Mark up per il MIA di Clara Statello.
Indice
III. UNITÀ E DIVISIONE NELL’APPARENZA
IV. IL PROLETARIATO COME SOGGETTO E COME RAPPRESENTAZIONE
VII. LA PROGRAMMAZIONE DEL TERRITORIO
VIII. LA NEGAZIONE E IL CONSUMO NELLA CULTURA
IX. L'IDEOLOGIA MATERIALIZZATA
«E senza dubbio il nostro tempo ... preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere ... Ciò che per esso è sacro, non è che l’illusione, ma ciò che è profano, è la verità. Anzi, ai suoi occhi il sacro aumenta man mano che decresce la verità e che cresce l’illusione, tanto che per esso il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.»
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Tutta la vita delle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.
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Le immagini che si sono distaccate da ciascun aspetto della vita si fondono in un corso comune, dove l’unità della vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto di sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova, attuata, nel mondo autonomizzato dell’immagine, dove il menzognero ha mentito a sé stesso. Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente.
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Lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società stessa, come una parte della società, e come strumento d’unificazione. In quanto parte della società, è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata.
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Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini.
5
Lo spettacolo non può essere compreso come l’abuso del mondo del vedere, il prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle immagini. È piuttosto una Weltanschauung divenuta concreta e operante, materialmente tradotta. È una visione del mondo che si è oggettivata.
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Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione aggiunta in più. È il cuore dell’irrealismo della società reale. In tutte le sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono identicamente la giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.
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La separazione fa essa stessa parte dell’unità del mondo, della prassi sociale globale che si è scissa in realtà e in immagine. La pratica sociale, di fronte alla quale si pone lo spettacolo autonomo, è anche la totalità reale che contiene lo spettacolo. Ma la scissione all’interno di questa totalità la mutila al punto da far apparire lo spettacolo come suo fine. Il linguaggio dello spettacolo è costituito da segni della produzione regnante che sono nello stesso tempo la finalità ultima di questa produzione.
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Non si può contrapporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale viene effettivamente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riprende in sé l’ordine spettacolare dandogli una adesione positiva. La realtà oggettiva è presente da entrambi i lati. Ogni nozione così fissata si fonda solo sul suo passaggio nell’opposto: la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente.
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Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.
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Il concetto di spettacolo unifica e spiega una grande varietà di fenomeni evidenti. Le loro differenze e i loro contrasti sono le apparenze dell’apparenza organizzata socialmente, che deve essere essa stessa riconosciuta nella sua verità generale. Considerato secondo i termini suoi propri, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza, e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come pura apparenza. Ma la critica che coglie la verità dello spettacolo lo scopre come la negazione visibile della vita; come una negazione della vita che è divenuta visibile.
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Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni, e le forze che tendono alla sua disgregazione, bisogna fare delle distinzioni artificiali tra elementi inseparabili. Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare, poiché si passa sul terreno metodologico di questa società che si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è nient’altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, il suo impiego del tempo. È il momento storico che ci contiene.
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Lo spettacolo si presenta come una enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Non dice nulla di più che «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare». L’atteggiamento che pretende per principio è l’accettazione passiva che di fatto ha già ottenuto con la sua maniera di apparire senza replica, con il suo monopolio di ciò che appare.
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Il carattere fondamentalmente tautologico dello spettacolo deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono nello stesso tempo il suo fine. È il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Esso ricopre tutta la superficie del mondo ed è immerso per l’eternità nella propria gloria.
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La società che poggia sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia regnante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole giungere a nient’altro che a sé stesso.
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In quanto indispensabile ornamento degli oggetti ora prodotti, in quanto esposizione generale della razionalità del sistema, e in quanto settore economico avanzato che foggia direttamente una moltitudine crescente di immagini-oggetto, lo spettacolo è la produzione principale della società attuale.
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Lo spettacolo si sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia che si sviluppa per sé stessa. È il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori.
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La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva comportato nella definizione di ogni realizzazione umana una evidente degradazione dall’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dall’economia, conduce a uno slittamento generalizzato dall’avere al sembrare, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima. Nello stesso tempo ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale, modellata da essa. Solo per il fatto che non è, le è permesso apparire.
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Là dove il mondo reale si tramuta in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente afferrabile, trova di norma nella vista il senso umano privilegiato, che in altre epoche fu il tatto; il senso più astratto, e il più mistificabile, corrisponde all’astrazione generalizzata della società attuale. Ma lo spettacolo non è identificabile con il semplice sguardo, anche se combinato con l’ascolto. Esso è ciò che sfugge all’attività degli uomini, al riesame e alla correzione della loro opera. È il contrario del dialogo. Ovunque ci sia rappresentazione indipendente, lo spettacolo si ricostituisce.
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Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale che fu una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si basa sull’incessante dispiegarsi della razionalità tecnica precisa uscita da quel pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. La vita concreta di tutti si è degradata in universo speculativo.
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Di per sé la filosofia, in quanto potere del pensiero separato, e pensiero del potere separato, non è mai stata in grado di superare la teologia. Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tecnica spettacolare non ha dissolto le nuvole religiose nelle quali gli uomini avevano posto i propri poteri distaccati da loro: le ha solo collegate a una base terrestre. Così è la vita di questo mondo che diviene opaca e irrespirabile. Essa non respinge più nel cielo, ma ospita presso di sé la sua recusazione assoluta, il suo fallace paradiso. Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei poteri umani in un aldilà; la scissione compiuta all’interno dell’uomo.
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Man mano che la necessità si trova socialmente sognata, il sogno diventa necessario. Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno.
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Il fatto che la potenza pratica della società moderna si sia distaccata da sé stessa, e si sia edificata un impero indipendente nello spettacolo, non può spiegarsi se non con l’altro fatto che questa pratica potente continuava a mancare di coesione, ed era rimasta in contraddizione con sé stessa.
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È la più vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo. Lo spettacolo è così un’attività specializzata che parla per l’insieme delle altre. È la rappresentazione diplomatica della società gerarchica di fronte a sé stessa, dove ogni altra parola è bandita. Qui il più moderno è anche il più arcaico.
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Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su sé stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni di esistenza. L’apparenza feticista di pura oggettività nei rapporti spettacolari cela il loro carattere di rapporto tra uomini e tra classi: sembra che una seconda natura domini intorno a noi con le sue leggi fatali. Ma lo spettacolo non è il prodotto necessario dello sviluppo tecnico considerato come uno sviluppo naturale. La società dello spettacolo è al contrario la forma che sceglie il proprio contenuto tecnico. Se può sembrare che lo spettacolo, preso sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più soffocante, invada la società come una semplice strumentazione, questa in realtà non è per nulla neutra, ma è proprio la strumentazione che conviene al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca in cui si sviluppano tali tecniche non possono trovare soddisfazione che attraverso la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società e ogni contatto tra gli uomini non possono più esercitarsi se non per il tramite di questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione torna ad accumulare nelle mani dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata. La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, cioè dalla forma generale della scissione nella società, prodotto della divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe.
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La separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo. L’istituzionalizzazione della divisione sociale del lavoro, la formazione delle classi, aveva fondato una prima contemplazione sacra, l’ordine mitico di cui ogni potere s’ammanta fin dall’origine. Il sacro ha giustificato l’ordinamento cosmico e ontologico che corrispondeva agli interessi dei padroni, ha spiegato e abbellito ciò che la società non poteva fare. Ogni potere separato è stato dunque spettacolare, ma l’adesione di tutti a una tale immagine immobile non esprimeva che il riconoscimento comune di un prolungamento immaginario per la povertà dell’attività sociale reale, ancora largamente sentita come condizione unitaria. Lo spettacolo moderno esprime invece ciò che la società può fare, ma in questa espressione il permesso si oppone assolutamente al possibile. Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni di esistenza. Esso è il proprio prodotto, ed è esso stesso che ha posto le proprie regole: è uno pseudo-sacro. Mostra ciò che è: la potenza separata che si sviluppa in sé stessa, nell’aumento della produttività per mezzo del perfezionamento incessante della divisione del lavoro in parcellizzazione dei gesti, che sono allora dominati dal movimento indipendente delle macchine; e che lavora per un mercato sempre più esteso. Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo movimento, nel quale le forze che hanno potuto accrescersi separandosi non si sono ancora ritrovate.
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Con la separazione generalizzata tra il lavoratore e il suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività compiuta, ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Con il progredire dell’accumulazione dei prodotti separati, e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione diventano l’attributo esclusivo della direzione del sistema. La vittoria del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo.
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Per il successo stesso della produzione separata in quanto produzione del separato, la pratica fondamentale, che nelle società primitive era legata a un lavoro principale, si sta trasferendo, all’estremo polo di sviluppo del sistema, verso il non-lavoro, l’inattività. Ma questa inattività non è per niente liberata dall’attività produttrice: dipende da essa, è sottomissione inquieta e ammirata alle necessità e ai risultati della produzione; è essa stessa un prodotto della sua razionalità. Non può esserci libertà fuori dell’attività, e nel quadro dello spettacolo ogni attività è negata, esattamente come l’attività reale è stata integralmente carpita per l’edificazione globale di questo risultato. Così l’attuale “liberazione del lavoro”, l’aumento del tempo libero, non è affatto liberazione nel lavoro, né liberazione da un mondo foggiato dal lavoro. Nulla dell’attività rubata nel lavoro può ritrovarsi nella sottomissione al suo risultato.
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Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare dell’isolamento. L’isolamento costituisce il fondamento della tecnica, e il processo tecnico a sua volta isola.
Dall’automobile alla televisione, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il rafforzamento costante delle condizioni di isolamento delle “folle solitarie”. Lo spettacolo ritrova sempre più concretamente i propri presupposti.
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L’origine dello spettacolo è la perdita dell’unità del mondo, e l’espansione gigantesca dello spettacolo moderno esprime la totalità di questa perdita: l’astrazione di ogni lavoro particolare e l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo d’essere concreto è per l’appunto l’astrazione. Nello spettacolo, una parte del mondo si rappresenta di fronte al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che collega gli spettatori non è che il rapporto irreversibile col centro stesso che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.
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L’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua attività incosciente) si esprime così: più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo che agisce si manifesta nel fatto che i suoi propri gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È per questo che lo spettatore non si sente presso di sé da nessuna parte, poiché lo spettacolo è dappertutto.
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Il lavoratore non produce sé stesso, produce una potenza indipendente. Il successo di questa produzione, la sua abbondanza, ritorna al produttore come abbondanza della privazione. Con l’accumulazione dei suoi prodotti alienati tutto il tempo e lo spazio del suo mondo gli divengono estranei. Lo spettacolo è la carta geografica di questo nuovo mondo, carta che ricopre esattamente il suo territorio. Le stesse forze che ci sono sfuggite si mostrano a noi in tutta la loro potenza.
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Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione. L’espansione economica è principalmente l’espansione di questa precisa produzione industriale. Ciò che cresce con l’economia che si muove per sé stessa non può essere che l’alienazione che era già presente nel suo nucleo originario.
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L’uomo separato dal suo prodotto, produce con sempre maggiore ampiezza tutti i dettagli del suo mondo, e così si trova sempre più separato dal suo mondo. Quanto più la sua vita è ora il suo prodotto, tanto più egli è separato dalla sua vita.
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Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d’accumulazione da divenire immagine.
«Poiché è soltanto come categoria universale dell’essere sociale totale che la merce può essere compresa nella sua autentica essenza. È solo in questo contesto che la reificazione sorta dal rapporto mercantile acquista un significato decisivo, sia per l’evoluzione oggettiva della società sia per l’atteggiamento degli uomini nei suoi confronti, per la sottomissione della loro coscienza alle forme nelle quali questa reificazione si esprime ... Questa sottomissione si accresce ancora di più per il fatto che, con la crescente razionalizzazione e meccanizzazione del processo lavorativo, l’attività del lavoratore perde sempre più il suo carattere di attività per divenire un atteggiamento contemplativo.»
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In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò che esisteva nell’attività umana allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato, in quanto cose che sono divenute il valore esclusivo attraverso la loro formulazione in negativo del valore vissuto, noi riconosciamo la nostra vecchia nemica che così bene sa apparire a prima vista come una cosa triviale e ovvia, mentre invece è così complessa e piena di sottigliezza metafisica, la merce.
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È il principio del feticismo della merce, il dominio sulla società da parte di «cose sensibilmente sovrasensibili», che si compie in modo assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si è fatta riconoscere come il sensibile per eccellenza.
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Il mondo contemporaneamente presente e assente che lo spettacolo fa vedere è il mondo della merce che domina tutto ciò che è vissuto. E così il mondo della merce viene mostrato come esso è, poiché il suo movimento è identico all’allontanamento degli uomini tra loro e nei confronti del loro prodotto globale.
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La perdita della qualità, così evidente a tutti i livelli del linguaggio spettacolare, degli oggetti che esso loda e dei comportamenti che regola, non fa che tradurre i caratteri fondamentali della produzione reale che esclude la realtà: la forma-merce è da parte a parte l’uguaglianza con sé stessa, la categoria del quantitativo. È il quantitativo che essa sviluppa, e non può svilupparsi che in esso.
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Questo sviluppo che esclude il qualitativo è soggetto esso stesso, in quanto sviluppo, al passaggio qualitativo: lo spettacolo esprime il fatto che esso ha varcato la soglia della propria abbondanza; limitatamente ai luoghi questo non è ancora vero che in alcuni punti, ma è già vero su scala universale, che è l’originario riferimento della merce, riferimento che il suo movimento pratico ha verificato unificando la Terra come mercato mondiale.
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Lo sviluppo delle forze produttive è stato la storia reale incosciente che ha costruito e modificato le condizioni di esistenza dei gruppi umani in quanto condizioni di sopravvivenza, e ampliamento di queste condizioni: la base economica di tutte le loro imprese. All’interno dell’economia naturale il settore della merce costituiva un eccedente della sopravvivenza. La produzione delle merci, che implica lo scambio di prodotti diversi tra produttori indipendenti, per molto tempo è potuta restare artigianale, contenuta in una funzione economica marginale in cui la sua verità quantitativa rimaneva ancora mascherata. Tuttavia, laddove ha incontrato le condizioni sociali del grande commercio e della accumulazione dei capitali, essa ha conquistato il dominio totale dell’economia. Allora l’intera economia è diventata quello che la merce aveva mostrato di essere nel corso di questa conquista: un processo di sviluppo quantitativo. L’incessante dispiegarsi della potenza economica nella forma della merce, in salariato, mette capo, con l’accumulazione dei suoi risultati, a un’abbondanza nella quale la questione prima della sopravvivenza è senza dubbio risolta, ma in maniera tale che deve sempre riproporsi; ogni volta essa è posta di nuovo a un grado superiore. La crescita economica libera le società dalla pressione della natura che esigeva la loro lotta immediata per la sopravvivenza, ma a questo punto è del loro liberatore che non si sono liberate. L’indipendenza della merce si è estesa all’insieme dell’eco-nomia sulla quale essa regna. L’economia trasforma il mondo, ma lo trasforma solo in mondo dell’economia. La pseudo-natura nella quale il lavoro umano si è alienato pretende di proseguire all’infinito il suo servizio, e questo servizio, che non è giudicato e assolto che da sé stesso, consegue di fatto la totalità degli sforzi e dei progetti socialmente leciti, come suoi servitori. L’abbondanza delle merci, cioè del rapporto mercantile, non può essere che la sopravvivenza aumentata.
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Dapprima il dominio della merce sull’economia si è esercitato in maniera occulta, dato che l’economia stessa, in quanto base materiale della vita sociale, rimaneva non osservata e non compresa, come il familiare che tuttavia non è conosciuto. In una società nella quale la merce concreta resta rara o minoritaria, è il dominio apparente del denaro che si presenta come l’emissario munito di pieni poteri che parla a nome di una potenza sconosciuta. Con la rivoluzione industriale, la divisione manifatturiera del lavoro e la massiccia produzione per il mercato mondiale, la merce fa la sua comparsa effettiva, come potenza che viene realmente a occupare la vita sociale. È questo il momento in cui si costituisce l’economia politica, come scienza dominante e come scienza del dominio.
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Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Non solo è visibile il rapporto con la merce, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo. La produzione economica moderna estende la sua dittatura estensivamente e intensivamente. Nelle zone meno industrializzate, il suo regno è già presente con alcune merci-vedette e in quanto dominazione imperialista da parte delle zone che si trovano in testa nello sviluppo della produttività. In queste zone avanzate, lo spazio sociale è invaso da una continua sovrapposizione di strati geologici di merci. A questo punto della “seconda rivoluzione industriale”, il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare alla produzione alienata. È tutto il lavoro venduto della società che diviene globalmente la merce totale il cui ciclo deve continuare. Per far ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all’individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme. Qui dunque la scienza specializzata del dominio deve specializzarsi a sua volta: essa si spezzetta in sociologia, psicotecnica, cibernetica, semiologia ecc., vigilando sull’autoregolazione di tutti i livelli del processo.
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Mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica «l’economia politica non vede nel proletario che l’ope-raio», che deve ricevere il minimo indispensabile per la conservazione della sua forza-lavoro, senza mai considerarlo «nel suo tempo libero, nella sua umanità», questa posizione delle idee della classe dominante si rovescia non appena il grado d’abbondanza raggiunto nella produzione delle merci impone una ulteriore collaborazione da parte dell’operaio. Il quale, improvvisamente ripulito del disprezzo totale chiaramente espressogli da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno, al di fuori di questa, sotto il travestimento del consumatore, trattato apparentemente come una persona di riguardo, con una premurosa cortesia. Allora l’umanismo della merce si prende cura del «tempo libero e dell’umanità» del lavoratore, semplicemente perché ora l’economia politica può e deve dominare queste sfere in quanto economia politica. Così «la conseguente effettuazione del rinnegamento dell’uomo» si è presa cura della totalità dell’esistenza umana.
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Lo spettacolo è una guerra dell’oppio permanente per far accettare l’identificazione dei beni con le merci; e dell’appagamento con la sopravvivenza che aumenta secondo le proprie leggi. Ma se la sopravvivenza consumabile è qualcosa che deve aumentare sempre, è perché essa non cessa di contenere la privazione. Se non c’è nessun aldilà della sopravvivenza aumentata, nessun punto in cui essa potrebbe cessare la sua crescita, è perché essa stessa non è al di là della privazione, ma è la privazione divenuta più ricca.
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Con l’automazione, che è allo stesso tempo il settore più avanzato dell’industria moderna e il modello in cui si riassume perfettamente la sua pratica, il mondo della merce deve superare questa contraddizione: l’insieme degli strumenti tecnici che sopprime oggettivamente il lavoro deve conservare nello stesso tempo il lavoro come merce, e come solo luogo di nascita della merce. Affinché l’automazione, od ogni altra forma meno estrema dell’incremento della produttività del lavoro, non diminuisca effettivamente il tempo di lavoro sociale necessario su scala sociale, è necessario creare nuovi impieghi. Il settore terziario, i servizi, sono l’immensa estensione dei servizi logistici dell’esercito della distribuzione e dell’elogio delle merci attuali; mobilitazione di forze di supplemento che trova opportunamente, nell’artificiosità stessa dei bisogni relativi a tali merci, la necessità di una tale organizzazione del lavoro di retroguardia.
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Il valore di scambio ha potuto formarsi solo come agente del valore d’uso, ma la sua vittoria con armi proprie ha creato le condizioni del suo dominio autonomo. Mobilitando ogni uso umano e impadronendosi del monopolio del suo soddisfacimento, ha finito col dirigere l’uso. Il processo dello scambio si è identificato con ogni uso possibile, e l’ha ridotto alla sua mercé. Il valore di scambio è il condottiero del valore d’uso, che finisce col condurre la guerra per proprio conto.
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Quella costante dell’economia capitalistica che è il ribasso tendenziale del valore d’uso sviluppa una nuova forma di privazione all’interno della sopravvivenza aumentata, la quale non si è affrancata di più dall’antica penuria, giacché esige la partecipazione della grande maggioranza degli uomini, come lavoratori salariati, al proseguimento infinito del suo sforzo; e poiché ognuno sa che vi si deve sottomettere o morire. È la realtà di questo ricatto, il fatto che l’uso nella sua forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se non imprigionato nella ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata, che è la base reale dell’accettazione dell’illusione in generale nel consumo delle merci moderne. Il consumatore reale diventa consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale.
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Il valore d’uso che era implicitamente compreso nel valore di scambio deve ora essere proclamato esplicitamente, nella realtà capovolta dello spettacolo, proprio perché la sua realtà effettiva viene rosa dall’economia mercantile sovrasviluppata; e poiché diviene necessaria una pseudo-giustificazione per la falsa vita.
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Lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: l’equivalente generale astratto di tutte le merci. Ma se il denaro ha dominato la società in quanto rappresentazione dell’equivalenza centrale, vale a dire del carattere scambiabile dei molteplici beni il cui uso rimaneva non confrontabile, lo spettacolo è il suo complemento moderno sviluppato in cui la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come equivalenza generale con ciò che l’insieme della società può essere e fare. Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, poiché in esso ormai è la totalità dell’uso che si è scambiata con la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non è soltanto il servitore dello pseudo-uso, è già in sé lo pseudo-uso della vita.
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Il risultato concentrato del lavoro sociale, nel momento della abbondanza economica, diviene manifesto e sottomette ogni realtà all’apparenza, che è ora il suo prodotto. Il capitale non è più il centro invisibile che dirige il modo di produzione: la sua accumulazione lo estende fino alla periferia sotto forma di oggetti sensibili. Tutta l’estensione della società è il suo ritratto.
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La vittoria dell’economia autonoma deve essere nello stesso tempo la sua rovina. Le forze da essa scatenate sopprimono la necessità economica che fu la base immutabile delle società antiche. Allorché essa la sostituisce con la necessità dello sviluppo economico infinito, può solo sostituire la soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo, sommariamente riconosciuti, con una fabbricazione ininterrotta di pseudo-bisogni che si riducono al solo pseudo-bisogno della conservazione del suo regno. Ma l’economia autonoma si separa per sempre dal bisogno profondo nella stessa misura in cui esce dall’incosciente sociale che dipendeva da essa senza saperlo.
«Tutto ciò che è cosciente si logora. Ciò che è incosciente rimane inalterabile. Ma una volta liberato, non cade in rovina a sua volta?» (Freud).
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Nel momento in cui la società scopre di dipendere dall’economia, l’economia, di fatto, dipende da essa. Questa potenza sotterranea, che è cresciuta fino a manifestarsi come sovrana, ha perduto così la sua potenza. Là dove era il ciò economico deve venire l’io. Il soggetto può emergere solo dalla società, cioè dalla lotta che è in essa. La sua esistenza possibile è sospesa ai risultati della lotta di classe che si rivela come prodotto e produttore della fondazione economica della storia.
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La coscienza del desiderio e il desiderio della coscienza sono identicamente il progetto che, nella sua forma negativa, vuole l’abolizione delle classi, cioè il possesso diretto dei lavoratori su tutti i momenti della loro attività. Il suo contrario è la società dello spettacolo, dove la merce contempla sé stessa nel mondo che essa ha creato.
«Una nuova e animata polemica si svolge nel paese, sul fronte della filosofia, a proposito dei concetti “uno si divide in due” e “due si fondono in uno”. Questo dibattito è una lotta tra coloro che sono a favore e coloro che sono contro la dialettica materialistica, una lotta tra due concezioni del mondo: la concezione proletaria e la concezione borghese. Coloro che sostengono che “uno si divide in due” è la legge fondamentale delle cose stanno dal lato della dialettica materialistica; coloro che sostengono che la legge fondamentale delle cose è che “due si fondono in uno” sono contro la dialettica materialistica. Le due parti hanno tirato tra di sé una netta linea di demarcazione, e i loro argomenti sono diametralmente opposti. Questa polemica riflette sul piano ideologico l’acuta e complessa lotta di classe in corso in Cina e nel mondo.»
Bandiera Rossa di Pechino,
21 settembre 1964
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Lo spettacolo, come la società moderna, è allo stesso tempo unito e diviso. Come essa, edifica la propria unità sul laceramento. Ma la contraddizione, quando emerge nello spettacolo, viene a sua volta contraddetta da un rovesciamento del suo senso; di modo che la divisione mostrata è unitaria, mentre l’unità mostrata è divisa.
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È la lotta dei poteri che si sono costituiti per la gestione dello stesso sistema socio-economico, che si dispiega come la contraddizione ufficiale, mentre di fatto fa parte dell’unità reale; questo su scala mondiale così come all’interno di ogni nazione.
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Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato sono nello stesso tempo reali, perché traducono lo sviluppo ineguale e conflittuale del sistema, gli interessi relativamente contraddittori delle classi o delle suddivisioni di classe che riconoscono il sistema, e definiscono la propria partecipazione al suo potere. Così come lo sviluppo dell’e-conomia più avanzata consiste nello scontro di certe priorità contro altre, la gestione totalitaria dell’economia da parte di una burocrazia di Stato, e la condizione dei paesi che si sono trovati posti all’interno della sfera della colonizzazione o della semicolonizzazione, sono definite da particolarità considerevoli nelle modalità della produzione e del potere. Nello spettacolo, queste diverse opposizioni possono spacciarsi, secondo criteri completamente differenti, come for-me di società assolutamente distinte. Ma secondo la loro autentica realtà di settori particolari, la verità della loro particolarità risiede nel sistema universale che le contiene: nel movimento unico che ha fatto del pianeta il suo campo, il capitalismo.
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La società portatrice dello spettacolo non domina le zone sottosviluppate soltanto con la sua egemonia economica. Le domina in quanto società dello spettacolo. Dove la base materiale è ancora assente, la società moderna ha già invaso spettacolarmente la superficie sociale di ogni continente. Essa definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costituzione. Come presenta gli pseudo-beni da bramare, così offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione. Lo spettacolo proprio del potere burocratico che detiene alcuni dei paesi industriali fa esattamente parte dello spettacolo totale, come sua pseudo-negazione generale, e suo sostegno. Se lo spettacolo, considerato nelle sue svariate forme locali, esibisce come univoche delle specializzazioni totalitarie della facoltà d’espressione e dell'amministrazione sociali, queste finiscono col fondersi, al livello del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale dei compiti spettacolari.
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La divisione dei compiti spettacolari che conserva la generalità dell’ordine esistente conserva principalmente il polo dominante del suo sviluppo. La radice dello spettacolo è nel terreno dell’economia divenuta abbondante, ed è di là che provengono i frutti che tendono infine a dominare il mercato mondiale, malgrado le barriere protezionistiche ideologico-poliziesche di qualsiasi spettacolo locale con pretese autarchiche.
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Il movimento di banalizzazione che, sotto i cangianti diversivi dello spettacolo, domina mondialmente la società moderna, la domina anche su ognuno dei punti in cui il consumo sviluppato delle merci ha in apparenza moltiplicato i ruoli e gli oggetti da scegliere. Ciò che sopravvive della religione e della famiglia – la quale rimane la forma principale dell’eredità del potere di classe –, e quindi della repressione morale che esse garantiscono, può combinarsi come un’unica cosa con l’affermazione ridondante del godimento di questo mondo, questo mondo che viene prodotto proprio solo in quanto pseudo-godimento che conserva in sé la repressione. Alla beata accettazione di ciò che esiste può così unirsi come un’unica cosa la rivolta puramente spettacolare: il che traduce il semplice fatto che la insoddisfazione stessa è divenuta una merce appena l’ab-bondanza economica si è trovata in grado di estendere la propria produzione sino al trattamento di una simile materia prima.
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Concentrando in sé l’immagine di un ruolo possibile, la vedette, la rappresentazione spettacolare dell’uomo che vive, concentra dunque questa banalità. La condizione di vedette è la specializzazione del vissuto apparente, l’oggetto della identificazione con la vita apparente priva di profondità, che deve compensare lo sbriciolamento delle specializzazioni produttive effettivamente vissute. Le vedettes esistono per rappresentare dei tipi vari di stili di vita e di stili di comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente. Esse incarnano il risultato inaccessibile del lavoro sociale, mimando dei sottoprodotti di questo lavoro che sono magicamente trasferiti al di sopra di esso come suo fine: il potere e le vacanze, la decisione e il consumo che sono all’inizio e alla fine di un processo indiscusso. Là è il potere governativo che si personalizza in pseudo-vedette; qui è la vedette del consumo che si fa votare plebiscitariamente in quanto pseudo-potere sul vissuto. Ma, come queste attività della vedette non sono realmente globali, così non sono varie.
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L’agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il contrario dell’individuo, il nemico dell’individuo in sé stesso in maniera altrettanto evidente che negli altri. Passando nello spettacolo come modello d’identificazione egli ha rinunciato a ogni qualità autonoma per identificare sé stesso con la legge generale dell’obbedienza al corso delle cose. La vedette del consumo, pur essendo esteriormente la rappresentazione di differenti tipi di personalità, fa vedere come ognuno di questi tipi abbia ugualmente accesso alla totalità del consumo, e parimenti vi trovi la propria felicità. La vedette della decisione deve possedere lo stock completo di ciò che è stato ammesso come qualità umane. Così le divergenze ufficiali tra di esse vengono annullate dall’analogia ufficiale, che è il presupposto della loro eccellenza in tutto. Kruscev era divenuto generale per decidere la battaglia di Kursk, non sul campo, ma nel ventesimo anniversario, quando si trovava padrone dello Stato. Kennedy era rimasto oratore fino a pronunciare il proprio elogio funebre, poiché in quel momento Theodore Sorensen continuava a redigere i discorsi per il successore in quello stile che era stato tanto importante per far riconoscere la personalità dello scomparso. Le persone ammirabili in cui il sistema si personifica sono ben conosciute per non essere quel che sono; esse sono divenute grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della più infima vita individuale, e tutti lo sanno.
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La falsa scelta nella abbondanza spettacolare, scelta che consiste nella contrapposizione di spettacoli concorrenziali e solidali, come nella contrapposizione dei ruoli (principalmente espressi da oggetti che ne sono anche i portatori) che sono contemporaneamente esclusivi ed embricati, si sviluppa in lotta di qualità fantomatiche destinate a rendere appassionante l’adesione alla trivialità quantitativa. Così rinascono delle false opposizioni arcaiche, regionalismi o razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità ontologica fantastica la volgarità dei posti gerarchici nel consumo. Così si ricompone l’interminabile serie di confronti derisori che mobilitano un interesse sotto-ludico, dalle competizioni sportive alle elezioni. Laddove si è insediato il consumo abbondante viene in primo piano tra i ruoli fallaci l’opposizione spettacolare principale tra la gioventù e gli adulti: poiché da nessuna parte esiste adulto, padrone della sua vita, e la gioventù, il cambiamento di ciò che esiste, non è affatto la caratteristica degli uomini che ora sono giovani, ma quella del sistema economico, il dinamismo del capitalismo. Sono delle cose che regnano e che sono giovani; che si scacciano e si rimpiazzano da sé.
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È l’unità della miseria che si nasconde dietro le opposizioni spettacolari. Se forme diverse della stessa alienazione si combattono sotto le maschere della scelta totale, è perché sono tutte costruite sulle contraddizioni reali represse. Secondo le necessità dello stadio particolare della miseria che smentisce e mantiene, lo spettacolo esiste in forma concentrata o in forma diffusa. In entrambi i casi, esso non è che una immagine di unificazione felice circondata da desolazione e da spavento, nel centro tranquillo della infelicità.
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Lo spettacolare concentrato appartiene essenzialmente al capitalismo burocratico, benché possa essere importato come tecnica del potere statale su delle economie miste più arretrate, o in certi momenti di crisi del capitalismo avanzato. La proprietà burocratica stessa è in effetti concentrata nel senso che il singolo burocrate non ha rapporti col possesso dell’economia globale se non tramite la comunità burocratica, se non in quanto membro di questa comunità. Inoltre la produzione delle merci, meno sviluppata, si presenta in una forma concentrata: la merce che la burocrazia detiene, è il lavoro sociale totale, e ciò che essa rivende alla società, è la sua sopravvivenza in blocco. La dittatura della economia burocratica non può lasciare alcun margine notevole di scelta alle masse sfruttate, giacché essa ha dovuto scegliere tutto da sé, e poiché dunque qualsiasi altra scelta esterna, sia che concerna l’alimentazione o la musica, è già la scelta della sua completa distruzione. Essa deve accompagnarsi a una violenza permanente. Nel suo spettacolo, l’immagine imposta del bene raccoglie la totalità di ciò che esiste ufficialmente, e di norma si concentra su un solo uomo, che è il garante della sua coesione totalitaria. Ognuno deve identificarsi magicamente con questa vedette assoluta, o scomparire. Perché si tratta del padrone del suo non-consumo, e dell’immagine eroica che dà un senso accettabile allo sfruttamento assoluto che in realtà è l’accumulazione primitiva accelerata dal terrore. Se ogni cinese deve apprendere Mao, e così essere Mao, è perché non ha nient’altro da essere. Dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia.
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Lo spettacolare diffuso accompagna l’abbondanza delle merci, lo sviluppo non perturbato del capitalismo moderno. Qui ogni merce presa a sé è giustificata in nome della grandezza della produzione della totalità degli oggetti, dei quali lo spettacolo è un catalogo apologetico. Sulla scena dello spettacolo unificato dell’economia abbondante si fanno avanti affermazioni inconciliabili; così come differenti merci-vedettes sostengono simultaneamente i loro progetti contraddittori di ordinamento della società, dove lo spettacolo delle automobili vuole una perfetta circolazione che distrugge i vecchi centri urbani, mentre lo spettacolo della città stessa ha bisogno dei quartieri-museo. Dunque il supposto appagamento, già problematico, che dovrebbe essere la prerogativa del consumo dell’insieme viene immediatamente falsificato per il fatto che il consumatore reale può toccare direttamente solo una successione di frammenti di questa felicità mercantile, frammenti dai quali ogni volta è evidentemente assente la qualità attribuita all’insieme.
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Ogni determinata merce lotta per sé stessa, non può riconoscere le altre, pretende d’imporsi ovunque come se fosse l’unica. Lo spettacolo è il canto epico di questo scontro, che la caduta di nessuna Ilio potrebbe concludere. Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. In questa lotta cieca ogni merce, seguendo la sua passione, in realtà realizza nell’incoscienza qualcosa di più elevato: il divenir-mondo della merce, che è nello stesso tempo il divenir-merce del mondo. Così, per una astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre la forma-merce si muove verso la sua realizzazione assoluta.
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L’appagamento che la merce abbondante non può più dare nell’uso si riduce a essere ricercato nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l’uso della merce che basta a sé stesso; e per il consumatore l’effusione religiosa per la libertà suprema della merce. Si propagano così a gran velocità ondate d’entusiasmo per un dato prodotto, sostenuto e rilanciato da tutti i mezzi di informazione. Da un film nasce uno stile di vestiario; una rivista lancia dei clubs di fans, che lanciano le mode di diversi accessori. Il gadget esprime il fatto che, nel momento in cui la massa delle merci scivola verso l’aberrazione, l’aberrante stesso diventa una merce speciale. Nei portachiavi pubblicitari, per esempio, non più acquistati, ma doni supplementari che accompagnano degli oggetti prestigiosi venduti, o che provengono per scambio dalla loro sfera, si può riconoscere la manifestazione di un abbandono mistico alla trascendenza della merce. Colui che colleziona i portachiavi fabbricati apposta per essere collezionati accumula le indulgenze della merce, un segno glorioso della propria presenza reale tra i suoi fedeli. L’uomo reificato ostenta la prova della sua intimità con la merce. Come nell’esaltazione dei convulsionnaires o dei miracolati del vecchio feticismo religioso, il feticismo della merce raggiunge dei momenti di eccitazione fervente. Qui, il solo uso che si esprime ancora è l’uso fondamentale della sottomissione.
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Senza dubbio, lo pseudo-bisogno imposto nel consumo moderno non può essere opposto a nessun bisogno o desiderio autentico che non sia esso stesso formato dalla società e dalla sua storia. Ma a questo punto la merce abbondante comporta la rottura assoluta di uno sviluppo organico dei bisogni sociali. La sua accumulazione meccanica libera un artificiale illimitato, davanti al quale il desiderio vivente rimane disarmato. La potenza cumulativa di un artificiale indipendente determina ovunque la falsificazione della vita sociale.
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Nell’immagine dell’unificazione felice della società nel consumo, la divisione reale è soltanto sospesa fino al prossimo non-adempimento nel consumabile. Quando viene il suo turno, ogni prodotto particolare che deve rappresentare la speranza di una scorciatoia folgorante per accedere finalmente alla terra promessa del consumo totale viene presentato cerimoniosamente come la singolarità decisiva. Ma come nel caso della diffusione istantanea delle mode di nomi dall’apparenza aristocratica che finiscono per essere portati da quasi tutti gli individui della stessa età, l’oggetto da cui si aspetta un potere singolare ha potuto essere proposto alla devozione delle masse solo perché era stato tirato in un numero sufficientemente grande di esemplari per essere consumato in massa. Il carattere prestigioso di questo prodotto qualunque non gli viene che dall’esser stato posto per un momento al centro della vita sociale, come il mistero rivelato della finalità della produzione. L’oggetto che nello spettacolo era prestigioso diventa volgare nell’istante in cui entra in casa del suo consumatore, nello stesso tempo che in quelle di tutti gli altri. Esso rivela troppo tardi la sua povertà essenziale, che trae come naturale conseguenza dalla miseria della sua produzione. Ma già un altro oggetto si fa portatore della giustificazione del sistema e dell’esigenza di essere riconosciuto.
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L’impostura dell’appagamento deve denunciarsi da sé rimpiazzandosi, seguendo il mutare dei prodotti e quello delle condizioni generali della produzione. Ciò che con la più perfetta impudenza aveva affermato la propria eccellenza definitiva, tuttavia muta, nello spettacolo diffuso ma anche nello spettacolo concentrato, ed è solo il sistema che deve continuare: Stalin così come la merce passata di moda sono denunciati da quegli stessi che li hanno imposti. Ogni nuova menzogna della pubblicità è così anche la confessione della sua menzogna precedente. Ogni crollo di una figura del potere totalitario rivela la comunità illusoria che l’approvava unanimemente e che non era che un agglomerato di solitudini senza illusioni.
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Ciò che lo spettacolo dà come perpetuo è fondato sul cambiamento, e deve cambiare con la sua base. Lo spettacolo è assolutamente dogmatico e allo stesso tempo non può approdare realmente a nessun dogma solido. Per esso niente si ferma; è lo stato che gli è naturale e tuttavia è il più contrario alla sua inclinazione.
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L’unità irreale che lo spettacolo proclama è la maschera della divisione di classe sulla quale poggia l’unità reale del modo di produzione capitalistico. Ciò che costringe i produttori a partecipare all’edificazione del mondo è anche ciò che li esclude da esso. Ciò che mette in relazione gli uomini liberati dalle loro limitazioni locali e nazionali è anche ciò che li allontana. Ciò che impone l’approfondimento del razionale è anche ciò che alimenta l’irrazionale dello sfruttamento gerarchico e della repressione. Ciò che fa il potere astratto della società fa la sua non-libertà concreta.
«Il diritto uguale di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la negazione di ogni freno morale, ecco, se si scende alla radice delle cose, la ragion d’essere dell’insurrezione del 18 marzo e il programma della temibile associazione che le ha fornito un esercito.»
Inchiesta parlamentare
sull’insurrezione del 18 marzo 1871
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Il movimento reale che sopprime le condizioni esistenti governa la società a partire dalla vittoria della borghesia nell’economia, e in modo visibile dopo la traduzione politica di questa vittoria. Lo sviluppo delle forze produttive ha fatto saltare i vecchi rapporti di produzione, e ogni ordine statico cade in rovina. Tutto ciò che era assoluto diviene storico.
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Gettati nella storia, dovendo partecipare al lavoro e alle lotte che la costituiscono, gli uomini si vedono costretti a considerare i loro rapporti in modo disingannato. Questa storia non ha oggetto distinto da quello che essa realizza in sé stessa, benché l’ultima visione metafisica incosciente dell’epoca storica possa considerare il progresso produttivo attraverso il quale la storia si è sviluppata come l’oggetto stesso della storia. Il soggetto della storia non può essere che il vivente che si produce da sé stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco.
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Come un’unica corrente si sviluppano le lotte di classe della lunga epoca rivoluzionaria inaugurata dall’ascesa della borghesia e dal pensiero della storia, dalla dialettica, dal pensiero che non si arresta più alla ricerca del senso dell’essere, ma si eleva alla conoscenza della dissoluzione di tutto ciò che esiste; e nel movimento dissolve tutte le separazioni.
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Hegel non aveva più da interpretare il mondo, ma la sua trasformazione. Poiché interpretava solamente la trasformazione, Hegel non è che il compimento filosofico della filosofia. Egli vuole comprendere un mondo che si fa da sé. Questo pensiero storico non è ancora se non la coscienza che arriva sempre troppo tardi, e che enuncia la giustificazione post festum. Così esso ha superato la separazione solo nel pensiero. Il paradosso che consiste nel sospendere il senso di ogni realtà al suo compimento storico, e nel rivelare nello stesso tempo questo senso nel suo autocostituirsi nel compiersi storico, dipende dal semplice fatto che il pensatore delle rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo non ha cercato nella sua filosofia che la riconciliazione con i loro risultati. «Anche come filosofia della rivoluzione borghese, essa non esprime affatto il processo di questa rivoluzione, ma soltanto la sua estrema conclusione. In questo senso essa è una filosofia non della rivoluzione, ma della restaurazione» (Karl Korsch, Tesi su Hegel e la rivoluzione). Hegel ha compiuto, per l’ultima volta, il lavoro del filosofo, «la glorificazione di ciò che esiste»; ma quello che esisteva per lui non poteva ormai essere che la totalità del movimento storico. Poiché infatti veniva mantenuta la posizione esterna del pensiero, questa non poteva essere mascherata che dalla identificazione con un progetto preliminare dello Spirito, eroe assoluto che ha fatto quello che ha voluto e ha voluto quello che ha fatto, e il cui compimento coincide con il presente. Così, la filosofia che muore nel pensiero della storia non può più glorificare il suo mondo se non negandolo, perché per prendere la parola ha ormai bisogno di supporre conclusa questa storia totale a cui ha ricondotto ogni cosa; e chiusa la sessione dell’unico tribunale da cui possa essere emessa la sentenza della verità.
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Quando il proletariato dimostra con la sua stessa esistenza pratica che questo pensiero della storia non si è dimenticato di sé stesso, la smentita della conclusione è dunque anche la conferma del metodo.
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Il pensiero della storia non può essere salvato che divenendo pensiero pratico; e la pratica del proletariato come classe rivoluzionaria non può essere meno della coscienza storica operante sulla totalità del suo mondo. Tutte le correnti teoriche del movimento operaio rivoluzionario sono uscite da un confronto critico con il pensiero hegeliano, in Marx come in Stirner e Bakunin.
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Il carattere inseparabile della teoria di Marx e del metodo hegeliano è esso stesso inseparabile dal carattere rivoluzionario di questa teoria, cioè dalla sua verità. È in ciò che questo rapporto fondamentale è stato generalmente ignorato o mal compreso, o anche denunciato come il punto debole di ciò che stava diventando fallacemente una dottrina marxista. Bernstein, in Socialismo teorico e Socialdemocrazia pratica, rivela perfettamente questo legame del metodo dialettico con la presa di partito storica, deplorando le previsioni poco scientifiche del Manifesto del 1847 sulla imminenza della rivoluzione proletaria in Germania: «Questa autosuggestione storica, talmente erronea che un qualunque visionario politico non avrebbe quasi potuto trovare di meglio, sarebbe incomprensibile in un Marx, che a quell’epoca aveva già studiato seriamente l’economia, se non si dovesse vedere in essa il prodotto di un residuo della dialettica antitetica hegeliana, di cui Marx, non più di Engels, non è mai riuscito a disfarsi completamente. In quei tempi di effervescenza generale, ciò gli è stato tanto più fatale».
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Il rovesciamento che Marx compie con un «salvataggio per trasferimento» del pensiero delle rivoluzioni borghesi non consiste nel rimpiazzare volgarmente con lo sviluppo materialista delle forze produttive il percorso dello Spirito hegeliano che si muove incontro a sé stesso nel tempo, la cui oggettivazione è identica alla sua alienazione, e le cui lacerazioni storiche non lasciano cicatrici. La storia divenuta reale non ha più fine. Marx ha distrutto la posizione separata di Hegel di fronte a ciò che avviene; e la contemplazione di un agente superiore esterno, qualunque fosse. La teoria deve solo sapere ciò che fa. Al contrario, è la contemplazione del movimento dell’economia, nel pensiero dominante della società attuale, l’eredità non rovesciata della parte non-dialettica del tentativo hegeliano di un sistema circolare: è un’adesione che ha perduto la dimensione del concetto, e che non ha più bisogno di un hegelismo per giustificarsi, perché il movimento che si tratta di lodare non è che un settore senza pensiero del mondo, il cui sviluppo meccanico domina effettivamente il tutto. Il progetto di Marx è quello di una storia cosciente. Il quantitativo che sopraggiunge nello sviluppo cieco delle forze produttive semplicemente economiche deve mutarsi in approssimazione storica qualitativa. La critica della economia politica è il primo atto di questa fine della preistoria. «Di tutte le forze produttive, la più grande forza produttiva è la classe rivoluzionaria stessa.»
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Ciò che lega strettamente la teoria di Marx al pensiero scientifico è la comprensione razionale delle forze che agiscono realmente nella società. Ma essa è fondamentalmente un aldilà del pensiero scientifico, dove questo non viene conservato se non in quanto viene superato: si tratta di una comprensione della lotta e non della legge. «Noi non conosciamo che una sola scienza: la scienza della storia», si dice nell’Ideologia tedesca.
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L’epoca borghese, che vuole fondare scientificamente la storia, trascura il fatto che questa scienza disponibile ha dovuto piuttosto essere essa stessa fondata storicamente con l’economia. Inversamente, la storia dipende radicalmente da questa conoscenza solo in quanto questa storia resta storia economica. D’altra parte, quanto il ruolo della storia nell’economia stessa – il processo globale che modifica i propri dati scientifici di base – abbia potuto essere trascurato dal punto di vista dell’osservazione scientifica, è ben dimostrato dalla vanità dei calcoli socialisti che credevano di aver stabilito la periodicità esatta delle crisi; e da quando l’intervento costante dello Stato è riuscito a compensare l’effetto delle tendenze verso la crisi, lo stesso tipo di ragionamento vede in questo equilibrio un’armonia economica definitiva. Se il progetto del superamento dell’economia, il progetto della presa di possesso della storia, deve conoscere – e riportare a sé – la scienza della società, non può essere esso stesso scientifico. In quest’ultimo movimento che crede di dominare la storia presente per mezzo di una conoscenza scientifica, il punto di vista rivoluzionario è rimasto borghese.
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Le correnti utopistiche del socialismo, benché siano esse stesse fondate storicamente sulla critica della organizzazione sociale esistente, possono essere giustamente qualificate come utopiste nella misura in cui rifiutano la storia – vale a dire la lotta reale in corso, come anche il movimento del tempo al di là della perfezione immutabile della loro immagine della società felice –, ma non perché rifiutino la scienza. I pensatori utopisti sono al contrario interamente dominati dal pensiero scientifico, quale si era imposto nei secoli precedenti. Essi cercano il compimento di questo sistema razionale generale: non si considerano affatto dei profeti disarmati, perché credono al potere sociale della dimostrazione scientifica e anche, nel caso del saint-simonismo, alla presa del potere da parte della scienza. In che modo, dice Sombart, «vorrebbero conquistare con delle lotte ciò che deve essere provato?». Tuttavia la concezione scientifica degli utopisti non si estende fino alla coscienza che alcuni gruppi sociali hanno degli interessi in una situazione esistente, delle forze per conservarla, e anche delle forme di falsa coscienza corrispondenti a tali posizioni. Essa resta dunque molto al di qua della realtà storica dello sviluppo della scienza stessa, che si è trovata in gran parte orientata dalla domanda sociale originata da tali fattori, la quale seleziona non solo ciò che può essere ricercato. I socialisti utopisti, rimasti prigionieri della forma espositiva della verità scientifica, concepiscono questa verità secondo la sua pura immagine astratta, come doveva averla vista imporsi uno stadio molto anteriore della società. Come notava Sorel, è sul modello dell’astronomia che gli utopisti pensano di scoprire e di dimostrare le leggi della società. L’armonia configurata da loro, ostile alla storia, deriva dal tentativo di applicare alla società la scienza meno dipendente dalla storia. Essa tenta di farsi riconoscere con la stessa innocenza sperimentale del newtonismo, e il destino felice costantemente postulato «gioca nella loro scienza sociale un ruolo analogo a quello che si rifà all’inerzia nella meccanica razionale» (Materiali per una teoria del proletariato).
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Fu proprio l’aspetto deterministico-scientifico del pensiero di Marx la breccia attraverso la quale penetrò il processo di “ideologizzazione”, mentre egli era ancora vivo, e a maggior ragione nell’eredità teorica lasciata al movimento operaio. Una volta di più, l’avvento del soggetto della storia viene differito, ed è la scienza storica per eccellenza, l’economia, che tende sempre più largamente a garantire la necessità della propria negazione futura. Ma in tal modo viene esclusa dal campo della visione teorica la pratica rivoluzionaria che è la sola verità di questa negazione. Così è necessario studiare pazientemente lo sviluppo economico, e ammettere ancora, con tranquillità hegeliana, il dolore, cosa che, nel suo risultato, resta un «cimitero di buone intenzioni». Si scopre che ora, secondo la scienza delle rivoluzioni, la coscienza arriva sempre troppo presto, e dovrà essere insegnata. «La storia ci ha dato torto, a noi e a tutti quelli che pensavano come noi. Essa ha mostrato chiaramente che lo stato dello sviluppo economico sul continente era allora ancora ben lontano dall’essere maturo ... », dirà Engels nel 1895. Per tutta la vita, Marx ha conservato il punto di vista unitario della sua teoria, ma l’esposizione della sua teoria si è spostata sul terreno del pensiero dominante precisandosi sotto forma di critiche di discipline particolari, specialmente nella critica della scienza fondamentale della società borghese, l’economia politica. È questa mutilazione, in seguito accettata come definitiva, che ha costituito il “marxismo”.
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Le carenze della teoria di Marx sono naturalmente le carenze della lotta rivoluzionaria del proletariato della sua epoca. La classe operaia non ha decretato la rivoluzione in permanenza nella Germania del 1848; la Comune è stata sconfitta nell’isolamento. La teoria rivoluzionaria non può dunque ancora pervenire alla propria esistenza totale. Essere ridotti a difenderla e a precisarla nella separazione del lavoro erudito, al British Museum, comportava una perdita nella teoria stessa. Sono precisamente le giustificazioni scientifiche ricavate circa l’avvenire dello sviluppo della classe operaia, e la pratica organizzativa connessa a queste giustificazioni, che si sarebbero trasformate in ostacoli per la coscienza proletaria in uno stadio più avanzato.
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Tutta l’insufficienza teorica nella difesa scientifica della rivoluzione proletaria può essere ricondotta, tanto per il contenuto come per la forma dell’esposizione, a una identificazione del proletariato con la borghesia dal punto di vista della conquista rivoluzionaria del potere.
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La tendenza a fondare una dimostrazione della legittimità scientifica del potere proletario sulla ripetizione di esperienze del passato ha oscurato, dai tempi del Manifesto, il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare di sviluppo dei modi di produzione, dedotta dalla lotta di classe che finirebbe ogni volta «per trasformare in senso rivoluzionario la società intera o per distruggere completamente le classi in lotta». Ma nella realtà osservabile della storia, nello stesso modo in cui «il modo asiatico di produzione», come del resto ha constatato lo stesso Marx, ha conservato la propria immobilità a dispetto di tutti gli scontri di classe, così anche le jacqueries dei servi non hanno mai sconfitto i baroni, né le rivolte di schiavi dell’an-tichità gli uomini liberi. Lo schema lineare perde di vista anzitutto il fatto che la borghesia è la sola classe rivoluzionaria che sia mai stata vittoriosa; e nello stesso tempo che essa è la sola classe per la quale lo sviluppo dell’economia sia stato causa e conseguenza della sua dominazione sulla società. La stessa semplificazione ha condotto Marx a sottovalutare il ruolo economico dello Stato nella gestione di una società di classe. Se l’ascesa della borghesia è apparsa come un affrancamento dell’economia dallo Stato, è solo nella misura in cui lo Stato antico si confondeva con lo strumento di una oppressione di classe in una economia statica. La borghesia ha sviluppato la sua potenza economica autonoma durante il periodo medioevale di indebolimento dello Stato, nel momento della frammentazione feudale dell’equilibrio dei poteri. Ma lo Stato moderno che, con il mercantilismo, ha cominciato ad appoggiare lo sviluppo della borghesia, e che è finalmente diventato il suo Stato all’insegna del «laissez faire, laissez passer», si rivela sempre più ulteriormente dotato di una potenza centrale nella gestione calcolata del processo economico. Del resto Marx aveva potuto descrivere, con il bonapartismo, questo abbozzo della burocrazia statale moderna, fusione del capitale e dello Stato, costituzione di un «potere nazionale del capitale sul lavoro, di una forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale», in cui la borghesia rinuncia a ogni vita storica che non sia la sua riduzione alla storia economica delle cose, e vuole anzi «essere condannata allo stesso nulla politico delle altri classi». Qui sono già poste le basi socio-politiche dello spettacolo moderno, che in negativo definisce il proletariato come unico pretendente alla vita storica.
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Le due classi che corrispondono effettivamente alla teoria di Marx, le due classi pure verso le quali conduce tutta l’analisi del Capitale, la borghesia e il proletariato, sono anche le due sole classi rivoluzionarie della storia, ma in condizioni differenti: la rivoluzione borghese è compiuta; la rivoluzione proletaria è un progetto, nato sulla base della precedente rivoluzione, ma qualitativamente differente. Nel trascurare l’originalità del ruolo storico della borghesia, si maschera l’originalità concreta del progetto proletario che non può arrivare a nulla se non innalzando i propri colori e riconoscendo «l’immensità dei suoi compiti». La borghesia è giunta al potere perché è la classe dell’economia in sviluppo. Il proletariato non può essere esso stesso il potere se non diventando la classe della coscienza. Il maturare delle forze produttive non può garantire un tale potere, nemmeno per il tramite dell’aumento di privazione che esso comporta. La conquista giacobina dello Stato non può essere il suo strumento. Nessuna ideologia può servirgli per far passare dei fini parziali come dei fini generali, perché esso non può conservare nessuna realtà parziale che gli sia effettivamente propria.
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Se Marx, in un periodo determinato della sua partecipazione alla lotta del proletariato, si è aspettato troppo dalla previsione scientifica, al punto da creare la base intellettuale delle illusioni dell’economicismo, si sa anche che non vi soccombette personalmente. In una nota lettera del 7 dicembre 1867, che accompagnava un articolo in cui egli stesso criticava Il Capitale, articolo che Engels doveva pubblicare come se provenisse da un avversario, Marx ha esposto chiaramente il limite della propria scienza: « ... La tendenza soggettiva dell’autore (impostagli forse dalla sua posizione politica e dal suo passato), cioè il modo in cui egli rappresenta a sé stesso e presenta agli altri il risultato ultimo del movimento attuale, del processo sociale attuale, non ha alcun rapporto con la sua analisi reale». Così Marx, nel denunciare egli stesso le «conclusioni tendenziose» della sua analisi oggettiva, e con l’ironia del «forse» relativo alle scelte extra-scientifiche che gli si sarebbero imposte, mostra contemporaneamente la chiave metodologica della fusione dei due aspetti.
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È nella lotta storica stessa che bisogna realizzare la fusione della conoscenza e dell’azione, in modo tale che ciascuno di questi termini riponga nell’altro la garanzia della sua verità. La costituzione della classe proletaria in soggetto non è che l’organizzazione delle lotte rivoluzionarie e l’organiz-zazione della società nel momento rivoluzionario: è qui che devono esistere le condizioni pratiche della coscienza, nelle quali la teoria della prassi si conferma divenendo teoria pratica. Tuttavia questa questione centrale dell’organizzazione è stata la più sottovalutata dalla teoria rivoluzionaria all’epoca in cui si fondava il movimento operaio, cioè quando questa teoria possedeva ancora il carattere unitario derivato dal pensiero della storia (che essa si era appunto assunta il compito di sviluppare fino a una pratica storica unitaria). Al contrario è il luogo della inconseguenza di questa teoria, che ammette la ripresa di metodi di applicazione statali e gerarchici, assunti dalla rivoluzione borghese. Le forme di organizzazione del movimento operaio sviluppate su questa rinuncia della teoria hanno a loro volta impedito il mantenimento di una teoria unitaria, dissolvendola in diverse conoscenze specializzate e parcellari. Questa alienazione ideologica della teoria non può più quindi riconoscere la verifica pratica del pensiero storico unitario che essa ha tradito, quando questa verifica sorge nella lotta spontanea degli operai; può solamente concorrere a reprimerne la manifestazione e la memoria. In realtà queste forme storiche apparse nella lotta sono appunto il mezzo pratico che mancava alla teoria per essere vera. Esse sono una esigenza della teoria, ma una esigenza che non era stata formulata teoricamente. Il soviet non era una scoperta della teoria. Così, la più alta verità teorica dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori era la sua stessa esistenza nella pratica.
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I primi successi della lotta portarono l’Internazionale ad affrancarsi dalle influenze confuse dell’ideologia dominante che sopravvivevano in essa. Ma la disfatta e la repressione che essa incontrò ben presto fecero passare in primo piano un conflitto tra due concezioni della rivoluzione proletaria, che contengono entrambe una dimensione autoritaria dalla quale l’autoemancipazione cosciente della classe viene abbandonata. In effetti, la polemica divenuta inconciliabile fra i marxisti e i bakuninisti era duplice, incentrandosi volta a volta sul potere nella società rivoluzionaria e sull’organiz-zazione presente del movimento, e passando dall’uno all’al-tro di questi aspetti le posizioni degli avversari si capovolgevano. Bakunin combatteva l’illusione di una abolizione delle classi con l’uso autoritario del potere statale, prevedendo il ricostituirsi di una classe dominante burocratica e la dittatura dei più sapienti, o di coloro che sarebbero stati ritenuti tali. Marx, convinto che il maturarsi inseparabile delle contraddizioni economiche e dell’educazione democratica degli operai avrebbe ridotto il ruolo di uno Stato proletario a una semplice fase di legalizzazione dei nuovi rapporti sociali che si sarebbero imposti oggettivamente, denunciava in Bakunin e nei suoi partigiani l’autoritarismo di una élite cospirativa che si era deliberatamente posta al di sopra dell’Internazionale, e che concepiva il disegno stravagante di imporre alla società la dittatura irresponsabile dei più rivoluzionari, o di coloro che si sarebbero designati da sé come tali. Bakunin reclutava effettivamente i suoi partigiani sulla base di una tale prospettiva: «Piloti invisibili nel cuore della tempesta popolare, noi dobbiamo dirigerla senza un potere visibile, ma tramite la dittatura collettiva di tutti gli alleati. Dittatura senza fascia, senza titolo, senza diritto ufficiale, e tanto più potente per il fatto di non avere alcuna delle apparenze del potere». Così si sono opposte due ideologie della rivoluzione operaia contenenti ciascuna una critica parzialmente vera, ma perdendo l’unità del pensiero della storia, e istituendosi esse stesse come autorità ideologiche. Organizzazioni potenti, come la socialdemocrazia tedesca e la Federazione Anarchica Iberica, hanno fedelmente servito l’una o l’altra di queste ideologie; e dappertutto il risultato è stato molto diverso da quello che si era voluto.
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Il fatto di vedere il fine della rivoluzione proletaria come immediatamente presente costituisce contemporaneamente la grandezza e la debolezza della lotta anarchica reale (perché nelle sue varianti individualiste le pretese dell’anar-chismo restano irrisorie). Del pensiero storico della lotta di classe moderna, l’anarchismo collettivista trattiene unicamente la conclusione, e la sua esigenza assoluta di questa conclusione si traduce egualmente nel disprezzo deliberato del metodo. Così la sua critica della lotta politica è rimasta astratta, mentre la scelta della lotta economica non viene affermata che in funzione di una soluzione definitiva strappata con un colpo solo su questo terreno, nel giorno dello sciopero generale o dell’insurrezione. Gli anarchici devono realizzare un ideale. L’anarchia è la negazione ancora ideologica dello Stato e delle classi, cioè delle condizioni sociali stesse dell’ideologia separata. È l’ideologia della pura libertà che eguaglia tutto e che scarta ogni idea di male storico. Il punto di vista della fusione di tutte le esigenze parziali ha dato all’anarchia il merito di rappresentare il rifiuto delle condizioni esistenti per la totalità della vita, e non per una specializzazione critica privilegiata; ma il considerare in assoluto questa fusione secondo il capriccio individuale, e prima della sua realizzazione effettiva, ha d’altra parte condannato l’anarchismo a una incoerenza troppo facilmente constatabile. L’anarchismo deve riformulare, e rimettere in gioco in ogni lotta, la sua semplice conclusione totale, perché questa prima conclusione era all’origine identificata con il risultato integrale del movimento. Bakunin poteva dunque scrivere nel 1873, abbandonando la Federazione Giurassiana: «Negli ultimi nove anni si sono sviluppate in seno all’Internazionale più idee di quante ne servirebbero per salvare il mondo, se le sole idee potessero salvarlo, e sfido chiunque a inventarne una nuova. Non è più tempo per le idee, ma per i fatti e le azioni». Senza dubbio, questa concezione conserva del pensiero storico del proletariato la certezza che le idee devono divenire pratiche, ma essa abbandona il terreno storico supponendo che le forme adeguate di questo passaggio alla pratica siano già state trovate e non cambieranno più.
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Gli anarchici, che si distinguono esplicitamente dall’in-sieme del movimento operaio per la loro convinzione ideologica, finiscono col riprodurre al loro interno questa separazione di competenze, offrendo un terreno favorevole al dominio informale, su ogni organizzazione anarchica, dei propagandisti e dei difensori della propria ideologia, specialisti in generale tanto più mediocri in quanto la loro attività intellettuale si propone principalmente la ripetizione di alcune verità definitive. Il rispetto ideologico dell’unanimità nella decisione ha favorito piuttosto l’autorità incontrollata, nell’organizzazione stessa, degli specialisti della libertà; e l’anarchismo rivoluzionario si aspetta dal popolo liberato lo stesso genere di unanimità, ottenuta con gli stessi mezzi. Del resto, il rifiuto di considerare l’opposizione delle condizioni tra una minoranza riunita nella lotta attuale e la società degli individui liberi ha alimentato una divisione permanente degli anarchici nel momento della decisione comune, come dimostra l’esempio di un gran numero d’insurrezioni anarchiche in Spagna, circoscritte e soffocate nel sangue sul piano locale.
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L’illusione più o meno esplicitamente mantenuta nell’anar-chismo autentico è quella dell’imminenza permanente di una rivoluzione che dovrà dare ragione all’ideologia e alla forma d’organizzazione pratica derivata dall’ideologia, compiendosi istantaneamente. L’anarchismo ha condotto realmente, nel 1936, una rivoluzione sociale e l’abbozzo, fino ad ora il più avanzato, di un potere proletario. Anche in questa circostanza bisogna notare, da un lato, che il segnale dell’insurrezione generale era stato imposto dal pronunciamento dell’esercito. Dall’altro lato, nella misura in cui questa rivoluzione non era stata completata nei primi giorni, per il fatto che esisteva un potere franchista in metà del paese, appoggiato fortemente dall’estero allorché il resto del movimento proletario internazionale era già sconfitto, e per il fatto che sopravvivevano dalla parte della Repubblica forze borghesi o altri partiti operai statalisti, il movimento anarchico organizzato si è mostrato incapace di estendere le mezze vittorie della rivoluzione, e anche solo di difenderle. I suoi capi riconosciuti sono divenuti ministri e ostaggi dello Stato borghese che distruggeva la rivoluzione per perdere la guerra civile.
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Il “marxismo ortodosso” della II Internazionale è l’ideologia scientifica della rivoluzione socialista, che identifica ogni sua verità con il processo oggettivo dell’economia, e con il progressivo riconoscimento di questa necessità da parte della classe operaia educata dall’organizzazione. Questa ideologia ritrova la fiducia nella dimostrazione pedagogica che aveva caratterizzato il socialismo utopistico, accompagnata però da un riferimento contemplativo al corso della storia: tuttavia, un simile atteggiamento ha perduto la dimensione hegeliana di una storia totale così come ha perduto l’immagine immobile della totalità presente nella critica utopistica (in Fourier al massimo grado). È da un simile atteggiamento scientifico, che non poteva fare a meno di rilanciare simmetricamente delle scelte etiche, che procedono le insulsaggini di Hilferding, quando precisa che riconoscere la necessità del socialismo non offre «alcuna indicazione sull’atteggiamento pratico da adottare. Perché una cosa è riconoscere una necessità, e un’altra mettersi al servizio di questa necessità» (Capitale finanziario). Coloro che non hanno riconosciuto che il pensiero unitario della storia, per Marx e per il proletariato rivoluzionario, non era affatto distinto dalla posizione pratica da adottare, dovevano essere normalmente vittime della pratica che contemporaneamente avevano adottato.
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L’ideologia dell’organizzazione socialdemocratica la sottometteva al potere dei professori che educavano la classe operaia, e la forma d’organizzazione adottata era la forma adeguata a questo tirocinio passivo. La partecipazione dei socialisti della II Internazionale alle lotte politiche ed economiche era certo concreta, ma profondamente acritica. Essa era condotta, nel nome della illusione rivoluzionaria, secondo una pratica manifestamente riformista. Così l’ideologia rivoluzionaria doveva frantumarsi per il successo stesso di coloro che ne erano i portatori. La separazione dei deputati e dei giornalisti nel movimento riconduceva verso il modo di vita borghese quelli che già erano stati reclutati tra gli intellettuali borghesi. La burocrazia sindacale costituiva in sensali della forza-lavoro, da vendere come merce al suo giusto prezzo, gli stessi che erano stati reclutati a partire dalle lotte del proletariato industriale, e che da esso provenivano. Perché la loro attività conservasse a tutti qualche cosa di rivoluzionario, sarebbe stato necessario che il capitalismo si trovasse opportunamente incapace di sostenere economicamente questo riformismo che esso tollerava politicamente nella loro agitazione legalista. È una simile incompatibilità che la loro scienza garantiva; e che la storia smentiva a ogni istante.
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Questa contraddizione, la cui realtà Bernstein, essendo il socialdemocratico più distante dall’ideologia politica e il più francamente aderente alla metodologia della scienza borghese, ebbe l’onestà di mostrare – e il movimento riformista degli operai inglesi, facendo a meno di una ideologia rivoluzionaria, l’aveva già mostrata –, doveva tuttavia essere dimostrata senza repliche solo dallo sviluppo stesso della storia. Bernstein, benché pieno di illusioni sotto altri riguardi, aveva negato che una crisi della produzione capitalista avrebbe miracolosamente forzato la mano ai socialisti che non volevano ereditare la rivoluzione se non attraverso questa legittimazione sacra. Il momento di profondo sconvolgimento sociale che accompagnò la prima guerra mondiale, anche se fu fertile per una presa di coscienza, dimostrò due volte che la gerarchia socialdemocratica non aveva educato rivoluzionariamente gli operai tedeschi, né li aveva in alcun modo resi teorici: prima quando la grande maggioranza del partito si allineò con la guerra imperialista, e in seguito quando, nella disfatta, essa annientò i rivoluzionari spartakisti. L’ex-operaio Ebert credeva ancora nel peccato, poiché confessava di odiare la rivoluzione «come il peccato». Lo stesso dirigente si mostrò un ottimo precursore della rappresentanza socialista che doveva poco dopo opporsi come nemico assoluto al proletariato russo e internazionale, formulando l’esatto programma di questa nuova alienazione: «Socialismo vuol dire lavorare molto».
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Lenin non è stato, come pensatore marxista, che il kautskista fedele e conseguente, che applicava l’ideologia rivoluzionaria di questo “marxismo ortodosso” nelle condizioni russe, condizioni che non permettevano la pratica riformista che la II Internazionale conduceva in contropartita. La direzione esterna del proletariato, agendo per mezzo di un partito clandestino disciplinato, sottomesso agli intellettuali divenuti “rivoluzionari professionisti”, costituisce qui una professione che non vuole patteggiare con nessuna professione dirigente della società capitalista (il regime politico zarista era del resto incapace di offrire una tale apertura, la cui base è uno stadio avanzato del potere della borghesia). Essa diviene dunque la professione della direzione assoluta della società.
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Il radicalismo ideologico autoritario dei bolscevichi si è sviluppato su scala mondiale con la guerra e con l’affon-damento della socialdemocrazia internazionale davanti alla guerra. La fine sanguinosa delle illusioni democratiche del movimento operaio aveva fatto del mondo intero una Russia, e il bolscevismo, regnando sul primo scoppio rivoluzionario che questa epoca di crisi aveva prodotto, offriva al proletariato di tutti i paesi il suo modello gerarchico e ideologico, per “parlare in russo” alla classe dominante. Lenin non ha rimproverato al marxismo della II Internazionale di essere un’ideologia rivoluzionaria, ma di aver cessato di esserlo.
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Lo stesso momento storico, in cui il bolscevismo ha trionfato per sé stesso in Russia, e in cui la socialdemocrazia ha combattuto vittoriosamente per il vecchio mondo, segna la nascita definitiva di un ordine di cose che è al centro del dominio dello spettacolo moderno: la rappresentanza operaia si è opposta radicalmente alla classe.
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«In tutte le rivoluzioni precedenti», scriveva Rosa Luxemburg in Rote Fahne del 21 dicembre 1918, «i combattenti si affrontavano a viso aperto: classe contro classe, programma contro programma. Nella rivoluzione presente le truppe di difesa del vecchio ordine non intervengono sotto l’insegna delle classi dirigenti, ma sotto la bandiera di un “partito socialdemocratico”. Se la questione centrale della rivoluzione fosse stata posta apertamente e onestamente: capitalismo o socialismo, nessun dubbio, nessuna esitazione sarebbero oggi possibili nella grande massa del proletariato». Così, qualche giorno prima della sua distruzione, la corrente radicale del proletariato tedesco scopriva il segreto delle nuove condizioni che erano state create da tutto il processo anteriore (al quale aveva ampiamente contribuito la rappresentanza operaia): l’organizzazione spettacolare della difesa dell’ordine esistente, il regno sociale dell’apparenza nel quale nessuna «questione centrale» può più essere posta «apertamente e onestamente». La rappresentanza rivoluzionaria del proletariato a questo stadio era divenuta contemporaneamente il fattore principale e il risultato centrale della falsificazione generale della società.
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L’organizzazione del proletariato sul modello bolscevico, che era nata dall’arretratezza russa e dalla dimissione del movimento operaio dei paesi avanzati per quanto riguardava la lotta rivoluzionaria, incontrò così nell’arretratezza russa tutte quelle condizioni che portavano questa forma di organizzazione verso il rovesciamento controrivoluzionario che essa conteneva inconsciamente nel suo germe originario; e la dimissione reiterata della massa del movimento operaio europeo davanti al Hic Rhodus, hic salta del periodo 1918-1920, dimissione che comprendeva l’elimina-zione violenta della sua minoranza radicale, favorì lo sviluppo completo del processo e lasciò che il suo risultato menzognero si affermasse davanti al mondo come la sola soluzione proletaria. L’accaparramento del monopolio statale della rappresentanza e della difesa del potere degli operai, che giustificò il partito bolscevico, lo fece diventare ciò che era: il partito dei proprietari del proletariato, che eliminava per l’essenziale le forme precedenti di proprietà.
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Tutte le condizioni della liquidazione dello zarismo configurate per vent’anni nel dibattito teorico sempre insoddisfacente delle diverse tendenze della socialdemocrazia russa – debolezza della borghesia, peso della maggioranza contadina, ruolo decisivo di un proletariato concentrato e combattivo ma estremamente in minoranza nel paese – rivelarono infine nella pratica la loro soluzione, attraverso un dato che non era presente nella ipotesi: la burocrazia rivoluzionaria che dirigeva il proletariato, impadronendosi dello Stato, diede alla società un nuovo dominio di classe. La rivoluzione borghese in senso stretto era impossibile; la «dittatura democratica degli operai e dei contadini» era svuotata di senso, il potere proletario dei soviet non poteva mantenersi dovendo lottare contemporaneamente contro la classe dei contadini proprietari, la reazione bianca nazionale e internazionale, e la propria rappresentanza esteriorizzata e alienata in partito operaio dei padroni assoluti dello Stato, dell’economia, di ogni forma di espressione e, dopo poco, del pensiero. La teoria della rivoluzione permanente di Trotsky e Parvus, alla quale Lenin si rifece effettivamente, nell’aprile del 1917, era la sola a diventare vera per i paesi arretrati in rapporto allo sviluppo sociale della borghesia, ma soltanto dopo l’introduzione di questo fattore sconosciuto che era il potere di classe della burocrazia. La concentrazione della dittatura nelle mani della rappresentanza suprema dell’ideologia fu difesa con la coerenza maggiore da Lenin, nei numerosi scontri verificatisi all’interno della direzione bolscevica. Lenin aveva ogni volta ragione contro i suoi oppositori per il fatto che sosteneva la soluzione implicata dalle scelte precedenti del potere assoluto minoritario: la democrazia rifiutata statalmente ai contadini doveva essere rifiutata anche agli operai, e ciò condusse a rifiutarla ai dirigenti comunisti dei sindacati, in tutto il partito, e infine anche al vertice della gerarchia del partito. Al X Congresso, nel momento in cui il soviet di Kronstadt veniva schiacciato con le armi e sepolto sotto le calunnie, Lenin pronunciava contro i burocrati estremisti di sinistra organizzati in “Opposizione Operaia” questa conclusione, della quale in seguito Stalin avrebbe esteso la logica fino a una perfetta divisione del mondo: «Qui o là con un fucile, ma non con l’opposizione ... Ne abbiamo abbastanza dell’opposizione».
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La burocrazia, rimasta sola proprietaria di un capitalismo di Stato, si è prima di tutto assicurata il potere all’interno per mezzo di un’alleanza temporanea con la classe contadina, dopo Kronstadt, al tempo della “nuova politica economica”, mentre l’ha difeso all’esterno utilizzando gli operai irregimentati nei partiti burocratici della III Internazionale come forza d’appoggio della diplomazia russa, per sabotare ogni movimento rivoluzionario e sostenere dei governi borghesi da cui essa si aspettava un appoggio in politica internazionale (il potere del Kuo-Min-Tang nella Cina del 1925-1927, il Fronte Popolare in Spagna e in Francia, ecc.). Ma la società burocratica doveva perseguire il proprio compimento con il terrore esercitato sulla classe contadina per realizzare l’accumulazione di capitale più brutale della storia. Questa industrializzazione dell’epoca stalinista rivela la realtà ultima della burocrazia: essa è la continuazione del potere dell’economia, il salvataggio dell’essenziale della società mercantile che mantiene il lavoro-merce. È la conferma dell’economia indipendente, che domina la società al punto da ricreare per i propri fini il dominio di classe che le è necessario: ciò che equivale a dire che la borghesia ha creato una potenza autonoma la quale, fino a che sussiste questa autonomia, può arrivare al punto di fare a meno di una borghesia. La burocrazia totalitaria non è «l’ultima classe proprietaria della storia» nel senso che le attribuiva Bruno Rizzi, ma solamente una classe dominante di sostituzione per l’economia mercantile. La proprietà privata capitalista impotente viene sostituita da un sottoprodotto semplificato, meno diversificato, concentrato in proprietà collettiva della classe burocratica. Questa forma sottosviluppata di classe dominante è anche l’espres-sione del sottosviluppo economico; e non ha altra prospettiva che quella di riguadagnare il ritardo di questo sviluppo in alcune regioni del mondo. È stato il partito operaio, organizzato secondo il modello borghese della separazione, a fornire la struttura gerarchico-statale a questa edizione supplementare della classe dominante. Anton Ciliga scriveva in una prigione di Stalin che «le questioni tecniche di organizzazione si rivelavano essere delle questioni sociali» (Lenin e la Rivoluzione).
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L’ideologia rivoluzionaria, la coerenza del separato di cui il leninismo costituisce il più alto sforzo volontaristico, detenendo la gestione di una realtà che la respinge, con lo stalinismo tornerà alla sua verità nell’incoerenza. In quel momento l’ideologia non è più un’arma, ma un fine. La menzogna che non è più contraddetta diviene follia. La realtà così come il fine vengono dissolti nella proclamazione ideologica totalitaria: tutto ciò che essa dice è tutto ciò che è. È un primitivismo locale dello spettacolo, il cui ruolo è tuttavia essenziale nello sviluppo dello spettacolo mondiale. Qui l’ideologia che si materializza non ha trasformato economicamente il mondo, come il capitalismo giunto allo stadio dell’abbondanza; essa ha solamente trasformato poliziescamente la percezione.
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La classe ideologico-totalitaria al potere è il potere di un mondo rovesciato: quanto più essa è forte, tanto più afferma di non esistere, e la sua forza le serve prima di tutto per affermare la sua inesistenza. Essa è modesta su questo solo punto, perché la sua inesistenza ufficiale deve anche coincidere con il nec plus ultra dello sviluppo storico, che contemporaneamente sarebbe dovuto al suo infallibile comando. Estesa dappertutto, la burocrazia deve essere per la coscienza la classe invisibile, in modo che è tutta la vita sociale che diviene demente. L’organizzazione sociale della menzogna assoluta deriva da questa contraddizione fondamentale.
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Lo stalinismo fu il regno del terrore nella classe burocratica stessa. Il terrorismo su cui si fonda il potere di questa classe deve colpire anche questa classe, perché essa non possiede alcuna garanzia giuridica, alcuna esistenza riconosciuta in quanto classe proprietaria, che essa possa estendere a ognuno dei suoi membri. La sua proprietà reale è dissimulata, ed essa non è diventata proprietaria che per la via della falsa coscienza. La falsa coscienza mantiene il suo potere assoluto solo per mezzo del terrore assoluto, in cui ogni vero motivo finisce col perdersi. I membri della classe burocratica al potere non hanno il diritto di possesso sulla società se non collettivamente, in quanto partecipanti a una menzogna fondamentale: bisogna che essi recitino il ruolo del proletariato che dirige una società socialista; che siano gli attori fedeli al testo dell’infedeltà ideologica. Ma la partecipazione effettiva a questo essere menzognero deve vedersi essa stessa riconosciuta come una partecipazione veridica. Nessun burocrate può sostenere individualmente il suo diritto al potere, perché provare che egli è un proletario socialista significherebbe manifestarsi come il contrario di un burocrate; e provare che egli è un burocrate è impossibile, poiché la verità ufficiale della burocrazia è di non esistere. Così ogni burocrate si trova nella dipendenza assoluta da una garanzia centrale della ideologia, che riconosce una partecipazione collettiva al suo “potere socialista” da parte di tutti i burocrati che essa non annienta. Se i burocrati presi insieme decidono di tutto, la coesione della loro classe non può essere assicurata che dalla concentrazione del loro potere terroristico in una sola persona. In essa risiede la sola verità pratica della menzogna al potere: la fissazione indiscutibile della sua frontiera sempre rettificata. Stalin decide senza appello chi a conti fatti è burocrate possidente; cioè chi deve essere chiamato «proletario al potere» oppure «traditore al soldo del Mikado e di Wall Street». Gli atomi burocratici non trovano l’essenza comune del loro diritto se non nella persona di Stalin. Stalin è il sovrano del mondo che in questo modo si sa come la persona assoluta, per la coscienza della quale non esiste spirito più alto. «Il sovrano del mondo ha la reale coscienza di ciò che egli è – la potenza universale dell’effettualità – nella violenza distruttrice che egli esercita contro il Sé dei suoi sudditi che lo contrasta.» Mentre è la potenza che definisce il terreno del dominio, egli è nello stesso tempo «la potenza che devasta questo terreno».
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Quando l’ideologia, divenuta assoluta con il possesso del potere assoluto, si è trasformata da una conoscenza parcellare in una menzogna totalitaria, il pensiero della storia è stato così perfettamente annientato che la storia stessa, al livello della conoscenza più empirica, non può più esistere. La società burocratica totalitaria vive in un presente perpetuo, in cui tutto ciò che è avvenuto esiste per essa soltanto come spazio accessibile alla sua polizia. Il progetto, già formulato da Napoleone, di «dirigere monarchicamente l’energia dei ricordi» ha trovato la sua totale concretizzazione, in una manipolazione permanente del passato, non solamente nei significati, ma nei fatti. Ma il prezzo di questa liberazione da ogni realtà storica è la perdita del riferimento razionale che è indispensabile alla società storica del capitalismo. Si sa quello che l’applicazione scientifica dell’ideologia divenuta folle è potuta costare all’economia russa, non fosse che con l’impostura di Lyssenko. Questa contraddizione della burocrazia totalitaria che amministra una società industrializzata, presa fra il suo bisogno del razionale e il suo rifiuto del razionale, costituisce anche una delle sue deficienze principali rispetto al normale sviluppo capitalistico. Come la burocrazia non può risolvere, al pari del capitalismo, la questione dell’agricoltura, allo stesso modo gli è alla fine inferiore nella produzione industriale, pianificata autoritariamente sulle basi dell’irrealismo e della menzogna generalizzata.
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Il movimento operaio rivoluzionario del periodo fra le due guerre fu annientato dall’azione congiunta della burocrazia stalinista e del totalitarismo fascista, che aveva preso a prestito la sua forma di organizzazione dal partito totalitario sperimentato in Russia. Il fascismo è stato una difesa estre-mista dell’economia borghese minacciata dalla crisi e dalla sovversione proletaria, lo stato d’assedio nella società capitalista, per mezzo del quale questa società si salva e si dà una prima razionalizzazione d’urgenza, facendo intervenire massicciamente lo Stato nella sua gestione. Ma una tale razionalizzazione è essa stessa minacciata dall’immensa irrazionalità del suo mezzo. Se il fascismo si porta alla difesa dei principali punti dell’ideologia borghese divenuta conservatrice (la famiglia, la proprietà, l’ordine morale, la nazione) riunendo la piccola borghesia e i disoccupati impazziti per la crisi o delusi per l’impotenza della rivoluzione socialista, non è esso stesso fondamentalmente ideologico. Esso si dà per quello che è: una resurrezione violenta del mito, che esige la partecipazione a una comunità definita da pseudo-valori arcaici: la razza, il sangue, il capo. Il fascismo è l’arcaismo tecnicamente equipaggiato. Il surrogato scomposto del mito che esso presenta è ripreso nel contesto spettacolare dei mezzi di condizionamento e di illusione più moderni. Così, esso è uno dei fattori nella formazione dello spettacolare moderno, nella stessa misura in cui la sua parte nella distruzione del vecchio movimento operaio ne fa una delle potenze fondatrici della società presente; ma poiché il fascismo è anche la forma più costosa per mantenere l’ordine capitalista, era normale che dovesse abbandonare il fronte della scena occupata dai grandi ruoli degli Stati capitalisti, per essere soppiantato da forme più razionali e più forti di questo ordine stesso.
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Quando la burocrazia russa è riuscita finalmente a disfarsi delle ultime tracce della proprietà borghese che ostacolavano il suo regno sull’economia, a sviluppare quest’ultima per il suo proprio uso, e ad essere riconosciuta all’esterno tra le grandi potenze, essa vuole godere tranquillamente il proprio mondo, ed eliminare da esso quel margine di arbitrio che si esercitava su sé stessa: essa denuncia lo stalinismo della sua origine. Ma una simile denuncia rimane stalinista, arbitraria, inspiegata, e continuamente corretta, perché la menzogna ideologica della sua origine non può mai essere rivelata. In questo modo la burocrazia non può liberalizzarsi né culturalmente né politicamente perché la sua esistenza come classe dipende dal monopolio ideologico che, con tutta la sua pesantezza, è il suo solo titolo di proprietà. L’ideologia ha certamente perduto la passione per la sua affermazione positiva, ma ciò che permane della sua trivialità indifferente ha ancora la funzione repressiva di proibire la minima concorrenza, di tenere schiava la totalità del pensiero. La burocrazia è così legata a una ideologia che non è più creduta da nessuno. Ciò che era terroristico è divenuto derisorio, ma questo stesso essere derisorio non può mantenersi se non conservando in secondo piano il terrorismo di cui vorrebbe disfarsi. Così, nel momento stesso in cui la burocrazia vuole mostrare la propria superiorità sul terreno del capitalismo, essa si riconosce come parente povera del capitalismo. Allo stesso modo in cui la sua stessa storia effettiva è in contraddizione con il suo diritto, e la sua ignoranza grossolanamente perpetuata in contraddizione con le sue pretese scientifiche, il progetto di rivaleggiare con la borghesia nella produzione di un’abbondanza mercantile è ostacolato dal fatto che una simile abbondanza porta in sé stessa la sua ideologia implicita, e si accompagna normalmente a una libertà indefinitamente estesa di false scelte spettacolari, pseudo-libertà che rimane inconciliabile con l’ideologia burocratica.
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In questa fase del suo sviluppo, il titolo di proprietà ideologica della burocrazia comincia a crollare già a livello internazionale. Il potere che si era costituito nazionalmente in quanto modello fondamentalmente internazionalista deve ammettere che non può più pretendere di mantenere la sua coesione menzognera al di là di ogni frontiera nazionale. L’ineguale sviluppo economico conosciuto dalle burocrazie con interessi competitivi che sono riuscite a possedere il loro “socialismo” al di fuori di un solo paese, ha condotto la menzogna russa e la menzogna cinese ad affrontarsi pubblicamente e senza riserve. A partire da questo punto, ogni burocrazia al potere, oppure ogni partito totalitario candidato al potere lasciato dal periodo stalinista in alcune classi operaie nazionali, deve seguire la sua propria strada. Aggiungendosi alle manifestazioni di negazione interna che cominciarono ad affermarsi davanti al mondo con la rivolta operaia di Berlino-Est, che opponeva ai burocrati la sua esigenza di «un governo di metallurgici», e che sono già arrivate una volta fino al potere dei Consigli operai in Ungheria, la decomposizione mondiale dell’alleanza della mistificazione burocratica è, in ultima analisi, il fattore più sfavorevole allo sviluppo attuale della società capitalista. La borghesia sta per perdere l’avversario che oggettivamente la sosteneva con l’unificazione illusoria di ogni negazione dell’ordine esistente. Una tale divisione del lavoro spettacolare vede la propria fine quando il ruolo pseudo-rivoluzionario si divide a sua volta. L’elemento spettacolare della dissoluzione del movimento operaio sta per essere esso stesso dissolto.
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L’illusione leninista non ha più altra base attuale che nelle diverse tendenze trotskiste, in cui l’identificazione del progetto proletario con una organizzazione gerarchica dell’ide-ologia sopravvive incrollabilmente all’esperienza dei suoi risultati. La distanza che separa il trotskismo dalla critica rivoluzionaria della società presente gli permette così di osservare una distanza rispettosa nei confronti di posizioni che erano già false quando furono usate in un conflitto reale. Trotsky è rimasto fino al 1927 fondamentalmente solidale con l’alta burocrazia, pur cercando di impadronirsene per farle riprendere un’azione realmente bolscevica all’e-sterno (si sa che in quel momento, per aiutare a dissimulare il famoso “testamento di Lenin”, egli giunse fino a sconfessare calunniosamente il suo partigiano Max Eastman che lo aveva divulgato). Trotsky è stato condannato dalla sua prospettiva fondamentale, perché nel momento in cui la burocrazia si riconosce essa stessa nel suo risultato come classe controrivoluzionaria all’interno, essa deve anche scegliere di essere effettivamente controrivoluzionaria in nome della rivoluzione all’esterno, come a casa sua. L’ulteriore lotta di Trotsky per una IV Internazionale contiene la medesima inconseguenza. Egli ha rifiutato per tutta la vita di riconoscere nella burocrazia il potere di una classe separata, perché era diventato durante la seconda rivoluzione russa il partigiano incondizionato della forma bolscevica di organizzazione. Quando Lukács, nel 1923, indicava in questa forma la mediazione finalmente trovata fra la teoria e la pratica, dove i proletari cessano di essere “spettatori” degli avvenimenti che si producono nella loro organizzazione, ma li hanno coscientemente scelti e vissuti, descriveva come meriti effettivi del partito bolscevico tutto ciò che il partito bolscevico non era. Lukács era ancora, a fianco del suo profondo lavoro teorico, un ideologo, che parlava in nome del potere più volgarmente esterno al movimento proletario, credendo e facendo credere di trovarsi egli stesso, con la propria personalità totale, in questo potere come nel suo proprio. Quando il seguito degli avvenimenti rese manifesto in qual modo questo potere sconfessa e sopprime i suoi valletti, Lukács, sconfessandosi egli stesso senza fine, ha mostrato con nettezza caricaturale con che cosa esattamente egli si era identificato: con il contrario di sé stesso, e di ciò che aveva sostenuto in Storia e coscienza di classe. Lukács verifica esattamente la regola fondamentale che giudica tutti gli intellettuali di questo secolo: ciò che essi rispettano misura esattamente la loro realtà disprezzabile. Del resto Lenin non aveva troppo incoraggiato questo genere di illusioni sulla sua attività, poiché anzi conveniva che «un partito politico non può esaminare i suoi membri per vedere se vi sono delle contraddizioni tra la loro filosofia e il programma del partito». Il partito reale di cui Lukács aveva presentato a sproposito il ritratto sognato non era coerente che per un compito preciso e parziale: impadronirsi del potere nello Stato.
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L’illusione neo-leninista del trotskismo attuale, poiché viene ad ogni momento smentita dalla realtà della società capitalista moderna, tanto borghese che burocratica, trova naturalmente un campo di applicazione privilegiato nei paesi “sottosviluppati” formalmente indipendenti, dove l’illusione di una qualsiasi variante del socialismo statale e burocratico viene coscientemente manipolata dalle classi dirigenti locali come la semplice ideologia dello sviluppo economico. La composizione ibrida di queste classi si rifà più o meno chiaramente a una gradazione dello spettro borghesia-burocrazia. Il loro gioco su scala internazionale fra questi due poli del potere capitalista esistente, tanto quanto i loro compromessi ideologici – in particolare con l’islamismo –, esprimendo la realtà ibrida della loro base sociale, finiscono col togliere a questo ultimo sottoprodotto del socialismo ideologico ogni traccia di serietà che non sia quella poliziesca. Una burocrazia ha potuto formarsi inquadrando la lotta nazionale e la rivolta agraria dei contadini: essa tende allora, come in Cina, ad applicare il modello staliniano di industrializzazione in una società meno sviluppata della Russia del 1917. Una burocrazia in grado di industrializzare la nazione può formarsi a partire dalla piccola borghesia, dai quadri dell’esercito che si impadroniscono del potere, come dimostra l’esempio dell’Egitto. In alcuni casi, tra i quali l’Algeria al termine della sua guerra di indipendenza, la burocrazia, che si è costituita come direzione parastatale durante la lotta, ricerca il punto di equilibrio di un compromesso per fondersi con una debole borghesia nazionale. Infine nelle vecchie colonie dell’Africa nera che restano apertamente legate alla borghesia occidentale, americana ed europea, si forma una classe borghese – nella maggior parte dei casi a partire dal potere dei capi tradizionali del tribalismo – per mezzo del possesso dello Stato: in questi paesi in cui l’imperialismo straniero rimane il vero padrone dell’economia, subentra uno stadio in cui i compradores hanno ricevuto, come compenso della vendita dei prodotti indigeni, la proprietà di uno Stato indigeno, indipendente di fronte alle masse locali ma non di fronte all’imperialismo. In questo caso, si tratta di una borghesia artificiale che non è capace di accumulare, ma che semplicemente dilapida, tanto la parte di plusvalore che ricava dal lavoro locale quanto i sussidi stranieri degli Stati o monopoli che sono i suoi protettori. L’evidente incapacità di queste classi borghesi ad adempiere alla normale funzione economica della borghesia fa sorgere davanti a ciascuna di esse una sovversione sul modello burocratico più o meno adattato alle particolarità locali, che vuole prenderne l’eredità. Ma la riuscita stessa di una burocrazia nel suo progetto fondamentale di industrializzazione contiene necessariamente la prospettiva della sua disfatta storica: accumulando il capitale, essa accumula il proletariato, e crea la sua propria smentita in un paese in cui non esisteva ancora.
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In questo sviluppo complesso e terribile, che ha condotto l’epoca delle lotte di classe verso nuove condizioni, il proletariato dei paesi industriali ha completamente perduto l’affermazione della sua prospettiva autonoma e, in ultima analisi, le sue illusioni, ma non il suo essere. Esso non è stato soppresso. Rimane irriducibilmente esistente nell’alienazione intensificata del capitalismo moderno: è l’immensa maggioranza dei lavoratori che hanno perduto ogni potere sull’impiego della loro vita, e che, dal momento in cui lo sanno, si ridefiniscono come proletariato, il negativo in azione in questa società. Questo proletariato è oggettivamente rafforzato dal movimento di scomparsa della classe contadina, come dall’estensione della logica del lavoro in fabbrica che si applica a gran parte dei “servizi” e delle professioni intellettuali. È soggettivamente che questo proletariato è ancora lontano dalla sua coscienza pratica di classe, non soltanto nel caso degli impiegati ma anche nel caso degli operai che non hanno ancora scoperto se non l’impotenza e la mistificazione della vecchia politica. Tuttavia, quando il proletariato scopre che la sua propria forza esteriorizzata concorre al consolidamento permanente della società capitalista, non più soltanto nella forma del lavoro, ma anche nella forma dei sindacati, dei partiti o della potenza statale che esso aveva costituito per emanciparsi, scopre anche attraverso l’esperienza storica concreta di essere la classe totalmente nemica di ogni esteriorizzazione congelata e di ogni specializzazione del potere. Esso è il portatore della rivoluzione che non può lasciare nulla all’esterno di sé stessa, dell’esigenza del dominio permanente del presente sul passato, e della critica totale della separazione; ed è ciò di cui esso deve trovare la forma adeguata nell’azione. Nessun miglioramento quantitativo della sua miseria, nessuna illusione di integrazione gerarchica è un rimedio durevole per la sua insoddisfazione, poiché il proletariato non può riconoscersi veracemente in un torto particolare che avrebbe subìto, né dunque nella riparazione di un torto particolare, né di un gran numero di questi torti, ma solamente nel torto assoluto di essere rigettato ai margini della vita.
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Con l’apparire dei nuovi segni di negazione, incompresi e falsificati dall’organizzazione spettacolare, che si moltiplicano nei paesi economicamente più avanzati, si può già tirare questa conclusione, che una nuova epoca si è aperta: dopo il primo tentativo di sovversione operaia, è ora l’abbondanza capitalistica che è fallita. Quando le lotte antisindacali degli operai occidentali sono represse prima di tutto dai sindacati, e quando le correnti in rivolta della gioventù lanciano una prima protesta informe, nella quale nondimeno è immediatamente implicito il rifiuto della vecchia politica specializzata, dell’arte e della vita quotidiana, queste sono le due facce di una nuova lotta spontanea che comincia sotto l’aspetto criminale. Sono i segni precursori del secondo assalto proletario contro la società di classe. Nel momento in cui le avanguardie perdute di questo esercito ancora immobile ricompaiono su questo terreno, divenuto diverso e rimasto lo stesso, esse seguono un nuovo “generale Ludd” che, questa volta, le lancia nella distruzione delle macchine del consumo permesso.
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«La forma politica finalmente scoperta, nella quale l’emancipazione economica del lavoro poteva essere realizzata», ha assunto in questo secolo una netta fisionomia nei Consigli operai rivoluzionari, i quali concentrano in sé tutte le funzioni di decisione e di esecuzione, e che si federano per mezzo di delegati responsabili di fronte alla base e revocabili in qualsiasi momento. La loro effettiva esistenza non è stata finora che un breve abbozzo, immediatamente combattuto e vinto dalle diverse forze di difesa della società di classe, fra le quali bisogna spesso annoverare la loro propria falsa coscienza. Pannekoek insisteva giustamente sul fatto che la scelta di un potere dei Consigli operai «propone dei problemi» piuttosto che apportare una soluzione. Ma questo potere è precisamente il luogo in cui i problemi della rivoluzione proletaria possono trovare la loro vera soluzione. È il luogo in cui le condizioni oggettive della coscienza storica sono riunite; la realizzazione della comunicazione diretta attiva, in cui finiscono la specializzazione, la gerarchia e la separazione, in cui le condizioni esistenti sono state trasformate «in condizioni di unità». Qui il soggetto proletario può emergere dalla sua lotta contro la contemplazione: la sua coscienza è uguale all’organizzazione pratica che si è data, perché questa stessa coscienza è inseparabile dall’intervento coerente nella storia.
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Nel potere dei Consigli, che deve soppiantare su scala internazionale ogni altro potere, il movimento proletario è il proprio prodotto, e questo prodotto è il produttore stesso. È per sé stesso il proprio fine. Soltanto là la negazione spettacolare della vita è negata a sua volta.
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L’apparizione dei Consigli fu la realtà più alta del movimento proletario nel primo quarto del secolo, realtà che rimase inosservata o travestita perché spariva con il resto del movimento che l’insieme dell’esperienza storica di allora smentiva ed eliminava. Nella nuova epoca della critica proletaria, questo risultato ritorna come il solo punto non vinto del movimento vinto. La coscienza storica che sa di avere in esso il suo solo campo di esistenza può ora riconoscerlo, non più alla periferia di ciò che rifluisce, ma al centro di ciò che sale.
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Un’organizzazione rivoluzionaria esistente prima del potere dei Consigli – essa dovrà trovare lottando la sua propria forma – per tutte queste ragioni storiche sa già che non rappresenta la classe. Essa deve solamente riconoscersi come separazione radicale dal mondo della separazione.
120
L’organizzazione rivoluzionaria è l’espressione coerente della teoria della prassi che entra in comunicazione non-unilaterale con le lotte pratiche, in divenire verso la teoria pratica. La sua pratica è la generalizzazione della comunicazione e della coerenza in queste lotte. Nel momento rivoluzionario della dissoluzione della separazione sociale, questa organizzazione deve riconoscere il proprio dissolvimento in quanto organizzazione separata.
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L’organizzazione rivoluzionaria non può essere che la critica unitaria della società, cioè una critica che non scende a patti con nessuna forma di potere separato, in nessun punto del mondo, e una critica pronunciata globalmente contro tutti gli aspetti della vita sociale alienata. Nella lotta dell’organizzazione rivoluzionaria contro la società di classe, le armi non sono altro che l’essenza dei combattenti stessi: l’organizzazione rivoluzionaria non può riprodurre in sé stessa le condizioni di scissione e di gerarchia che appartengono alla società dominante. Essa deve lottare in permanenza contro la propria deformazione nello spettacolo regnante. Il solo limite della partecipazione alla democrazia totale dell’organizzazione rivoluzionaria è il riconoscimento e l’auto-appropriazione effettiva, da parte di tutti i suoi membri, della coerenza della sua critica, coerenza che deve dare prova di sé nella teoria critica propriamente detta e nel rapporto fra questa e l’attività pratica.
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Nel momento in cui la realizzazione sempre più spinta della alienazione capitalista a tutti i livelli, rendendo sempre più difficile per i lavoratori riconoscere e nominare la loro propria miseria, li pone nell’alternativa di rifiutare la totalità della loro miseria, o niente, l’organizzazione rivoluzionaria ha dovuto imparare che essa non può più combattere l’alienazione sotto forme alienate.
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La rivoluzione proletaria è interamente sospesa alla necessità che, per la prima volta, è la teoria in quanto intelligenza della pratica umana che deve essere riconosciuta e vissuta dalle masse. Essa esige che gli operai diventino dialettici e iscrivano il loro pensiero nella pratica; essa chiede così agli uomini senza qualità ben più di quello che la rivoluzione borghese chiedeva agli uomini qualificati che delegava alla sua realizzazione: perché la coscienza ideologica parziale edificata da una parte della classe borghese aveva per base quella parte centrale della vita sociale, l’economia, nella quale questa classe era già al potere. Lo sviluppo stesso della società di classe fino all’organizzazione spettacolare della non-vita, porta dunque il progetto rivoluzionario a divenire visibilmente ciò che era già essenzialmente.
124
La teoria rivoluzionaria è ora nemica di ogni ideologia rivoluzionaria, e sa di esserlo.
«Signori! Il tempo della vita è breve ...
E se noi viviamo, viviamo per calpestare i re.»
Shakespeare
Enrico IV
125
L’uomo, «l’essere negativo che è unicamente nella misura in cui sopprime l’Essere», è identico al tempo. L’appro-priazione che l’uomo compie della sua propria natura è parimenti la sua apprensione del dispiegarsi dell’universo. «La storia stessa è una parte reale della storia naturale, della umanizzazione della natura» (Marx). Inversamente questa «storia naturale» non ha altra esistenza effettiva che attraverso il processo di una storia umana, della sola parte che ritrova questo tutto storico, come il moderno telescopio la cui portata raggiunge nel tempo le nebulose in fuga alla periferia dell’universo. La storia è sempre esistita, ma non sempre nella sua forma storica. La temporalizzazione dell’uomo, quale si compie con la mediazione di una società, è uguale a una umanizzazione del tempo. Il movimento incosciente del tempo si manifesta e diviene vero nella coscienza storica.
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Il movimento propriamente storico, sebbene ancora nascosto, ha inizio nella lenta e impercettibile formazione della «natura reale dell’uomo», questa «natura che nasce nella storia umana – nell’atto del nascere della società umana», ma la società che allora è giunta a padroneggiare una tecnica e un linguaggio, pur essendo già il prodotto della propria storia, non ha coscienza che di un presente perpetuo. I portatori di ogni conoscenza, limitata alla memoria dei più anziani, sono sempre dei viventi. Né la morte né la procreazione sono comprese come una legge del tempo. Il tempo resta immobile, come uno spazio chiuso. Quando una società più complessa giunge a prendere coscienza del tempo, il suo lavoro è piuttosto di negarlo, poiché essa vede nel tempo non ciò che passa, ma ciò che ritorna. La società statica organizza il tempo secondo la sua esperienza immediata della natura, sul modello del tempo ciclico.
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Il tempo ciclico è già dominante nell’esperienza dei popoli nomadi, perché sono le stesse condizioni che si ritrovano davanti a essi in ogni momento del loro passaggio: Hegel nota che «l’errare dei nomadi è solo formale, poiché è limitato a degli spazi uniformi». La società che, fissandosi localmente, dà un contenuto allo spazio con l’organizzazione di luoghi individualizzati, si trova per ciò stesso rinchiusa all’interno di questa localizzazione. Il ritorno nel tempo in luoghi simili è ora il puro ritorno del tempo in uno stesso luogo, la ripetizione di una serie di gesti. Il passaggio dal nomadismo pastorale all’agricoltura sedentaria è la fine della libertà pigra e priva di contenuto, l’inizio della fatica del lavoro. Il modo di produzione agrario in generale, dominato dal ritmo delle stagioni, è la base del tempo ciclico pienamente costituito. L’eternità gli è interna: è il ritornare dello stesso su questa terra. Il mito è la costruzione unitaria del pensiero che garantisce tutto l’ordine cosmico intorno all’ordine che questa società ha effettivamente già realizzato all’interno dei suoi confini.
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L’appropriazione sociale del tempo, la produzione dell’uomo nel lavoro umano, si sviluppano in una società divisa in classi. Il potere che si è costituito al di sopra della penuria della società del tempo ciclico, la classe che organizza il lavoro sociale e se ne appropria il plusvalore limitato, si appropria anche il plusvalore temporale della sua organizzazione del tempo sociale: essa possiede per sé sola il tempo irreversibile del vivente. Solo la ricchezza che può esistere concentrata nel settore del potere per essere spesa materialmente in festa sontuosa, vi si trova consumata anche in quanto dilapidazione del tempo storico della superficie della società. I proprietari del plusvalore storico detengono la conoscenza e il godimento degli avvenimenti vissuti. Questo tempo, separato dall’organizzazione collettiva del tempo che predomina con la produzione ripetitiva della base della vita sociale, scorre al di sopra della sua comunità statica. È il tempo dell’avventura e della guerra, dove i padroni della società ciclica percorrono la loro storia personale; ed è anche il tempo che appare nello scontro con le comunità straniere, l’alterazione dell’ordine immutabile della società. La storia giunge dunque inaspettata di fronte agli uomini come un fattore estraneo, come ciò che essi non hanno voluto e da cui si credevano al riparo. Ma per questo tramite ritorna anche l’inquietudine negativa dell’umano, che era stata all’origine stessa di tutto lo sviluppo che si era assopito.
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Il tempo ciclico è in sé stesso il tempo senza conflitto. Ma il conflitto è insediato in questa infanzia del tempo: dapprima la storia lotta per essere la storia nell’attività pratica dei padroni. Questa storia crea dell’irreversibile in superficie; il suo movimento costituisce il tempo stesso che il movimento esaurisce, all’interno del tempo inesauribile della società ciclica.
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Le “società fredde” sono quelle che hanno rallentato all’estremo la loro parte di storia; che hanno conservato in un equilibrio costante la loro opposizione con l’ambiente naturale e umano, e i loro contrasti interni. Se l’estrema varietà delle istituzioni costituite a questo fine testimonia della plasticità dell’autocreazione della natura umana, questa testimonianza risulta in modo evidente solo per l’osservatore esterno, per l’etnologo tornato dal tempo storico. In ciascuna di queste società, una strutturazione definitiva ha escluso il cambiamento. Il conformismo assoluto delle pratiche sociali esistenti, con le quali si trovano identificate per sempre tutte le possibilità umane, non ha più altro limite esterno che il timore di ricadere nell’animalità informe. Qui, per rimanere nell’umano, gli uomini devono rimanere gli stessi.
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La nascita del potere politico, che sembra essere in relazione con le ultime grandi rivoluzioni della tecnica, come la fusione del ferro, alle soglie di un periodo che non conoscerà più profondi rivolgimenti fino alla comparsa dell’industria, è anche il momento che incomincia a dissolvere i legami della consanguineità. Da allora la successione delle generazioni esce dalla sfera del puro ciclo naturale per divenire avvenimento orientato, successione di poteri. Il tempo irreversibile è il tempo di colui che regna; e le dinastie sono la sua prima misura. La scrittura è la sua arma. Nella scrittura, il linguaggio raggiunge la sua piena realtà indipendente di mediazione tra le coscienze. Ma questa indipendenza è identica all’indipendenza generale del potere separato, come mediazione che costituisce la società. Con la scrittura fa la sua comparsa una coscienza che non è più portata e trasmessa nel rapporto immediato dei viventi: una memoria impersonale, che è quella dell’amministrazione della società. «Gli scritti sono i pensieri dello Stato; gli archivi la sua memoria.» (Novalis)
132
La cronaca è l’espressione del tempo irreversibile del potere, e anche lo strumento che mantiene il progredire volontaristico di questo tempo a partire dal suo tracciato anteriore, poiché questo orientamento del tempo deve crollare assieme alla forza di ciascun potere particolare; e ricadere nell’oblio indifferente del tempo ciclico, il solo conosciuto dalle masse contadine che, nel crollo degli imperi e delle loro cronologie, non cambiano mai. I possessori della storia hanno posto un senso nel tempo: una direzione che è anche un significato. Ma questa storia si svolge e soccombe a parte; essa lascia immutabile il fondo della società, poiché essa è proprio ciò che resta separato dalla realtà comune. È in questo che per noi la storia degli imperi d’Oriente si riconduce alla storia delle religioni: queste cronologie cadute in rovina hanno lasciato solo la storia apparentemente autonoma delle illusioni che le avviluppavano. I padroni che detengono la proprietà privata della storia, sotto la protezione del mito, la detengono essi stessi anzitutto nella forma dell’illusione: in Cina e in Egitto essi hanno detenuto a lungo il monopolio dell’immortalità dell’anima; così come le loro prime dinastie riconosciute sono l’ordinamento immaginario del passato. Ma questo possesso illusorio dei padroni è anche tutto il possesso possibile, in quel momento, di una storia comune e della loro stessa storia. L’espansione del loro potere storico effettivo va di pari passo con una volgarizzazione del possesso mitico illusorio. Tutto ciò deriva dal semplice fatto che è nella misura stessa in cui i padroni si sono incaricati di garantire miticamente la permanenza del tempo ciclico, come nei riti stagionali degli imperatori cinesi, che essi stessi se ne sono relativamente affrancati.
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Quando l’arida cronologia senza spiegazioni del potere divinizzato che parla ai suoi servitori, che non vuole essere compresa se non in quanto esecuzione terrestre degli ordini del mito, può essere superata e diviene storia cosciente, bisogna che la partecipazione reale alla storia sia vissuta da gruppi estesi. Da questa comunicazione pratica tra coloro che si sono riconosciuti come i possessori di un presente eccezionale, che hanno percepito la ricchezza qualitativa degli avvenimenti come la loro attività e il luogo dove dimoravano – la loro epoca –, nasce il linguaggio generale della comunicazione storica. Coloro per cui è esistito il tempo irreversibile vi scoprono contemporaneamente il memorabile e la minaccia dell’oblio: «Erodoto d’Alicar-nasso presenta qui i risultati della sua ricerca, affinché il tempo non renda vane le gesta degli uomini ... ».
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Il ragionamento sulla storia è, inseparabilmente, ragionamento sul potere. La Grecia è stata il momento in cui il potere e il suo cambiamento si discutono e si comprendono, la democrazia dei padroni della società. Essa vide il contrario delle condizioni conosciute dallo Stato dispotico, nel quale il potere regola sempre i suoi conti solo con sé stesso, nell’oscurità inaccessibile del suo punto più concentrato: con la rivoluzione di palazzo, che il successo come il fallimento mettono allo stesso modo fuori discussione. Tuttavia, il potere frazionato delle comunità greche non esisteva che nella spesa di una vita sociale la cui produzione restava separata e statica nella classe servile. Solo coloro che non lavorano vivono. Nella divisione delle comunità greche, e nella lotta per lo sfruttamento delle città-stato straniere, veniva esteriorizzato il principio della separazione che era la base interna di ciascuna di esse. La Grecia, che aveva sognato la storia universale, non riuscì a unirsi di fronte all’invasione; e neanche a unificare i calendari delle sue città-stato indipendenti. In Grecia il tempo storico è divenuto cosciente, ma non ancora cosciente di sé stesso.
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Dopo la scomparsa delle condizioni locali favorevoli conosciute dalle comunità greche, la regressione del pensiero storico occidentale non è stata accompagnata da una ricostituzione delle antiche organizzazioni mitiche. Nello scontro fra i popoli del Mediterraneo, nella formazione e nel crollo dello Stato romano, sono apparse delle religioni semi-storiche che divennero fattori fondamentali della nuova coscienza del tempo, e la nuova armatura del potere separato.
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Le religioni monoteistiche sono state un compromesso tra il mito e la storia, tra il tempo ciclico che domina ancora la produzione e il tempo irreversibile nel quale si affrontano e si ricompongono i popoli. Le religioni uscite dal giudaismo sono il riconoscimento universale astratto del tempo irreversibile che si trova democratizzato, aperto a tutti, ma nell’illusorio. Il tempo è interamente orientato verso un unico avvenimento finale: «Il regno di Dio è vicino». Queste religioni sono nate sul terreno della storia, e vi si sono insediate. Ma anche là esse si mantengono in opposizione radicale alla storia. La religione semi-storica stabilisce un punto di partenza qualitativo nel tempo, la nascita del Cristo, la fuga di Maometto, ma il suo tempo irreversibile – che introduce un’accumulazione effettiva che nell’Islam potrà assumere la figura di una conquista, o nel cristianesimo della Riforma quella di un accrescimento del capitale – nel pensiero religioso viene di fatto invertito come un conto alla rovescia: l’attesa, nel tempo che passa, dell’accesso all’altro mondo, quello vero, l’attesa del Giudizio finale. L’eternità è uscita dal tempo ciclico. Essa è il suo aldilà. È l’elemento che svilisce l’irreversibilità del tempo, che sopprime la storia nella storia stessa, ponendosi, come un puro elemento puntuale nel quale il tempo ciclico si è ritirato e si è annullato, dall’altro lato del tempo irreversibile. Ancora Bossuet dirà: «E per mezzo del tempo che passa, noi entriamo nell’eternità che non passa».
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Il medioevo, questo mondo mitico incompiuto che aveva la sua perfezione fuori di sé, è il momento in cui il tempo ciclico, che regola ancora la parte principale della produzione, viene realmente roso dalla storia. A tutti viene riconosciuta individualmente una certa temporalità irreversibile, nella successione delle età della vita, nella vita considerata come un viaggio, un passaggio senza ritorno in un mondo il cui senso è altrove: il pellegrino è l’uomo che esce dal tempo ciclico per essere realmente il viaggiatore che ognuno è come simbolo. La vita storica personale trova sempre la propria realizzazione nella sfera del potere, nella partecipazione alle lotte condotte dal potere e alle lotte per la disputa del potere; ma il tempo irreversibile del potere è suddiviso all’infinito, sotto l’unificazione generale del tempo orientato dell’era cristiana, in un mondo della fiducia armata, dove il gioco dei padroni ruota intorno alla fedeltà e alla contestazione della fedeltà dovuta. La società feudale, nata dall’incontro tra la «struttura organizzativa dell’esercito conquistatore quale si è sviluppata durante la conquista» e le «forze produttive trovate nel paese conquistato» (L’ideologia tedesca) – e bisogna contare nell’organizzazione di queste forze produttive il loro linguaggio religioso –, ha diviso il dominio della società tra la Chiesa e il potere statale, a sua volta suddiviso nei complessi rapporti di sovranità e di vassallaggio delle dipendenze territoriali e dei comuni urbani. In questa varietà della vita storica possibile, il tempo irreversibile che la società portava inconsciamente in sé nel profondo, il tempo vissuto dalla borghesia nella produzione delle merci, nella fondazione e nell’espansione delle città, nella scoperta commerciale della Terra – la sperimentazione pratica che distrugge per sempre ogni organizzazione mitica del cosmo – si rivelò lentamente come il lavoro sconosciuto dell’epoca, allorché la grande impresa storica ufficiale di quel mondo ebbe fallito con le Crociate.
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Al declino del medioevo, il tempo irreversibile che invade la società è avvertito, dalla coscienza attaccata al vecchio ordine, nella forma di una ossessione della morte. È la malinconia della dissoluzione di un mondo, l’ultimo dove la sicurezza del mito equilibrasse ancora la storia; e per questa malinconia ogni cosa terrestre si avvia soltanto verso la sua corruzione. Le grandi rivolte dei contadini d’Europa sono anche il loro tentativo di risposta alla storia che li strappava violentemente dal sonno patriarcale che la tutela feudale aveva garantito. È l’utopia millenarista della realizzazione terrestre del paradiso, dove torna in primo piano ciò che era all’origine della religione semi-storica, quando le comunità cristiane, come il messianismo giudaico da cui esse derivavano, risposte ai turbamenti e alla sofferenza dell’epoca, attendevano l’imminente realizzazione del regno di Dio, aggiungendo un fattore di inquietudine e di sovversione nella società antica. Giunto a spartire il potere dell’impero, per il cristianesimo venne l’ora di smentire come pura superstizione ciò che sussisteva di quella speranza: tale è il senso dell’affermazione agostiniana, archetipo di tutti i satisfecit dell’ideologia moderna, secondo la quale la Chiesa costituita era già da molto tempo quel regno di cui si era parlato. La rivolta sociale della classe contadina millenarista si definisce naturalmente anzitutto come una volontà di distruzione della Chiesa. Ma il millenarismo si sviluppa nel mondo storico, e non sul terreno del mito. Non sono le speranze rivoluzionarie moderne, come Norman Cohn crede di dimostrare in The Pursuit of the Millenium, che sono delle continuazioni irrazionali della passione religiosa del millenarismo. Tutt’al contrario, è il millenarismo, lotta di classe rivoluzionaria che parla per l’ultima volta il linguaggio della religione, che è già una tendenza rivoluzionaria moderna, alla quale manca ancora la coscienza di non essere che storica. I millenaristi dovevano essere sconfitti perché non potevano riconoscere la rivoluzione come la loro propria opera. Il fatto che essi aspettino ad agire in base a un segno esteriore della decisione di Dio è la traduzione in pensiero di una pratica in cui i contadini insorti seguono dei capi presi al di fuori di loro. La classe contadina non poteva pervenire a una precisa coscienza del funzionamento della società, e del modo di condurre la propria lotta: è perché mancava di queste condizioni di unità nella sua azione e nella sua coscienza che essa espresse il suo progetto e condusse le sue guerre secondo l’iconografia del paradiso terrestre.
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Il nuovo possesso della vita storica, il Rinascimento che trova nell’antichità il proprio passato e il proprio diritto, porta in sé la gioiosa rottura con l’eternità. Il suo tempo irreversibile è quello dell’accumulazione illimitata delle conoscenze, e la coscienza storica emersa dall’esperienza delle comunità democratiche e delle forze che le abbattono, riprende con Machiavelli il ragionamento sul potere desacralizzato, dire l’indicibile dello Stato. Nella vita esuberante delle città italiane, nell’arte delle feste, la vita si riconosce come godimento del passare del tempo. Ma questo godimento del passare doveva essere esso stesso passeggero. La canzone di Lorenzo de’ Medici, che Burckhardt considera come l’espressione dello «spirito stesso del Rinascimento», è l’elogio che questa fragile festa della storia ha pronunciato su sé stessa: «Quant’è bella giovinezza – che si fugge tuttavia!».
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Il movimento costante di monopolizzazione della vita storica da parte dello Stato della monarchia assoluta, forma di transizione verso il completo dominio della classe borghese, fa apparire nella sua verità ciò che è il nuovo tempo irreversibile della borghesia. È al tempo del lavoro, per la prima volta affrancato dal ciclico, che la borghesia è legata. Il lavoro è divenuto, con la borghesia, lavoro che trasforma le condizioni storiche. La borghesia è la prima classe dominante per la quale il lavoro sia un valore. E la borghesia che sopprime ogni privilegio, che non riconosce nessun valore che non derivi dallo sfruttamento del lavoro, a ragione ha identificato con il lavoro il suo valore come classe dominante, e ha fatto del progresso del lavoro il suo stesso progresso. La classe che accumula le merci e il capitale modifica continuamente la natura modificando il lavoro stesso, scatenando la sua produttività. Ormai ogni vita sociale si è concentrata nella povertà decorativa della Corte, ornamento della fredda amministrazione statale che culmina nel “mestiere di re”; e ogni libertà storica particolare ha dovuto acconsentire alla propria rovina. La libertà del gioco temporale irreversibile dei feudali si è consumata nelle loro ultime battaglie perdute con le guerre della Fronda o la sollevazione degli scozzesi per Carlo Eduardo. Il mondo ha cambiato base.
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La vittoria della borghesia è la vittoria del tempo profondamente storico, perché è il tempo della produzione economica che trasforma la società, permanentemente e da cima a fondo. Finché la produzione agraria rimane il lavoro principale, il tempo ciclico che rimane presente al fondo della società alimenta le forze coalizzate della tradizione, che frenano il movimento. Ma il tempo irreversibile dell’economia borghese estirpa questi residui da un capo all’altro del mondo. La storia che fino allora era apparsa come il movimento esclusivo degli individui della classe dominante, e quindi scritta come cronaca, ora viene compresa come il movimento generale, e in questo movimento severo gli individui sono sacrificati. La storia che scopre la sua base nell’economia politica conosce ora l’esistenza di quello che era il suo incosciente, ma che nondimeno rimane ancora l’incosciente che essa non può trarre alla luce. È solo questa preistoria cieca, una nuova fatalità che nessuno domina, che l’economia mercantile ha democratizzato.
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La storia che è presente in tutta la profondità della società tende a perdersi alla superficie. Il trionfo del tempo irreversibile è anche la sua metamorfosi in tempo delle cose, Perché l’arma della sua vittoria è stata precisamente la produzione in serie degli oggetti, secondo le leggi della merce. Il principale prodotto che lo sviluppo economico ha fatto passare dalla rarità lussuosa al consumo corrente è dunque la storia, ma solo in quanto storia del movimento astratto delle cose che domina ogni uso qualitativo della vita. Mentre il tempo ciclico anteriore aveva sopportato una parte crescente di tempo storico vissuto da individui e da gruppi, il dominio del tempo irreversibile della produzione tende a eliminare socialmente questo tempo vissuto.
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Così la borghesia ha fatto conoscere e ha imposto alla società il tempo storico irreversibile, ma gliene rifiuta l’uso. «C’è stata storia, ma non ce n’è più», perché la classe dei possessori dell’economia, che non può rompere con la storia economica, deve quindi respingere come una minaccia immediata ogni altro impiego irreversibile del tempo. La classe dominante, fatta di specialisti del possesso delle cose che sono essi stessi, con ciò, un possesso delle cose, deve legare la sua sorte al mantenimento di questa storia reificata, alla permanenza di una nuova immobilità nella storia. Per la prima volta il lavoratore, alla base della società, non è materialmente estraneo alla storia, poiché ora è grazie a questa base che la società si muove irreversibilmente. Nella rivendicazione di vivere il tempo storico che esso fa, il proletariato trova il semplice centro inobliabile del suo progetto rivoluzionario; e ognuno dei tentativi di esecuzione di questo progetto fino a oggi infranti segna un punto di partenza possibile della nuova vita storica.
144
In un primo momento il tempo irreversibile della borghesia padrona del potere si è presentato sotto il proprio nome, come un’origine assoluta, l’anno I della Repubblica. Ma l’ideologia rivoluzionaria della libertà generale che aveva abbattuto gli ultimi residui di organizzazione mitica dei valori, e ogni regolamentazione tradizionale della società, lasciava già vedere la volontà reale che aveva vestito alla romana: la libertà di commercio generalizzata. La società della merce, che scopriva allora di dover ricostruire la passività che aveva dovuto scuotere fin dalle fondamenta per costruire il proprio regno puro, trova nel «cristianesimo col suo culto dell’uomo astratto ... la forma di religione più corrispondente» (Il Capitale). Allora la borghesia ha concluso un compromesso con questa religione, che si esprime anche nella presentazione del tempo: abbandonato il proprio calendario, il suo tempo irreversibile è tornato a improntarsi all’era cristiana, di cui continua la successione.
145
Con lo sviluppo del capitalismo, il tempo irreversibile viene unificato mondialmente. La storia universale diventa una realtà, poiché il mondo intero viene riunito sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che contemporaneamente è la stessa dappertutto, non è ancora che il rifiuto interstorico della storia. È il tempo della produzione economica, tagliato in frammenti uguali astratti, che si manifesta su tutto il pianeta come lo stesso giorno. Il tempo irreversibile unificato è quello del mercato mondiale, e corollariamente dello spettacolo mondiale.
146
Il tempo irreversibile della produzione è anzitutto la misura delle merci. Così dunque il tempo che si afferma ufficialmente da un capo all’altro del mondo come il tempo generale della società, poiché non esprime che gli interessi specializzati che lo costituiscono, non è che un tempo particolare.
«Non abbiamo di nostro che il tempo, in cui vive chi non ha neppure dimora.»
Baltasar GraciÁn
Oracolo manuale e arte di prudenza
147
Il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumulazione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. Questo tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo» (Miseria della filosofia). È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano».
148
Il tempo generale del non-sviluppo umano esiste anche sotto l’aspetto complementare di un tempo consumabile che ritorna verso la vita quotidiana della società, a partire da questa produzione determinata, come un tempo pseudo-ciclico.
149
Il tempo pseudo-ciclico non è in realtà che il travestimento consumabile del tempo-merce della produzione. Esso ne contiene i caratteri essenziali di unità omogenee scambiabili e di soppressione della dimensione qualitativa. Ma poiché il sottoprodotto di questo tempo è destinato all’arretratezza della vita quotidiana concreta – e al mantenimento di questa arretratezza – deve essere caricato di pseudo-valorizzazioni e apparire in una successione di momenti falsamente individualizzati.
150
Il tempo pseudo-ciclico è quello del consumo della sopravvivenza economica moderna, la sopravvivenza aumentata, dove il vissuto quotidiano resta privato di decisione e sottomesso, non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato; e così questo tempo ritrova del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che regolava la sopravvivenza delle società pre-industriali. Il tempo pseudo-ciclico poggia sulle tracce naturali del tempo ciclico, e contemporaneamente ne compone nuove combinazioni omologhe: il giorno e la notte, il lavoro e il riposo settimanale, il ritorno dei periodi di vacanze.
151
Il tempo pseudo-ciclico è un tempo che è stato trasformato dall’industria. Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile, che raccoglie tutto ciò che precedentemente si era differenziato, all’epoca della fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica, vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene a essere trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati che si impongono sul mercato come impieghi del tempo socialmente organizzati. «Un prodotto che esista in forma finita e pronta per il consumo può tornare a divenire materia prima di un altro prodotto.» (Il Capitale)
152
Nel suo settore più avanzato, il capitalismo concentrato si orienta verso la vendita di blocchi di tempo “tutto organizzato”, ognuno dei quali costituisce una sola merce unificata, che ha incorporato un certo numero di merci diverse. È così che può comparire, nell’economia in espansione dei “servizi” e del tempo libero, la formula di pagamento “tutto compreso”, per l’insediamento spettacolare, gli pseudo-spostamenti collettivi delle vacanze, l’abbonamento al consumo culturale, e la vendita della sociabilità stessa in “conversazioni appassionanti” e “incontri con personalità”. Questo genere di merce spettacolare, che evidentemente non può aver corso se non in funzione della penuria accresciuta delle realtà corrispondenti, figura altrettanto evidentemente tra gli articoli-pilota della modernizzazione delle vendite, essendo pagabile a credito.
153
Il tempo pseudo-ciclico consumabile è il tempo spettacolare, contemporaneamente come tempo del consumo delle immagini, nel senso stretto del termine, e come immagine del consumo del tempo, in tutta la sua estensione. Il tempo del consumo delle immagini, medium di tutte le merci, è inseparabilmente il campo dove si esercitano appieno gli strumenti dello spettacolo, e il fine che questi presentano globalmente, come luogo e come figura centrale di tutti i consumi particolari: si sa che i risparmi di tempo costantemente ricercati dalla società moderna – che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso delle minestre in polvere – si traducono positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la contemplazione della televisione le occupa da sola da tre a sei ore al giorno di media. L’imma-gine sociale del consumo del tempo, da parte sua, è dominata esclusivamente dai momenti di tempo libero e di vacanze, momenti rappresentati a distanza e desiderabili per postulato, come ogni merce spettacolare. Questa merce viene qui esplicitamente data come il momento della vita reale, di cui si tratta di attendere il ritorno ciclico. Ma in questi stessi momenti assegnati alla vita, è ancora lo spettacolo che si dà da vedere e da riprodurre, raggiungendo un grado più intenso. Ciò che è stato rappresentato come la vita reale si rivela semplicemente come la vita più realmente spettacolare.
154
Quest’epoca che mostra a sé stessa il suo tempo come un tempo che è essenzialmente il ritorno precipitoso di un gran numero di festività, è lo stesso un’epoca senza festa. Ciò che, nel tempo ciclico, era il momento della partecipazione di una comunità alla spesa lussuosa della vita, è impossibile per la società senza comunità e senza lusso. Quando le sue pseudo-feste volgarizzate, parodie del dialogo e del dono, spingono a un supplemento di spesa economica, non riconducono che la delusione sempre compensata dalla promessa di una delusione nuova. Nello spettacolo, il tempo della sopravvivenza moderna deve lodarsi tanto più apertamente quanto più si è ridotto il suo valore d’uso. La realtà del tempo è stata sostituita dalla pubblicità del tempo.
155
Mentre il consumo del tempo ciclico delle società antiche era in accordo con il lavoro reale di quelle società, il consumo pseudo-ciclico dell’economia sviluppata si trova in contraddizione con il tempo irreversibile astratto della sua produzione. Mentre il tempo ciclico era il tempo dell’illu-sione immobile, vissuto realmente, il tempo spettacolare è il tempo della realtà che si trasforma, vissuto illusoriamente.
156
Ciò che è sempre nuovo nel processo della produzione delle cose non si ritrova nel consumo, che rimane il ritorno allargato dello stesso. Poiché il lavoro morto continua a dominare il lavoro vivente, nel tempo spettacolare il passato domina il presente.
157
Come altro lato della deficienza della vita storica generale, la vita individuale non ha ancora storia. Gli pseudo-avvenimenti che si affollano nella drammatizzazione spettacolare non sono stati vissuti da coloro che ne sono informati; e inoltre si perdono nell’inflazione della loro sostituzione precipitosa, a ogni pulsione del macchinario spettacolare. D’altra parte, ciò che è stato realmente vissuto è senza relazione con il tempo irreversibile ufficiale della società, e in opposizione diretta col ritmo pseudo-ciclico del sottoprodotto consumabile di questo tempo. Questo vissuto individuale della vita quotidiana separata resta senza linguaggio, senza concetto, senza accesso critico al proprio passato che non è registrato da nessuna parte. Esso non si comunica. È incompreso e dimenticato a vantaggio della falsa memoria spettacolare del non-memorabile.
158
Lo spettacolo, come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell’abbandono della storia che si erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo.
159
La condizione preliminare per portare i lavoratori alle condizioni di produttori e consumatori “liberi” del tempo-merce è stata l’espropriazione violenta del loro tempo. Il ritorno spettacolare del tempo è divenuto possibile solo a partire da questo primo spossessamento del produttore.
160
Le parti irriducibilmente biologiche che restano presenti nel lavoro, sia nella dipendenza dal ciclo naturale della veglia e del sonno che nell’evidenza del tempo irreversibile individuale dell’usura di una vita, non sono che accessorie rispetto alla produzione moderna; e come tali questi elementi vengono trascurati nelle proclamazioni ufficiali del movimento della produzione, e dei trofei consumabili che sono la traduzione accessibile di questa incessante vittoria. Immobilizzata nel centro falsificato del movimento del suo mondo, la coscienza spettatrice non conosce più nella sua vita un passaggio verso la sua realizzazione e verso la sua morte. Chi ha rinunciato a spendere la propria vita non deve più ammettere la propria morte. La pubblicità delle assicurazioni sulla vita insinua soltanto che è colpevole morire senza aver assicurato la regolazione del sistema dopo questa perdita economica; e quella dell’american way of death insiste sulla propria capacità di conservare in questo frangente la maggior parte delle parvenze della vita. Su tutto il resto del fronte dei bombardamenti pubblicitari, è categoricamente proibito invecchiare. Si tratterebbe di amministrare, in ciascuno, un “capitale-gioventù” che tuttavia, per non essere stato impiegato che mediocremente, non può pretendere di acquistare la realtà durevole e cumulativa del capitale finanziario. Questa assenza sociale della morte è identica all’assenza sociale della vita.
161
Il tempo è l’alienazione necessaria, come Hegel dimostrava, il terreno dove il soggetto si realizza perdendosi, diviene altro per divenire la verità di sé stesso. Ma il suo contrario è precisamente l’alienazione dominante, che è subita dal produttore di un presente estraneo. In questa alienazione spaziale, la società che separa alla radice il soggetto e l’attività che gli sottrae, lo separa innanzi tutto dal suo tempo. L’alienazione sociale superabile è proprio quella che ha interdetto e pietrificato le possibilità e i rischi dell’alienazione vivente nel tempo.
162
Sotto le mode apparenti che si annullano e si ricostituiscono alla futile superficie del tempo pseudo-ciclico contemplato, il grande stile dell’epoca è sempre in ciò che è orientato dalla necessità evidente e segreta della rivoluzione.
163
La base naturale del tempo, il dato sensibile dello scorrere del tempo, diviene umano e sociale esistendo per l’uomo. È lo stato limitato della pratica umana, il lavoro a stadi diversi, che ha fino a oggi umanizzato, e quindi disumanizzato, il tempo, come tempo ciclico e tempo separato irreversibile della produzione economica. Il progetto rivoluzionario di una società senza classi, di una vita storica generalizzata, è il progetto di un deperimento della misura sociale del tempo, a favore di un modello ludico di tempo irreversibile degli individui e dei gruppi, modello del quale sono simultaneamente presenti dei tempi indipendenti federati. È il programma di una realizzazione totale, sul terreno del tempo, del comunismo che sopprime «tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui».
164
Il mondo possiede già il sogno di un tempo di cui deve ora possedere la coscienza per viverlo realmente.
«E chi diviene patrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella; Perché sempre ha per refugio, nella rebellione, el nome della libertà e li ordini antichi sua; li quali né per la lunghezza de’ tempi né per benefizii mai si dimenticano. E per cosa che si faccia o si provvegga, se non si disuniscono o si dissipano li abitatori, non sdimenticano quel nome né quelli ordini ... »
Machiavelli
Il Principe
165
La produzione capitalistica ha unificato lo spazio, che non è più limitato da società esistenti all’esterno. Questa unificazione è allo stesso tempo un processo estensivo e intensivo di banalizzazione. L’accumulazione delle merci prodotte in serie per lo spazio astratto del mercato, così come doveva infrangere tutte le barriere regionali e legali, e tutte le restrizioni corporative del medioevo che mantenevano la qualità della produzione artigianale, doveva anche dissolvere l’autonomia e la qualità dei luoghi. Questa potenza di omogenizzazione è l’artiglieria pesante che ha spianato tutte le muraglie cinesi.
166
È per divenire sempre più identico a sé stesso, per avvicinarsi al massimo della monotonia immobile, che lo spazio libero della merce viene ormai modificato e ricostruito a ogni istante.
167
Questa società che sopprime la distanza geografica, raccoglie la distanza nel suo intimo, in quanto separazione spettacolare.
168
Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è diventato banale. L’organizzazione economica della frequentazione di luoghi diversi è già di per sé stessa la garanzia della loro equivalenza. La stessa modernizzazione che ha tolto il tempo dal viaggio, gli ha tolto anche la realtà dello spazio.
169
La società che modella tutto ciò che la circonda ha costruito una sua tecnica speciale per elaborare la base concreta di questo insieme di compiti: il suo territorio stesso. L’urbanismo è questa presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi logicamente in dominio assoluto, può e deve ora rifare la totalità dello spazio come proprio scenario.
170
La necessità capitalista soddisfatta nell’urbanismo, in quanto glaciazione visibile della vita, può esprimersi – usando dei termini hegeliani – come il prevalere assoluto della «tranquilla coesistenza dello spazio» su «l’inquieto divenire nella successione del tempo».
171
Se tutte le forze tecniche dell’economia capitalistica devono essere comprese come operanti delle separazioni, nel caso dell’urbanismo si ha che fare con l’allestimento della loro base generale, col trattamento del suolo che conviene al loro dispiegamento; con la tecnica stessa della separazione.
172
L’urbanismo è il compimento moderno del compito ininterrotto che salvaguarda il potere di classe: il mantenimento della atomizzazione dei lavoratori che le condizioni urbane di produzione avevano pericolosamente radunato. La lotta costante che ha dovuto essere condotta contro tutti gli aspetti di questa possibilità di incontro trova nell’urbanismo il suo campo privilegiato. Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, a partire dalle esperienze della Rivoluzione francese, al fine di accrescere i mezzi per mantenere l’ordine nella strada, culmina infine nella soppressione della strada. «Con i mezzi di comunicazione di massa su grandi distanze, l’isolamento della popolazione si è rivelato un mezzo di controllo molto più efficace», constata Lewis Mumford in La città nella storia, descrivendo un «mondo ormai a senso unico». Ma il movimento generale dell’isolamento, che è la realtà dell’urbanismo, deve anche contenere una reintegrazione controllata dei lavoratori, secondo le necessità pianificabili della produzione e del consumo. L’integrazione al sistema deve reimpadronirsi degli individui isolati in quanto individui isolati insieme: le fabbriche come i circoli culturali, i villaggi turistici come i “grandi complessi”, sono specialmente organizzati per i fini di questa pseudo-collettività che accompagna l’individuo isolato anche nella cellula familiare: l’impiego generalizzato dei ricevitori del messaggio spettacolare fa sì che il suo isolamento si ritrovi popolato delle immagini dominanti, immagini che solo grazie a questo isolamento acquistano la loro piena potenza.
173
Per la prima volta una nuova architettura, che in tutte le epoche anteriori era riservata al godimento delle classi dominanti, si trova direttamente destinata ai poveri. La miseria evidente e l’estensione gigantesca di questa nuova esperienza di insediamento provengono entrambe dal suo carattere di massa, comportato contemporaneamente dalla sua destinazione e dalle condizioni moderne di costruzione. La decisione autoritaria, che organizza astrattamente il territorio in territorio dell’astrazione, è evidentemente al centro di queste condizioni moderne di costruzione. La stessa architettura appare dovunque cominci l’industrializzazione dei paesi a questo riguardo arretrati, come terreno adeguato al nuovo genere di esistenza sociale che si tratta di introdurvi. Nell’urbanismo sono messi in chiaro, altrettanto nettamente che nelle questioni dell’armamento nucleare o della natalità – e questa ha già raggiunto la possibilità di una manipolazione dell’ereditarietà –, la soglia che è stata superata nella crescita del potere materiale della società, e il ritardo del dominio cosciente di questo potere.
174
Il momento presente è già quello dell’autodistruzione dell’am-biente urbano. Sono gli imperativi del consumo che presiedono, in maniera immediata, all’esplosione delle città sulle campagne ricoperte di «masse informi di residui urbani» (Lewis Mumford). La dittatura dell’automobile, prodotto-pilota della prima fase dell’abbondanza mercantile, si è iscritta nel terreno con il dominio dell’autostrada, che scardina i vecchi centri e impone una dispersione sempre più accentuata. Nello stesso tempo, i momenti di riorganizzazione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano transitoriamente attorno a quelle “fabbriche della distribuzione” che sono i supermarkets giganti costruiti in terreno aperto, su una piattaforma di parking; e questi templi del consumo precipitoso sono essi stessi in fuga nel movimento centrifugo che li respinge man mano che diventano a loro volta dei centri secondari sovraccarichi, perché hanno portato con sé una parziale ricomposizione dell’agglomerato. Ma l’organizzazione tecnica del consumo è soltanto ciò che si trova in primo piano nella dissoluzione generale che ha così condotto la città a consumare sé stessa.
175
La storia economica, che si è interamente sviluppata intorno all’opposizione città-campagna, è giunta a uno stadio di successo che annulla contemporaneamente i due termini. La paralisi attuale dello sviluppo storico totale, a esclusivo vantaggio del proseguimento del movimento indipendente dell’economia, fa del momento in cui cominciano a scomparire la città e la campagna non il superamento della loro scissione, ma il loro disgregamento simultaneo. La reciproca usura tra città e campagna, prodotto dello smarrimento del movimento storico nel quale la realtà urbana esistente dovrebbe essere superata, si manifesta nell’eclettico miscuglio dei loro elementi decomposti, che ricopre le zone più avanzate nell’industrializzazione.
176
La storia universale è nata nelle città, ed è divenuta maggiorenne al momento della vittoria decisiva della città sulla campagna. Marx considera come uno dei più grandi meriti rivoluzionari della borghesia il fatto che «essa ha sottomesso la campagna alla città», la cui aria emancipa. Ma se la storia della città è la storia della libertà, essa è stata anche quella della tirannia, dell’amministrazione statale che controlla la campagna e la città stessa. La città non ha ancora potuto essere che il terreno di lotta della libertà storica, e non del suo possesso. La città è il terreno della storia perché essa è allo stesso tempo concentrazione del potere sociale, che rende possibile l’impresa storica, e coscienza del passato. La tendenza presente alla liquidazione della città non fa dunque che esprimere in un altro modo il ritardo di una subordinazione dell’economia alla coscienza storica, di una unificazione della società che si reimpossessi dei poteri che si sono distaccati da essa.
177
«La campagna fa apparire proprio il fatto opposto, l’isolamento e la separazione» (L’Ideologia Tedesca). L’urbanismo che distrugge le città ricostituisce una pseudo-campagna, nella quale sono perduti sia i rapporti naturali della campagna antica che i rapporti sociali diretti e direttamente messi in questione della città storica. Le condizioni di insediamento e di controllo spettacolare nell’attuale “territorio programmato” ricreano una nuova classe contadina fittizia: la dispersione nello spazio e la mentalità limitata, che hanno sempre impedito alla classe contadina di intraprendere un’azione indipendente e di affermarsi come potenza storica creatrice, tornano a essere la caratterizzazione dei produttori – così il movimento di un mondo che essi stessi fabbricano rimane completamente fuori della loro portata quanto lo era il ritmo naturale dei lavori per la società agraria. Ma se questa classe contadina, che fu la base immobile del «dispotismo orientale» –, e la cui stessa dispersione richiedeva la centralizzazione burocratica, riappare come prodotto delle condizioni di accrescimento della burocratizzazione statale moderna, la sua apatia ha dovuto essere ora storicamente fabbricata e mantenuta; l’ignoranza naturale ha fatto posto allo spettacolo organizzato dell’errore. Le “New Towns” della classe pseudo-contadina tecnologica iscrivono chiaramente nel terreno la rottura con il tempo storico sul quale esse sono costruite; il loro motto potrebbe essere: «Qui, non succederà mai niente, e non vi è mai successo niente». È ben evidente che è perché la storia che bisogna liberare nelle città non vi è stata ancora liberata, che le forze dell’assenza storica cominciano a comporre il loro paesaggio esclusivo.
178
La storia che minaccia questo mondo crepuscolare è anche la forza che può sottomettere lo spazio al tempo vissuto. La rivoluzione proletaria è questa critica della geografia umana attraverso la quale gli individui e le comunità devono costruire i siti e gli avvenimenti corrispondenti all’ap-propriazione, non più soltanto del loro lavoro, ma della loro storia totale. In questo spazio mutevole del gioco, e delle variazioni liberamente scelte delle regole del gioco, l’auto-nomia del luogo può ritrovarsi, senza reintrodurre un attaccamento esclusivo al suolo, e ristabilire così la realtà del viaggio, e della vita compresa come un viaggio che ha in sé stesso ogni suo senso.
179
La più grande idea rivoluzionaria sull’urbanismo, non è essa stessa urbanistica, tecnologica o estetica. È la decisione di ricostruire integralmente il territorio secondo le esigenze del potere dei Consigli dei lavoratori, della dittatura antistatale del proletariato, del dialogo esecutorio. E il potere dei Consigli, che non può essere effettivo che trasformando la totalità delle condizioni esistenti, non potrà assegnarsi un compito minore se vuole essere riconosciuto e riconoscersi nel suo mondo.
«Vivremo abbastanza a lungo per vedere una rivoluzione politica? Noi, i contemporanei di questi tedeschi? Amico mio, voi credete ciò che desiderate ... Quando giudico la Germania in base alla sua storia presente, voi non mi obietterete che tutta la sua storia è falsificata e che tutta la sua vita pubblica attuale non rappresenta lo stato reale del popolo. Leggete tutti i giornali che volete, convincetevi che non si cessa – e mi concederete che la censura non impedisce a nessuno di cessare – di celebrare la libertà e la felicità nazionale che possediamo ... »
RUGE
Lettera a Marx, marzo 1844
180
La cultura è la sfera generale della conoscenza, e delle rappresentazioni del vissuto, nella società storica divisa in classi; il che equivale a dire che essa è il potere di generalizzazione esistente a parte, come divisione del lavoro intellettuale e lavoro intellettuale della divisione. La cultura si è distaccata dall’unità della società del mito, «quando il potere di unificazione scompare dalla vita dell’uomo e gli opposti perdono la loro relazione e la loro interazione viventi e acquistano autonomia ... » (Differenza dei sistemi di Fichte e di Schelling). Conquistando la propria indipendenza, la cultura inizia un movimento imperialista di arricchimento, che è allo stesso tempo il declino della sua indipendenza. La storia che crea l’autonomia relativa della cultura, e le illusioni ideologiche su questa autonomia, si esprime anche come storia della cultura. E tutta la storia conquistatrice della cultura può essere compresa come la storia della rivelazione della sua insufficienza, come una marcia verso la sua autosoppressione. La cultura è il luogo della ricerca dell’unità perduta. In questa ricerca dell’unità, la cultura come sfera separata è obbligata a negarsi da sé.
181
La lotta fra la tradizione e l’innovazione, che è il principio di sviluppo interno della cultura delle società storiche, non può essere continuata che attraverso la vittoria permanente dell’innovazione. Tuttavia l’innovazione nella cultura non è portata da nient’altro che dal movimento storico totale che, prendendo coscienza della sua totalità, tende al superamento dei propri presupposti culturali, e va verso la soppressione di ogni separazione.
182
Lo slancio delle conoscenze della società, che contiene la comprensione della storia come il cuore della cultura, trova in sé stesso una conoscenza senza ritorno, che è espressa dalla distruzione di Dio. Ma questo «presupposto di ogni critica» presuppone anche l’obbligo di una critica infinita. Laddove nessuna regola di condotta può più conservarsi, ciascun risultato della cultura la fa avanzare verso la sua dissoluzione. Come la filosofia nel momento in cui ha raggiunto la sua piena autonomia, ogni disciplina divenuta autonoma deve crollare, dapprima in quanto pretesa di spiegazione coerente della totalità sociale, e infine anche in quanto strumentazione parcellare utilizzabile all’interno dei suoi confini. La mancanza di razionalità della cultura separata è l’elemento che la condanna a scomparire, poiché in essa la vittoria del razionale è già presente come esigenza.
183
La cultura è uscita dalla storia che ha dissolto il genere di vita del vecchio mondo, ma in quanto sfera separata essa non è ancora che l’intelligenza e la comunicazione sensibile che rimangono parziali in una società parzialmente storica. È il senso di un mondo troppo poco sensato.
184
La fine della storia della cultura si manifesta da due lati opposti: il progetto del suo superamento nella storia totale, e l’organizzazione della sua conservazione in quanto oggetto morto, nella contemplazione spettacolare. Il primo di questi movimenti ha legato la propria sorte alla critica sociale, e l’altro alla difesa del potere di classe.
185
Ognuno dei due lati della fine della cultura esiste in modo unitario, in tutti gli aspetti delle conoscenze così come in tutti gli aspetti delle rappresentazioni sensibili – in quello che era l’arte nel senso più generale. Nel primo caso si contrappongono l’accumulazione di conoscenze frammentarie che diventano inutilizzabili, perché l’approvazione delle condizioni esistenti deve infine rinunciare alle proprie conoscenze, e la teoria della prassi che sola detiene la verità di tutte le conoscenze detenendo essa sola il segreto del loro uso. Nel secondo caso si contrappongono l’autodi-struzione critica del vecchio linguaggio comune della società e la sua ricomposizione artificiale nello spettacolo mercantile, la rappresentazione illusoria del non-vissuto.
186
Perdendo la comunità della società del mito, la società deve perdere tutti i riferimenti di un linguaggio realmente comune, fino al momento in cui la scissione della comunità inattiva può essere superata con l’accesso alla reale comunità storica. L’arte, che fu questo linguaggio comune dell’inazione sociale, appena si costituisce in arte indipendente nel senso moderno, che emerge dal suo primo universo religioso, e che diviene produzione individuale di opere separate, conosce, come caso particolare, il movimento che domina la storia dell’insieme della cultura separata. La sua affermazione indipendente è l’inizio della sua dissoluzione.
187
Il fatto che il linguaggio della comunicazione si è perduto, ecco ciò che esprime positivamente il movimento moderno di decomposizione di ogni arte, il suo inequivocabile annientamento. Ciò che questo movimento esprime negativamente, è il fatto che dev’essere ritrovato un linguaggio comune – non più nella conclusione unilaterale che, per l’arte della società storica, arrivava sempre troppo tardi, che parlava ad altri di ciò che era stato vissuto senza dialogo reale, che ammetteva questa deficienza della vita –, ma che deve essere ritrovato nella prassi che riunisce in sé l’attività diretta e il suo linguaggio. Si tratta di possedere effettivamente la comunità del dialogo e il gioco con il tempo che sono stati rappresentati dall’opera poetico-artistica.
188
Quando l’arte divenuta indipendente rappresenta il suo mondo con colori smaglianti, un momento della vita è invecchiato, e non è con colori smaglianti che si lascia ringiovanire. Si lascia soltanto evocare nel ricordo. La grandezza dell’arte non comincia ad apparire che con il crepuscolo della vita.
189
Il tempo storico che invade l’arte si è espresso anzitutto nella sfera stessa dell’arte, a partire dal barocco. Il barocco è l’arte di un mondo che ha perduto il suo centro: l’ultimo ordine mitico riconosciuto dal medioevo, nel cosmo e nel governo terrestre – l’unità della Cristianità e il fantasma di un Impero –, è caduto. L’arte del cambiamento deve recare in sé il principio effimero che scopre nel mondo. Essa ha scelto, dice Eugenio d’Ors, «la vita contro l’eternità». Il teatro e la festa, la festa teatrale, sono i momenti dominanti della realizzazione barocca, nella quale ogni espressione artistica particolare acquista il suo senso solo nel riferimento allo scenario di un luogo costruito, a una costruzione che deve essere per sé stessa il centro di unificazione; e questo centro è il passaggio, che è inscritto come un equilibrio minacciato nel disordine dinamico di tutto. L’importanza, a volte eccessiva, acquisita dal concetto di barocco nella discussione estetica contemporanea, traduce la presa di coscienza dell’impossibilità di un classicismo artistico: gli sforzi in favore di un classicismo o neoclassicismo normativi, da tre secoli a questa parte, non sono stati che costruzioni fittizie di breve durata che parlavano il linguaggio esteriore dello Stato, quello della monarchia assoluta o della borghesia rivoluzionaria vestita alla romana. Dal romanticismo al cubismo, è infine un’arte della negazione sempre più individualizzata, rinnovantesi di continuo fino allo sbriciolamento e alla negazione compiuti della sfera artistica, che è seguita al corso generale del barocco. La scomparsa dell’arte storica, che era legata alla comunicazione interna di una élite, la quale aveva la sua base sociale semi-indipendente nelle condizioni parzialmente ludiche ancora vissute dalle ultime aristocrazie, traduce perciò il fatto che il capitalismo conosce il primo potere di classe che si riconosca spogliato di ogni qualità ontologica; e la cui radice del potere nella sola gestione dell’economia è anche la perdita di ogni signoria umana. L’insieme barocco, che per la creazione artistica è esso stesso un’unità perduta da molto tempo, si ritrova in qualche modo nell’attuale consumo della totalità del passato artistico. La conoscenza e il riconoscimento storici di tutta l’arte del passato, costituita retrospettivamente in arte mondiale, la relativizzano in un disordine globale che costituisce a sua volta un edificio barocco a un livello più elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa dell’arte barocca e tutte le sue reviviscenze. Per la prima volta le arti di tutte le civiltà e di tutte le epoche possono essere conosciute e ammesse tutte insieme. È una “collezione dei ricordi” della storia dell’arte che, divenendo possibile, è quindi anche la fine del mondo dell’arte. In quest’epoca dei musei, allorché non può più esistere alcuna comunicazione artistica, tutti gli antichi momenti dell’arte possono essere ugualmente ammessi, poiché nessuno di essi soffre più della perdita delle sue particolari condizioni di comunicazione, nella perdita presente delle condizioni di comunicazione in generale.
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L’arte nell’epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo che persegue il superamento dell’arte in una società storica in cui la storia non è ancora vissuta, è allo stesso tempo un’arte del cambiamento e l’espressione pura del cambiamento impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua autentica realizzazione è al di là di essa. Quest’arte è forzatamente d’avanguardia, e non è. La sua avanguardia è la sua scomparsa.
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Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che segnarono la fine dell’arte moderna. Esse sono, sebbene soltanto in maniera relativamente cosciente, contemporanee dell’ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario; e la sconfitta di questo movimento, che le lasciava imprigionate in quello stesso campo artistico del quale avevano proclamato la caducità, è la ragione fondamentale della loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono contemporaneamente storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione, che costituisce anche per ognuno dei due la parte più conseguente e radicale del suo apporto, si manifesta l’insufficienza interna della loro critica, sviluppata dall’uno come dall’altro da un solo lato. Il dadaismo ha voluto sopprimere l’arte senza realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l’arte senza sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha dimostrato che la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di uno stesso superamento dell’arte.
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Il consumo spettacolare che conserva l’antica cultura congelata, ivi compresa la ripetizione recuperata delle sue manifestazioni negative, diventa apertamente nel suo settore culturale ciò che è implicitamente nella sua totalità: la comunicazione dell’incomunicabile. La distruzione estrema del linguaggio può trovarsi piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale, poiché si tratta di ostentare una riconciliazione con lo stato dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è gioiosamente proclamata assente. La verità critica di questa distruzione in quanto vita reale della poesia e dell’arte moderna è evidentemente nascosta, Poiché lo spettacolo, che ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura, applica nella pseudo-novità dei suoi mezzi modernisti la strategia stessa che lo costituisce in profondità. Così può spacciarsi per nuova una scuola di neo-letteratura che ammette semplicemente di contemplare lo scritto per sé stesso. Del resto, a fianco della semplice proclamazione della bellezza sufficiente della dissoluzione del comunicabile, la tendenza più moderna della cultura spettacolare – e la più legata alla pratica repressiva dell’or-ganizzazione generale della società – si sforza di ricomporre, con dei “lavori di gruppo”, un ambiente neoartistico composto a partire da elementi decomposti; in particolar modo nelle ricerche di integrazione dei rottami artistici o di ibridi estetico-tecnici nell’urbanismo. Questa è la traduzione, sul piano della pseudo-cultura spettacolare, del progetto generale del capitalismo sviluppato che mira a reimpossessarsi del lavoratore parcellare come «personalità ben integrata nel gruppo», tendenza descritta dai recenti sociologi americani (Riesman, Whyte ecc.). È dappertutto lo stesso progetto di una ristrutturazione senza comunità.
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La cultura divenuta integralmente merce deve anche divenire la merce vedette della società spettacolare. Clark Kerr, uno degli ideologi più avanzati di questa tendenza, ha calcolato che negli Stati Uniti il complesso processo di produzione, distribuzione e consumo delle conoscenze, accaparra già il 29 per cento del prodotto nazionale annuo; e prevede che nella seconda metà di questo secolo la cultura debba detenere il ruolo motore nello sviluppo dell’economia, ruolo che fu dell’automobile nella sua prima metà, e delle ferrovie nella seconda metà del secolo precedente.
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L’insieme delle conoscenze che continua a svilupparsi attualmente come pensiero dello spettacolo deve giustificare una società senza giustificazioni, e costituirsi in scienza generale della falsa coscienza. Esso è interamente condizionato dal fatto che non può né vuole pensare la propria base materiale nel sistema spettacolare.
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Il pensiero dell’organizzazione sociale dell’apparenza è esso stesso offuscato dalla sottocomunicazione generalizzata che difende. Non sa che il conflitto è all’origine di tutte le cose del suo mondo. Gli specialisti del potere dello spettacolo, potere assoluto all’interno del suo sistema del linguaggio senza risposta, sono assolutamente corrotti dalla loro esperienza del disprezzo e del successo del disprezzo; poiché ritrovano il loro disprezzo confermato dalla conoscenza dell’uomo disprezzabile che lo spettatore è realmente.
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Nel pensiero specializzato del sistema spettacolare, si opera una nuova divisione dei compiti, man mano che il perfezionamento stesso di questo sistema pone dei nuovi problemi: da un lato la critica spettacolare dello spettacolo viene intrapresa dalla sociologia moderna che studia la separazione utilizzando i soli strumenti concettuali e materiali della separazione; dall’altro lato l’apologia dello spettacolo si costituisce in pensiero del non-pensiero, in oblio accreditato della pratica storica, nelle varie discipline in cui ha le sue radici lo strutturalismo. Tuttavia, la falsa disperazione della critica non dialettica e il falso ottimismo della pura pubblicità del sistema sono identici in quanto pensiero sottomesso.
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La sociologia che ha cominciato a mettere in discussione, dapprima negli Stati Uniti, le condizioni di esistenza determinate dall’attuale sviluppo, se è stata in grado di apportare molti dati empirici, non conosce affatto la verità del suo oggetto, perché non trova in sé stessa la critica che le è immanente. Cosicché la tendenza sinceramente riformista di questa sociologia non si basa che sulla morale, sul buon senso, su degli appelli assolutamente non all’altezza della situazione, ecc. Una tal maniera di criticare, poiché non conosce il negativo che è nel cuore del suo mondo, non fa che insistere sulla descrizione di una specie di eccedenza negativa che le pare ne ingombri incresciosamente la superficie, come una proliferazione parassitaria irrazionale. Questa buona volontà indignata, che anche in quanto tale non giunge a deplorare che le conseguenze esteriori del sistema, si crede critica dimenticando il carattere essenzialmente apologetico dei suoi presupposti e del suo metodo.
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Coloro che denunciano l’assurdità o i pericoli dell’incita-mento allo spreco nella società dell’abbondanza economica, non sanno a che cosa serve lo spreco. Essi condannano con ingratitudine, in nome della razionalità economica, i buoni guardiani irrazionali senza i quali il potere di questa razionalità economica crollerebbe. E Boorstin per esempio, che descrive in L’Image il consumo mercantile dello spettacolo americano, non giunge mai al concetto di spettacolo, perché crede di poter lasciare al di fuori di questa disastrosa esagerazione la vita privata, o la nozione di «onesta merce». Non capisce che la merce stessa ha fatto le leggi la cui applicazione “onesta” deve dare tanto la realtà distinta della vita privata quanto la sua riconquista ulteriore attraverso il consumo sociale delle immagini.
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Boorstin descrive gli eccessi di un mondo che ci è diventato estraneo, come degli eccessi estranei al nostro mondo. Ma la base “normale” della vita sociale, alla quale egli si riferisce implicitamente quando qualifica il regno superficiale delle immagini, in termini di giudizio psicologico e morale, come il prodotto delle «nostre stravaganti pretese», non ha alcuna realtà, né nel suo libro, né nella sua epoca. Poiché per lui la vita umana reale di cui parla è nel passato, ivi compreso il passato della rassegnazione religiosa, egli non può comprendere tutta la profondità di una società dell’im-magine. La verità di questa società non è nient’altro che la negazione di questa società.
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La sociologia che crede di poter isolare dall’insieme della vita sociale una razionalità industriale funzionante a parte, può arrivare fino a isolare dal movimento industriale globale le tecniche di riproduzione e di trasmissione. È così che Boorstin scopre come causa dei risultati che descrive il malaugurato incontro, quasi fortuito, fra un troppo grande apparato tecnico di diffusione delle immagini e una troppo grande attrazione degli uomini della nostra epoca per lo pseudo-sensazionale. Così lo spettacolo sarebbe dovuto al fatto che l’uomo moderno sarebbe troppo spettatore. Boorstin non capisce che la proliferazione degli «pseudo-avvenimenti» prefabbricati, che egli denuncia, deriva dal semplice fatto che gli uomini, nella realtà di massa dell’attuale vita sociale, non vivono degli avvenimenti in prima persona. È perché la storia stessa s’aggira come uno spettro per la società moderna, che si trova della pseudo-storia costruita a tutti i livelli del consumo della vita, per preservare l’equilibrio minacciato dell’attuale tempo congelato.
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L’affermazione della stabilità definitiva di un breve periodo di congelamento del tempo storico è la base incontestabile, incoscientemente e coscientemente proclamata, dell’attuale tendenza a una sistematizzazione strutturalista. Il punto di vista in cui si pone il pensiero antistorico dello strutturalismo è quello dell’eterna presenza di un sistema che non è mai stato creato e che mai finirà. Il sogno della dittatura di una struttura preliminare inconscia su ogni prassi sociale ha potuto essere tratto abusivamente dai modelli di strutture elaborati dalla linguistica e dalla etnologia (ossia dall’analisi del funzionamento del capitalismo), modelli già abusivamente intesi in quelle circostanze, semplicemente perché un pensiero universitario di quadri medi, presto soddisfatti, pensiero sprofondato integralmente nell’elogio meravigliato del sistema esistente, riduce trivialmente ogni realtà all’esistenza del sistema.
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Come in ogni scienza sociale storica, bisogna sempre tener presente, per la comprensione delle categorie “strutturaliste”, che le categorie esprimono delle forme di esistenza e delle condizioni di esistenza. Proprio come non si giudica il valore di un uomo dalla concezione che egli ha di sé stesso, non si può giudicare – e ammirare – questa determinata società prendendo come indiscutibilmente veridico il linguaggio che essa parla a sé stessa. «Non si possono valutare tali epoche di trasformazione in base alla coscienza che ne ha l’epoca; bisogna invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale ... ». La struttura è figlia del potere presente. Lo strutturalismo è il pensiero garantito dallo Stato, che pensa le condizioni presenti della “comunicazione” spettacolare come un assoluto. Il suo modo di studiare il codice della trasmissione delle informazioni in sé stesso non è che il prodotto, e il riconoscimento, di una società in cui la comunicazione esiste sotto forma di una cascata di segnali gerarchici. Di modo che non è lo strutturalismo che serve a provare la validità trans-storica della società dello spettacolo; al contrario è la società dello spettacolo che si impone come realtà di massa che serve a provare il freddo sogno dello strutturalismo.
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Senza dubbio, il concetto critico di spettacolo può anche essere volgarizzato in una qualsiasi formula vuota della retorica sociologico-politica per spiegare e denunciare astrattamente tutto, e servire così alla difesa del sistema spettacolare. Poiché è evidente che nessuna idea può portare al di là dello spettacolo esistente, ma soltanto al di là delle idee esistenti sullo spettacolo. Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo, ci vogliono degli uomini che mettano in azione una forza pratica. La teoria critica dello spettacolo non è vera che unificandosi alla corrente pratica della negazione nella società, e questa negazione, la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria, diverrà cosciente di sé stessa sviluppando la critica dello spettacolo, che è la teoria delle sue condizioni reali, delle condizioni pratiche dell’oppressione attuale, e inversamente svela il segreto di ciò che essa può essere. Questa teoria non si aspetta miracoli dalla classe operaia. Essa considera la nuova formulazione e la realizzazione delle esigenze proletarie come un compito di lunga durata. Per distinguere artificialmente lotta teorica e lotta pratica – poiché, sulla base qui definita, il costituirsi stesso e la comunicazione di una tale teoria non possono ormai concepirsi senza una pratica rigorosa – è certo che il progredire oscuro e difficile della teoria critica dovrà essere anche il destino del movimento pratico che agisce su scala sociale.
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La teoria critica deve comunicarsi nel proprio linguaggio. È il linguaggio della contraddizione, che deve essere dialettico nella sua forma come lo è nel suo contenuto. Esso è critica della totalità e critica storica. Non è un «grado zero della scrittura», ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione.
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Nel suo stile stesso, l’esposizione della teoria dialettica è scandalo e orrore secondo le regole del linguaggio dominante, e per il gusto che hanno educato, perché nell’impiego positivo dei concetti esistenti essa include simultaneamente anche l’intelligenza del loro ritrovato fluire nel movimento, della loro distruzione necessaria.
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Questo stile che contiene la propria critica deve esprimere il dominio della critica presente su tutto il suo passato. Per mezzo suo il modo di esposizione della teoria dialettica testimonia dello spirito negativo che è in essa. «La verità non è come il prodotto nel quale non si trova più traccia dell’utensile» (Hegel). Questa coscienza teorica del movimento, nella quale deve essere presente la traccia stessa del movimento, si manifesta con il rovesciamento dei rapporti fissati tra i concetti e con lo stornamento (détournement) di tutte le acquisizioni della critica anteriore. L’inversione del genitivo è l’espressione delle rivoluzioni storiche, depositata nella forma del pensiero, che è stata considerata come lo stile epigrammatico di Hegel. Il giovane Marx che propugnava, secondo l’uso sistematico che ne aveva fatto Feuerbach, la sostituzione del soggetto col predicato, è pervenuto all’impiego più conseguente di questo stile insurrezionale che, dalla filosofia della miseria, trae la miseria della filosofia. L’eversione (détournement) riconduce alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state congelate in verità rispettabili, cioè trasformate in menzogne. Già Kierkegaard ne fece deliberatamente uso, aggiungendovi egli stesso la sua denuncia: «Ma nonostante tutti i giri e rigiri, come la marmellata che va a finire sempre in dispensa, finisci sempre per far scivolare dentro qualche paroletta che non è tua e che disturba col ricordo che risveglia» (Briciole di filosofia). È l’obbligo della distanza verso quanto è stato falsificato in verità ufficiale che determina questo impiego del plagio (détournement), ammesso così da Kierkegaard, nello stesso libro: «Un’osservazione soltanto vorrei ancora fare riguardo alle tue molte allusioni: esse prendono tutte di mira il fatto che io mescolo nei miei discorsi espressioni prese a prestito da altri. Che sia così, io non lo nego affatto, e ora neppure nasconderò che ciò era intenzionale, così che in una prossima sezione di questo saggio, se mai la scriverò, ho intenzione di nominare l’oggetto col suo vero nome e di rivestire il problema di un costume storico».
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Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe dappresso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella una idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta.
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Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato al suo contesto, al suo movimento, e infine alla sua epoca come riferimento globale e all’opzione precisa che era all’interno di quel riferimento, esattamente riconosciuta o erronea. Il détournement è il linguaggio fluido dell’anti-ideologia. Esso si manifesta nella comunicazione che sa che non può pretendere di detenere alcuna garanzia in sé e definitivamente. Esso è, nel suo punto più alto, il linguaggio che non può essere confermato da nessun riferimento antico e sovra-critico. È al contrario la propria coerenza, in sé stesso e con i fatti praticabili, che può confermare l’antico nucleo di verità che esso richiama. Il détournement non ha fondato la sua causa su niente di esterno alla propria verità come critica presente.
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Ciò che, nella formulazione teorica, si presenta apertamente come ribaltato (détourné), smentendo ogni autonomia durevole della sfera del teorico espresso, facendovi intervenire con la violenza l’azione che sconvolge e distrugge ogni ordine esistente, ricorda che questa esistenza del teorico non è niente in sé, e non deve conoscersi che con l’azione storica, e con la correzione storica che è la sua vera esattezza.
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Solo la negazione reale della cultura ne conserva il senso. Essa non può più essere culturale. Così essa è ciò che rimane, in qualche modo, al livello della cultura, sebbene in una accezione completamente differente.
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Nel linguaggio della contraddizione, la critica della cultura si presenta unificata: in quanto domina il tutto della cultura – la sua conoscenza come la sua poesia –, e in quanto non si separa più dalla critica della totalità sociale. È questa sola critica teorica unificata che va incontro alla pratica sociale unificata.
«L’autocoscienza è in sé e per sé quando e perché è in sé e per sé per un’altra autocoscienza; vale a dire che essa è solo in quanto essere riconosciuto.»
Hegel
Fenomenologia dello spirito
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L’ideologia è la base del pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia. I fatti ideologici non sono mai stati semplici chimere, ma la coscienza deformata delle realtà, e in quanto tali dei fattori reali esercitanti a loro volta una reale azione deformante; a maggior ragione la materializzazione dell’ideologia comportata dal successo concreto della produzione economica autonomizzata, nella forma dello spettacolo, confonde praticamente con la realtà sociale una ideologia che ha potuto ritagliare tutto il reale sul suo modello.
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Quando l’ideologia, che è la volontà astratta dell’universale, e la sua illusione, si trova legittimata dalla astrazione universale e dalla dittatura concreta dell’illusione nella società moderna, essa non è più la lotta volontaristica del parcellare, ma il suo trionfo. Di conseguenza, la pretesa ideologica acquista una sorta di piatta esattezza positivistica: non è più una scelta storica, ma un’evidenza. In una tale affermazione, i nomi particolari delle ideologie sono svaniti. La parte stessa di lavoro propriamente ideologico al servizio del sistema non si concepisce più se non in quanto riconoscimento di una “base epistemologica” che si vuole al di là di ogni fenomeno ideologico. L’ideologia materializzata è essa stessa senza nome, così come è senza programma storico enunciabile. Il che equivale a dire che la storia delle ideologie è finita.
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L’ideologia, che tutta la sua logica interna conduceva verso l’«ideologia totale», nel senso di Mannheim, dispotismo del frammento che si impone come pseudo-sapere di un tutto congelato, visione totalitaria, è ora compiuta nello spettacolo immobilizzato della non-storia. Il suo compimento è anche la sua dissoluzione nell’insieme della società. Con la dissoluzione pratica di questa società deve scomparire l’ideologia, l’ultima irragionevolezza che blocca l’accesso alla vita storica.
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Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, poiché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale. Lo spettacolo è materialmente «l’espressione della separazione e dell’estraniarsi tra uomo e uomo». «La nuova potenza del reciproco inganno» che vi si è concentrata ha la sua base in questa produzione, attraverso la quale «con la massa degli oggetti cresce ... il regno degli esseri estranei ai quali l’uomo è soggiogato». È lo stadio supremo di una espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. «Il bisogno del denaro è dunque il vero bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo che essa produca» (Manoscritti economico-filosofici). Lo spettacolo estende a tutta la vita sociale il principio che Hegel, nella Realphilosophie di Jena, concepisce come quello del denaro; è «la vita di ciò che è morto, che si muove in sé stesso».
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Al contrario del progetto riassunto nelle Tesi su Feuerbach (la realizzazione della filosofia nella prassi che supera l’opposizione tra l’idealismo e il materialismo), lo spettacolo conserva contemporaneamente, e impone nello pseudo-concreto del suo universo, i caratteri ideologici del materialismo e dell’idealismo. Il lato contemplativo del vecchio materialismo che concepisce il mondo come rappresentazione e non come attività – e che idealizza infine la materia – è realizzato nello spettacolo, dove delle cose concrete sono automaticamente padrone della vita sociale. Reciprocamente, anche l’attività sognata dell’idealismo si realizza nello spettacolo, per mezzo della mediazione tecnica di segni e di segnali – che materializzano infine un ideale astratto.
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Il parallelismo stabilito da Gabel (La falsa coscienza) tra l’ideologia e la schizofrenia deve essere situato all’interno di questo processo economico di materializzazione dell’ideologia. Ciò che l’ideologia era già, la società lo è diventata. La disinserzione della prassi, e la falsa coscienza anti-dialettica che l’accompagna, ecco ciò che viene imposto a ogni ora della vita quotidiana sottomessa allo spettacolo; e che bisogna comprendere come un’organizzazione sistematica della «mancanza della facoltà d’incontro», e come sua sostituzione con un fatto allucinatorio sociale: la falsa coscienza dell’in-contro, l’«illusione dell’incontro». In una società in cui nessuno può più essere riconosciuto dagli altri, ogni individuo diventa incapace di riconoscere la propria realtà. L’ideologia si trova presso di sé; la separazione ha edificato il suo mondo.
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«Nei quadri clinici della schizofrenia,» dice Gabel, «scadimento della dialettica della totalità (con la dissociazione come forma estrema) e scadimento della dialettica del divenire (con la catatonia come forma estrema) sembrano fortemente connessi». La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più che gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce. Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo «segno dello specchio». Qui è il mettersi in scena della falsa uscita di un autismo generalizzato.
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Lo spettacolo, che è il cancellamento dei limiti dell’io e del mondo tramite l’annientamento dell’io assediato dalla presenza-assenza del mondo, è anche il cancellamento dei limiti del vero e del falso tramite la rimozione di ogni verità vissuta sotto la presenza reale della falsità assicurata dall’organizzazione dell’apparenza. Colui che subisce passivamente la sua sorte quotidianamente estranea è dunque spinto verso una follia che reagisce illusoriamente a questa sorte, ricorrendo a delle tecniche magiche. Il riconoscimento e il consumo delle merci sono al centro di questa pseudo-risposta a una comunicazione senza risposta. Il bisogno d’imitazione che prova il consumatore è precisamente il bisogno infantile, condizionato da tutti gli aspetti della sua privazione fondamentale. Secondo i termini che Gabel applica a un livello patologico completamente diverso, «qui il bisogno anormale di rappresentazione compensa il sentimento torturante di essere ai margini dell’esistenza».
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Se la logica della falsa coscienza non può conoscere sé stessa in modo verace, la ricerca della verità critica sullo spettacolo deve essere anche una critica vera. Bisogna che lotti praticamente tra i nemici irriconciliabili dello spettacolo, e ammetta di essere assente là dove essi sono assenti. Le leggi del pensiero dominante sono il punto di vista esclusivo dell’attualità, che riconosce la volontà astratta dell’efficacia immediata, quando essa si getta verso i compromessi del riformismo o dell’azione comune dei rottami pseudorivoluzionari. In tal modo il delirio si è ricostituito nella posizione stessa che pretende di combatterlo. Al contrario, la critica che va al di là dello spettacolo deve saper attendere.
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Emanciparsi dalle basi materiali della verità rovesciata, ecco in che cosa consiste l’autoemancipazione della nostra epoca. Questa «missione storica d’instaurare la verità nel mondo», né l’individuo isolato, né la folla atomizzata sottomessa alle manipolazioni possono compierla, ma ancora e sempre la classe che è capace di essere la dissoluzione di tutte le classi riconducendo tutto il potere alla forma disalienante della democrazia realizzata, il Consiglio nel quale la teoria pratica controlla sé stessa e vede la propria azione. Soltanto là dove gli individui sono «direttamente legati alla storia universale»; soltanto là dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni.
(Da: Internationale situationniste, n. 1, Parigi, giugno 1958. Trad. it.: Internazionale situazionista 1958-69, Torino, Nautilus, 1994)
situazione costruita
Momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti.
situazionista
Ciò che si riferisce alla teoria o all’attività pratica di una costruzione di situazioni. Colui che si adopera a costruire delle situazioni. Membro dell’Internazionale situazionista.
situazionismo
Vocabolo privo di senso, abusivamente derivato dal termine precedente. Non esiste situazionismo, ciò che significherebbe una dottrina di interpretazione dei fatti esistenti. La nozione di situazionismo è evidentemente concepita dagli antisituazionisti.
psicogeografia
Studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui.
psicogeografico
Relativo alla psicogeografia. Ciò che manifesta l’azione diretta dell’ambiente geografico sull’affettività.
psicogeografo
Colui che ricerca e trasmette le realtà psicogeografiche.
deriva
Modo di comportamento sperimentale legato alle condizioni della società urbana: tecnica di passaggio frettoloso attraverso vari ambienti. Si dice anche, più particolarmente, per designare la durata di un esercizio continuo di questa esperienza.
urbanismo unitario
Teoria dell’impiego di insieme delle arti e tecniche che concorrono alla costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con esperienze di comportamento.
détournement
Si impiega per abbreviazione della formula: détournement di elementi estetici precostituiti. Integrazione di produzioni attuali o passate delle arti in una costruzione superiore dell’ambiente. In questo senso, non può esserci pittura o musica situazionista, ma un uso situazionista di questi mezzi. In un senso più primitivo, il détournement all’interno delle antiche sfere culturali è un metodo di propaganda, che testimonia l’usura e la perdita d’importanza di tali sfere.
cultura
Riflesso e prefigurazione, in ogni momento storico, delle possibilità di organizzazione della vita quotidiana; il complesso dell’estetica, dei sentimenti e dei costumi, tramite cui una collettività reagisce sulla vita che le è obiettivamente data dalla sua economia. (Noi definiamo questo termine soltanto nella prospettiva della creazione dei valori, non in quella del loro insegnamento.)
decomposizione
Processo per cui le forme culturali tradizionali si sono autodistrutte, sotto l’effetto dell’apparizione di mezzi superiori di dominio della natura, che permettono ed esigono delle costruzioni culturali superiori. Si distingue tra una fase attiva della decomposizione, demolizione effettiva delle vecchie sovrastrutture – che cessa verso il 1930 –, e una fase di ripetizione, che domina da allora. Il ritardo nel passaggio dalla decomposizione a nuove costruzioni è legato al ritardo nella liquidazione rivoluzionaria del capitalismo.
Ultima modifica 28.08.2008