Paul Mattick 1971
Recentemente il problema della coscienza di classe ha ricevuto una nuova formulazione in rapporto ai concetti marxiani di lavoro produttivo e di lavoro improduttivo, e rimesso così in discussione[1]. Benché Marx abbia trattato ampiamente tale problema[2], sollevato dai fisiocratici e dagli economisti classici, si può facilmente sintetizzare il suo pensiero in proposito. Al fine di distinguere il primo dal secondo, Marx rivolge la sua attenzione al modo di produzione capitalistico. "Nella sua cecità", egli afferma, "il borghese attribuisce un carattere assoluto al modo di produzione capitalistico, considerandolo come la forma eterna della produzione. Egli confonde il problema del lavoro produttivo, quale viene posto dal punto di vista del capitale, con il problema generale riguardante l'essenza e la qualità del lavoro produttivo. A tale proposito egli si limita a fare lo spiritoso rispondendo che ogni lavoro che produce qualche cosa e che mette capo a un risultato qualsiasi è per ciò stesso un lavoro produttivo"[3].
Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario. "Il risultato del processo di produzione capitalistico", egli sostiene, "non è quindi né un semplice prodotto (valore d'uso) né una merce, cioè un valore d'uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l'effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione.
Il processo di produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale assorbimento, questa appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel processo di produzione capitalistica ne costituisce lo scopo immediato. Infatti ciò che il capitale (e quindi il capitalista in quanto tale) vuole produrre, non è nè un valore d'uso immediato ai fini di autoconsumo, ne una merce destinata a essere trasformata prima in denaro e poi in valore d'uso. Esso ha come scopo l'arricchimento, la valorizzazione del capitale, il suo accrescimento, e quindi la conservazione dell'antico valore e la creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo scambio con il lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo"[4].
Infatti all'interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei salari e realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come un prodotto storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a continui mutamenti, fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi settori dell'economia di mercato e, quindi, che i capitali impiegati improduttivamente ricevano una parte dal plusvalore sociale globale. Analogamente al capitale creatore di plusvalore, il capitale improduttivo assume la forma d'imprese che forniscono un profitto medio al capitale che vi e investito. L'unità dei due tipi di lavoro si può cogliere anche al di fuori del processo capitalistico di produzione considerato nel suo insieme. Se si analizzano le imprese che generano plusvalore, si assiste ugualmente a una divisione del lavoro, in funzione della quale una parte della manodopera crea direttamente del plusvalore, mentre l'altra lo crea indirettamente.
Secondo Marx, ''il modo di produzione capitalistico ha come suo tratto distintivo quello di separare i diversi tipi di lavoro - e quindi anche il lavoro intellettuale dal lavoro manuale - o i lavori appartenenti all'una o all'altra di queste categorie, e di suddividerlo tra persone differenti. Tuttavia, ciò non toglie che il risultato materiale sia un prodotto collettivo di queste persone o che il loro prodotto collettivo si oggettivi nella ricchezza materiale, il che, a sua volta, non esclude o non cambia assolutamente niente al fatto che il rapporto di ciascuna di queste persone con il capitale rimanga quello di lavoratori salariati e, in questo senso principalissimo, quello, di lavoratori produttivi. Tutte queste persone sono non solo adibite immediatamente per produrre una ricchezza materiale, ma per soprappiù esse scambiano immediatamente il loro lavoro con denaro in quanto capitale e riproducono così immediatamente, oltre al loro salario, un plusvalore per i capitalisti"[5].
Oltre alle occupazioni legate alla produzione di merci e alla loro circolazione, esistono molte professioni che, senza partecipare all'una o all'altra di queste sfere, producono servizi e non merci. I loro membri attingono il loro salario dai lavoratori o dai capitalisti, oppure da entrambi. Dal punto di vista capitalistico il loro lavoro, per quanto utile o necessario possa essere, è da considerarsi improduttivo; sia che i loro servizi siano comprati in quanto merci o remunerati con il denaro proveniente dalle imposte, tutto ciò che essi percepiscono proviene dal reddito dei capitalisti o dal salario dei lavoratori. A questo punto sembra insorgere una difficoltà. Infatti, tra queste professioni, ce ne sono molte i cui membri (insegnanti, medici, ricercatori scientifici, attori, artisti e altri), pur producendo soltanto dei servizi, non sono nè più nè meno che dei dipendenti e portano un profitto all'imprenditore che dà loro lavoro. Questo è il motivo per cui quest'ultimo considera produttivo il lavoro che egli ha pagato e che gli ha permesso di realizzare un profitto, di valorizzare il suo capitale. Per la società invece, questo lavoro è improduttivo poiché il capitale così valorizzato costituisce una parte del valore e del plusvalore creato nella produzione. Lo stesso si può dire sia per il capitale commerciale e il capitale bancario che per gli impiegati di questi due settori; anche in questo caso viene prodotto pluslavoro e valorizzato del capitale, anche se i salari e i profitti riguardanti questi settori sono di necessità prelevati dal valore e dal plusvalore creati nella produzione. Inoltre, esistono tuttora degli artigiani e dei contadini indipendenti che non occupano operai e che non producono quindi in qualità di capitalisti. "Essi si presentano unicamente come venditori di merci, non come venditori di lavoro; questo lavoro quindi non ha niente a che vedere con lo scambio del capitale e del lavoro, né tantomeno con la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che poggia sul fatto che il lavoro è scambiato con denaro sia in quanto tale sia in quanto capitale. Pur essendo produttori di merci, essi non appartengono nè alla categoria dei lavoratori produttivi nè a quella dei lavoratori improduttivi. Ma la loro produzione non è subordinata al modo di produzione capitalistico"[6].
1. Cfr. la serie di articoli su "Lavoro produttivo e lavoro improduttivo nel sistema capitalistico" in Sozialislische Polititik (Berlino) n.6-7 e 8, giugno e settembre 1970, con i contributi di Joachtm Birchoff, Iictner Gansmann, Gudrun Kiimmel, Gerhard Lóhtetn; Christoph Iliibner, Ingrid Pitch, Lothar Riehn; Elmar Altvater, Frecrk lluisken.
2. Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poichè mancava nella prima versione dell'opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuures Econontiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968, p. 388. (N.d.T.)].
3. Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poichè mancava nella prima versione dell'opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuures Econontiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968, p. 388. (N.d.T.)].
4. Cfr. Theorien, p. 387.
5. Cfr. Theorien, p. 387.
6. Cfr. Theorien, p. 382 (Cfr, anche K. Marx, Ocuvres Il, op. cif., p. 401).