La dominazione britannica in India

(o l'Inghilterra rivoluzionaria malgrado sé stessa)

Karl Marx (1853)


Pubblicato in: New York Daily Tribune, n° 3804, 25 giugno 1853.

Tradotto direttamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, settembre 2018


Londra, 10 giugno 1853

Telegrammi da Vienna dicono che colà si dà per certa la pacifica soluzione delle questioni turca, sarda e svizzera. Ieri sera ai Comuni il dibattito sull'India è seguitato nel solito modo uggioso. Mister Blackett ha accusato di falsità ottimistica le dichiarazioni di sir Charles Wood e sir John Hogg. Una pattuglia di sostenitori del governo e dei direttori ribatté come meglio poté, e l'inevitabile mister Hume1 concluse il dibattito invitando i ministri a ritirare il disegno di legge. La seduta è stata poi aggiornata.

L'Indostan2 è un'Italia di dimensioni asiatiche in cui l'Himlaya corrisponde alle Alpi, la pianura del Bengala alla pianura del Po, il Deccan agli Appennini e l'isola di Ceylon alla Sicilia. C'è la stessa ricca varietà di prodotti agricoli e lo stesso smembramento nella struttura politica. Come la spada del conquistatore ha diviso l'Italia in diverse masse nazionali, così l'Indostan (quando non sotto il giogo islamico, mongolico o inglese) era diviso in tanti Stati indipendenti e nemici quante sono le sue città nonché i suoi villaggi. Ma dal punto di vista sociale l'Indostan non è l'Italia: è l'Irlanda dell'Oriente. E tale strana combinazione di Italia e Irlanda (il mondo della voluttà e il mondo dell'infelicità) è già anticipata nelle antiche tradizioni della religione induista (un misto di esuberanza sensuale e di sadico ascetismo; una religione del Linga e una religione del Jaggernaut3; la religione del monaco e quella della baiadera).

Dissento da chi crede a un'età dell'oro dell'Indostan, ma senza ricorrer all'esempio di Kuli Khan come sir Charles Wood. Bensì mi rifaccio all'epoca di Aurangzeb4, o ai tempi in cui i mongoli comparvero a nord e i portoghesi a sud, o all'era dell'invasione islamica e dell'eptarchia nell'India meridionale, o (se volete risalir ancora prima) alla cronologia mitologica braminica che pone l'inizio dell'infelicità indiana in epoca anteriore alla biblica creazione del mondo.

Comunque salvo sta che: i mali inflitti all'Indostan dagli inglesi sono di specie essenzialmente diversa e molto più profondi di quanto l'Indostan subì in passato.

Non alludo all'innesto del dispotismo europeo sul tronco del dispotismo asiatico fatto dalla Compagnia britannica delle Indie orientali (mostro più orribile di quelli che ci stupiscono nel tempio di Salsette5). Ciò non è una peculiarità del dominio coloniale britannico bensì un'imitazione di quello olandese indi caratterizzabile col giudizio di sir Stanford Raffles (governatore inglese di Giava) sulla vecchia Compagnia olandese delle Indie orientali:

«La Compagnia, mossa solo dallo spirito del guadagno e incline a trattar i suoi sudditi con minor stima o riguardo di quanto usavano coi loro schiavi i padroni delle piantagioni delle Indie occidentali (poiché questi avevano pagato in denaro l'acquisto di carne umana, e quella no), sfruttò tutto il dispotismo preesistente per estorcere al popolo indigeno gli ultimi soldi con tasse e tutto il lavoro possibile. Aggravò i mali di un capriccioso e semibarbarico governo esercitandolo con l'abilità dei politici consumati e con l'avidità monopolizzatrice dei mercanti6».

Guerre civili, invasioni, rivolte, conquiste, carestie scalfirono appena l'India, per quanto la loro successione paia complessa, rapida e distruttiva. Invece l'Inghilterra abolì le fondamenta della società indiana senza finora voler costruire qualcosa. Tale perdita del loro mondo antico senza la conquista di uno nuovo qualifica la miseria degli indù come disperata; e separa l'Indostan governato dagli inglesi da tutte le sue tradizioni millenarie, dal complesso della sua storia passata.

Da tempo immemore c'erano in Asia solo tre ministeri: delle finanze (del saccheggio interno); della guerra (cioè del saccheggio estero); dei lavori pubblici. Il clima e le condizioni geografiche (specie vasti spazi desertici dal Sahara, attraverso l'Arabia, la Persia, l'India e la Tartaria fino ai più elevati altipiani asiatici) fecero dell'irrigazione artificiale tramite canali e altre opere idrauliche la base dell'agricoltura orientale. In Egitto, in India, in Mesopotamia, in Persia (etc.) le inondazioni servono a fecondare il suolo sfruttando le piene per riempir i canali d'irrigazione. Tale necessità primaria di un uso comune e parsimonioso dell'acqua (mentre in Occidente, come nelle Fiandre e in Italia, spinse l'iniziativa privata a forme di associazioni volontarie) in Oriente (dove la civiltà era troppo rudimentale e le superfici troppo vaste per suscitare l'associazione volontaria) impose d'uopo l'intervento del potere centralizzatore del governo. Donde a tutti i governi asiatici si impose la funzione economica di provvedere alle opere pubbliche. La fertilizzazione artificiale del suolo, che dipende da un governo centrale e decade tostoché l'irrigazione e il drenaggio siano trascurati, spiega il seguente fatto altrimenti strano: intere plaghe un tempo illustremente coltivate (come Palmira, Petra, le rovine dello Yemen, e vaste zone dell'Egitto, della Persia e dell'Indostan) oggi sono aridi deserti. Ecco perché una sola guerra devastatrice ha potuto spopolare Paesi per secoli e annientarne la civiltà.

Ora, nelle Indie orientali gli inglesi accolsero dai loro predecessori i dicasteri delle finanze e della guerra, ma non i lavori pubblici7. Donde il declino di un'agricoltura impraticabile secondo il principio inglese della libera concorrenza, del laissez-faire e laissez-aller. Negli imperi asiatici l'agricoltura suole declinare sotto un governo e rifiorire sotto un altro: ivi i raccolti dipendono da un governo buono o cattivo come in Europa dipendono dal meteo buono o cattivo. Così, l'oppressione politica e la negligenza dell'agricoltura non sono il colpo di grazia inferto alla società indiana dagli invasori inglesi (benché nefaste), sennonché sono unite a una circostanza sortale, una novità per tutti gli annali del mondo asiatico. Per quanto mutevole fosse il volto politico del passato storico dell'India, le sue condizioni sociali rimasero inalterate dall'antichità più remota fino al primo decennio dell'800. Il telaio e il filatoio a mano, intorno ai quali cresceva una miriade di filatori e tessitori, erano i perni di questa società. Da tempi immemori, l'Europa importava gli stupendi tessuti di fabbricazione indiana, scambiandoli coi suoi metalli preziosi fornendo così la materia prima all'orafo, membro indispensabile della società indiana ove l'amore dei gioielli è tale che pure gli uomini delle classi inferiori, giranti seminudi, sogliono portar orecchini d'oro e un monile d'oro intorno al collo. Spesso donne e bambini indossavano bracciali d'oro massiccio e ornamenti d'oro o d'argento alle caviglie, e nelle case si trovavano statue di divinità in metallo prezioso. L'invasore inglese distrusse il telaio e il filatoio a mano. L'Inghilterra iniziò a espellere i cotoni indiani dal mercato europeo e a introdurre nell'Indostan i suoi filati ritorti; infine, inondò di cotonine la cosiddetta patria del cotone. Dal 1818 al 1836, l'esportazione di ritorti inglesi in India crebbe nel rapporto di 1 a 5200. Nel 1824, l'esportazione di mussole britanniche in India manco toccava il milione di yard; nel 1837, superava i 64 milioni. Al contempo la popolazione di Dacca precipitò da 150.000 a 20.000 abitanti8. Non fu tale tramonto di città indiane note per i loro tessuti la conseguenza peggiore, bensì la distruzione sull'intera superficie dell'Indostan del legame fra agricoltura e artigianato causata dal vapore e dalla scienza britannici.

Tali due circostanze (agricoltura e commercio possibili solo coi lavori pubblici curati da un governo centrale, in India come in tutto l'oriente; dispersione della popolazione sull'intera superficie del Paese e riunita in piccoli centri in comunità familiari agricole e semindustriali) generarono un sistema sociale antichissimo e unico, che a ognuna di tali piccole unità dava un'organizzazione autonoma e una vita distinta: il cosiddetto sistema-villaggio. Il carattere peculiare di tale sistema è desumibile dalla seguente descrizione, tratta da un vecchio rapporto parlamentare sugli affari indiani9:

«Geograficamente, un villaggio è una plaga di alcune centinaia o migliaia di acri arabili e incolti; politicamente somiglia a un comune o una parrocchia civile. Il suo corpo di funzionari è formato così. Il potail (capovillaggio) in genere attende agli affari locali, appiana le contese fra abitanti, si occupa della polizia e riscuote le tasse (officio per cui è atto pella sua influenza personale e la sua conoscenza diretta della situazione e degli affari della gente). Il kurnum tiene la contabilità agricola e registra tutto ciò riguardante le colture. Il tallier è incaricato di indagare sui delitti e sui reati, e scortare e proteggere chi viaggia fra i villaggi. Il totie pare occuparsi di cose limitate al villaggio, fra cui sorvegliare e quantificare i raccolti. Una specie di guardaconfini vigila i confini del villaggio su cui testimonia nei contenziosi. Il sovrintendente ai serbatoi e canali distribuisce l'acqua a scopi agricoli. Il brahmano provvede alle pratiche di culto. Il maestro insegna a leggere e scrivere nella sabbia. Il brahmano è addetto al calendario, o astrologo ecc. Tali funzionari sono l'usuale corpo amministrativo del villaggio; ma in certe località è minore poiché alcune delle funzioni testé sono svolte dalla stessa persona; e in altre località ci sono ulteriori funzioni. Sotto tale forma semplice di governo municipale gli Indiani vivono da tempi immemorabili. I confini dei villaggi di rado sono mutati e (benché a volte danneggiati o devastati dalla guerra, dalle carestie, dalle pestilenze) vi permasero per secoli pure gli stessi nomi, gli stessi interessi, nonché le stesse famiglie. Gli abitanti non si curavano dei crolli e delle divisioni dei regni; finché il villaggio resta intatto, non cale sotto quale autorità sia o con quale sovrano; la sua economia interna non muta. Il potail resta il capo e seguita a far da giudice di pace o magistrato e da esattore di tasse o affitti».

Tali piccole forme stereotipe d'organismo sociale sono state perlopiù dissolte e ormai vanno scomparendo non per un intervento militare britannico bensì per gli effetti del vapore e del libero scambio inglesi. Le comunità familiari si basavano sull'industria casalinga, un'unione peculiare di tessitura, filatura e agricoltura fatte a mano (perciò autosufficienti). L'intervento inglese, compartimentando il filatore nel Lancashire e il tessitore nel Bengala, o levando il tessitore quanto il filatore indiani, distrusse tali piccole comunità semibarbare e semicivili abolendone la base economica causando così la più grande, anzi l'unica rivoluzione sociale autentica mai successa in Asia.

Ora (benché possa ferir i sentimenti veder tale miriade di industriose e inoffensive comunità patriarcali esser disorganizzate e scomposte, gettate in un mare di lutti, e vedere i loro singoli membri perder l'antica forma di civiltà e gli ereditari modi di sopravvivere) serve ricordare che tali idilliache comunità villiche (malgrado l'inoffensività) sono sempre state la solida base del dispotismo orientale; che confinavano lo spirito umano in uno spazio angusto facendone un docile strumento della superstizione, schiavo di norme privo di ogni grandezza e di ogni energia storica. Serve ricordar l'egoismo dei barbari attaccati a un misero lotto di terra che assistevano indifferenti alla rovina di imperi, a crudeltà inaudite, al massacro della popolazione di grandi città, senza curarsene più che ad eventi naturali (proprio loro, facile preda di qualsiasi aggressore si degnasse di considerarli).

Serve ricordar che tale vita priva di dignità, stagnante, vegetativa, questo modo di esistere passivo scatena direttamente forze distruttive cieche e indomabili, e fa dello stesso omicidio un rito religioso nell'Indostan. Serve ricordar che tali piccole comunità sono segnate dalla divisione in caste e dalla schiavitù; che assoggettavano l'uomo alle circostanze esterne anziché farne il sovrano delle circostanze; e trasformavano uno stato sociale in moto inerziale in un destino naturale immutabile, base di un volgare culto della natura, il cui avvilimento si esprime nel fatto che l'uomo, sovrano della natura, si prostri e adori Hanuman la scimmia e Sabbala la vacca10.

È vero: l'Inghilterra ha causato una rivoluzione sociale nell'Indostan mossa dagli interessi più vili, realizzandoli nel modo più stupido. Ma non è questo il problema. Il problema è: può l'umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell'Asia? Se la risposta è no, checché abbia fatto di criminale, l'Inghilterra è stata lo strumento inconscio della storia nel provocare una simile rivoluzione.

Così, qualsiasi dolore personale ci desti lo spettacolo del crollo di un mondo antico, dal punto di vista storico abbiamo il diritto di esclamare con Goethe:

«Perché tormentarci di una pena che accresce il nostro godimento? La tirannia di Timur non ha forse divorato miriadi di anime?» [Divano occidentale-orientale, VII. Il libro di Tamerlano, II. A Suleika].

Karl Marx (New York Daily Tribune, n° 3804, 25 giugno 1853)


Note

1. Joseph Hume [1777-1855]: radicale, già esponente cartismo moderato (movimento della «Piccola Carta», 1847-1848), denunciò ai Comuni gli abusi governativi e la corruzione nella burocrazia statale.

2. Indostan è propriamente il bassopiano indogangetico; ma qui il termine sta per tutta l'India.

3. Il linga (organo genitale maschile) è il simbolo del dio Siva, il cui culto è praticato soprattutto nell'India meridionale dalla setta Lingayat e si ispira al motivo dominante della mortificazione della carne. Jagannath (in Occidente reso Jaggernaut) è l'incarnazione di Visnù, il cui culto nel tempio di Puri ricorre nella letteratura ottocentesca inglese come sensuale e orgiastico: vi si praticava la prostituzione rituale mentre accadeva che, durante le processioni in onore del dio, fedeli esaltati si gettassero sotto le ruote del carro di Visnù (di qui, più oltre, l'allusione di Marx all'«omicidio» come pratica ritualistica in India).

4. Marx percorre a ritroso un millennio di storia indiana. Inizia dall'epoca di Aurangzeb (gran Mogol dal 1658 al 1707) che da un lato segnò per certi versi l'apogeo della dominazione mongola ma dall'altro fu funestata da aspre lotte fra pretendenti prima della sua ascesa al trono e fra vicari dopo la sua morte. Dopo risale dalla ribellione dei mahratta agli inizi dell'egemonia mongola, stabilmente assicurata nel 1526, e degli insediamenti portoghesi sulle due coste dell'India a cavallo fra i secoli XV e XVI. Di qui va all'era delle invasioni musulmane a partire dal 1000, concluse con la fondazione del sultanato indomusulmano di Delhi, e ai quattro secoli precedenti, caratterizzati da ripetute infiltrazioni arabe nella valle dell'Indo, e, nel centrosud, dallo spezzettamento feudale del territorio nella cosiddetta eptarchia (VII-IX sec. d.C.).

5. Salsette: uno dei numerosi templi-grotta delle isole intorno a Bombay, il più celebre dei quali è il grandioso complesso architettonico di Elephanta.

6. Sir Thomas Stanford Raffles [1781-1826]: governatore generale a Batavia dal 1811 al 1816, durante il periodo di occupazione britannica dell'isola di Giava; governatore generale di Sumatra dal 1818 al 1823. Marx cita qui dalla sua History of Java [London 1817], I, p. 151.

7. Cfr. Marx: Capitale I, XIV, nota 7:

«Una delle basi materiali del potere statale sui piccoli e indipendenti organismi produttivi dell'India era la regolamentazione delle forniture d'acqua a scopi irrigui. I dominatori islamici dell'India lo seppero più dei loro successori britannici. Basta ricordare la carestia del 1866 che costò la vita a più di un milione di indù nel distretto di Orissa, presidenza del Bengala».

E cfr. Engels: AntiDuhring, Economia Politica, IV:

«Per quanto numerosi siano stati i governi dispotici che si sono formati e che sono caduti in Persia e in India, ognuno sapeva bene di essere l'imprenditore generale dell'irrigazione delle vallate fluviali, senza la quale laggiù nessuna agricoltura è possibile. Era riservato solo agli illuminati inglesi non calersene: primi fra tutti in India, essi lasciarono andare in rovina i canali d'irrigazione e le cateratte e ora scoprono con le carestie che si ripetono con regolarità di aver trascurato quell'unica attività che poteva legittimare il loro dominio nell'India almeno quanto quello dei loro predecessori».

8. Su Dacca, cfr. Marx: Discorso sul libero scambio:

«I rapporti sulla miseria dei tessitori indiani sono terribili. Ma quale ne è l'origine? La comparsa sul mercato dei prodotti inglesi; la produzione dell'articolo coi telai a vapore. Tantissimi tessitori sono morti d'inedia; il resto si è dato ad altri lavori soprattutto agricoli. Per costoro non saper cambiare lavoro significa morte. Oggi il distretto di Dacca tracima di filati e di tessuti inglesi. Pure la mussola di Dacca (nota in tutto il mondo per la bellezza e per la solidità del tessuto) è stata eclissata dalla concorrenza delle macchine inglesi. In tutta la storia dell'industria non ci sono sofferenze simili a quelle che intere classi nelle Indie Orientali hanno dovuto patir».

E cfr. Marx: Capitale I, XIII, 5:

«L'effetto delle macchine per lavorare il cotone fu tremendo in India, il cui governatore generale lord Bentinck asserì nel 1834-35: “La miseria ivi non ha confronti nella storia del commercio. Le ossa dei tessitori di cotone imbiancano le pianure indiane”».

9. È il Fifth Report of Select Committee of House of Commons, 1812. Tutta la letteratura inglese coeva asseriva l'assenza di proprietà privata del suolo nella tradizione indù: la proprietà terriera è solo del re.

10. Hanuman: il mitico re-scimmia divinizzato da Visnù per averlo assistito in una delle sue reincarnazioni. Sabbala: la vacca sacra dell'induismo, simbolo di fertilità e di ricchezza.


I risultati della dominazione britannica in India

Karl Marx (1853)


Pubblicato in: New York Daily Tribune, n° 3840, 8 agosto 1853.

Tradotto direttamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, settembre 2018


Londra, 22 luglio 1853

In questa lettera mi propongo di finir le mie osservazioni sull'India.

Come poté la supremazia inglese imporsi in India? Il potere supremo del gran Mogol fu spezzato dai viceré mongoli. Il potere dei viceré dai maratti. Il potere dei maratti dagli afgani. E mentre tutti combattevano contro tutti intervennero gli inglesi che poterono soggiogarli in blocco. Un paese diviso, nonché fra musulmani e induisti, fra stirpe e stirpe, fra casta e casta; una società la cui struttura poggiava su una sorta di equilibrio derivante da una mutua repulsione e da un costituzionale esclusivismo fra tutti i suoi membri; tale Paese e tale società non erano preda predestinata della conquista? Pur ignorando la storia passata dell'Indostan, non basterebbe il fatto grande e incontestabile che oggi l'Inghilterra tiene l'India schiavitù con un esercito indiano mantenuto a spese dell'India? Così l'India non poteva sfuggir al destino d'essere conquistata, e tutta la sua storia (se di storia si tratta) è la storia della serie di conquiste che ha subito. La società indiana non ha storia o almeno una storia conosciuta. La sua cosiddetta storia è la storia degli intrusi che uno alla volta fondarono imperi sulla base passiva di una società passiva e immutabile. Così il problema non è se gli inglesi avessero il diritto di conquistare l'India, ma se: è preferibile un'India conquistata dai turchi, dai persiani o dai russi all'India conquistata dai britannici?

L'Inghilterra deve compier una doppia missione in India; una distruttiva, l'altra rigeneratrice: demolire l'antica società asiatica & porre le basi materiali della società occidentale in Asia.

Arabi, turchi, tartari, mongoli, che in successione invasero la penisola, tosto si induizzarono, essendo legge eterna della storia che i conquistatori barbari siano conquistati dalla civiltà superiore dei vinti. Gli inglesi furono i primi conquistatori superiori, indi impermeabili alla civiltà indù; e la distrussero spaccando le comunità indigene, sradicando l'industria indigena e livellando tutto ciò che era grande ed elevato nella società indigena. Le pagine storiche del loro dominio sull'India registrano quasi solo distruzioni. L'opera di rigenerazione non trapela da un mucchio di rovine; eppure è già iniziata.

L'unità politica dell'India (più solida e molto più estesa che sotto i gran Mogol) era la prima premessa della sua rigenerazione. Ora il telegrafo rafforzerà e perpetuerà l'unità imposta dalla spada britannica. L'esercito indigeno, organizzato e istruito da sergenti istruttori inglesi, era la condizione necessaria dell'emancipazione indiana, grazie a cui l'India cesserà d'essere la vittima del primo invasore straniero. La stampa libera, introdotta per la prima volta nella società asiatica1 e perlopiù diretta dalla comune progenie di indù ed europei, è un nuovo e potente fattore di rinascita. Gli stessi sistemi Zemindari e Ryotwari, per quanto spregevoli, sono due tipi di proprietà privata terriera: il grande desideratum della società asiatica. Dagli indigeni istruiti a Calcutta con riluttanza e parsimonia sotto vigilanza inglese sta nascendo una nuova classe dotata dei requisiti per governare e imbevuta di scienza europea. Il vapore ha messo l'India in rapida e regolare comunicazione con l'Europa, ne ha connesso i porti principali con quelli dell'intero Oceano sudorientale, l'ha strappata all'isolamento, prima causa della sua stagnazione. In un giorno non lontano, per una combinazione di ferrovie e di piroscafi, la distanza fra l'Inghilterra e l'India, misurata in termini di tempo, si ridurrà a otto giorni, al che quel Paese un tempo leggendario diverrà parte del mondo occidentale.

Finora le classi dirigenti inglesi hanno avuto un interesse accidentale, transitorio, sporadico per il progresso civile dell'India. L'aristocrazia voleva conquistarla, la plutocrazia depredarla, la millocracy venderle manufatti a poco prezzo. Ma ora la situazione è mutata. La millocracy ha scoperto che per essa mutare l'India in Paese riproduttore è una questione vitale, e che esige soprattutto di dotarla di mezzi d'irrigazione e comunicazione interna. Così intende coprirla con una rete ferroviaria e lo farà con risultati inestimabili.

È noto che le forze produttive indiane sono bloccate dalla totale mancanza di mezzi di trasporto e scambio dei prodotti. In niun Paese come in India è dato veder l'indigenza sociale presso una sovrabbondanza di ricchezze naturali per l'assenza di mezzi di scambio. Nel 1848 una commissione parlamentare accertò che «il grano era in vendita a 6-8 scellini il quarto a Khandesh mentre a Poonah a 64-70 scellini: qui la gente moriva di fame per le strade senza potersi rifornire a Khandesh perché le strade dal fondo argilloso sono impraticabili».2

L'introduzione di ferrovie può essere facilmente posta al servizio dell'agricoltura creando argini ove serve terreno per i terrapieni, e scavando canali lungo le varie linee. Ciò potrebbe estendere l'irrigazione (condizione necessaria dell'agricoltura in Asia) evitando le frequenti carestie locali dovute alla siccità. Sotto questo profilo l'importanza generale delle ferrovie salta agli occhi allorché si badi che le terre irrigue nei distretti vicini ai monti Gati pagano tre volte tanto in imposte, occupano dieci o dodici volte tante braccia, e rendono dodici o quindici volte più delle terre non irrigate.

Le ferrovie consentiranno di ridurre il numero e il costo delle stazioni militari. Il colonnello Warren3, governatore di Fort St. William, dichiarò ante una commissione speciale della Camera dei comuni sull'India:

«La possibilità di ricever notizie da territori lontani in poche ore (mentre oggi servono giorni nonché settimane) e di mandar ordini con truppe e vettovaglie in minor tempo è un punto mai valutato abbastanza. Si potrebbero sistemare truppe in stazioni più sane e più remote evitando le perdite di vite umane per malattie. Non servirebbero così tante scorte nei depositi evitandone la perdita per il deperimento e le distruzioni derivanti dal clima. Si potrebbero ridurre gli effettivi grazie alla loro maggiore efficienza».

Sappiamo la distruzione dell'organizzazione municipale e della base economica delle comunità di villaggio. Ma è rimasto il loro aspetto più negativo: la dissoluzione della società in atomi stereotipati e privi di legami. In India, l'isolamento dei villaggi spiega l'assenza di strade... che perpetua l'isolamento dei villaggi. Su questo piano una comunità sussisteva con un grado di servizi minimi, quasi senza rapporti di scambio con altre e senza i desideri e gli sforzi che sono indispensabili al progresso sociale. Ora che gli inglesi hanno rotto l'inerzia autosufficiente dei villaggi, le ferrovie soddisferanno le nuove esigenze di comunicazione e di contatti umani. Inoltre «uno degli effetti del sistema ferroviario sarà di portare in ogni villaggio che toccherà quella conoscenza delle invenzioni e degli utensili di altri Paesi ed i mezzi per fabbricarli, che testeranno le capacità e i pregi effettivi dell'artigianato tradizionale indiano e ne correggerà i difetti» (John Chapman: Il cotone e il commercio dell'India, 1851).

Lo so che la millocracy inglese intende dotare l'India di ferrovie solo per trarne ribassati il cotone ed altre materie prime per le sue industrie4. Ma introducendo le macchine fra i mezzi di trasporto di un Paese dotato di ferro e carbone allora è impossibile impedirgli di fabbricarle sul posto. Non si può mantenere una rete ferroviaria in un Paese immenso senza introdurre i processi industriali per soddisfare i bisogni immediati e correnti della locomozione a vapore... dai quali deriverà l'applicazione delle macchine a branche industriali non legate alle ferrovie! Così in India il sistema ferroviario diverrà il precursore dell'industria moderna. Ciò è tanto più certo in quanto le stesse autorità britanniche riconoscono agli indù una disposizione particolare ad adattarsi a lavori affatto nuovi e ad acquisir le cognizioni esatte dalla macchina. Ne è prova l'abilità e la perizia dei tecnici indigeni della zecca di Calcutta (da anni addetti alle macchine a vapore) e dei distretti carboniferi di Hardwar (addetti ai vari tipi di macchinario) per citare solo due esempi. Lo stesso Campbell (benché largamente influenzato dai pregiudizi della Compagnia delle Indie orientali) deve riconoscere che «la gran massa del popolo indiano possiede una grande energia industriale, è atta ad accumulare capitale, e si distingue per lucidità matematica e talento per le cifre e per le scienze esatte». Dice: «È dotato di intelligenza eccellente».

L'industria moderna conseguente dal sistema ferroviario abolirà il sistema castale indiano di divisione del lavoro, ostacolo fatale al progresso e alla potenza dell'India.

Tutto ciò che la borghesia inglese sarà indotta a fare non emanciperà né migliorerà materialmente la condizione sociale delle masse ché, nonché dallo sviluppo delle forze produttive, dipende dall'appropriazione di queste da parte del popolo indiano. Ma ciò ch'essa farà d'uopo sarà porre le basi materiali di ambi. La borghesia ha mai fatto di più? Ha mai contribuito al progresso senza trascinare i popoli nel sangue e nel fango, nella miseria e nella labe?

Gli indiani non raccoglieranno i frutti dei nuovi elementi sociali seminati fra loro dalla borghesia britannica finché nella stessa Inghilterra le classi dominanti non saranno abbattute dal proletariato industriale, o finché gli stessi indù non saranno abbastanza forti da spezzar il giogo britannico. Comunque possiamo aspettarci di assistere in epoca più o meno remota alla rinascita di questo grande e interessante Paese, i cui gentili nativi, pure nelle classi inferiori, sono (per dirla col principe Saltykov) «più fini e più abili degli italiani»5, la cui sottomissione è compensata da una serena nobiltà; essi, malgrado un languore innato, hanno stupito gli ufficiali britannici col loro coraggio; il loro Paese è stato la culla delle nostre lingue e religioni, e che riproducono il tipo del germano antico nel jat6 e il tipo del greco antico nel brahmano.

Non posso lasciare l'argomento dell'India senza alcune osservazioni conclusive.

La profonda ipocrisia, l'intrinseca barbarie della civiltà borghese si palesano tostoché dalle grandi metropoli (dove assumono forme rispettabili) volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude. I borghesi difendono la proprietà; ma quale partito rivoluzionario ha mai introdotto nei rapporti di proprietà del suolo rivoluzioni simili a quelle avvenute nel Bengala, a Madras e a Bombay7? In India non sono i borghesi ricorsi ad estorsioni brutali (per dirla col capobrigante in persona, lord Clive) allorché la corruzione da sola non teneva il passo con la loro ingordigia? Mentre in Europa predicavano l'inviolabile santità del debito pubblico, in India non confiscavano i dividendi dei rajah che avevano investito i loro risparmi nelle azioni della Compagnia? Mentre combattevano la Rivoluzione francese col pretesto di difendere la «nostra santa religione», non proibivano di diffondere il cristianesimo in India e, per spremere denaro ai pellegrinaggi ai templi di Orissa e del Bengala, non si accaparravano il commercio dell'omicidio della prostituzione perpetrati nel tempio di Jaggernaut? Eccoli i campioni «della proprietà, dell'ordine, della famiglia e della religione»!

Gli effetti distruttivi dell'industria inglese, visti in rapporto all'India (Paese vasto come tutta l'Europa, con una superficie di 150 milioni di acri) sono palpabili e tremendi. Ma serve ricordar ch'essi sono solo il risultato organico dell'intero sistema di produzione com'è costituito oggi. Tale produzione poggia sul dominio assoluto del capitale. L'accentramento del capitale è essenziale all'esistenza del capitale come potenza indipendente. L'effetto distruttivo di tale accentramento sui mercati del mondo rivela nella dimensione più gigantesca le leggi interne dell'economia politica oggi operanti in ogni città civile. Il periodo storico borghese ha creato le basi materiali del mondo nuovo: da un lato lo scambio di tutti con tutti, basato sulla mutua dipendenza dei popoli, e i mezzi per questo scambio; dall'altro lo sviluppo delle forze produttive umane e la trasformazione della produzione materiale in un dominio scientifico sui fattori naturali. L'industria e il commercio borghesi creano tali condizioni materiali di un mondo nuovo così come le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della terra. Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell'epoca borghese (il mercato mondiale e le forze di produzione moderne) e le avrà assoggettate al controllo comune dei popoli più civili, allora il progresso umano cesserà di somigliare a quell'orrido idolo pagano che voleva bere il nettare solo dai teschi degli uccisi.

Karl Marx (New York Daily Tribune, n° 3840, 8 agosto 1853)


Note

1. Una parziale libertà di stampa era stata introdotta nel 1815 da sir Charles Metcalfe nella regione di Agra; dallo stesso anno data la rapida diffusione del giornalismo indigeno e indobritannico.

2. Cfr. Marx: Capitale I, XII, nota 53:

«Dal 1861 a causa della forte domanda di cotone in alcuni distretti assai popolati dell'India la produzione di cotone venne estesa a danno di quella di riso. Ne derivò una carestia virtuale in molte località poiché la mancanza di mezzi di comunicazione e quindi di contatti fisici non permise ai distretti privi di riso di rifornirsene importandolo da altri».

3. Charles Warren [1798-1866]: colonnello e poi generale, operante in India dal 1830 al 1838.

4. Cfr. Marx: Capitale I, XIII:

«Il basso prezzo dei prodotti fatti a macchina e il rivoluzionamento dei mezzi di comunicazione e trasporto sono un'arma per conquistar mercati esteri. Il macchinismo, rovinando l'artigianato locale, muta i mercati esteri in campi di produzione delle sue materie prime. Così le Indie orientali furono costrette a produrre cotone, lana, canapa, juta, indaco ecc. per l'Inghilterra».

5. Aleksei Dmitrievich Saltykov [1806-59]: poeta, artista e viaggiatore, dai suoi viaggi in India nel 1841-3 e nel 1845-6 trasse: Lettres sur l'Inde, Paris 1848, p. 61.

6. Jat: popolo contadino e montanaro del nordovest dell’India.

7. Riferimenti ai mutamenti introdotti in alcune parti dell'India nei rapporti di proprietà della terra, sostituendo vari tipi di proprietà privata personale alla storica proprietà collettiva del joint village system.



Ultima modifica 2018.09.08