Prefazione alla edizione statunitense del 1888 del "Discorso sul libero scambio" di Karl Marx.
Tradotto da Leonardo Maria Battisti, novembre 2017
Alla fine del 1847 ci fu a Bruxelles un congresso sul libero scambio1.
Era una manovra della coeva campagna pel libero scambio fatta dagli industriali inglesi. Vittoriosi in patria per la revoca della legge granaria (1846) passavano sul continente chiedendo, in cambio del varco in Inghilterra aperto ai cereali del continente, il libero accesso dei prodotti industriali inglesi ai mercati continentali. A tal congresso Marx si era inscritto fra gli oratori ma, come era prevedibile, le cose vennero condotte in modo da chiuder il congresso prima del suo turno. Così dovette esporre ciò che aveva da dir il 9 gennaio 1848 davanti all'Associazione democratica di Bruxelles (associazione internazionale di cui era vicepresidente).
Poiché oggi la questione del libero scambio e del protezionismo è all'ordine del giorno, si stima utile che esca in inglese il discorso di Marx, e me ne è chiesto un proemio.
Dice Marx: «Il sistema protezionista fu un espediente per: fabbricar industriali; espropriar i lavoratori indipendenti; capitalizzar i mezzi di produzione e sussistenza nazionali; abbreviar colla forza il transito dal modo di produzione medievale all'odierno» [Capitale, XXIV, 6].
Tale fu il protezionismo al suo sorger nel ‘600 e tale rimase fino parte dell'800. Il protezionismo fu la regola di ogni Stato civile dell'Europa occidentale. Sole eccezioni i piccoli Stati tedeschi e la Svizzera (non perché sfavorevoli, ma per l'impossibilità di applicare il sistema nei loro minuscoli territori).
Fu sotto l'egida del protezionismo che la moderna industria meccanica, col vapore, sorse in Inghilterra e si sviluppò durante nell'ultimo terzo del ‘700. E, quasi la protezione tariffaria non bastasse, le guerre contro la Rivoluzione francese contribuirono ad assicurar all'Inghilterra il monopolio dei nuovi sistemi industriali. Per più di vent'anni, navi da guerra inglesi allontanarono i produttori rivali dell'Inghilterra dai rispettivi mercati coloniali, aprendoli a forza al commercio inglese. La secessione delle colonie sud-americane dall'egemonia delle madri patrie europee, la conquista inglese delle principali colonie francesi ed olandesi, l'assoggettamento progressivo dell'India, mutarono gli abitanti di tutti questi immensi territori in consumatori di prodotti inglesi. L'Inghilterra così associava il protezionismo in patria col libero scambio imposto all'estero. Con tale felice connubio dei due sistemi, finite le guerre nel 1815, ea disponeva dell'effettivo monopolio del commercio mondiale per tutte le industrie più importanti.
Tale monopolio si estese e rafforzò nei successivi anni di pace. Il vantaggio aumentò di anno in anno. I possibili rivali erano lasciati sempre più addietro. Ormai l'esportazione sempre crescente di manifatture divenne per l'Inghilterra una vera questione vitale. Due soli ostacoli pareva aver: i divieti o i dazi per esportar in altri Paesi e i dazi per importar materie prime e generi alimentari in Inghilterra.
Così nella patria di John Bull divennero popolari le dottrine libero-scambiste dell'economia politica classica (dei fisiocratici francesi e dei loro epigoni inglesi: Adam Smith e Ricardo). I dazi sulle importazioni erano inutili pegli industriali (vincenti tutti i loro rivali esteri e la cui esistenza stessa dipendeva dall'estender le loro esportazioni) e giovavano solo ai produttori di generi alimentari e di materie gregge, all'agricoltura, ai percettori di rendita nell'Inghilterra coeva, in breve: alla nobiltà fondiaria. Il protezionismo nuoceva agli industriali: tassar le materie prime alzava il prezzo dei prodotti fatti da esse, tassar i generi alimentari alzava il prezzo della manodopera; e ambi i casi sfavorivano l'industriale inglese contro il suo rivale estero. Poiché in Inghilterra tutti gli altri Paesi esportavano perlopiù prodotti agricoli e importavano prodotti industriali, abolir i dazi doganali inglesi sui cereali e sulle materie prime era al contempo chieder agli altri Paesi di toglier o ridurre i dazi sull'importazione di prodotti industriali inglesi.
Dopo una lotta lunga e violenta, i capitalisti industriali (già classe dirigente dell'Inghilterra, i cui interessi erano allora nazionali) vinsero. L'aristocrazia fondiaria piegò. I dazi sui cereali ed altre materie prime furono aboliti. Il libero scambio divenne la parola d'ordine del giorno. Nuovo problema degli industriali inglesi o degli economisti loro interpreti fu: convertir tutti gli altri paesi al libero scambio per crear un mondo in cui l'Inghilterra fosse il gran centro industriale e gli altri Paesi i satelliti agricoli. Al che ci fu il Congresso di Bruxelles, il discorso di Marx approvò il libero scambio sia in principio sia in conclusione, pur dicendo che certe volte (es. nella Germania coeva) il protezionismo può giovar agli industriali e che il libero scambio possa aggravar i mali dei lavoratori anziché curarli. Per lui il libero scambio è la condizione normale della produzione capitalistica moderna: solo il libero scambio completa l'attuazione delle forze produttive del vapore, dell'elettricità, delle macchine. Prima si attua ciò, prima si attuano i necessari esiti: la polarizzazione della società in capitalisti e salariati; ricchezza ereditaria e ereditaria povertà; una produzione (offerta) eccedente i bisogni (domanda); un reiterato ciclo di prosperità, sovrapproduzione, crisi, panico, stasi cronica, graduale ripresa del commercio (segno d'una prossima crisi, non di miglioramento duraturo). In breve, le forze produttive sociali si estendono fino a ribellarsi contro gli istituti sociali in cui si originarono. Unica soluzione è una trasformazione sociale che liberi sia le forze produttive dalle pastoie di un ordine sociale vieto, sia i produttori reali, le masse, dalla schiavitù del salario. È solo perché il libero scambio è l'habitat naturale di tale evoluzione storica, l'ambiente economico ad essa più propizio, che Marx fu a favore del libero scambio.
I primi anni dopo il trionfo del libero scambio in Inghilterra cresimarono le migliori previsioni. Il commercio inglese toccò cifre favolose, il monopolio industriale inglese sul mercato mondiale parve più che mai saldo; ovunque sorsero ferriere e tessiture; ovunque allignarono nuovi tipi di industria. Ci fu una seria crisi nel 1857 ma fu superata e il progresso dell'industria e del commercio riprese fino al nuovo panico del 1866 che invece parve indicar una nuova epoca nella storia economica del mondo.
L'abolizione dei dazi protettivi sui generi alimentari e materie prime certo giovò all'espansione inedita dell'industria e del commercio inglese fra il 1848 ed il 1866. Ma non fu la sola causa. Altri gravi fenomeni coevi concorsero. Fu in quel torno la scoperta e lo sfruttamento delle miniere d'oro australiane e californiane, che moltiplicarono il numerario; e una rivoluzione generale dei mezzi di trasporto di uomini e merci. Piroscafi e ferrovie superarono velieri e strade sul mare e sulla terra rendendo i trasporti quattro volte più rapidi e quattro volte meno costosi. È ovvio che l'industria inglese azionata dal vapore si estese in circostanze sì favorevoli a spese delle industrie casalinghe estere basate sul lavoro a mano. Ma potevano le altre nazioni accettar di divenir meri satelliti agricoli dell'Inghilterra, «l'officina del mondo»?
No. La Francia da quasi due secoli teneva le sue manifatture dietro una vera muraglia cinese di dazi o divieti e aveva raggiunto negli articoli di lusso o di gusto una superiorità che l'Inghilterra manco osava disputarle. La Svizzera, in un regime di perfetto libero scambio, aveva industrie relativamente importanti che la concorrenza inglese non poteva toccare. La Germania, con la tariffa assai più liberale del continente, sviluppava la sua industria con una celerità relativamente maggiore dell'Inghilterra. E l'America, ridotta dalla guerra civile del 1861 alle sue sole risorse, per soddisfar un subitaneo bisogno di prodotti d'ogni tipo doveva creare una propria industria. I bisogni sorti colla guerra, colla guerra cessarono; ma la nuova industria restò come la concorrenza britannica. Inoltre la guerra aveva maturato in America il pensiero che una popolazione di 35 milioni (raddoppiante in quarant'anni al più) ricchissima di risorse e attorniata da vicini quasi solo agricoltori, fosse «manifestamente destinata»2 a divenir indipendente dall'industria straniera per i principali suoi consumi, sia in pace sia in guerra. Così l'America introdusse dazi.
Quindici anni fa viaggiai in treno con un avveduto commerciante (credo in ferro) di Glasgow. Parlando dell'America, mi sciorinò i vecchi ritornelli libero-scambisti: «Non era assurdo che affaristi scaltri come gli americani si infliggessero tributi per arricchir industriali siderurgici locali, benché da noi avrebbero la stessa merce nonché miglior a minor prezzo?» E citava esempi, calcolando le cifre dello sperpero.
Risposi: «La faccenda par aver un altro lato. Sa che in carboni, forze idrauliche, minerali d'ogni tipo, alimenti meno costosi, cotoni indigeni ed altre materie prime, l'America ha risorse eguagliabile da nessun Paese europeo ma non sfruttabili appieno se l'America non diviene Paese industriale. E ammetterà che oggi un popolo così grande non può essere solo agricolo condannandosi all'inferiorità e alla barbarie. Oggi nessun popolo può esistere senza opifici propri. Se così l'America deve divenir nazione industriale (e oltre a poterci riuscire può superar i suoi rivali) allora ha due vie: condurre col libero scambio una guerra di concorrenza costosa e forse cinquantennale contro opifici inglesi avanti di un secolo; ovvero escluder coi dazi protettivi la concorrenza inglese forse per venticinque anni colla certezza quasi assoluta che alla fine di tale arco essa potrà reggersi nel mercato mondiale aperto. Quale delle due vie è più breve e meno costosa? Ecco il quesito. Per andar da Glasgow a Londra c'è il treno accelerato a un penny il miglio che va a 12 miglia orarie, previsto per legge3. Ma lei tiene al suo tempo e prende il treno espresso a due pence il miglio che va a 40 miglia orarie. Ecco: gli americani scelgono di pagar la tariffa dell'espresso per andar più veloci». Il mio liberista scozzese non ribatté verbo.
Il protezionismo è un mezzo artificiale per fabbricare industriali onde è utile a una classe capitalista non avanzata ancora in lotta col feudalismo, nonché alla classe capitalista nascente d'un Paese senza una fase feudale, come l'America, ma che sta nella fase evolutiva che impone la secondarizzazione (il passaggio dall'agricoltura all'industria). In tale frangente l'America scelse il protezionismo e dopo i venticinque anni da me predetti il protezionismo ha esaurito il suo officio e credo stia per divenir un ostacolo. Due anni fa dissi la mia a un protezionista americano: «Sono convinto che se l'America passa al libero scambio allora in dieci anni batterà l'Inghilterra sul mercato mondiale».
Il protezionismo è nel caso migliore una vite senza fine che mai smette di girare: protegger un'industria nuoce in via diretta o indiretta a tutte le altre da protegger a loro volta; ma ciò nuoce a sua volta all'industria protetta per prima, degna di risarcimento; ma il risarcimento si ripercuote di nuovo su tutti gli altri settori giustificandone le pretese, e così via all'infinito. L'America a tale riguardo è un esempio lampante di come uccider un'industria importante col protezionismo. Nel 1856 il totale delle importazioni e delle esportazioni via mare degli USA ammontava a 641.604.850 dollari; di tale somma, il 75,2% era caricato su navi americane e solo il 24,8% su navi forestiere. Benché i piroscafi inglesi vincevano i velieri americani, ancora nel 1860 le navi americane caricavano il 66,5% di un traffico marittimo totale di 762.288.550 dollari. Con la guerra civile, il conseguente protezionismo per le costruzioni navali americane fece sparir quasi affatto la bandiera americana dai mari. Nel 1887 il totale commercio marittimo statunitense era salito a 1.408.502.979 dollari, ma ormai solo il 13,80% era caricato su navi americane e l'86,20% su navi straniere. Nel 1856 le merci caricate su navi americani valsero 482.268.274 dollari; nel 1860 valsero 507.247.757 dollari. Nel 1887 solo 194.356.746 dollari*1. Quarant'anni fa la bandiera americana sfidava sugli oceani la bandiera inglese; ora è quasi sparita. Il protezionismo dei cantieri navali uccise navi e costruttori.
Altro punto. I perfezionamenti nei metodi di produzione si seguono oggi sì rapidi mutando intere industrie, che una tariffa protezionista prima conveniente oggi non lo è più. Traiamo un esempio dal rapporto del segretario del Tesoro americano per il 1887:
«I perfezionamenti degli ultimi anni nelle macchine per la pettinatura delle lane mutarono il genere dei cosiddetti tessuti pettinati sì che tali ultimi hanno sostituito i tessuti cardati (cheviots) per la confezione di vestiti da uomo. Tale mutamento.... nocque tanto alle nostre manifatture nazionali di tessuti pettinati perché il dazio su ogni tipo di lana grezza è lo stesso. Il dazio sui tessuti cardati (fino a un massimo di 80 cent per libbra) è di 35 cent per libbra e del 35% del valore; invece il dazio sui tessuti pettinati (sempre fino ad un massimo 80 cent per libbra) è solo di 10-24 cent per libbra, più il 35% sul valore. Così il dazio sulla lana usata nei tessuti pettinati eccede il dazio sull'articolo finito».
Ieri il dazio proteggeva l'industria nazionale, oggi l'importatore estero; e il segretario del Tesoro può ben dir:
«C'è da creder che la manifattura dei tessuti pettinati dovrà presto sparir dal Paese, salvo mutar la tariffa». (pag. XIX).
Ma mutarla implica opporsi ai fabbricanti di tessuti cardati cui giova lo stato attuale e far una campagna per ottener la maggioranza di ambe le Camere e per convincerlo opinione pubblica. Conviene farlo?
È il peggio del protezionismo che una volta introdotto è difficile abolirlo. Più difficile di aggiustare una tariffa è tornare al libero scambio. Sono irripetibili le circostanze che permisero all'Inghilterra di farlo in pochi anni. E pure lì la lotta iniziata nel 1823 (Huskisson) ebbe i primi successi nel 1842 (tariffe di Peel4) e durò altri anni dopo aver abolito le leggi granarie. All'industria serica (unica a temer ancora la concorrenza estera) la protezione fu prolungata per qualche anno e poi assunse una forma indegna: mentre le altre industrie tessili subirono il Factory Act (che limitava le ore di lavoro per le donne, giovani e ragazzi5) l'industria serica fu esclusa ed impiegò di bambini più giovani e per più ore delle altre industrie tessili. Gli ipocriti liberisti ristabilirono a spese della salute e della vita di bambini inglesi il monopolio che abolivano in favore della concorrenza estera.
Ma niun Paese potrà tornar al libero scambio in un momento propizio in cui tutte o quasi le sue industrie possono sfidare la concorrenza estera in mercato aperto. Il necessario passaggio sarà urgente assai prima che tale momento propizio sia anche solo sperabile. L'urgenza apparirà in tempi diversi nei vari settori commerciali, i cui interessi causeranno le liti più edificanti, intrighi di lobby e cospirazioni parlamentari. Per il meccanico, l'ingegnere e l'armatore il dazio sul ferro grezzo alza il prezzo delle loro merci impedendone l'esportazione; il tessitore di cotone saprebbe escludere i tessuti inglesi dai mercati cinesi e indiani se il dazio sul filato non gli alzasse prezzo del filo; e così via. Quando un'industria nazionale ha conquistato affatto il mercato interno, allora l'esportazione le diviene indispensabile. Nel capitalismo un'industria o si espande o scompare. Un commercio non può stabilizzarsi. La fine dell'espansione è l'inizio della rovina. Il progresso delle invenzioni meccaniche e chimiche (surrogando incessante il lavoro umano e accrescendo ed accentrando incessante il capitale) crea in ogni industria stagnante un ingorgo di lavoratori e di capitali, che non trova sbocco perché lo stesso fenomeno è comune a tutte le altre industrie. Così passar dal commercio interno al commercio estero diviene vitale per le industrie interessate; ma si scontra coi diritti acquisiti, cogli interessi di altri ancora più avvantaggiati dal protezionismo che dal libero scambio. Ne segue una lotta lunga e tenace fra liberoscambisti e protezionisti, che passa ai politici di mestiere, che dirigono i tradizionali partiti politici, il cui interesse è che il conflitto perduri anziché cessar. Il risultato di tale sperpero di tempo, di energia e di denaro è una serie di compromessi a favore ora all'una ora all'altra parte che lentamente introducono il libero scambio (salvo che intanto il protezionismo divenga affatto intollerabile alla nazione, come è probabile in America).
Il peggior tipo di protezionismo è però un altro che si trova in Germania. Poco dopo il 1815 pure la Germania sentì l'urgenza di un più rapido sviluppo industriale. Ma il primo requisito era crear un mercato interno abolendo le frontiere interne e delle varie legislazioni fiscali di quei piccoli Stati: in breve la formazione della Zollverein: Unione doganale tedesca. Ciò presupponeva una tariffa liberista, intesa per crear un'entrata fiscale comune più che per proteggere l'industria. Solo tale condizione poteva indurre quei piccoli Stati ad unirsi. Così la nuova tariffa doganale unica, benché leggermente proteggesse certe industrie, fu al tempo un modello di liberismo, e tale rimase benché già dopo il 1830 la maggioranza degli industriali tedeschi reclamasse dazi protettivi. Ma malgrado la concorrenza spietata della grande industria inglese a vapore sulle industrie tedesche basate sul lavoro manuale, tale tariffa liberista giovò al trapasso graduale dal lavoro manuale alla macchina pure in Germania (ormai quasi fatto). Il passaggio tedesco dall'agricoltura all'industria procedette di pari passo, e dal 1866 fu aiutato da eventi politici (lo stabilirsi di un forte governo centrale e d'un parlamento federale, assicuranti una legislazione uniforme su commercio, moneta, pesi e le misure) e dall'inondazione dei miliardi francesi. Così, verso il 1874, il commercio tedesco sul mercato mondiale era inferiore solo a quello britannico*2 e la Germania impiegava più forza-vapore nell'industria e nei trasporti di ogni altro Paese europeo. Ciò prova che pure oggi un grande Paese può arrivare a competere coll'Inghilterra sul mercato aperto, malgrado l'enorme vantaggio dell'industria inglese.
Allora ci fu un sùbito cambio di rotta: la Germania reintrodusse i dazi nel momento in cui il libero scambio pareva più che mai necessario. Cambio assurdo ma spiegabile.
Finché la Germania esportava grano, tutti i proprietari fondiari e gli armatori erano liberisti. Ma nel 1874, anziché esportare, la Germania requisiva all'estero grandi provviste di grano. Al contempo l'America inizio ad inondar l'Europa con enormi carichi di grano meno costosi: ovunque arrivavano riducevano il reddito in denaro della terra onde la rendita. Al che l'interesse del mondo agrario europeo iniziò a chieder il protezionismo. Al contempo l'industria tedesca pativa gli effetti della sovrapproduzione e della troppa speculazione causata dai miliardi francesi, mentre l'Inghilterra, il cui commercio non aveva superato la stasi dalla crisi del 1866, inondava tutti i mercati possibili colle merci invendute in patria offerte a prezzi stracciati. Al che il protezionismo fu stimato un modo di assicurarsi in modo esclusivo il mercato interno benché l'industria tedesca dipendesse soprattutto dall'esportazione. Il Governo, controllato dall'aristocrazia terriera e dai nobili, fu arcilieto di profittare di tale situazione a loro vantaggio, concedendo dazi protettivi ad agricoltori e ad industriali. Nel 1878 fu introdotta un'alta tariffa protezionista sia per i prodotti agricoli sia per quelli industriali6.
Di conseguenza l'esportazione di merci industriali tedesche fu sostenuta caricando il costo sui consumatori interni. Ovunque possibile si formarono cartelli o trusts per regolar le esportazioni e la produzione. La produzione tedesca di ferro è in mano a poche grandi case, perlopiù SpA, che insieme producono il quadruplo fabbisogno del Paese. Per evitar un'inutile concorrenza reciproca, tali ditte hanno formato un trust per spartirsi tutti i contratti coll'estero, e fissa caso per caso a quale ditta spetti far l'offerta effettiva. Alcuni anni fa tale trust aveva stretto persino un accordo coi padroni di ferriere inglesi, accordo oggi saltato. Così pure le miniere di carbone di Westfalia (che producono circa 37 milioni di tonnellate all'anno) formarono un trust per fissar le offerte nelle gare di appalto, nonché la produzione. Insomma ogni industriale tedesco confermerà che il solo vantaggio dei dazi protettivi è lasciargli recuperar sul mercato interno i prezzi stracciati che deve accettare all'estero. E c'è di più. L'assurdo sistema di protegger gli industriali è solo l'offa gettata ai capitalisti dell'industria per indurli a sorreggere un monopolio ancora più iniquo concesso ai proprietari terrieri. Ogni anno salgono i dazi d'importazione che gravano sui prodotti agricoli, e certe industrie rurali (gestite sopra latifondi per conto del proprietario) sono direttamente finanziate con soldi pubblici. L'industria dello zucchero di barbabietola nonché protetta riceve somme enormi sotto forma di premi all'esportazione. Persone competenti pensano che l'industriale farebbe profitti coi soli premi del Governo anche se tutto lo zucchero esportato fosse buttato in mare. Pure le distillerie d'alcool dalla patata, in base a leggi recenti, ricevono una regalia dalla mano pubblica di circa 36 milioni di marchi all'anno. E poiché quasi ogni grande proprietario nel nord-est della Germania è o un produttore di zucchero di barbabietola o un distillatore d'alcool di patata, o ambe le cose, è ovvio che i loro prodotti sommergano il mondo.
Tale politica, rovinosa in qualsiasi circostanza, lo è doppiamente in un Paese la cui industria tiene la sua posizione sui mercati neutri soprattutto col basso costo del lavoro. In Germania il salario è tenuto al minimum della sussistenza pure nel momento migliore mercé l'aumento demografico malgrado l'emigrazione. Ma col rincaro di ogni genere di prima necessità causato dal protezionismo il salario deve crescer. L'industriale tedesco allora non potrà più come oggi compensar i prezzi stracciati delle sue merci riducendo i suoi salari normali. Così perderà sul mercato. Il protezionismo in Germania sta uccidendo la gallina dalle uova d'oro.
Pure la Francia patisce gli effetti del protezionismo. Avendo dominato da due secoli, il protezionismo è divenuto parte della vita nazionale. Eppure va divenendo un ostacolo. Mutamenti continui nei metodi di produzione sono all'ordine del giorno, ma il dazio sbarra la via. Si fanno oggi velluti di seta col rovescio di filo di cotone fino. Tale filo si fabbrica in Inghilterra assai a minor prezzo, ma il fabbricante francese deve pagar il dazio di tale filo, oppure sottoporsi a infinite vessazioni burocratiche per ottenerne il rimborso all'atto di esportazione del suo velluto; e così il commercio del velluto passa da Lione a Krefeld, dove il dazio sul filo di cotone fino è molto più basso. Come già detto, l'esportazione francese consta specialmente di articoli di lusso, nei quali il gusto francese ha tuttora il primato; ma i principali consumatori di tali articoli sono i nuovi ricchi in tutto il mondo, i capitalisti moderni senza cultura né gusto, altrettanto soddisfatti dalle contraffazioni tedesche e inglesi a poco prezzo che spesso sono fornite loro per articoli francesi autentici a prezzi folli. Il mercato delle specialità irriproducibili fuori di Francia si restringe sempre più, l'esportazione industriale francese a malapena si regge e presto dovrà declinare. Con quali nuovi articoli potrà la Francia surrogare quelli la cui esportazione va cessando? Se qualcosa può esserle di aiuto è un'ardita introduzione del libero scambio che metta l'industriale francese fuori dalla sua atmosfera di serra calda, all'aria aperta della libera concorrenza. Certo il commercio francese si sarebbe già da tempo intisichito senza quel timido passo verso il libero scambio fatto dal trattato di Cobden del 18607; il cui effetto si è però esaurito e serve ora un tonico più forte.
Non vale quasi la pena parlare della Russia. Ivi la tariffa protettiva (i cui dazi si devono pagare in oro e non nella deprezzata valuta cartacea del paese) serve perlopiù a fornire al disgraziato governo la moneta effettiva necessaria per le transazioni coi creditori stranieri. Se un giorno tale tariffa svolgesse la sua missione protettiva escludendo affatto le merci estere, allora il governo russo fallirebbe. Eppure tale governo predica ai suoi sudditi l'illusione che la Russia non abbia bisognoso di alcunché (di generi alimentari, di materie prime, di industrie, di opere d'arte) come se quella tariffa prendesse la Russia un Paese economicamente indipendente. Chi crede a tale miraggio di una Russia isolata dal resto del mondo è al livello di quelli luogotenente prussiano che in un negozio chiese un mappamondo della Prussia anziché della Terra.
Torniamo all'America. Ci sono molti segni che il protezionismo abbia ormai finito di giovare agli USA e che è tempo di abolirlo. Uno di tali segni è la formazione di trusts delle industrie protette per approfittarsi del loro monopolio. Ora, i cartelli (rings; trusts) sono istituzioni americane DOC e laddove sfruttino ricchezze naturali sono in generale ammessi fra brontolii. La trasformazione dei pozzi di petrolio di Pennsylvania in un monopolio della Standard Oil Company8 è un fenomeno affatto consono alle regole della produzione capitalista. Ma se i raffinatori di zucchero tentano di trasformar la protezione accordata loro dal Paese contro la concorrenza straniera in un monopolio contro il consumatore indigeno (cioè contro la stessa nazione che ha accordata la protezione) allora è una faccenda diversa. Eppure i grandi raffinatori hanno firmato un trust che mira proprio a ciò9. E il cartello dello zucchero non è il solo. Il formarsi di tali trusts entro industrie protette è il segno più certo che il protezionismo ha mutato carattere: che protegge l'industriale dal consumatore interno anziché dall'importatore esterno; che almeno in certe industrie ha fabbricato un numero d'industriali bastante se non eccessivo; che ha donato a tali industriali denaro sprecato, proprio come in Germania.
In America e ovunque il protezionismo è difeso sostenendo che il libero scambio gioverebbe solo all'Inghilterra. La miglior prova del contrario è che in Inghilterra, nonché gli agricoltori ed i proprietari fondiari, gli industriali vanno divenendo protezionisti. A Manchester (sede di una scuola liberista10), il 1° novembre 1886, la Camera di commercio discusse una proposta per cui «avendo atteso per quarant'anni invano che le altre nazioni seguissero l'esempio liberoscambista dell'Inghilterra, la Camera crede venuto il tempo di riesaminare quella situazione».
La proposta fu respinta, ma con soli 22 voti contro 21! E questo nel centro dell'industria del cotone, l'unica industria inglese la cui supremazia sul mercato aperto pare indiscussa! Ma certo pure in tale ramo il genio inventivo è passato dall'Inghilterra all'America. Le recenti migliorie nelle macchine per filare e tessere il cotone sono quasi tutte americane e Manchester le ha adottati. In ogni tipo di invenzione industriale, l'America è certo prima, mentre la Germania contende il secondo posto all'Inghilterra, la quale sta capendo che il suo monopolio industriale è irremeabilmente transito; che progredisce ogni giorno più lentamente dei suoi concorrenti; che diverrà una fra le tante nazioni industriali anziché «l'officina del mondo» come sognava. È per respinger tale fato minaccioso che gli uomini che quarant'anni vedevano salute solo nel libero scambio, oggi invocano con il protezionismo camuffato coi nomi di «fair trade» (commercio leale) e di dazi di ritorsione. E se perfino gli industriali inglesi si accorgono che il libero scambio li rovina e chiedono protezione al governo contro i concorrenti esteri, allora è certo il momento di abolir il sistema protezionista e di combattere il monopolio industriale inglese in declino con la sua propria arma: il libero scambio.
Ma come già detto, abolir il protezionismo è più difficile che introdurlo. Il legislatore col protezionismo ha creato grandi interessi, ai cui deve risponder. Non tutti tali interessi (i vari rami dell'industria) sono egualmente preparati ad esporsi all'improvviso alla libera concorrenza. Alcuni sono arretrati mentre altri non hanno più bisogno dell'egida protezionista. Tale scompenso aziona la solita cricca parlamentare, garanzia sufficiente che, introdotto il libero scambio, si procederà in modo lene verso le industrie protette, come accadde in Inghilterra dopo il 1846 con l'industria della seta. Ciò è inevitabile allo stato attuale, e finché il passaggio al libero scambio è adottato solo come principio i liberisti dovranno adattarvisi.
La questione del libero scambio e del protezionismo è una fase propria dall'attuale sistema di produzione capitalista, onde è priva di interesse diretto per i socialisti che chiedono l'elisione del sistema. Ma indirettamente li interessa perché devono desiderar che il presente sistema di produzione si attui liberamente e si espanda rapidamente il più possibile; poiché al contempo si svilupperanno pure le necessarie conseguenze economiche che distruggeranno l'intero sistema: miseria della gran massa dovuta alla sovrapproduzione che causa crisi periodiche o stasi cronica dei traffici; polarizzazione della società in un'esigua classe di grandi capitalisti e in una vasta classe di salariati condannati ad una schiavitù ereditaria; un proletariato che cresce incessante mentre le nuove macchine risparmianti lavoro lo rendono eccedente; in breve una società sospinta in un vicolo cieco, salvo una trasformazione della struttura economica su cui si basa.
È stando così le cose che 40 anni fa Marx si pronunciò per il libero scambio per principio, come la via più rapida per portar la socialità capitalistica in quella vicolo cieco. Ma i motivi rivoluzionari per cui Marx fu a favore del libero scambio non sono per i conservatori motivi per essere contro il libero scambio? Che il libero scambio debba essere rivoluzionario significa che il protezionismo sia necessariamente conservatore e da votare per i cittadini ben pensanti?
Oggi un Paese non adotta il libero scambio per compiacere i socialisti, bensì perché il libero scambio è divenuto una necessità per i capitalisti delle sue industrie. Ma se adottasse il protezionismo per privar i socialisti dell'attesa catastrofe, gioverebbe loro altrettanto.
Il protezionismo è un mezzo per fabbricar industriali nonché salariati. Essi sono congenerati. Il salariato cammina sulle orme dell'industriale; è come «l'atra cura» d'Orazio11 a cavallo col cavaliere il quale non può togliersela di dosso. Non è possibile sottrarsi al destino cioè alle conseguenze necessarie delle nostre proprie azioni. Un sistema di produzione fondato sullo sfruttamento dei salariati, un aumento della ricchezza proporzionato al numero di lavoratori impiegati e sfruttati deve accrescere la classe dei salariati, onde i conflitti di classe per cui il sistema è destinato a transire. Intanto è inevitabile sviluppare il sistema capitalista, serve accelerare la produzione, l'accumulazione e l'accentrazione del capitale e con ciò la formazione di una classe di lavoratori, rivoluzionaria in quanto espulsa dalla società ufficiale. Protezionismo o libero scambio non è una scelta che muti il risultato né il tempo che manca alla fine. Infatti già prima di tal giorno il protezionismo sarà divenuto un laccio intollerabile per ogni Paese in grado di aspirare a un posto indipendente nel mercato mondiale.
Friedrich Engels
*1. Annual Report of the Secretary of the Treasury etc. for the year 1887. XXVIII, XXIX. [Nota di Engels]↩
*2. Commercio totale (importazione più esportazione) nel 1874 in milioni di talleri: Gran Bretagna 13.380; Germania 9300; Francia 6600; Stati Uniti 4980. (Georg Friedrich Kolb [1808-1884]: Statistiche, 7ª Lipsia 1875, p. 790). [Nota di Engels] ↩
1. Il congresso liberoscambista si svolse dal 16 al 18 settembre 1847. Engels lo descrisse in: Il congresso economico e Il congresso liberoscambista di Bruxelles [MEOC, VI].↩
2. Manifest destiny: slogan dei liberisti statunitensi dell'800 introdotto nel 1845 da John O'Sullivan sul periodico U.S. Magazine and Democracy Review durante l'annessione del Texas.↩
3. Parliamentary train: nomignolo dei treni di terza classe introdotti con una disposizione parlamentare nel 1844 obbligante ogni compagnia ferroviaria a farne transitare uno su ogni tratta.↩
4. William Huskisson: ministro del commercio nel 1823, promosse la riorganizzazione del sistema doganale antiquato. I dazi su certe materie prime e merci furono ridotti o aboliti. I dazi sui cereali furon sostituiti da una scala mobile dei dazi (per cui il dazio saliva se i prezzi interni dei cereali cadevano e calava se i prezzi aumentavano). Nel 1842 il governo Peel attuò un ulteriore riduzione delle tariffe doganali.↩
5. La legge sulla giornata lavorativa delle 10 ore promulgata dal Parlamento l'8 giugno 1847 riguardava solo donne e fanciulli.↩
6. Nel 1878 alcuni deputati del Reichstag furono per l'aumento dei dazi su prodotti agricoli e industriali. Il progetto fu depositato al Reichstag nel maggio 1879 e approvato il 12 luglio. Così salirono i dazi su cereali, bestiame, macchine, indumenti.↩
7. Trattato commerciale di Cobden [23 gennaio 1860]: stipulato fra Inghilterra e Francia, opera del liberista Richard Cobden. L'Inghilterra tolse i dazi per i prodotti francesi e la Francia fissò il massimo dei dazi al 30% del valore delle merci. L'afflusso delle merci inglesi acuì la concorrenza sul mercato interno scontentando gli industriali francesi.↩
8. Standard Oil Company: fondata nel 1870 nell'Ohio da John Davison Rockfeller. Negli anni 70 dell'800 monopolizzò il trasporto e la raffinazione del petrolio e prese il controllo dell'intera industria. Nel 1882 la società fu trasformata in un trust omonimo che controllava un capitale complessivo di 75 milioni di dollari. Poi la Standard Oil divenne uno dei più grandi gruppi del mondo.↩
9. Società delle raffinerie dello zucchero: trust creato nel 1887, poi divenuto Società americana delle raffinerie dello zucchero nel 1891. Col sistema delle partecipazioni il trust otteneva il controllo di alcune forti società concorrenti e si collegava ad altre e così restò il maggior monopolista del settore. ↩
10. Manchester, cuore dell'industria tessile, fu il centro della protesta capitanata dagli industriali Cobden e Bright contro i dazi e l'intervento dello Stato in economia.↩
11. «Dietro il cavaliere siede l'atra cura» [Orazio: Odi, Libro Terzo, I].↩
Ultima modifica 2020.05.09