Lettera a J. B. von Schweitzer [1]

Su P. J. Proudhon

 


Trascritta dall'Organizzazione Comunista Internazionalista (Che fare), Settembre 2000


 

Egregio signore,

ho ricevuto ieri la lettera con cui Lei mi chiede un giudizio dettagliato su Proudhon. Per mancanza di tempo, non posso esaudire il Suo desiderio. Inoltre non ho sottomano alcuno scritto di Proudhon. Tuttavia, per dimostrare la mia buona volontà, Le invio in fretta questi brevi appunti. Può completarli, fare aggiunte, tagli, in breve può farne ciò che ritiene più opportuno [2].

Non ricordo più i primi lavori di Proudhon. Il suo compitino sulla "Langue universelle" dimostra la disinvoltura con cui affrontava problemi per la soluzione dei quali gli facevano difetto le nozioni più elementari.

La sua prima opera "Qu'est-ce que la propriété?" è senza dubbio anche la migliore. Essa fa epoca, se non per la novità del contenuto, per lo meno per il modo nuovo e ardito di dire cose note. I socialisti e i comunisti francesi, di cui Proudhon conosceva gli scritti, avevano naturalmente non solo criticato da diversi punti di vista la proprietà, ma l'avevano addirittura utopisticamente soppressa. Con il suo scritto Proudhon sta a Saint-Simon e a Fourier press'a poco come Feuerbach sta a Hegel. Paragonato a Hegel, Feuerbach appare assolutamente insignificante. Tuttavia, dopo Hegel, ha fatto epoca poiché ha posto l'accento su dei punti sgraditi alla coscienza cristiana e importanti per il progresso della critica filosofica, punti che Hegel aveva lasciato in una mistica penombra.

Lo stile di questo scritto di Proudhon è ancora, se mi è consentita l'espressione, molto muscoloso; ed è proprio lo stile, a mio avviso, il pregio dell'opera. Anche quando ripete cose già dette, è chiaro che Proudhon le scopre autonomamente; si vede che ciò che dice per lui è una novità e come tale la presenta al lettore. La provocante audacia con cui viola il sancta sanctorum economico, i brillanti paradossi con cui si prende gioco dello stolido senso comune borghese, la critica corrosiva, l'ironia amara condita qua e là da un profondo e sincero sentimento di rivolta contro le infamie dell'ordine stabilito, lo spirito rivoluzionario: ecco le ragioni dell'effetto elettrizzante e dello choc suscitato da "Qu'est-ce que la propriété?" fin dalla sua prima apparizione. In una storia dell'economia politica rigorosamente scientifica questo scritto meriterebbe appena una menzione. Ma questi scritti a sensazione hanno una loro funzione anche nelle scienze così come in letteratura. Basti pensare, ad esempio, allo scritto di Malthus sulla "Population" [3]. La sua prima edizione non è altro che un "libello sensazionale", e per di più un plagio da cima a fondo. Eppure, l'impulso dato da questa pasquinata al genere umano è stato enorme!

Se avessi sottocchio il libro di Proudhon, mi sarebbe facile, con alcuni esempi, mostrare la sua prima maniera. Nei capitoli che egli stesso considerava i più importanti, Proudhon imita il metodo delle antinomie di Kant - questi era l'unico filosofo tedesco di cui conosceva, in traduzione, l'opera - e non sembra esserci dubbio che per lui, come per Kant, le antinomie possono risolversi solo "al di là" dell'intelletto umano, vale a dire che esse rimangono incomprensibili al suo, di Proudhon, intelletto.

Nonostante tutti gli apparenti slanci da iconoclasta, già in "Qu'est-ce que la propriété?" si può notare questa contraddizione di Proudhon: da un lato fa il processo alla società dal punto di vista e con gli occhi del piccolo contadino (in seguito del piccolo borghese) francese e dall'altro applica ad essa il modello trasmessogli dai socialisti.

Il titolo stesso del libro ne rivelava già l'insufficienza. La domanda era posta troppo impropriamente perché vi si potesse rispondere correttamente. I "rapporti di proprietà" antichi erano stati sostituiti da quelli feudali, quelli feudali da quelli "borghesi". La storia stessa aveva così già sottoposto alla sua critica i rapporti di proprietà del passato. Ciò di cui Proudhon avrebbe dovuto effettivamente occuparsi era l'attuale moderna proprietà borghese. Alla domanda cosa fosse questa proprietà, si poteva rispondere soltanto con un'analisi critica dell'"economia politica" che comprendesse l'insieme di tali rapporti di proprietà, non nella loro espressione giuridica di rapporti di volontà, ma nella loro forma reale, cioè di rapporti di produzione. Poiché Proudhon tuttavia inglobava la totalità di questi rapporti economici nel concetto giuridico generale di proprietà, "la propriété", non gli era possibile andar oltre la risposta già data da Brissot, con le stesse parole, prima del 1789 in uno scritto similare: "La propriété c'est le vol".

Nel migliore dei casi se ne può trarre la conclusione che il concetto giuridico-borghese di "furto" si può applicare altrettanto bene agli onesti profitti del borghese. D'altra parte, poiché il "furto" in quanto violazione della proprietà presuppone la proprietà, così Proudhon ha finito col perdersi in confuse e cervellotiche discettazioni sulla vera proprietà borghese.

Durante il mio soggiorno a Parigi, nel 1844, sono entrato in contatto personale con Proudhon. Accenno qui a tale circostanza poiché, fino a un certo punto, sono responsabile della sua "sophistication", parola usata dagli inglesi per indicare la contraffazione di una merce. Lo contagiavo, durante lunghe discussioni che spesso si protraevano per tutta la notte, con suo grave pregiudizio, di hegelismo, che egli, tuttavia, per la sua ignoranza della lingua tedesca non poteva studiare ordinatamente. L'opera da me iniziata fu proseguita, dopo la mia espulsione dalla Francia, dal signor Karl Grün. Questi, in quanto professore di filosofia, aveva inoltre un vantaggio su di me: non capiva niente di quello che insegnava.

Poco prima della pubblicazione della sua seconda opera importante, "Philosophie de la misère etc.", Proudhon me ne diede l'annuncio con una lettera molto dettagliata, dove tra l'altro si trovano le parole: "J'attends votre férule critique" [*1]. E ben presto questa lo colpì (nella mia "Misère de la philosophie etc.", Paris 1847) in modo tale da rompere per sempre la nostra amicizia.

Da quanto detto sopra, Lei può vedere come "Philosophie de la misère ou Système des contradictions économiques" di Proudhon dovesse in primo luogo rispondere effettivamente alla domanda: "Qu'estce que la propriété?". In realtà Proudhon aveva iniziato i suoi studi economici solo dopo la pubblicazione di quel suo primo libro; ed aveva scoperto che si doveva rispondere alla questione da lui posta non con delle invettive ma con un'analisi dell'economia politica moderna. Contemporaneamente tentò di stabilire il sistema delle categorie economiche per mezzo della dialettica. La contraddizione hegeliana doveva sostituire l'insolubile antinomia di Kant, come mezzo di sviluppo.

Per la critica di quest'opera voluminosa in due tomi, devo rimandare alla mia replica dove, tra l'altro, ho mostrato quanto poco Proudhon abbia penetrato il mistero della dialettica scientifica, e quante volte, d'altra parte, egli condivida le illusioni della filosofia speculativa; invece di considerare le categorie economiche come espressioni teoriche di rapporti di produzione storici, corrispondenti a un determinato grado di sviluppo della produzione materiale, la sua immaginazione le trasforma in idee eterne, preesistenti ad ogni realtà, e in tal modo per una via traversa si ritrova al suo punto di partenza: il punto di vista dell'economia borghese [*2].

Quindi io dimostro quanto difettosa e rudimentale sia la sua conoscenza dell'economia politica - di cui egli tuttavia intraprendeva la critica - e come, assieme agli utopisti, egli si metta alla ricerca di una pretesa "scienza" che gli deve fornire una formula bell'e pronta per la "soluzione della questione sociale", invece di attingere la scienza alla conoscenza critica del movimento storico, movimento che deve esso stesso produrre le condizioni materiali dell'emancipazione sociale. Ciò che io dimostro, soprattutto, è che Proudhon non ha che idee imperfette, confuse e false circa il fondamento di ogni economia politica, il valore di scambio: il che lo conduce a vedere le basi di una nuova scienza in una interpretazione utopistica della teoria del valore di Ricardo. Infine io riassumo il mio giudizio generale sul suo punto di vista con queste parole:

"Ogni rapporto economico ha un lato buono e uno cattivo: è questo l'unico punto sul quale Proudhon non si smentisce. Il lato buono egli lo vede esposto dagli economisti; quello cattivo lo vede denunciato dai socialisti. Egli prende a prestito dagli economisti la necessità dei rapporti eterni; dai socialisti l'illusione di vedere nella miseria solo la miseria" (invece di vedervi l'aspetto rivoluzionario, distruttivo che rovescerà la vecchia società). "E si trova d'accordo con gli uni e con gli altri, volendosi appoggiare all'autorità della scienza, che, per lui, si riduce alle esigue proporzioni di una formula scientifica; è l'uomo alla ricerca delle formule. Quindi Proudhon si vanta di aver fornito la critica e dell'economia politica e del comunismo: mentre si trova di sotto dell'una e dell'altro. Al di sotto degli economisti, poiché come filosofo che ha sotto mano una formula magica, ha creduto di potersi esimere dall'entrare in dettagli puramente economici; al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficiente coraggio né sufficienti lumi per elevarsi, non fosse altro in maniera speculativa, oltre l'orizzonte borghese... Vuole librarsi, come uomo di scienza al di sopra dei borghesi e dei proletari; e non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro, fra l'economia politica e il comunismo."

Per quanto duro possa apparire questo giudizio, sono costretto a confermarlo ancor oggi, parola per parola. Tuttavia, è importante non dimenticare che allorché io proclamai, e dimostrai teoricamente, che il libro di Proudhon non era che il codice del socialismo piccolo-borghese, contro quel medesimo Proudhon furono scagliati anatemi dagli economisti e dai socialisti di allora i quali assieme lo accusavano di essere un arcirivoluzionario. Per questo, in seguito, non ho mai unito la mia voce a quelli che lanciavano alte grida sul suo "tradimento" della rivoluzione. Non era colpa sua se, mal compreso fin dall'inizio da altri come da se stesso, non abbia poi corrisposto a speranze che nulla giustificava.

La "Philosophie de la misère", messa a confronto con "Qu'est-ce que la propriété?", fa risaltare molto sfavorevolmente tutti i difetti del modo di esporre di Proudhon. Lo stile è sovente quello che i francesi chiamano ampoulé [*3]. Dovunque faccia difetto la perspicacia gallica, si trova un pretenzioso guazzabuglio speculativo che vorrebbe spacciarsi per filosofia tedesca. E poi vi ronzano continuamente all'orecchio, su un tono fanfaronesco e da saltimbanco, i suoi autoelogi e il suo noioso farneticare, le sue continue rodomontate sulla sua pretesa "scienza". Non v'è più nulla del soffio genuino e naturale che ravviva il suo primo libro: qui, a più riprese, Proudhon declama per sistema, si riscalda artificiosamente. Aggiungete a ciò la goffa e uggiosa pedanteria dell'autodidatta che vuol fare l'erudito, dell'ex operaio che ha perduto la fierezza di sapersi pensatore indipendente e originale, e che ora, da vero e proprio parvenu della scienza, crede di doversi pavoneggiare e vantare di ciò che non è e di ciò che non ha. E vi sono, per di più, i suoi sentimenti da piccolo bottegaio, che lo spingono ad attaccare in modo sconveniente e brutale, ma che non è né penetrante né profondo e neppur giusto, un uomo quale Cabet [4], sempre degno di rispetto per la sua azione politica fra il proletariato francese; mentre fa il grazioso con un Dunoyer (consigliere di Stato, è vero) che passa per una persona importante solo per aver predicato, con una serietà addirittura comica, per tre lunghi volumi insopportabilmente noiosi, un rigorismo caratterizzato da Helvétius come segue: "On veut que le malheureux soient parfaits" (Si pretende che gli infelici siano perfetti) [5].

In realtà, la rivoluzione di febbraio giunse molto male a proposito per Proudhon, il quale, poche settimane prima, aveva irrefutabilmente dimostrato che "l'era delle rivoluzioni" era passata per sempre. Tuttavia il suo comportamento nell'Assemblea nazionale non merita che elogi, sebbene dimostri la sua poca intelligenza della situazione. Dopo l'insurrezione di giugno, tenere un atteggiamento quale il suo, era un atto di grande coraggio. Ed ebbe poi, oltretutto, una fortunata conseguenza: Thiers, infatti, nella sua risposta alle proposte di Proudhon - pubblicata in seguito in volume [6] - svelò il meschino piedistallo su cui si ergeva questa colonna intellettuale della borghesia francese. Di fronte a Thiers, Proudhon assunse infatti le proporzioni di un colosso antidiluviano.

Le sue ultime "gesta" economiche furono la scoperta del "crédít gratuit" e della "Banca del popolo" (banque du peuple) che avrebbe dovuto realizzarlo. Nel mio scritto "Zur Kritik der Politischen Oekonomie", I fascicolo Berlin 1859 (pp. 59-64) [7] si trova la dimostrazione che queste idee proudhoniane sono fondate sull'ignoranza più completa dei primi elementi dell'"economia politica" borghese: il rapporto fra merce e denaro; mentre la loro pratica realizzazione non era che la cattiva riproduzione di progetti assai anteriori e assai meglio elaborati. Non v'è dubbio, ed è anzi del tutto evidente, che lo sviluppo del credito, che in Inghilterra al principio del diciottesimo secolo, e più recentemente all'inizio del nostro secolo, ha servito a trasferire le ricchezze da una classe ad un'altra, potrebbe altrettanto servire, in certe condizioni politiche ed economiche, ad accelerare l'emancipazione della classe operaia. Ma considerare il capitale ad interesse come forma principale del capitale, voler fare di una particolare applicazione del credito, della pretesa abolizione del tasso di interesse, la base della trasformazione sociale, via, è davvero una fantasia da filisteo. Di fatto la si trova già ampiamente elucubrata presso i portavoce economici della piccola borghesia inglese del diciassettesimo secolo. La polemica di Proudhon contro Bastiat (1850) a proposito del capitale ad interesse sta molto al disotto della Philosophie de la misère. Proudhon riesce a farsi battere da Bastiat e grida e lancia fulmini in maniera burlesca ogni volta che il suo avversario gli infligge un colpo.

Qualche anno fa Proudhon scrisse una tesi sulle "imposte", credo per un concorso bandito dal governo cantonale del Vaud. Qui scompare anche l'ultimo bagliore di genio: non resta che il petit bourgeois tout pur [*4].

Gli scritti politici e filosofici di Proudhon hanno tutti il medesimo carattere duplice e contraddittorio che abbiamo notato nei suoi lavori economici. Inoltre, non hanno che una importanza locale limitata alla Francia. Tuttavia i suoi attacchi contro la religione e la Chiesa avevano una grande importanza locale, in un'epoca in cui i socialisti francesi si vantavano dei loro sentimenti religiosi come di una superiorità sul volterianesimo del secolo XVIII e sull'ateismo tedesco del secolo XIX. Se Pietro il Grande aveva abbattuto la barbarie russa con la barbarie, Proudhon fece del suo meglio per demolire il tritume francese con frasi trite.

Quelli poi che non possono essere più considerati solo dei cattivi lavori, ma addirittura degli obbrobri - perfettamente consoni, tuttavia, ai suoi sentimenti da bottegaio - sono il suo libro sul "Coup d'état", nel quale civetta con L. Bonaparte e si sforza di renderlo accetto agli operai francesi, e l'altro, contro la Polonia, che, in onore dello zar, egli tratta con un cinismo da cretino.

Si è spesso paragonato Proudhon a Rousseau. Nulla di più falso. Egli assomiglia piuttosto a Nicolas Linguet, la cui "Théorie des loix civiles" è tuttavia un'opera di genio [8].

Proudhon era naturalmente portato alla dialettica. Ma non avendo mai compreso la dialettica scientifica, non giunse che al sofisma. Del resto, ciò derivava dal suo punto di vista piccolo-borghese. Il piccolo borghese esattamente come il nostro storico Raumer, dice sempre "da un lato e dall'altro lato". Due correnti opposte, contraddittorie, dominano i suoi interessi materiali, e di conseguenza le sue opinioni religiose, scientifiche e artistiche, la sua morale, insomma in everything [*5]. È la contraddizione personificata. Se oltre a questo è, come Proudhon, un uomo di spirito, saprà subito giocar di prestigio con le sue proprie contraddizioni ed elaborarle, secondo le circostanze, in paradossi sorprendenti, chiassosi, talvolta brillanti. Ciarlatanismo scientifico e accomodamenti politici sono inseparabili da un tal punto di vista. Non resta più che un solo movente, la vanità dell'individuo, e allora, come per tutti i vanitosi, non si tratta più che dell'effetto del momento, del successo del giorno. Così si perde necessariamente anche quel semplice tatto morale che, ad esempio, preservò Rousseau da qualsiasi compromesso, anche apparente, con i poteri costituiti.

Forse i posteri diranno, per caratterizzare questa più recente fase della storia francese, che Luigi Bonaparte è stato il suo Napoleone e Proudhon il suo Rousseau-Voltaire.

Adesso sta a Lei assumersi la responsabilità di avermi affidato, a così breve distanza dalla sua morte, il ruolo di supremo giudice.

Suo devotissimo

Karl Marx

 

Note

1. Scritta in tedesco, questa lettera fu pubblicata nei numeri 16, 17 e 18 del Social-Demokrat del 1, 3 e 5 febbraio 1865 (cfr. l'accenno in proposito nell'Introduzione di Engels del 1885). La presente traduzione è stata rivista sul testo pubblicato in MEW, v. 16, pp. 25-32.

2. "Abbiamo ritenuto che la cosa migliore fosse pubblicare integralmente lo scritto": nota della redazione del Social-Demokrat.

3. Marx allude al famoso saggio di Thomas Robert Malthus, pubblicato anonimo, An essay on the principle of population (cfr. Indice bibliografico).

*1. "Aspetto la sua critica tagliente"

*2. "Dicendo che i rapporti attuali - i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall'influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c'è stata storia, ma ormai non ce n'è più".

*3. ampolloso

4. Etienne Cabet rispose all'attacco di Proudhon contenuto nel cap. XII del II volume dei Système (paragrafo V, p. 355) con un articolo intitolato Monstreuse attaque contre le communisme, in Le Populaire, a. VI, n. 3, 27 novembre 1846, pp. 3-4.

5. Claude Adrien Helvétius: più che una citazione è una caratterizzazione del pensiero di Helvétius per il quale la felicità è attività e vivacità sensibile e il rigorismo o anche egalitarismo sono fonti di noia (si veda la sua polemica contro Jean-Jacques Rousseau e contro il dispotismo che vorrebbe felici gli inetti: "j'ai pruvé que tout Panégyriste de l'ignorance est, du moins à son insu, l'ennemi du bien public" (in De l'homme, des facultés intellectuelles & de son éducation, Londres, M.DCC.LXXVI, p. 306).

6. A. Thiers De la propriété, Paris, 1848. Questo pamphlet contro il socialismo e il comunismo fu pubblicato in 5.000 copie e diffuso in tutta la Francia da un sedicente "comitato centrale dell'associazione per la difesa del lavoro nazionale".

7. Karl Marx, Per la critica dell'economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 64-67; queste pagine di Marx sono state inserite da Engels in appendice alla prima edizione tedesca di Miseria della filosofia .

*4. piccolo borghese puro e semplice

8. Era stato Adolphe Blanqui a paragonare per la prima volta Proudhon a Rousseau nel 1840. Molto acuto questo richiamo di Marx a Nicolas Linguet, Théorie des loix civiles, ou principes fondamentaux de la société.

*5. in tutto

 


Ultima modifica 9.10.2000