanto una perdita di tempo, ma anche una perniciosa crudeltà. Tanto varrebbe mettere un bimbo a remare nelle regate universitarie. D'altra parte, negarla a un Einstein o a un Gilbert Murray significherebbe impedire il completo fiorire di qualche genio, di valore forse inestimabile per la civiltà. Ecco perché l'istruzione superiore dovrebbe essere alla portata di tutti e imposta a nessuno. Gli individui né troppo né troppo poco istruiti trovano gioiosamente il loro posto nel mondo e ammettono per primi che l'idea, puramente teorica, patrocinata dal nostro Ministero dell'Istruzione e dai nostri adulti suffragisti, idea per cui chiunque può essere educato a scuola a divenire un matematico, uno scrittore di poesia epica greca o latina, un filosofo che faccia epoca, un papa o un primate, un competente Primo Ministro o il membro di un Governo, un maresciallo vittorioso o un ammiraglio, un giudice di Cassazione, un abile negoziante o un direttore di fabbrica, e con molto minor impegno un individuo qualificato a giudicare ed eleggere tutti costoro, è una sciocca pedanteria. Chi si dedica alla carriera del governo deve possedere le necessarie qualità e abilità, e deve acquistare una tecnica esecutiva pari a quella che nel loro campo possono avere un falegname e un cuoco. Ecco perché nei loro vari gradi e incarichi i designati a governare dovrebbero essere scelti da liste in cui fosse iscritto soltanto chi avesse superato le prove più adatte a mostrar la sua capacità, e non a casaccio da un elenco telefonico o da liste di contribuenti compilate senza alcun criterio discriminativo.

La natura fornisce miracolosamente il numero necessario di individui dotati delle più alte qualità specifiche, e li fornisce sempre in eccesso - dando agli elettori un vasto campo di scelta il quale, solo, rende possibile la democrazia - purché il rifornimento non ne risulti impedito, come lo è oggi che si vuol negare ai nove decimi del popolo la necessaria educazione. Questo speciale operato della natura viene chiamato divina provvidenza. Da un secolo a questa parte i nostri scienziati di professione ne negano l'esistenza o la ignorano allo stesso modo in cui la provvidenza diabolica produttrice della nostra percentuale di idioti viene negata dai democratici dottrinari. Questa speciale provvidenza è invece idoleggiata dai nostri partiti democratici, e generalmente dai nord-americani, i quali sostengono che in politica non esiste ciò che si usa denominare specializzazione, dato che qualsiasi maggioranza risulta in ugual modo infinitamente saggia quanto a filosofia sociale e infallibile come elettrice.

Beninteso è questa una sciocchezza; la regola della maggioranza non è altro che l'accettazione pacifica di una probabilità, che, nel caso in cui i vari partiti si battessero per ottenere la supremazia, darebbe la vittoria al partito più numeroso, non certo a quello dotato maggiormente d'ingegno. La natura, o divina provvidenza, comunque vogliate chiamarla, è orientata tutta verso il governo di minoranza; e questo spiega perché i ministri competenti siano in ben più esigua minoranza che non gli stagnini e i sarti. Non si conoscono maggioranze professionali, e un Governo saggio è la vocazione più altamente specializzata che vi sia. I sedicenti democratici di professione, ignari di questi fatti, vengono nel mio libro trattati con la massima irreverenza e nominati "pubblica calamità". Beninteso entrambe le categorie mi rendono pan per focaccia bollandomi di "nemico delle scienze" e "vecchio codino". Ma per quanto ci possiamo bisticciare, i fatti sono fatti e il lettore farà bene a osservare il mondo senza prestar attenzione ai nostri reciproci vituperi.

Passiamo, ora, ai miei sommari.

41. SOMMARIO ECONOMICO
Prima di prefiggersi qualsiasi altro scopo i nostri sociologi, oggi, debbono applicarsi a ripulire l'assurda fola di cui il diciottesimo secolo è responsabile, fola premarxista, nata con Rousseau e Jefferson. Devono insistere proprio sul concetto opposto a essa, e insegnare, cioè, che tutti siamo nati schiavi della natura la quale ci impone di lavorare x ore al giorno, così come le mucche sono costrette a pascolare, se non vogliono morir di fame, di sete e di freddo. Nessuno può scansare questa fatica, a meno di imporne una doppia a un altro individuo, o, se il doppio non gli riesce, una decima parte su dieci persone
[13]. Perché questo possa però accadere, è necessario che chi intende scansare la legge naturale del lavoro sia il padrone politico dei lavoratori e i lavoratori schiavi suoi e della natura.

Tutti, lavoratori e scansafatiche, debbono dormire otto ore su ventiquattro e riservare due altre ore per mangiare, vestirsi, lavarsi e fare quel tanto di moto che non è possibile scaricare in nostra vece sui cavalli, sulle automobili o sulla schiena di Sindbad il marinaio. Vero è che dormire, mangiare, bere e moderatamente far moto sono attività piacevoli e nessuno perciò vorrebbe farsene esentare; nessuna legge, d'altra parte, riuscirà mai ad alterare il funzionamento materiale di queste attività, cosicché allo statista premono soltanto le quattordici ore rimaste libere per essere impiegate in un lavoro produttivo e vantaggioso.

Così, dunque, schiavo come la natura lo ha creato, l'uomo deve lavorare; senonché l'avversione per il lavoro obbligatorio è tale in lui da spingerlo a far di tutto pur di ridurlo e accaparrarsi il maggior tempo possibile da dedicare a far quanto gli piace: questo tempo libero ha per nomi riposo e svago. Come il lavoro, esso è trasferibile. Utensili, divisione del lavoro e produzione in massa, macchine e macchinari, vapore, elettricità, pressione vulcanica usati quali forza motrice, rendono oggi tanto produttivo il lavoro da far sì che quattordici ore dedicate al lavoro da un solo operaio producano il guadagno necessario a mantenere per una intiera giornata vuoi parecchie famiglie oltre quella del lavoratore, vuoi con larghezza regale la sola famiglia del proprietario e nell'indigenza qualche famiglia di lavoratori, vuoi qualsiasi altro aggiustamento possibile fra questi due estremi. Si deduce da ciò che, ove si avessero, diciamo, quattordici milioni di lavoratori che lavorassero con la maggior lena possibile, e si accontentassero di consumare unicamente quanto necessita per vivere e riprodursi, un milione di famiglie godrebbe quattordici ore al giorno di ozio, oltre a tutto il lusso compatibile, senza aver dato alla comunità il minimo contributo di lavoro all'infuori del travaglio a cui si sottopongono le loro donne per mettere al mondo i figli.

Ab initio, nessuna persona sana di mente proporrebbe un simile ordinamento di cose. L'intenzione prima di ogni società umana, tranne nel caso di congreghe di ladroni, è stata sempre di stabilir per fermo che chi non lavora non mangia. Ma quando, partendo dall'agricoltura, la nostra società cominciò a progredire, il mezzo più sicuro per non deviare da questa premessa morale apparve esser quello di concedere a ogni uomo la proprietà della terra a cui dava le sue cure e di istituire leggi atte a impedire a chicchessia di ricavar frutti dalla proprietà altrui, senza previa concessione del proprietario o senza la conferma di un atto di compera. Finché si ebbe abbastanza terra fertile da dividere fra tutti i capifamiglia, questo sistema di cose risultò assai soddisfacente. Ma non appena la terra migliore, e poco dopo tutta la terra, fu divisa e le popolazioni crebbero da centinaia a milioni di individui, proprio l'anomalia che la proprietà della terra aveva cercato di prevenire venne da essa provocata: i proprietari ebbero gli ozi e gli altri fecero tutto il lavoro.

Poiché nell'ordine di cose suddetto i senza terra erano schiavi con appena quanto bastava per campare, e i proprietari avevano ben più del necessario, il monopolio della terra creò successivamente il monopolio del danaro risparmiato. Il danaro risparmiato rese possibile l'attività industriale, e usato a scopo d'industria fu detto capitale. I proprietari dell'industria si chiamarono capitalisti, gli schiavi che non avevano danaro da cui prender nome si chiamarono proletari, e la massa dei proletari fu il proletariato. Il monopolio del capitale per parte di una classe sola fece pure dell'istruzione e della cultura estetica il monopolio di una sola classe. Questi monopoli si trasmisero da una generazione all'altra per mezzo di eredità o lasciti, soli metodi con cui si può disporne fino a che lo Stato non evolva in una Comune attrezzata a possedere, dirigere e amministrare terre e industrie all'unico scopo di servire l'interesse pubblico.

Il semplice costume ereditario comporta la suddivisione della terra e spezza il capitale in particelle sempre minori, finché a un certo punto non vale più la pena di possedere l'uno e l'altro bene. E' nell'intento di evitare ciò che i proprietari istituirono i diritti di primogenitura, grazie ai quali la terra passa intatta al figlio primogenito, dando vita a una nuova classe composta di cadetti dotati dell'istruzione, cultura e abitudini dispendiose particolari alla loro classe, ma privi sia di pane sia di companatico. Per guadagnarsi l'uno e l'altro essi si dedicarono a professioni e affari, da cui, causa l'ignoranza, il proletario si trovava escluso.

Automaticamente, senza che nessuno supponesse quanto stava accadendo, si venne allora a formare un sistema poggiato su tre ceti: un ceto alto, un ceto medio, e un ceto basso illetterato. Il ceto basso superava in numero gli altri due ceti sommati assieme, ma troppo povero e ignorante e preso alla gola per dedicarsi a una proficua attività politica, privo di armi all'infuori dei bastoni e delle pietre, di qualsiasi tattica eccetto gli scioperi e le sommosse, esso non poteva far altro se non quanto gli veniva ordinato dai padroni, ed era a mala pena pagato abbastanza da impedirgli di estinguersi in massa, sebbene fosse decimato dalla mortalità infantile e dalla breve vita degli adulti.

La lotta di classe nasce e perdura cronica in un simile stato di cose, lotta in cui la classe superiore e quella media si mettono in lega contro quella inferiore. Difatti gli uomini d'affari, che sono gli strumenti attivi dello sfruttamento a cui è sottoposto il proletariato, vivono accaparrandosi parte del bottino e abbandonano l'esercizio della legislazione e della diplomazia a quei membri della classe proprietaria a cui per capacità o fantasia piaccia dedicarvisi, e lasciano agli altri componenti di questo ceto privilegiato l'agio di vivere improduttivi sul cespite delle loro rendite.

Prima ancora che il sistema dei tre ceti fosse studiato nel suo aspetto organizzativo, proteste e rivolte contro le iniquità da esso derivanti erano all'ordine del giorno. Saggi, veggenti, profeti, agitatori e demagoghi appartenenti a ogni ceto ne denunciarono l'immoralità. Parecchi di loro furon martirizzati e il più conosciuto tra questi è forse Gesù, il quale dichiarò esser più facile a un cammello passare per la cruna di un ago, che a un ricco entrare nel Regno dei Cieli. Avrebbe fatto anche bene a chiarire che per i ricchi è facile essere virtuosi, mentre ai poveri ciò riesce tremendamente difficile; ma Egli non era al corrente del sistema capitalista e, trasportato dalla pietà verso i miseri e dal corruccio per il modo cui era in uso trattarli, attribuiva ogni virtù ai poveri e ogni malvagità agli abbienti. La verità è invece un poco diversa; cattivo è il povero preso in massa, mentre in massa il ricco è migliore; ciò che sta a dimostrare che il male da combattere e abolire non è la ricchezza, bensì la povertà.

Verso il diciottesimo secolo il sistema capitalistico era ormai così complicato, che per giungere a intenderlo si dovette lavorare duro. In Francia i fisiocrati (specialmente Turgot) affrontarono il problema e lo studiarono fino a un dato punto; lo scozzese Adam Smith riprese l'argomento e Malthus, Ricardo e De Quincey lo condussero alla sua finale chiarificazione. Essi riuscirono a convincere persone intelligenti e generose come John Austin, Macaulay, Harriet Martineau, Cobden e John Stuart Mill (quest'ultimo divenne poi socialista), che, con tutti i suoi difetti, pienamente riconosciuti in quanto a ciò e affrontati, il sistema delle tre classi era quanto di meglio la natura umana potesse procurare. Il sistema venne adunque comunemente adottato nella prima metà del diciannovesimo secolo; ma, dato che per forza di cose ben presto lo si dovette rafforzare ovunque con provvedimenti di marca comunista, esso è tanto discreditato in Inghilterra che l'ultimo cobdeniano presentatosi alle elezioni non raccolse nemmeno i voti necessari a rimettersi in tasca il deposito lasciato per l'occasione. Tuttavia il cobdenismo ha tuttora nelle università il suo posto d'onore tra i sistemi classici di economia politica, e probabilmente riacquisterà per intiero il suo perduto prestigio quando una legislazione comunista sarà finalmente riuscita a creare un paese liberato dalla povertà e dalla schiavitù, paese in cui ogni individuo riceva la sua parte di agio e di danaro risparmiato. Ecco, allora, che il cobdenismo potrà tornare abbastanza vitale da render nuovamente attuabile la ristampa dei "Saggi sulla Libertà" del Mill; da canonizzare Benedetto Croce accanto a Karl Marx; e da dominare le menti come ai giorni migliori di Cobden e Bright le dominava il "Libero Scambio".

E' che il cobdenismo non riuscì mai a convincere i sociologi più illuminati, coloro cioè che sapevano vedere oltre gli interessi della classe cui appartenevano e conoscevano il mondo in tutte le sue debolezze. I fatti erano troppo orrendi. Ruskin, Carlyle e Dickens non vollero saperne delle piacevoli teorie miglioriste e di tutte le chiacchiere sulla "spinta al progresso" (vedi Macaulay). Essi si resero conto che il capitalismo era una strada per soli predoni e non vollero perder tempo a studiarne la teoria; così, poiché non lo conoscevano, non seppero trovargli un soddisfacente antidoto politico. Sorse allora Karl Marx, un profeta che aveva letto i rapporti degli ispettori di fabbrica, e più di qualsiasi altro conosceva le condizioni di vita della classe lavoratrice. Essendo ebreo egli ne soffriva come Geremia avrebbe potuto soffrirne, e, con altrettanta foga, odiava. Educato al metodo di Hegel, seppe far suo quel tanto di pensiero ricardiano da potergli tener testa con le stesse armi.

Ferdinand Lassalle, altro ebreo di genio, fece la stessa cosa in Germania: i due uomini possedevano tra loro quanto mancava a Geremia, a Gesù, a Ruskin: un'economia politica atta a tener testa a quella insegnata da Ricardo e da Cobden. Questa economia, chiamata socialismo, poté risolvere i problemi inerenti alla produzione in massa e all'agio da procurarsi alle masse. A questo scopo essa patrocinò la statizzazione della terra, il controllo e l'esercizio delle industrie da parte dello Stato, e, sempre a opera dello Stato, la ripartizione del prodotto fra consumo, capitale e investimento, ponendosi così in aperto contrasto con le restrizioni cobdeniane all'attività statale, la quale secondo questa ultima doveva unicamente preoccuparsi di controllare la polizia, la diplomazia, l'alto clero e proteggere il contratto privato.

L'antagonismo fra i due sistemi ha indotto qualcuno a fonderli insieme. I socialisti fabiani apersero gli occhi ai nostri cobdeniani di Manchester e del Midland sull'enorme impulso che le risorse finanziarie e l'appoggio politico concesso dallo Stato possono dare all'iniziativa commerciale. Riuscire a tanto senza riconoscere allo Stato la qualità di proprietario terriero, o il diritto di confiscare rendite e interessi, porta la classe capitalista a una ricchezza così grande da permetterle tetragona ormai all'avarizia - di essere generosa verso il proletariato, soddisfacendo così una decisiva maggioranza di elettori. Questa politica, chiamata fascismo in Italia e nazionalsocialismo in Germania, sta prendendo piede e sviluppandosi sempre più in Inghilterra e nelle cosiddette democrazie occidentali dove è rimasta innominata. Capitalismo di Stato è il suo vero nome, ma, poiché lo si suole confondere ancora con il vecchio capitalismo privato, i sostenitori di quest'ultimo denunciano il fascismo italiano e tedesco quali prodotti di un terribile e malvagio sistema politico e lo additano all'obbrobrio generale. Tutto ciò è dovuto alla presente e generale confusione delle lingue che, poiché le teorie capitaliste, socialiste e fasciste sono unicamente capite da pochi specialisti, porta a erronee interpretazioni di vocaboli e a errori d'ogni sorta da parte di uomini politici o di giornalisti i quali non sanno che si dicano. Invece i pochi non del tutto ignoranti in materia scoprono che nel diciannovesimo secolo il socialismo si preoccupava troppo di abolire la povertà e troppo poco di studiare un giusto impiego per le ore di svago e la cultura. Il suono della parola socialismo percuote gli orecchi di questi pochi, quasi fosse un barbarismo; essi, perciò, a socialismo sostituiscono umanismo scientifico, espressione più comprensibile e, senza dubbio, appartenente a lingua più raffinata, libera se non altro dall'Inumanesimo che negli ultimi cento anni è riuscito a orrendamente imbarbarire la parola Scienza.

Nel frattempo la tirannia imposta dalla natura domina tutte le considerazioni politiche di partito e fondamentale rimane sempre il problema intorno alla organizzazione della società umana. E' necessario assicurare a ognuno il massimo benessere possibile, distribuendo fra tutti, con criterio di giustizia, il peso del lavoro e il beneficio dell'agio. Fino a tanto che tutto questo, oltre a esser richiesto, non verrà pure messo in pratica, tutte le costituzioni, "slogans" da comizi e programmi politici - dai Comandamenti di Mosè e dal Sermone della Montagna alla Carta Atlantica e al Convegno di Teheran - avran poco più valore di bolle di sapone. Benedetto Croce ha ragione quando insegna che la libertà è chiave alla storia; ugualmente ragione Benito Mussolini nel chiamare la libertà un cadavere fetido. Quanto a noi, gridiamo a gran voce di essere entrati in guerra per difendere la democrazia, e Adolf Hitler ci risponde che la democrazia inglese non è altro che una plutocrazia anglosemitica. Libertà e democrazia sono due parole vuote per il cittadino che non gode di qualche agio. Là dove il 90 per cento della popolazione deve sobbarcarsi il peso di tutto il lavoro e rinunciare a ogni svago, mentre il 10 per cento ha tutto lo svago e nulla del lavoro (o poco ci manca), la libertà è un miraggio fuggevole; la Magna Carta, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, la Costituzione americana, il motto francese Libertà, Fraternità, Uguaglianza, semplici pezzi di carta; né si riuscirebbe a congegnare qualche nuova dichiarazione dei diritti; un simile stato di cose rende endemica la guerra di classe e, come si è dimostrato in Spagna e in Russia, questa guerra è tremendamente sanguinosa e distruttiva. Le vecchie qualifiche dei partiti: democratico e repubblicano, laburista e nazionalista, liberale e conservatore, di destra e di sinistra, reazionario e progressivo, non sono più appropriate; bisogna invece appurare se i candidati hanno opinioni pre - o post marxiste; se sono capitalisti, fascisti o comunisti. Per intanto, fino a che la distribuzione del lavoro e degli agi rimane corrotta quale è oggi, tutti i Governi, centrali o locali che siano, agiscono quali strumenti di corruzione, e ciò indifferentemente dalla democraticità dei principi e dei programmi a cui si attengono.

Questo punto di vista sulla situazione economica è basilare in vista di uno sviluppo armonico della politica moderna.

42. SOMMARIO POLITICO
Fino a che il popolo non potrà scegliersi i suoi capi, e disdire la propria scelta a intervalli abbastanza lunghi da permettere un giudizio sull'operato di chi lo governa, governare risulterà un atto di tirannia esercitato nell'interesse della classe, casta o cricca al potere. E fino a che il suffragio popolare sarà limitato e guidato da un regime costituzionale, l'ignoranza delle più semplici questioni politiche unita all'idolatria riuscirà non soltanto a provocare l'avvento di dittatori alla Hitler, ma anche movimenti insensati condotti da bugiardi o da pazzi dello stampo di Titus Oates o di lord George Gordon. La scelta dei governanti dovrebbe pertanto venir limitata a coloro che abbiano superato tutte le prove credute necessarie a giudicare della saggezza, comprensione, cultura ed energia di un individuo. Ai fini legislativi il suffragio universale è fuori questione, dato che unicamente una piccolissima percentuale di qualsiasi popolo al mondo possiede la competenza necessaria a una scelta efficace. Ma per una pubblica disamina del malcontento, per una inchiesta sull'operato dei ministri o una critica al Governo, per un suggerimento di nuovi metodi e di nuovi rimedi, di promozioni, di risoluzioni, di voti di fiducia o di sfiducia, e in modo generale per mantenere il Governo in contatto col popolo, risulta necessaria l'opera che solo può svolgere un parlamento popolare i cui seggi siano divisi in numero uguale fra uomini e donne.

Soltanto un cosiffatto parlamento può propriamente chiamarsi Camera dei Comuni. Non dovrebbe però essere investito del potere di emanare leggi in quanto la capacità legislativa è tutt'altro che comune. La natura provvede una piccolissima percentuale di persone abbastanza fuori dal comune da esser capaci di rivedere, progettare, aggiungere qualche articolo ai Dieci Comandamenti, o anche soltanto di provvedere acciocché i loro precetti vengano messi in pratica con efficacia. Ma, a meno che questa piccolissima percentuale possa essere eletta dal popolo, e dal popolo venir rimossa, esso, non sentendosi governato da persone scelte dalla sua libera volontà, si darà alla sedizione. Per fortuna, ai veri bisogni la natura provvede sempre e con estrema larghezza: nel mare, per esempio, un uovo di pesce ha una probabilità su mille di riuscire a schiudersi; la natura, allora, mette riparo procurando le uova a milioni; un solo Primo Ministro, o Console o Presidente che sia, e una dozzina di ministri bastano a governare un paese; la natura, se l'ignoranza e la miseria non ne frustrano il normale sviluppo, ne produce a centinaia. Un popolo ben nutrito e bene istruito possiede perciò una percentuale di buoni legislatori del tutto sufficiente a permettergli la scelta dei suoi capi; ora, la facoltà di scelta è quanto occorre affinché gli elettori abbiano a portata di mano uno strumento capace di stabilire sul Governo il necessario controllo. Per riuscire a porre in atto questa facoltà di scelta occorre sceverare dalla massa gli individui abili, e di questi individui mettere alla prova le capacità; dopo di che bisogna classificarli in apposite liste, ciò che a questo riguardo, per lo meno, renderebbe l'arte di governare una professione come tante altre. Allora soltanto, il legislatore e l'amministratore dei beni pubblici si troveranno a pari condizioni del sacerdote consacrato, dell'avvocato e del dottore iscritti negli albi professionali e del laureato. Il tribuno, anche se non registrato su qualche lista, avrà ugualmente agio di farsi sentire alla Camera dei Comuni. Si dovrebbero perfino considerare dei mezzi con cui eccezionalmente eludere le limitazioni procurate dalle prove esaminatrici. Questi mezzi potrebbero essere le lauree "ad honorem" o i titoli vari conferiti a professionisti in "bona fide", purché la capacità degli individui così gratificati sia stata comprovata dagli eventi; a ogni modo tali irregolari qualifiche ed evasioni non dovrebbero essere concesse che da governanti vagliati con il sistema delle prove. Necessario, poi, è che le prove siano ogni tanto aggiornate ai bisogni dell'epoca; a questo scopo è bene riesaminarle sovente e considerarle provvisorie e mutevoli, non sacre e infallibili.

Il sistema dei partiti, quale d'uso in Inghilterra, dovrebbe venir relegato nel dimenticatoio. Lo si escogitò due secoli e mezzo fa per metter in vincoli la Camera dei Comuni costringendo il re a scegliersi i ministri nel partito di maggioranza e a sciogliere il Parlamento - ciò che infliggeva ai deputati un'elezione costosa - ogni qualvolta questo partito era sconfitto. Ecco perché i membri del Parlamento non votano mai sui meriti o demeriti di un provvedimento, ma sempre sull'interrogativo se il partito al potere deve rimanere in carica o no, ciò che fa correre ad ambe le parti il rischio di perdere i propri seggi e, nel caso in cui il Governo fosse rovesciato, procura gravi spese e un cumulo di guai.

Bisognerebbe, perciò, adottare in Parlamento i metodi in uso presso le nostre municipalità dove i membri vengono eletti per un tempo fisso, e svolgono la loro opera in comitati stabili i quali studiano i problemi di loro pertinenza e riferiscono al consiglio comunale le conclusioni a cui sono giunti. Queste conclusioni vengono discusse o accettate, emendate o respinte in vista soltanto del loro valore intrinseco; ciò ha luogo perché i membri votanti non ricavano vantaggio o svantaggio dal voto a cui sono chiamati, e perché il ripudio di qualsiasi provvedimento non comporta l'immediato sciogliersi della giunta con susseguenti rielezioni, né fa decadere dall'incarico il presidente della sezione in causa. Attualmente i consiglieri municipali si divertono al gioco della politica dei partiti guadagnando alle proprie vedute i compagni più bovini, coloro i quali, se privi dell'incitamento dato da qualche caporione politico, non saprebbero per chi votare, e alle elezioni si oppongono ai candidati indipendenti. Per rimediare a ciò bisogna escludere dalle liste municipali i nomi dei bovini poiché, eccettuato loro, chiunque altro sa dare il suo parere su un qualsiasi rapporto, indipendentemente dalle considerazioni di partito.

Parlamenti e municipalità non permeano, però, l'intiero terreno politico, e nemmeno lo permeeranno quando, scindendosi, si moltiplicheranno al punto che invece di un parlamento ne avremo parecchi. I versi che il dottor Johnson inserì nel poema di Goldsmith:

    How small of all that human hearts endure That part which kings or laws can cause or cure! [14].

sono oggi ancora d'attualità, poiché i Sindacati operai. le Associazioni professionali, il Consiglio generale dei medici, i vescovi, la Borsa - non parliamo poi degli imprenditori privati, dei finanzieri e delle loro federazioni - mantengono diritti di ammissione o di esclusione da tanti lavori atti a procurare il pane quotidiano che l'abolizione di ogni diretto controllo governativo, ammettendo fosse possibile, lascerebbe i nostri mezzi di sussistenza alla mercé di organizzazioni sulle quali non abbiamo nessun controllo. Soltanto lo spirito di corpo, chiamato in Inghilterra etichetta professionale, serve da verificatore alle citate organizzazioni e lo spirito di corpo può venire in conflitto con la cura da darsi al bene pubblico, così come finisce per procurare al sacerdote un interesse nel peccato, all'avvocato nella lite, al poliziotto nel delitto e nella dimostrazione di colpevolezza, al dottore nella malattia, alla Borsa nel gioco, all'impero nella povertà e nella servitù, e all'impiegato nel compiere il minor lavoro per la miglior paga ottenibile.

Qualsiasi organizzazione di questi sistemi antisociali tende a trasformarsi in una cospirazione contro l'interesse pubblico. E' così che, al fine di mantenere alti gli emolumenti da ottenersi nell'esercizio di una data professione, esse procurano scarsità nei servizi, creando gravose difficoltà quali tirocini inutilmente prolungati, esami su questioni tecniche superate, prove di lingue morte e questioni accademiche di nessuna importanza. Esse oppongono una resistenza passiva a qualsiasi tecnica nuova atta a soppiantare la loro propria e a imporre un nuovo studio; perseguitano senza pietà chiunque non appartenga alla loro organizzazione. Ciò che garantiscono di abilità e di sapere è sovente immaginario; quanto all'abilità, basta considerare che si può ottenere il più grande attestato di capacità chirurgica senza mai aver eseguito un'operazione, e quanto al sapere, esso è spesso puramente accademico e antiquato.

Questo lasciar liberi da qualsiasi controllo statale organi capaci in potenza e realtà a produrre simili danni, mentre, invece, usufruiscono di poteri e privilegi che nessuno degli Stati componenti il nostro reame sognerebbe chiedere, è semplice follia politica; tuttavia non ce ne preoccupiamo mentre strilliamo di indignazione contro l'orribile tirannia messa in opera sul continente dai moderni Stati fascisti i quali nazionalizzano gli organismi di cui sopra incamerandoli nei vari dicasteri. Nulla risulta certo più democratico del rifiuto di creare uno Stato professionale ponendo per base che sono i profani, cioè gli interessati, a dover controllare politicamente le professioni, e non le professioni i profani.

Un'organizzazione medica in cui i pazienti non abbian diritto di parola, un clero autorizzato a vincolare e sciogliere le anime dei congregati, una professione legale non frenata dai clienti, un sistema industriale in cui i produttori e non i consumatori siano rappresentati, tutto ciò produce una tirannia pericolosa quant'altre mai. Ciononostante riteniamo normale che il clero venga controllato dai sacerdoti, i medici dai medici, i tribunali dagli avvocati, i proprietari dai proprietari, gli agenti di cambio dagli agenti di cambio, i minatori dai minatori, gli ingegneri dagli ingegneri e così via. Allo stesso modo, in caso saltasse in mente a qualcuno di promuovere una associazione atta a controllare delitti e furti, dovremmo trovare naturalissimo che i membri di questo consesso fossero tutti assassini e ladri. Perfino con un organismo del Consiglio privato quale è da noi il Comitato generale di medicina, dovetti per anni far fuoco e fiamme prima di ottenere che i profani, in questo caso i pazienti, vi fossero rappresentati, e quando riuscii nel mio intento fu soltanto in grazia alla scandalosa politica di persecuzione a scapito di chiunque ne fosse fuori, condotta dal suddetto Comitato.

Questa consuetudine non è frutto di una linea di condotta deliberata. La sua unica ragione d'essere sta nell'organizzazione dei produttori fatta in anticipo su quella dei consumatori. Organizzarsi risulta assai più facile per i primi che per i secondi, poiché i primi formano organi assai limitati il cui solo scopo è la preoccupazione di mantenersi in vita. I consumatori, invece, che nei casi più rilevanti sono addirittura l'intera nazione, debbono esser organizzati nazionalmente, ciò che significa che, fino a quando l'organizzazione sociale non sarà sviluppata al punto da render possibili organismi nazionalizzati a questo modo, ogni consumatore se la cava come meglio può, ragione per cui i prodotti hanno la meglio.

Nulla da fare contro di ciò, poiché nelle popolazioni - milioni di anime, oggi, in ciascuna nazione - i gruppi organizzati, lo sappiano essi o no, finiscono sempre per governare i gruppi disorganizzati. Lo Stato socialista nel suo aspetto marxista è una organizzazione dei consumatori decisi a difendersi contro i produttori organizzati.

Finché l'organizzazione dei consumatori non risulti abbastanza estesa da dominare quella dei produttori, la differenza di ingegno riscontrabile in natura da che mondo è mondo renderà impossibile lo stabilizzarsi di una vera democrazia, tanto più che alcuni ingegni, fra i più preziosi, non sono lucrativi, mentre altri, tanto inferiori da potersi meglio annoverare fra i vizi, rendono moltissimo.

I super-poeti, i super-filosofi, i super-matematici, debbono morir di fame o rassegnarsi a impartire i loro insegnamenti da qualche cattedra universitaria, a giovani del tutto incapaci, bisognosi unicamente di imparare le risposte da dare alla tesi di esame, a meno che, imitando Morris e Richardson, essi non intendano dedicarsi saggiamente a un'industria assicurandosi a questo modo una rendita certa. Allo stesso tempo, individui dai progetti arditi combinati con una spiccata tendenza affaristica fanno fortuna tanto nel commercio quanto nella finanza. Sotto il regime capitalista le carriere non sono aperte a tutti gli ingegni: le porte si spalancano ad alcuni, mentre di fronte ad altri rimangono ermeticamente chiuse. Al culmine della fama William Morris, maggiore tra i maggiori poeti del diciannovesimo secolo, mi disse che guadagnava un centinaio di sterline all'anno con le sue poesie. Egli viveva però nell'agiatezza, grazie ai proventi di un'industria e di un negozio per cui produceva e vendeva mobilia e oggetti d'arte di grande pregio artistico; ben inteso, però, i suoi proventi non erano lauti quanto quelli dei suoi concorrenti che commerciavano roba scadente di gusto più che comune.

Robert Browning, tassato a vista per la sua attività poetica con un imponibile di 100 sterline annue, minacciò di abbandonare il suo paese per parecchi anni, e difatti se ne andò. Egli viveva con i proventi del suo reddito privato non guadagnato. Newton per il suo calcolo infinitesimale, Einstein per la sua relatività non furono pagati tanto quanto lo sono stato io per una sola rappresentazione di una commedia a cui nemmeno prendevo parte. Così anche tra coloro i quali godono di ingegno eccezionale il reddito è caratterizzato da profonde disuguaglianze senza calcolare, poi, le disuguaglianze dovute alla proprietà privata in terra e capitali.

L'uguaglianza del reddito fino al punto di rendere affini tutte le sezioni della comunità è base fondamentale a ogni civiltà stabile. Questo scopo è facilmente ottenibile poiché i geni, i santi, gli eroi, i conquistatori, e in generale tutti i cerebrotonici, non costano per il loro mantenimento più dei semplici Tom, Dick e Molly. Ecco una bella smentita di quanto è comunemente detto - i nostri Tom, Dick e Molly ne parlano certo più sovente dei nostri Omero e Pitagora - e cioè che, se individui meno abili e più poveri di loro ricevono per il lavoro che fanno un aumento di mercede, è giusto che essi pure vengano pagati di più al fine di mantenere una differenza di reddito quale sicuro segno della loro superiorità. L'educazione dovrebbe bollare di indegnità un concetto politico tanto misero; peccato invece che la si usi per imporlo. Prendiamo a base il tenore di vita che oggi (1943) viene rappresentato da una rendita di qualche migliaio di sterline annue, e diciamo che tutti i redditi guadagnati debbono salire a questo livello. Poiché l'estrema urgenza è maggiormente risentita dai più poveri, si dovrebbe incominciare coll'innalzare il reddito più basso fino al gradino che gli è subito superiore; livellati così i due gradini più bassi, innalzarli assieme al grado superiore ancora, e così via via finché non si raggiunga la parità previamente fissata. L'operaio specializzato lasci aumentare la paga di quello comune fino a raggiungere la somma da lui guadagnata, e allora, ma soltanto allora, si adoperi a salire assieme al compagno fino al gradino superiore posto sulla scala delle paghe. Nulla gli vieta, se questo lo soddisfa, di credersi un essere superiore e di sentirsi orgoglioso delle sue capacità; sappia però che il manovale e il garzone muratore sono necessari quanto lui; sappia che da un momento all'altro l'invenzione di qualche nuova macchina può fare del manovale e del muratore due lavoratori inutili, oppure rendere lui inutile e il manovale necessario; sappia ancora che il benessere del suo vicino è parte inseparabile del suo proprio benessere: il palazzo più lussuoso diventa indesiderabile e poco sicuro se gli sorge intorno un quartiere miserabile in cui l'aliquota delle morti sia altissima. Più di ogni altra cosa egli deve liberarsi dall'errata nozione per cui è spinto a credere che la lunga gamma dei valori intercorrenti fra il lavoratore comune a un estremo e la più rara di tutte le capacità tecniche all'altro possa trovare la sua espressione in una scala di paghe, salari, onorari, o in qualsiasi altra espressione monetaria.

Se poi per caso dubitasse di quanto sopra, si potrebbe domandargli di esprimere in sterline, scellini e pence la differenza che corre fra il lavoro di un arcivescovo e quello di un allibratore, di stabilire un giusto compenso sia per i poeti sia per i salumai.

Sta invece nella nostra capacità il rendere ben chiaro che due ore detratte dal tempo libero di qualsiasi individuo valgono, come in ogni altro caso, il doppio di un'ora, e variare la ripartizione dei periodi di lavoro e di riposo, nonché, quando non si tratti di fabbriche, uffici, servizio militare, eccetera, anche l'età in cui poter onorevolmente andare in congedo. Nel caso di un commediografo, per esempio.

43. SOMMARIO RELIGIOSO
E' giunta l'ora di dire chiaro e tondo ai nostri fondamentalisti che essi sono oggi i peggiori nemici della religione. Sappiamo che Jehovah non è un Dio, bensì un barbaro idolo da tribù. In quanto alla Bibbia, frutto del lavoro di abilissimi scrittori, essa è, senza per questo ricorrere alla ispirazione celeste, ricca di poesia, proverbi e precetti degni di suscitare ammirazione, nonché di aneddoti divertenti se non sempre edificanti. (Il traduttore inglese ne ha poi fatto un capolavoro della nostra letteratura.) Per il resto troviamo nelle sue pagine un ammasso di superstizioni selvagge, una cosmologia sorpassata, una scienza teologica assai barbara. Da principio questa teologia non si diparte da espressioni di rozza idolatria basate su sacrifici propiziatori sanguinari (dal Libro della Genesi al Libro dei Re); poi si ritrae in uno scettico pessimismo disilluso e ateo (l'Ecclesiaste); quindi rivive in un trasporto di ardore rivoluzionario che, araldo della giustizia e della pietà divina, ripudia tutti i sacrifici (Micah e i Profeti); ricade, allora, nel sentimentale e concepisce Dio in veste di tenero Padre (Gesù); ritorna quindi ai sacrifici sanguinosi e scansa la politica rifugiandosi nella fede dell'altro mondo e nel Secondo Avvento (Atti degli Apostoli); finalmente esplode in un mistico sogno da oppiomani per un'impossibile Apocalissi (Rivelazioni).

Ognuna di queste fasi è presente in modo così unilaterale e squilibrato da aver indotto la prima Chiesa cristiana cattolica a proibirne la lettura ai laici che non ne ricevessero l'autorizzazione; quando, poi, la Riforma l'affidò alle mani dell'uomo comune, il risultato fu tutta una serie di lotte religiose culminate oggi nella guerra mondiale hitlerizzata.

In quest'ultima guerra le campagne di Giosuè per la conquista di quanto formava il suo mondo sono ritornate di moda. Riscontriamo un'unica differenza: il popolo eletto a conquistare ed ereditare la terra non è stavolta l'ebraico, ma il tedesco "Herrenvolk", e le contrade traboccanti di latte e miele da conquistarsi e passarsi a fil di spada non sono soltanto le terre nord-africane chiamate ai tempi antichi il paese di Cana, ma, in potenza, i cinque continenti. Paradossale in tutto ciò è che Giosuè-Hitler, nato e cresciuto in un ambiente assai povero, tutto dedito a quell'arte del piccolo commercio in cui tanto temuta e risentita è la concorrenza degli ebrei e per cui egli, Hitler, aveva scarse doti, odii Israele e sia tuttavia così pregno di giudaismo biblico - dovuto all'influenza dei primi anni di studio - da perseguitare gli ebrei fino allo sterminio, così come il primo Giosuè perseguitò gli abitanti di Cana. Ciò facendo egli conduce il suo paese alla rovina; ora, non è l'anti-semitismo a muoverlo, ma il semitismo succhiato dalla Bibbia e rivolto contro se stesso.

Il signor Ognuno che mai per conto proprio legge la Bibbia, e, privo di qualsiasi senso critico, ascolta ogni domenica in chiesa (se ci va, cioè, poiché ne sta perdendo l'abitudine) quanto della Bibbia gli viene letto durante l'Ufficio Divino, non ricaverà altro da questa mia critica se non un severo giudizio sulla mia irreligiosità. Probabilmente mi giudicherà degno dell'inferno, ammesso vi sia un inferno; ora il signor Ognuno non è più sicurissimo di ciò, dato che se fosse questo luogo una certezza per me, sarebbe, a suo riguardo, per lo meno una probabilità.

Se dovessimo canonizzare alcune raccolte di opere letterarie, perché ispirate in senso evoluzionistico - ed è quanto abbiamo fatto con l'abbondante selezione di antichi scritti ebraici da noi chiamata "Libro dei Libri" - faremmo certo meglio a canonizzare la nostra letteratura moderna, poiché allo stesso modo di quella ebraica essa si ispira in senso evoluzionistico, mentre si trova a essere assai più evoluta dal lato scientifico e sociale. Nel suo aspetto religioso, la Bibbia non ci è di nessun aiuto; ci ostacola, anzi, rendendoci del tutto irreligiosi. Nel diciottesimo secolo Rousseau diceva: «Sbarazzatevi dei vostri miracoli e l'umanità intera cadrà ai piedi del Cristo»; parole dette a proposito, allora, benché egli avesse torto; il mondo intero era ormai indifferente ai miracoli della Bibbia, e invece di inginocchiarsi ai piedi del Cristo si inginocchiava a quelli di Pasteur e di Pavlov, stabilendo un nuovo canone dei miracoli: miracoli della scienza, questa volta.

Il mondo non ha, d'altra parte, buttato via le vecchie superstizioni fondamentalistiche e il suo abito mentale. Alla fine dello scorso secolo il pastore di anime Stewart Headlam si mise nei pasticci di fronte ai suoi superiori per aver detto che la Chiesa avrebbe fatto bene a seppellire la Bibbia per un centinaio d'anni, di modo che riscoprendola si potesse giudicarla secondo il suo valore reale. Per conto mio si dovrebbe seppellire anche il "Prayer Book", troppo saturo di sacrifici di sangue per poter addivenire a un'utile revisione. In quanto alle costanti ripetizioni delle parole «Per Gesù Cristo, Signor nostro», sempre più esse ci dàn fastidio, perché sempre più la gente si rende conto che quanto c'è di vero nel "Prayer Book" è vero anche astrazion fatta dalla venuta del Cristo, e che il suo martirio non ci toglie la minima responsabilità nei peccati da noi commessi. Per esempio, benché un ladro possa redimersi diventando onesto, fino a che non mette in pratica l'onestà rimane un ladro, e questo anche se Gesù fosse morto le mille volte. Gesù non ha mai detto: «Peccate quanto vi piace; il mio sangue laverà le vostre colpe». Egli ha ripetuto, invece: «Non peccate più». Il "Prayer Book" che costantemente ci presenta il Cristo come capro espiatorio finisce per screditarlo e rovina l'opera civilizzatrice svolta dalla Chiesa. A questo modo il "Prayer Book" allontana dalla Chiesa l'uomo comune, sebbene egli creda che sarebbe forse bene andarci, e così questo miserello passa sovente la sua domenica in maniera ben più monotona e dispendiosa di come l'avrebbe trascorsa in una chiesa modernizzata e ispirata ai bisogni della nostra epoca.

La Chiesa cattolica romana, più saggia della Chiesa anglicana, è servita da sacerdoti istruiti all'uopo in modo del tutto professionale, invece che da dilettanti gentiluomini britannici che si distinguono dagli altri uomini per un colletto di forma leggermente inusitata; eppure essa si trova in una posizione di minor vantaggio ancora, poiché non ammette di esser mai caduta in errore, e si rifiuta a ogni esperienza. Ora, al punto in cui la scienza moderna ci ha oggi condotti, non è più lecito credere in Dio, eccetto se si voglia ammettere che Dio nei suoi esperimenti si è a volte sbagliato. Il mondo è pieno dei suoi errori; tocca a noi correggerli e liberarcene. Ecco un esempio tra i più usuali: i cattolici appartenenti alla Chiesa romana debbono tollerare che perfino i loro più cari vengano sottoposti alla pratica della corruzione della carne, e continuano perciò a seppellire i propri morti: la sola ragione di ciò è che la loro Chiesa si compromise un giorno sostenendo la teoria assai infantile per cui un corpo seppellito può risuscitare, mentre uno bruciato no. Ciò mi ricorda uno zio il quale, credendo giunta la sua ora e immaginando di essere portato in Paradiso, come Elia, sopra un carro celeste, si tolse gli stivali per facilitare il trasporto. Se la Chiesa cattolica romana intende competere con i cattolicesimi rivali e ottenere la fede di uomini meglio istruiti di quanto non lo fosse mio zio, essa deve innalzarsi sopra questo mediocre livello mentale e ammettere che la legge dell'eterno mutare è la legge di Dio. Un altro esempio ce lo dà con il suo rifiuto di ammettere il divorzio. Essa, così, si trova costretta ad annullar matrimoni basando l'annullamento su motivi a volte tanto futili che nemmeno il Tribunale dei divorzi nello Stato del Dakota potrebbe trovarli validi.

I santi e i quaccheri riescono a essere religiosi pur facendo a meno dell'ausilio di un rito, e sanno anche comporre le loro preghiere; c'è però chi non andando in chiesa dimentica la propria religione e se ne va all'inferno o, peggio, in guerra. Certo a lungo andare la gente finirà per non mettere più piede in chiesa, tanto più se quanto le viene insegnato nel luogo sacro risulta in antitesi con la ragione. Le Sanzioni dogmatiche e i Divieti debbono essere riveduti abbastanza sovente se si vuol mantenerli aggiornati coi tempi, evitando così un disastroso conflitto fra dogma e pragma. Di quanto vo dicendo purtroppo ne ho già fatto l'esperienza - il signor Ognuno saprà trovare una morale così poco lusinghiera per tipi della mia fatta da indurlo a mettere sotto chiave l'argenteria ogni qualvolta gliene capiterà qualcuno per casa. So pure che egli mi apprezzerebbe meno ancora, se scoprisse che ho abbastanza spirito religioso da aver dedicato gran parte della vita alla fatica di ripulire alcuni "credo" costretti nella polvere degli anni, e renderli degni di fede, poiché son convinto che, senza l'aiuto della religione, la società si sfalda. Una religione incredibile comporta sempre molti disagi: è questa la ragione per cui il signor Ognuno non ama la religione, né le persone religiose. Ero giovanissimo quando mi diedi a sostenere che gli uomini non sono buoni in obbedienza ai Dieci Comandamenti ma al loro senso di onore: cognizione, questa, che devo a me solo e che servì a guarirmi dalle bugie e dai furterelli infantili.

Basandosi su ciò i miei numerosi zii conclusero che ero ateo e che bisognava in qualche modo correre ai ripari. Ma poiché nulla fu fatto, accettai l'epiteto di buon grado giudicandolo ben guadagnato dalle mie qualità di integrità morale e mi sentii alla pari di Giordano Bruno e della nobile schiera di martiri che la scienza pone su un gradino superiore a quello su cui si suole onorare la religiosa Compagnia degli Apostoli. Sono d'accordo anch'io nel riconoscere che, se giovani di buona famiglia come potevamo calcolarci Shelley e io si vantano di essere eretici e nelle università, per seguire il loro esempio, altri giovani si riuniscono in circoli, il signor Ognuno ha ragione di pensare che da qualche parte qualcosa non funziona. Gli eretici sono con ogni evidenza traditori della civiltà e dovrebbero perciò venire liquidati dall'Inquisizione (non è del tutto necessario mandarli al rogo), la quale oggi ha cambiato nome, pur mantenendosi ugualmente attiva, non fosse altro che nella lotta contro le eresie Thug-gee e Vudu.

Le cose però si complicano quando l'Inquisizione è di idee antiquate, mentre gli eretici sono aggiornati alla loro epoca. Ai tempi nostri l'istruzione religiosa e l'abitudine di andare in chiesa hanno tanto perduto del loro imperio sopra il signor Ognuno che le critiche da me mosse ai "credo" non provocarono in nessun momento l'indignazione suscitata da quelle di Shelley allo stesso proposito. Si dice infatti che uno scandalizzatissimo inglese, avendo per caso incontrato il poeta in un ufficio postale, gliele diede secche. In quanto a me, essendo ospite un giorno di un circolo di Manchester, venni insultato in modo tanto villano da uno dei membri, che mi trovai nell'obbligo di rimproverarlo severamente per il suo comportamento così poco degno e di avvertirlo che chi mi aveva invitato poteva anche lagnarsi di lui alla presidenza. Egli non era rimasto urtato dal mio deciso rifiuto di riconoscere in Jehovah un Dio, ma dall'aver io negato l'onniscienza e l'infallibilità di Shakespeare.

Un'altra volta mi trovai presente a una riunione presieduta da un signore che aveva dedicato l'intera vita allo scopo di combattere la moderna eresia della sfericità della terra. Lui la terra la dichiarava piana. Il dibattito che ne seguì fu tra i più buffi a cui abbia mai assistito. Il conferenziere venne subito assalito dal fuoco di fila di un'opposizione quale mai un ateo avrebbe saputo suscitare; egli, che conosceva a memoria gli argomenti degli oppositori, pareva giocare ai birilli con essi e, rispondendo disinvolto a quanto era creduto irrefutabile, lanciava sferzate all'assemblea infuriata. Gli si chiese se mai avesse osservato una nave con il cannocchiale e se mai si era accorto che a un certo momento essa pare affondare pian piano sotto la linea dell'orizzonte; con molta calma l'oratore replicò domandando al contraddittore se poteva asserire di aver fatto egli stesso questa prova. Risultò all'inchiesta che, dei presenti, soltanto l'oratore e io avevamo un'esperienza personale di questo fenomeno di illusione ottica. Il conferenziere proseguì dicendo: «Il mio contraddittore confessa di aver parlato per sentito dire; ora vorrei domandargli: si è mai egli soffermato su un ponte ferroviario e non ha veduto prima convergere, poi congiungersi in lontananza le rotaie? Sì, vero? E crede egli che le rotaie si congiungano veramente come pare facciano?». Un altro contraddittore, rosso per l'ira, si alzò gridando: «Siete capace di negare che se partite da Liverpool e vi mettete a viaggiare sempre verso est o sempre verso ovest, ritornerete a Liverpool?». «Si capisce che ci ritorno» disse l'oratore e con un dito tracciò un circolo sul tavolo. Il contraddittore successivo, sicuro di avere in mano la carta vincente, la giocò di botto: «In un eclissi l'ombra del corpo eclissante è rotonda: come lo spiegate?». E l'oratore: «Anche l'ombra di una teglia da focaccia, che pure viene considerato un oggetto assai piatto, è rotonda».

Intervenni allora nella discussione per dichiarare che il conferenziere aveva ormai ridotto al silenzio tutti i suoi oppositori, i quali si erano accontentati di ripetere pappagallescamente una filza di asserzioni pescate qua e là, senza mai essersi dati la pena di verificarne la veridicità. Soggiunsi però che, da quanto avevo potuto dedurre secondo gli argomenti offertici dal conferenziere, mi sembrava dover concludere che la terra aveva la forma di un cilindro.

Nei giorni susseguenti mi piovvero addosso molteplici lettere minatorie nelle quali i signori Ognuno notificavano la loro rinuncia alla mia amicizia e chiedevano la mia espulsione da qualsiasi associazione di gente colta e anche solamente di gente per bene. Ritenevano che io credessi piana la terra, e che questo fosse segno evidente della mia ignoranza e della mia delinquenza morale. Non c'era dubbio che i miei corrispondenti mi avrebbero visto volentieri, se non proprio legato al rogo, imprigionato almeno per un anno. Se per quattro lustri avessi scritto l'articolo di fondo del "Libero Pensatore", non avrei ricevuto nemmeno una cartolina d'ingiuria. Sovente il signor Ognuno è oggi altrettanto credulone e bigotto nel suo moderno scetticismo scientifico, di quanto suo nonno lo era nella sua religione evangelica.

Il signor Ognuno e la sua consorte sembrano tener per certo che se qualcuno dissente da loro su questioni a loro parere importanti essi hanno il diritto di fargli tutto il male che vogliono, salvo bruciare "l'eretico". Essi giudicano questi diritti giusti e naturali quanto l'altro diritto che li spinge a infliggere tormenti inauditi a chi viola la legge e a frustare i figli cattivi, facoltà, questa, condivisa con i maestri di scuola. Se, a giustificazione del loro operato, ci dicessero che i caratteri dei malandrini e dei figli di cui sopra sono così impulsivi e violenti da poter mandare in rovina la civiltà qualora non vi fosse lo sfogo di una valvola di sicurezza, si potrebbe discutere con loro. Il guaio invece è che sostengono teorie strampalate, come a esempio che due neri formano un bianco, e che il loro "sereno agire secondo giustizia" è unicamente volto alla difesa della società umana. Quando insisto a far loro intendere che non hanno nessun diritto di punire chicchessia eccetto, forse, se stessi; che Gesù nel suo insegnamento a questo proposito dava loro un buon consiglio, e pratico per di più, e che il trattamento inflitto ai delinquenti è diabolico, essi mi tacciano di sentimentalismo sognatore. Ma quando soggiungo che, lungi dal simpatizzare con coloro che vorrebbero sostituire l'ergastolo a vita alla pena capitale, l'ergastolo a mio avviso è molto peggiore della morte, e chiedo che gli individui dannosi, per cui più non c'è speranza di ravvedimento, vengano liquidati nel modo più garbato possibile, essi si confondono e perdono il bene dell'intelletto. Così fanno pure quando dopo aver dichiarato esser la mia fede del tutto democratica chiedo la privazione dei diritti elettorali e l'allontanamento degli uomini politici incompetenti e sempliciotti da qualsiasi attività politica che non sia quella di presentare le proprie lagnanze e discuterne, o di scegliere i propri governanti fra uomini di già conosciuta e classificata competenza.

Mi trovai una volta presente all'investitura del rettore in una parrocchia appartenente alla Chiesa d'Inghilterra. Benché sapessi che il vescovo avrebbe dovuto fare all'aspirante una domanda alla quale la risposta non poteva essere che una deliberata menzogna riconosciuta tale da ambedue le parti, e che tutti e due i contraenti dovevano assoggettarsi alla menzogna o rinunciare alla loro vocazione, cionondimeno provai una vera ripulsa al momento in cui questo inganno venne perpetrato. Uno dei più chiari intelletti fra gli alti dignitari della nostra Chiesa scrisse che, se i Trentanove Articoli (soggetti della menzogna di cui sopra) fossero presi sul serio, la Chiesa sarebbe unicamente composta di sciocchi, bigotti e bugiardi. Fino a quando non avremo una Chiesa o un Governo abbastanza forti e retti da poter abolire i Trentanove Articoli, riscrivere il "Prayer Book" e dare alla Bibbia il suo giusto valore, non riusciremo a cavar fuori la nostra civiltà dal pantano in cui sta affondando.

I contrasti fra Scienza e Religione ci hanno condotti nel campo della politica a una guerra mondiale del tutto suicida. In quanto all'idea tanto comune che una delle due deve pur avere tutte le ragioni e l'altra tutti i torti, non posso fare a meno di chiamare ciò un ragionare all'acqua di rose. Non è anzi nemmeno un ragionare, ma un correre con la testa nel sacco a una conclusione priva di senso. La nostra Religione e la nostra Scienza sono entrambe in grave torto; eppure non in tutto hanno torto ed è nostro compito il tentar di mondarle dagli errori e metterle il più possibile in carreggiata. Se riuscissimo a porle entrambe sulla retta via, svanirebbero le contraddizioni che oggi le dividono, e avremmo in una sola sintesi: una scienza religiosa e una religione scientifica. Per intanto ci tocca far del nostro meglio evitando con tutte le forze di sfuggire il conflitto come, vigliaccamente, stiamo facendo.

Per lungo tempo ancora, la tendenza verso un deismo antropomorfico rimarrà una delle ipotesi a cui ricorreranno con maggior frequenza non solo i fanciulli ma anche parecchi adulti. La preghiera consola, guarisce, forma la nostra anima; approvare una legge che proibisce la preghiera come, se ne avessero il potere, vorrebbero alcuni dei nostri secolaristi, sarebbe futile quanto crudele. Di preghiere ne abbiamo di ogni sorta: dalle semplici suppliche dei mendicanti, e dagli incantesimi, frutto di magia, all'opera contemplativa di chi vuol formarsi un'anima. Abbiamo pure diverse specie di divinità a cui rivolgerci. Un ragazzetto che assisteva alla rappresentazione della mia "Santa Giovanna" disse al suo maestro che Gesù non gli piaceva e che perciò non si sentiva di pregarlo, mentre avrebbe ormai potuto indirizzare le sue preci a Giovanna. Un insegnante dell'Ulster, che avesse per di più appartenuto alla Chiesa evangelica, gli avrebbe probabilmente dato un bel fracco di legnate, tanto per insegnargli a essere un buon protestante. Ma quel maestro, ben più saggio, gli disse di pregare pure per intanto santa Giovanna, dato che ciò che conta è la preghiera, non colui al quale si rivolge la preghiera. Per i francescani, Francesco, non Gesù, è il Redentore; e per innumeri cattolici e non pochi anglicani, la Madonna è colei che intercede. Per i giainisti, Dio è l'Inconoscibile, ma nei loro templi a Bombay si vedono ovunque immagini rappresentanti ogni specie di santi, dalle innominate figure apportatrici di pace beatificante a immagini di rozzi idoli con la testa di animali. Quando ero fanciullo mi era stato insegnato che i miei compagni cattolici sarebbero andati tutti all'inferno perché dicevano: «Ave, Maria». Al tempo stesso, al mio contemporaneo inglese Arthur Conan Doyle, allora a Stonyhurst, si insegnava che io sarei stato dannato perché non pregavo la Vergine. Ho poi vissuto abbastanza per vedere la Germania mutare l'"Ave, Maria" in "Ave, Hitler" e, ne andasse della mia vita, non riesco a convincermi che questo cambiamento abbia migliorato la situazione. Lo trovo un po' troppo affine al culto del vecchio dio egizio Ra che aveva per capo la testa di un falco. Tuttavia la Chiesa d'Inghilterra ha torto quando impone Gesù - che ad alcuni, come per esempio al ragazzetto devoto di Giovanna d'Arco, può non piacere - al culto dei suoi fedeli dicendo che Egli è la sola forma in cui si possa pregare Dio. Ogni Chiesa dovrebbe essere tempio di tutti i santi e ogni cattedrale luogo di pura contemplazione per i più alti spiriti di ogni razza, fede e colore.

44. CONGEDO
Questo libro non sarà mai finito. Eppure, ogni scrittore che riprenderà il discorso dovrà fermarsi anche lui in qualche punto come sto facendo io, non perché non vi sia poi più nulla da dire, ma perché sarà stanco di scrivere, e i suoi lettori di leggerlo, senza parlar poi dei limiti disponibili di tempo e spazio. Debbo far punto e basta, e molte cose non le avrò dette.

La mia governante mi faceva leggere da fanciullo un libro intitolato: "Child's Guide to Knowledge" [15]; al culmine della virilità scrissi: "As Far As Thought Can Reach" [16], Questo mio libro odierno, scritto all'epoca della mia seconda fanciullezza, non è intero per chi vuol sapere fino a dove il pensiero politico possa giungere: è appena una Guida Politica scritta per infanti. So per esperienza che in questo ramo tutti sanno l'x y z di tutto e nessuno l'a b c di niente. Sebbene la democrazia sia basata sull'assunto veramente assurdo che il signor Ognuno e la sua consorte poiché onniscienti debbono anche esser dotati di onnipotenza, nessuno di loro ha la più pallida idea di quanto Herbert Spencer chiamava Statica Sociale: Dio sa però che di fatto ne debbono conoscere perlomeno gli effetti assai amari. Essi sogliono giudicare della politica come qualcosa fuori della vita, mentre o la politica è scienza della vita sociale o non è proprio un bel nulla. Quando, spinti dai nostri giornali, ci mettiamo a discorrere, e sovente a bisticciare, di socialismo, fascismo, comunismo, capitalismo, nazionalismo e utopie romantiche di ogni altro genere, siamo altrettanto discosti dal collegare queste parole con il mondo reale di quanto lo fosse Don Chisciotte nel suo fantasticare sulla cavalleria errante. Ci è facile comprare una cosa o far andare avanti un ufficio o un negozio col semplice imitare i nostri vicini; ma di economia e finanza ignoriamo tutto. Sappiamo di elezioni perché esse non differiscono molto da altre competizioni, corse di cani, eccetera, ma se scegliamo un partito piuttosto che un altro è perché i nostri padri lo scelsero prima di noi e ci educarono a capirlo oppure, a volte, proprio per antagonismo alla loro scelta. Quando - può sempre accadere - sogniamo o abbiamo visione di un mondo migliore immesso in un ordine nuovo, quello che ci rende incapaci di mettere i sogni in pratica allacciandoli a qualche istituzione preesistente è che nulla sappiamo della tecnica e della teoria di queste istituzioni, né sospettiamo che i nostri sogni possano essere stati sognati da altri prima di noi e che gran parte della storia umana è appunto formata dai tentativi fatti di attuare il sogno, usando qualche volta, ahimè, sistemi errati e tremendamente disastrosi.

Un chimico può avere sul futuro della chimica le intuizioni più acute e può anche esser dotato di speciale ingegno atto a promuovere lo sviluppo di questa scienza in senso del tutto sociale; ma se dell'antimonio e del manganese sa soltanto che ambedue sono neri, invece di contribuire al Nuovo Ordine salterà in aria in compagnia dei suoi vicini. Un Cancelliere dello Scacchiere può studiare con supremo interesse le opere atematiche e speculative più astruse scritte da sir Arthur Eddington e da sir James Jeans; ma se non riesce ad afferrare il fatto che due più due uguale quattro e non 80, invece di creare nel verde e piacevole paese detto Inghilterra una nuova Gerusalemme manderà in rovina la finanza e l'industria nazionali.

Inutile e dannoso, a questo punto, concludere che gli uomini di Stato debbano sapere ogni cosa per poter costruire su basi perfettamente scientifiche un sistema politico che sia anche perfettamente scientifico. Del mondo reale in cui viviamo nessuno può conoscere più del frammento che sta nel raggio della sua personale esperienza o di quanto ha udito discorrere. Ora, questo frammento non lo vediamo partecipe, quale è, del grande quadro storico a cui appartiene, bensì deformato in un ristretto circolo chiuso. Nel diciannovesimo secolo la sedicente Scuola Storica tedesca ripudiò l'aspetto classico, drammatico e aprioristico rivestito fino allora dalla storia e si dedicò a collezionare la maggior quantità possibile di fatti registrati impiegando anni in aride ricerche di documenti. Ebbene, nel far ciò gli storici di quella scuola trascurarono il fatto che il loro metodo era materialmente impossibile, visto che la più gran parte dei fatti è nascosta da un velame oltre il quale non possiamo vedere, o perché le notizie che leggiamo sugli annali sono per lo più menzogne o nel migliore dei casi supposizioni fatte di desiderio. Ne risulta che nel momento in cui l'uomo di Stato si trova a dover fronteggiare qualche situazione nuova egli non può certo ricorrere all'aiuto che gli procurerebbe l'onniscienza; non gli rimane perciò che appoggiarsi a quanto sa delle reazioni che sogliono prodursi nella natura umana sotto lo stimolo di pressioni esterne. Egli deve essere aprioristico fino al punto di potere, quale psicologo e quale fisico, intuire il da farsi, pur non possedendo certezze su cui basare un ragionamento. Non può certo dilazionare le decisioni da prendere fino a che non abbia interrogato le migliaia di libri e di documenti serbati nell'Archivio di Stato: l'opposizione lo attende alla porta e, a sua volta, le baionette gli son già puntate alla gola.

Tutto ciò non giustifica l'opportunismo e la superficialità mostrata dai nostri parlamentari i quali reagiscono alle sorprese e ai colpi procurati dall'andamento dell'evoluzione sociale con altrettanta intelligenza quanta ne mette una palla di cricket colpita dal bastone. Ammettere di saper poco non implica ignorar tutto; quel poco a nostra conoscenza è per l'appunto la differenza che corre fra pacifici mutamenti costituzionali e guerre civili, le quali ultime rovinano il paese. Nell'economia abbiamo l'appoggio delle due leggi sul reddito e sul valore, sicure e stabili entrambe quanto gli assiomi dei matematici e degli astronomi. Tuttavia, fra i nostri seicento straordinari membri del Parlamento ne conosco uno solo che dia segno di aver udito parlare della teoria del reddito, e questi non fa parte del Ministero. Sebbene la storia sia contraffatta da menzogne e congetture, frutti di puro desiderio, essa, vagliando e scernendo, lascia alfine un bel blocco di fatti, liberi il più possibile da fantasie; così, benché gli scritti intorno a una rivoluzione lasciataci da contemporanei risultino, quando la va bene, unilaterali, e quando la va male decisamente mendaci e carichi di insulti, noi possiamo accertarci con una certa probabilità d'incappare nel vero di alcuni fatti storici come la conquista normanna sotto re Guglielmo, il Commonwealth sotto Cromwell e il successivo assalto sferrato alla Corona e al Parlamento dalle forze della plutocrazia, la Rivoluzione francese sotto i giacobini e Napoleone, il futile nostro gesto di aiutare la restaurazione dei Borboni in Francia, la Rivoluzione del 1917 in Russia sotto Lenin e il colpo di Stato germanico nel 1933 sotto Hitler. La Storia d'Inghilterra di Macaulay e il "Manifesto" comunista di Marx ed Engels non sono documenti infallibili: ma chi non li ha letti né ha inteso la differenza di concezione storica fra l'uno e l'altro scritto non dovrebbe, al Ministero degli Affari Esteri o negli uffici di Downing Street, far altro mestiere che non sia quello di cameriere o di custode. Non ci passa tuttavia nemmeno per l'anticamera del cervello di informarci presso un ministro se egli abbia mai udito parlare di Macaulay o di Marx, e, a onor del vero, nemmeno se conosce l'alfabeto.

Questo mio libro è soltanto il tentativo di un vecchio ignorante di comunicare a persone più ignoranti ancora di lui l'esperienza di alcuni problemi sociali quale egli ha potuto farsi per mezzo dello studio o di incontri capitatigli - sia con esseri viventi sia con fatti sovente assai duri - nel lungo cammino della sua vita. Lungo, forse, il cammino in rapporto alla vita, ma troppo breve in vista dello scopo per cui scrivo; e l'ho spesa in gran parte nel tentativo di correggere gli errori in cui i miei antecedenti e l'ambiente a cui appartengo mi hanno condotto a vivere. Di certo non li ho corretti tutti, questi errori: ma quelli a cui il mio abito mentale ha potuto maggiormente rendermi refrattario ho tentato almeno di sviscerarli con la maggior chiaroveggenza di cui sono capace. Il resto lo devo lasciar fare a chi sa meglio di me.

In quanto al futuro, cominciando dall'anno 1944...

("La continuazione a chi saprà farlo").

FINE.

NOTE

1: «A usare del proprio cielo per tuonare, null'altro che per tuonare.»

2: «La razza futura.»

3: «Ritorno a Matusalemme.»

4: Teste Rotonde. Vale a dire il nomignolo dato ai Puritani di Cromwell.

5: Il decimo erede di un volto idiota.

6: L'orrore.

7: Dal "Pilgrim's Progress".

8: Maledettamente dispiaciuto.

9: Decorazione al valore istituita dalla regina Vittoria nel 1856.

10: Associazione di ammiratori di Bernard Shaw.

11: Libro di preghiere ufficiale della Chiesa anglicana e di varie altre Chiese evangeliche.

12: Regno di Carlo primo.

13: O qualsiasi altra proporzione che meglio convenga.

14: Di tutto quanto il cuore umano deve sopportare - è ben piccola la parte che sovrani e leggi possono causare o curare!

15: «Guida alla conoscenza, per bambini.»

16: «I confini ultimi del pensiero.»


Ultima modifica 05.12.2003