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Ordine n. 1
; ore 9,30
13 novembre 1917
Dopo una lotta accanita, le truppe del distaccamento di
Pulkovo hanno messo in rotta completa le forze controrivoluzionarie che,
abbandonando disordinatamente le loro posizioni, si sono ritirate dietro
Zarskoie-Selo in direzione di Pavlosk e di Gacina.
I nostri avamposti occupavano l'estremità nord-est di Zarskoie-Selo e la
stazione Alexandrovskaia. Il distaccamento di Kolpino era sulla nostra sinistra,
quello di Krasnoie-Selo sulla nostra destra.
Ordino alle forze di Pulkovo di occupare Zarskoie-Selo e di fortificarne le
vicinanze, specialmente dalla parte di Gacina. Ordino egualmente di occupare
Pavlosk, di fortificarla al sud e di impadronirsi della ferrovia fino a
Dno.
Le truppe prenderanno tutti i provvedimenti necessari per fortificare le
posizioni occupate con trincee e con altre opere di difesa.
Esse si terranno in stretto collegamento con i distaccamenti di Kolpino e di
Krasnoie-Selo e così pure con lo Stato Maggiore del Comandante in Capo della
difesa di Pietrogrado.
Il Comandante in capo delle truppe operanti contro Kerenski:
Muraviov.
Martedì mattina. Com'è possibile? Due giorni addietro appena, la campagna di Pietrogrado era coperta da bande senza capi, senza viveri, senza artiglieria, che erravano a caso, senza alcun obbiettivo. Che cosa dunque ha saldato quelle masse disorganizzate, indisciplinate, di guardie rosse, di soldati senza ufficiali, in un esercito ubbidiente ai capi che lui stesso si è scelti, capace di sostenere l'urto dell'artiglieria e di spezzare l'assalto della cavalleria cosacca?
I popoli in rivolta sconvolgono tutte le concezioni dell'arte militare. Si pensa agli eserciti stracciati della rivoluzione francese, a Valmy, a Wissemburg. Le truppe sovietiche avevano di fronte il blocco degli junker, dei cosacchi, dei grossi proprietari, della nobiltà e dei Cento Neri, la prospettiva di un ritorno dello zar, quella dell'Okrana e delle catene siberiane; infine la terribile minaccia dell'imperialismo tedesco... La vittoria era, secondo le parole di Carlyle, «apotheosis and millennium without end!» [1].
La domenica sera, mentre i commissari del Comitato militare rivoluzionario ritornavano disperati dal campo di battaglia, la guarnigione di Pietrogrado eleggeva il suo Comitato dei cinque, il suo Stato Maggiore di battaglia, tre soldati e due ufficiali, tutti nemici giurati della controrivoluzione. Il comando veniva affidato al colonnello Muraviov, vecchio patriota, uomo capace, ma che doveva essere sorvegliato da vicino. A Kolpino, a Obukovo, a Pulkovo, a Krasnoie-Selo erano stati formati dei distaccamenti provvisori, che si ingrossarono con i dispersi che vi accorrevano da ogni parte; comprendevano soldati, marinai, guardie rosse, compagnie di reggimenti di fanteria, di cavalleria e di artiglieria, mescolati insieme, oltre ad alcune autoblindate.
All'alba si prese contatto con le pattuglie cosacche di Kerenski: ad ogni scontro qualche fucilata, un ordine di resa. Nell'aria fredda ed immobile, il rumore della battaglia si propagava sulla pianura ghiacciata e colpiva le orecchie delle bande erranti, che si erano riunite attorno a piccoli fuochi, aspettando... Dunque era cominciata la battaglia, — si diceva. E allora, si cominciava ad avanzare verso la battaglia, e sulle strade diritte le orde degli operai affrettavano il passo... Così convergevano automaticamente su tutti i punti d'attacco degli sciami di uomini esasperati. I commissari li ricevevano ed indicavano loro le posizioni da occupare o i lavori da eseguire. Questa volta era la loro guerra; lottavano per il loro mondo; i loro capi se li erano scelti da se stessi. Le volontà multiple, incoerenti della massa si erano saldate in una volontà sola...
I combattenti di quelle giornate hanno descritto come i marinai bruciavano fin la loro ultima cartuccia e poi si lanciavano all'assalto; come gli operai non esercitati ricevevano la carica dei cosacchi e li strappavano dalle selle; come il popolo anonimo, essendosi riunito durante la notte attorno alla battaglia, si gonfiò in una marea che sommerse il nemico... Il lunedì, prima di mezzanotte, i cosacchi erano dispersi ed in fuga, avevano abbandonato l'artiglieria. L'esercito del proletariato, avanzando allora su tutto il fronte, entrò a Zarskoie prima che il nemico potesse distruggere la grande stazione di T.S.F., dalla quale i commissari di Smolni lanciarono subito al mondo un inno di trionfo...
II 12 novembre, in un combattimento accanito svoltosi nei pressi di Zarskoie-Selo, l'esercito rivoluzionario ha completamente sconfitto le truppe controrivoluzionarie di Kerenski e di Kornilov. A nome del governo rivoluzionario, ordino a tutti i reggimenti di proseguire la lotta contro i nemici della democrazia rivoluzionaria e di prendere tutti i provvedimenti necessari per arrestare Kerenski e per impedire la ripetizione di avventure simili, che minacciano le conquiste della rivoluzione e il trionfo del proletariato!
Il Comandante in capo delle truppe operanti contro Kerenski: Muraviov.
Notizie dalla
provincia...
A Sebastopoli, il Soviet locale aveva
preso il potere; in un immenso comizio gli equipaggi delle corazzate che si
trovavano nel porto, avevano costretto i loro ufficiali a giurare obbedienza al
nuovo governo. Anche a Nijni-Novgorod il Soviet era padrone del potere.
Da Kazan si annunciavano combattimenti nelle strade tra gli junker ed
una brigata di artiglieria da una parte e la guarnigione bolscevica
dall'altra.
Una lotta disperata era di nuovo ingaggiata a Mosca. Gli junker e le guardie bianche che tenevano il Kremlino ed il centro della città erano assalite da ogni parte dalle truppe del Comitato rivoluzionario. L'artiglieria sovietica era piazzata sulla piazza Skobelev, donde bombardava la Duma municipale, la prefettura di polizia e l'albergo Metropol. Si erano tolti i selciati della Tverscaia e della Nikitscaia per scavare delle trincee e innalzare le barricate. Una tempesta di proiettili di mitragliatrici spazzava i quartieri delle grandi banche e delle ditte commerciali. Non vi era più luce; non vi erano comunicazioni telefoniche; la popolazione borghese viveva nelle cantine. L'ultimo bollettino annunciava che il Comitato militare rivoluzionario aveva intimato un ultimatum al Comitato di Salute Pubblica, esigendo la resa immediata del Kremlino sotto la minaccia di bombardarlo.
— Bombardare il Kremlino! — si esclamava. — Non oseranno mai!
Da Volodga a Cita, all'altra estremità della Siberia, da Pskov a Sebastopoli, sul Mar Nero, nelle grandi città come nei piccoli villaggi, salivano le fiamme della guerra civile. Da mille officine, da mille comuni contadini, dai reggimenti e dalle navi, dagli eserciti e dal mare affluivano a Pietrogrado i saluti di benvenuto al governo del popolo.
Il governo cosacco di Novocerkassk telegrafò a Kerenski:
Anche la Finlandia cominciava a muoversi. Il Soviet di Helsingfors ed il Zentroball (Comitato centrale della flotta del Baltico) proclamarono lo stato d'assedio e dichiararono che ogni tentativo di ostacolare l'azione delle forze bolsceviche od ogni resistenza armata agli ordini del Consiglio dei commissari del popolo sarebbero stati severamente repressi. Nello stesso tempo l'Unione dei ferrovieri di Finlandia dichiarò lo sciopero generale in tutto il paese per ottenere l'applicazione delle leggi votate dalla Dieta socialista del giugno 1917, che era stata sciolta da Kerenski.
Il mattino seguente mi recai di buon'ora a Smolni. Mentre passavo sul marciapiedi di legno che conduceva dalla cancellata esterna al palazzo, caddero dal cielo grigio i primi fiocchi di neve, tenui ed esitanti.
— La neve! — gridò il soldato di sentinella con una smorfia di piacere. — Niente di meglio per la salute!
Nell'interno, i lunghi corridoi scuri e le sale tristi sembravano abbandonate. Nell'enorme edificio nessuno si muoveva. Un rumore sordo, strano, colpì le mie orecchie e, guardandomi intorno, vidi ovunque sul pavimento, lungo i muri, degli uomini che dormivano: degli esseri rudi, sporchi, degli operai e dei soldati, veri mucchi di fango, allungati isolatamente o a mucchi negli atteggiamenti indifferenti della morte. Qualcuno aveva delle fasciature strappate e sporche di sangue. Fucili e cartucciere giacevano sul suolo... Avevo davanti l'esercito vittorioso del proletariato!
Al buffet del primo piano erano così ammassati che si poteva passare a stento. L'aria era viziata. Una luce pallida filtrava dai vetri appannati. Sul banco, accanto a un samovar ammaccato, freddo, tra i bicchieri che contenevano ancora del fondaccio di tè, vidi un numero capovolto dell'ultimo bollettino del Comitato militare rivoluzionario. L'ultima pagina era tutta coperta di scarabocchi. Era l'eloquente ricordo che uno dei soldati rivolgeva ai compagni caduti nella lotta contro Kerenski, nel momento in cui il sonno lo aveva colto. Delle lacrime, sembrava, erano cadute sulla ca rta...
Questi uomini sono stati chiamati sotto le armi il 15 novembre 1916. Solo tre sono ancora in vita:
Michele Berscikov. Alexei Vokressenski. Dimitri Leonski.
Dormite, aquile delle battaglie!
Riposi la vostra anima in pace,
Perché voi avete meritato, o fratelli,
felicità e riposo eterni...
Solo il Comitato militare rivoluzionario non dormiva e lavorava senza tregua. Skrypnik uscì dall'ultima stanza ed annunziò che Gotz era stato arrestato, ma che aveva categoricamente negato di aver firmato, come Avxentiev, il proclama del Comitato di Salute. Il Comitato di Salute, a sua volta, aveva ripudiato l'appello alla guarnigione. Skrypnik aggiunse che si incontrava ancora qualche ostilità tra i reggimenti della città; cosi il reggimento Volynski aveva rifiutato di marciare contro Kerenski.
Parecchi distaccamenti di truppa «neutrali», diretti da Cernov, si trovavano a Gacina, dove tentavano di persuadere Kerenski a rinunciare alla marcia su Pietrogrado.
Skrypnik scoppiò in
una risata.
— Non vi possono più essere dei «
neutrali», adesso, — disse — Abbiamo vinto!
Un'esaltazione quasi religiosa
illuminava il suo viso barbuto, dai lineamenti marcati.
— Più di sessanta delegati sono
arrivati dal fronte portandoci l'assicurazione della collaborazione di tutti
gli eserciti, eccetto che dal fronte rumeno di cui non sappiamo nulla. I
Comitati dell'esercito fermano tutte le notizie che arrivano loro da
Pietrogrado, ma noi abbiamo organizzato un servizio regolare di corrieri.
Al pianterreno
incontrammo Kamenev, che giungeva allora; era estenuato dalla seduta notturna
della «Conferenza per la formazione di un nuovo governo», ma felice.
— I socialisti-rivoluzionari sono ormai
favorevoli alla nostra partecipazione al nuovo governo, — mi disse. — I gruppi
di destra sono terrorizzati dai tribunali rivoluzionari e reclamano il loro
scioglimento... Abbiamo accettato la proposta del Vikiel di formare un
ministero socialista omogeneo; è la questione di cui ci si occupa
in questo momento. Tutto questo è il frutto
della nostra vittoria. Quando noi eravamo i più deboli, non volevano trattare
con noi, a nessun costo, adesso, sono tutti favorevoli all'intesa con i Soviet.
Ma noi abbiamo bisogno di una vittoria veramente decisiva. Kerenski vuole
l'armistizio; è necessario che capitoli...
Tale era lo stato d'animo dei capi bolscevichi. Ad un giornalista straniero che gli domandava una dichiarazione, Trotsky rispose: «La sola dichiarazione possibile in questo momento è quella che facciamo con la bocca dei nostri cannoni!».
Ma sotto quest'aria di vittoria si nascondeva una reale ansietà, causata dalla questione finanziaria. Invece di aprire le banche, ubbidendo all'ordine del Comitato militare rivoluzionario, il sindacato degli impiegati di banca aveva tenuto un comizio e s'era messo in sciopero. Smolni aveva chiesto circa trentacinque milioni di rubli alla Banca di Stato, ma il cassiere aveva chiuso le casseforti e non concedeva pagamenti che ai rappresentanti del governo provvisorio. I reazionari si servivano della Banca li Stato come di un'arma politica; così quando il Vikiel domandò del denaro per pagare gli stipendi agli impiegati delle Ferrovie follo Stato, gli si rispose di rivolgersi a Smolni...
Mi recai alla Banca di Stato per vedere il nuovo commissario, un bolscevico ucraino, dai capelli rossi, certo Petrovic. Egli cercava di rimettere l'ordine nel caos in cui gli scioperanti avevano lasciato gli affari. In tutti gli uffici dell'immenso edificio, dei volontari, operai, soldati, marinai, stanchi, sudando sangue ed acqua, impallidivano sui grandi libri...
Il palazzo della Duma era affollatissimo. Si sentiva ancora qualche sfida isolata al nuovo governo, ma sempre più raramente. Il Comitato agrario centrale aveva lanciato un appello ai contadini per ordinare loro di non riconoscere il Decreto sulla terra del Congresso dei Soviet, con il pretesto che esso avrebbe provocato la guerra civile. Il sindaco Schreider annunciò che, in seguito all'insurrezione bolscevica, sarebbe stato necessario rinviare, ad una data indeterminata, le elezioni all'Assemblea Costituente. Sembrava che due preoccupazioni dominassero gli animi, sconvolti dalla ferocia della guerra civile: metter fine allo spargimento di sangue e creare un nuovo governo. Non si parlava più di «schiacciare i bolscevichi»; anche della loro esclusione dal governo, si parlava quasi soltanto, ormai, negli ambienti socialisti popolari e nei Soviet contadini. Lo stesso Comitato centrale dell'esercito, il nemico più deciso di Smolni, telefonò da Moghilev: «Se per costituire il nuovo ministero, è necessaria un'intesa coi bolscevichi, noi acconsentiamo alla loro ammissione, in minoranza, nel gabinetto».
La Pravda richiamò ironicamente l'attenzione dei suoi lettori sui «sentimenti umanitari» di Kerenski, pubblicando il suo messaggio al Comitato di Salute:
Kerenski.
Il Vikiel lanciò il seguente telegramma a tutta la Russia:
La Conferenza mandò delle delegazioni al fronte, a Gacina. Alla Conferenza stessa la soluzione definitiva sembrava vicina. Essa aveva anche deciso di eleggere un Consiglio provvisorio del popolo, composto di circa 400 membri; 75 dovevano rappresentare Smolni, 75 il vecchio Zik ed il resto ripartirsi tra la Duma municipale, i sindacati, i Comitati agrari ed i partiti politici. Cernov era designato come Presidente del Consiglio. Lenin e Trotsky, si diceva, sarebbero stati esclusi...
Verso mezzogiorno, mi trovai davanti a Smolni a parlare con lo chauffeur di un'ambulanza che partiva per il fronte rivoluzionario. Gli chiesi di accompagnarlo ed egli accettò. Era un volontario, studente di università. Mentre l'automobile correva, mi parlava sopra la spalla in un pessimo tedesco: «Also, gut: Wir nach die ksernen zu essen gehen». Indovinai che dovevamo certamente mangiare in qualche caserma.
Giunti nella Kirotscnaia entrammo in un cortile immenso circondato da edifici militari e, per una scala oscura, salimmo fino a una camera bassa, rischiarata da una sola finestra. Seduti attorno a una lunga tavola di legno, una ventina di soldati mangiavano, con cucchiai di legno, la zuppa di cavoli, servita in una catinella di ferro bianco, pur continuando a parlare ed a ridere animatamente.
— Salute al Comitato del 6° battaglione di riserva del Genio! — gridò il mio compagno, e mi presentò come un socialista americano. Tutti si alzarono per stringermi la mano; un vecchio soldato mi abbracciò. Mi diedero un cucchiaio di legno e mi misi a tavola. Fu portata un'altra catinella piena di kascia, un'enorme pagnotta di pane nero e le inevitabili teiere. E subito cominciarono a farmi domande sull'America. Era vero che, in quel paese libero, i cittadini vendevano i voti per denaro? Come ottenevano allora ciò che volevano? E la «Tammany-Hall »? Era vero che in un paese libero, un piccolo gruppo di uomini poteva dominare tutta una città e sfruttarla per il suo profitto? Perché il popolo tollerava ciò? In Russia, anche sotto lo zar, fatti simili erano impossibili; la corruzione vi era certamente sempre stata, ma comprare e vendere un'intera città coi suoi abitanti! In un paese libero! Il popolo non aveva dunque alcuno spirito rivoluzionario?
Cercai di spiegare come, nel mio paese, il popolo cercasse di realizzare le riforme per mezzo di leggi.
— Molto bene, —
disse un giovane sergente, certo Baklanov, che parlava francese, — ma con la
forza che possiede la vostra classe capitalista, essa deve esercitare il suo
controllo sulla legislazione e sulla giustizia; come può allora il popolo
ottenere delle riforme? Vorrei lasciarmi convincere, perché io non conosco il
paese, ma ciò mi sembra incredibile...
Dissi che andavo a Zarskoie-Selo.
— Anch'io, — aggiunse bruscamente
Baklanov.
— Anch'io... anch'io...
Tutti decisero, immediatamente di recarsi a Zarskoie-Selo. In quell'istante
qualcuno bussò. Si aprì la porta e comparve il colonnello. Nessuno si alzò, ma
grida di benvenuto lo accolsero.
— Si può entrare? — domandò il colonnello.
— Ma certamente, entrate pure, —
risposero cordialmente.
Alto, distinto, con il berretto di pelliccia gallonato d'oro, il colonnello
entrò, sorridente.
— Voi dicevate, mi sembra, compagni,
che volete andare a Zarskoie-Selo? Posso accompagnarvi?
Baklanov pensò un istante.
— Mi sembra che non ci sia niente da
fare qui, oggi, — rispose. — Certamente, compagno, saremo felicissimi di avervi
con noi.
Il colonnello ringraziò, e, sedendosi,
si versò un bicchiere di té.
A bassa voce, per non ferire l'amor
proprio del colonnello, Baklanov mi spiegò:
— Io sono il presidente del Comitato; abbiamo noi la direzione assoluta del battaglione, eccetto che per le operazioni, per le quali noi deleghiamo il comando al colonnello. Tutti devono allora obbedire ai suoi ordini, ma egli è responsabile davanti a noi. In caserma egli non può fare nulla senza consultarci... In un certo senso è un esecutore d'ordine...
Ci distribuirono le armi, revolver e fucili — potevamo incontrare i cosacchi; poi ci stringemmo nell'ambulanza accanto a tre enormi pacchi di giornali, destinati al fronte. Filammo diritto per la Liteini, poi per la Zagorodni. Ero seduto accanto ad un giovanotto che portava distintivi di tenente e che sembrava parlare, con eguale facilità, tutte le lingue d'Europa. Faceva parte del Comitato del battaglione.
— Non sono
bolscevico, — mi disse energicamente. — La mia famiglia è di nobiltà
antichissima. Io sono, diciamo, un cadetto...
— Perché allora? — interruppi, sorpreso.
— Eppure sono membro del Comitato. Non nascondo le mie opinioni politiche, ma
gli altri non vi danno importanza perché sanno che non credo che sia bene
resistere alla vostra maggioranza... Non ho voluto prendere parte a questa
guerra civile, perché non credo utile prendere le armi contro i miei fratelli
russi.
— Provocatore! Kornilovista! — gli gridarono gli altri scherzando e
battendogli sulla spalla.
Dopo aver varcato l'arco di trionfo della Porta di Mosca, monumento colossale di pietra grigia, ornato di geroglifici d'oro, di enormi aquile imperiali e dei nomi degli zar, ci inoltrammo sulla larga strada diritta, bianca per la prima neve. Era ingombra di guardie rosse a piedi. Gli uni, cantando, si recavano sul fronte rivoluzionario; gli altri ne ritornavano, coperti di fango, il viso ferreo. La maggior parte sembravano dei ragazzi. Vi erano anche donne con delle vanghe; alcune avevano fucili e cartucce; altre portavano i bracciali della Croce Rossa; donne dei tuguri, curve e fiaccate dal lavoro. Gruppi di soldati, che non si curavano di andare al passo, scherzavano amichevolmente con le guardie rosse. Vi erano anche dei marinai dalla faccia severa, dei ragazzi che portavano da mangiare ai parenti e tutti sguazzavano nel fango biancastro, spesso parecchi centimetri, che ricopiava la strada. Oltrepassammo dell'artiglieria, che si dirigeva verso il sud con un gran rumore di ferraglia; dei camion si incrociavano, irti di uomini armati; delle ambulanze, cariche di feriti, tornavano dal campo di battaglia; vedemmo un carretto da contadino, che avanzava traballante e sul quale un giovanotto, ferito al ventre, si teneva piegato in due, pallido e gemente di dolore. Nei campi, dalle due parti della strada, donne e vecchi scavavano le trincee e disponevano i reticolati di filo di ferro spinato.
Le nubi correvano drammaticamente verso il nord. Bruscamente apparve un sole livido. Pietrogrado scintillava all'altra estremità della pianura pantanosa: a destra risplendevano le cupole a bulbo e le guglie bianche, dorate, multicolori; a sinistra, le alte ciminiere vomitavano il loro fumo nero; nello sfondo, un cielo basso pesava sulla Finlandia. Chiese e monasteri sfilavano da ciascun lato della strada. Qualche volta vedevamo un monaco che sorvegliava, silenzioso, il polso dell'esercito proletario...
A Pulkovo, la strada si biforcava; ci fermammo in mezzo ad una folla, nella quale si fondevano tre correnti umane. Degli amici si ritrovavano, contenti, si felicitavano, si descrivevano scambievolmente la battaglia. Alcune case, nel crocicchio, portavano le tracce di proiettili e la terra era calpestata per una lega all'intorno. La battaglia qui aveva infierito... a qualche distanza, dei cavalli cosacchi, senza cavalieri, correvano da molto tempo attorno, in cerca di nutrimento, perché l'erba era scomparsa dalla pianura. Dinanzi a noi una guardia rossa tentava di montarne uno, ma cadeva continuamente con grande divertimento di un migliaio di quei grandi ragazzi.
La strada di sinistra, per la quale i cosacchi sopravvissuti avevano battuto in ritirata, conduceva, attraverso un piccolo sperone, ad un casolare donde si godeva il panorama grandioso dell'immensa pianura, grigia come un mare senza vento, dominata dall'accavallamento tumultuoso delle nuvole, e della città imperiale, che rovesciava le sue migliaia di uomini per tutte le strade. Nel fondo, sulla sinistra, si trovavano la piccola collina di Krasnoie-Selo, il campo di parata della guardia e la villa imperiale. Nulla rompeva la monotonia della pianura, eccetto alcuni monasteri e conventi circondati da muri, alcune officine isolate ed alcuni grandi edifici con le terre coltivate, degli asili e degli orfanotrofi.
— È qui, — disse lo chauffeur, mentre salivamo una collina, nuda, — è qui che è morta Vera Slutskaia. Sì, la deputatessa bolscevica della Duma. Era di mattina, presto. Era in automobile con Zaldkind e con qualche altro. Si era fatta una tregua e si recavano al fronte. Parlavano e ridevano quando bruscamente, dal treno blindato sul quale si trovava Kerenski stesso, qualcuno, vedendo l'automobile, sparò un colpo di fucile. Il proiettile colpì Vera Slutskaia, uccidendola sul colpo...
Arrivammo a Zarskoie, animatissima per l'agitazione turbolenta degli eroi dell'esercito proletario. Nel palazzo, dov'era installato il Soviet, ferveva la più grande attività. Guardie rosse e marinai occupavano il cortile, le sentinelle custodivano le porte ed un'ondata ininterrotta di corrieri e di commissari entrava e usciva. Nella sala del Soviet, attorno ad un samovar, una cinquantina di operai, di soldati, di marinai e di ufficiali, discutevano rumorosamente, bevendo il té. In un angolo due operai, maldestri, cercavano di servirsi di un ciclostile. Alla tavola di mezzo, l'immenso Dibenko era curvo sulla carta, segnando con matite rosse e blu le posizioni da occupare. La sua mano libera serrava, come sempre, il suo enorme revolver di acciaio blu. Improvvisamente si sedette davanti ad una macchina da scrivere e cominciò a picchiettare con un dito; ogni tanto si fermava, prendeva il suo revolver e giocava amorosamente con il grilletto.
Su un giaciglio,
lungo il muro, era coricato un giovane operaio. Due guardie rosse stavano
curve su di lui, ma nessun altro gli badava. Aveva un buco nel petto; ad ogni
battito del cuore, il sangue scorreva attraverso i vestiti. I suoi occhi erano
chiusi e il giovane viso, barbuto, era verdastro. Respirava ancora debolmente,
lentamente, ripetendo a ciascun soffio, in un sospiro:
— La pace viene! La pace!
Dibenko alzò gli
occhi quando noi entrammo:
— Ah! — disse rivolgendosi a Baklanov.
— Compagno, andate all'ufficio del comandante e assumete il comando. Aspettate;
vi do io un ordine di servizio.
Andò alla macchina e si mise a scrivere cercando le lettere.
Mi recai al Palazzo di Caterina, accompagnato dal nuovo comandante di Zarskoie-Selo. Baklanov era eccitatissimo e tutto contento della sua importanza. Nell'elegante sala bianca, che io conoscevo già, alcune guardie rosse esaminavano il luogo, frugando dovunque curiosamente. Il mio vecchio amico, il colonnello, in piedi, accanto alla finestra, si mordicchiava i baffi. Mi accolse come un fratello alla fine ritrovato. Il francese di Bessarabia era seduto ad una tavola accanto alla porta. I bolscevichi gli avevano ordinato di rimanere e di continuare il suo lavoro.
— Che cosa potevo fare? — mi sussurrò. — Uomini come me non possono battersi né da una parte né dall'altra in una guerra come questa, qualunque sia il disgusto istintivo che noi proviamo per la dittatura della massa... Mi rincresce solo di essere così lontano da mia madre e dalla Bessarabia.
Il colonnello dovette rimettere ufficialmente il comando a
Baklanov.
— Ecco, — gli disse nervosamente, — le chiavi dell'ufficio.
Una guardia rossa l'interruppe.
— Dov'è il denaro? — domandò brutalmente.
Il colonnello parve sorpreso.
— Il denaro? Che denaro? Ah! voi volete parlare della cassaforte? Eccola, come
l'ho trovata quando ho preso il comando, tre giorni fa.
— Le chiavi?
Il colonnello alzò le spalle.
— Non ci sono le chiavi.
La guardia rossa sogghignò, maliziosa.
— È molto comodo, — disse.
— Apriamo, — disse Baklanov. — Andate a cercare una scure. Il compagno
americano che è qui farà saltare lui stesso il coperchio e registrerà quello
che vi si troverà.
Brandii la scure... La cassaforte era vuota.
— Bisogna arrestarlo, — gridò la guardia rossa, con accento di odio. — È un
partigiano di Kerenski. Ha rubato il denaro e l'ha consegnato a Kerenski.
Ma Baklanov non era di questo parere.
— No, no, — disse, — è il kornilovista che era qui prima di lui. Lui non è
colpevole.
— Ma Dio buono! — replicò la guardia rossa. — Vi dico che lui è per Kerenski.
Se non volete arrestarlo, ce ne incaricheremo noi. Lo condurremo a Pietro e
Paolo. È il suo posto!
Le altre guardie rosse fecero sentire un mormorio di consenso il colonnello,
che gettava verso di noi degli sguardi che chiedevano pietà, fu condotto via...
Davanti al palazzo dei Soviet, un camion si preparava a partire il fronte. Una mezza dozzina di guardie rosse, alcuni marinai ed un paio di soldati, comandati da un operaio dalla figura gigantesca, si arrampicarono gridandomi di salire con loro. Le guardie rosse, che uscivano dal Quartier generale con le braccia piene di piccole bombe cariche di grubit, esplosivo, dicevano, dieci volte più violento e cinque più pronto della dinamite, gettarono i loro ordigni nell'autocarro. Poi un cannone da tre pollici, caricato, fu attaccato dietro il veicolo per mezzo di corde e li filo di ferro.
In mezzo alle esclamazioni partimmo a tutta velocità. Il pesante autocarro si gettava da destra a sinistra, il cannone ballonzolava sulle ruote e le bombe di grubit ci rotolavano sui piedi andando ad urtare, rumorosamente, i fianchi dell'autocarro.
L'operaio gigantesco, che si chiamava Vladimiro Nicolaievic, ci opprimeva di domande sull'America. Perché l'America aveva fatto la guerra? Gli operai americani erano pronti ad abbattere i capitalisti? A che punto era il processo Mooney? Berkman sarebbe stato consegnato a San Francisco? Cento altre questioni di questo genere, molto imbarazzanti, urlate a piena voce per superare fracasso dell'autocarro, mentre ci tenevamo aggrappati gli uni agli altri, sballottati in mezzo al rotolare delle bombe.
Qualche volta una pattuglia voleva fermarci. I soldati si
mettevano in mezzo alla strada e gridavano: «Alto là!».
— Andate al diavolo! — rispondevano le guardie rosse. — Noi non ci fermiamo!
Siamo delle guardie rosse.
E proseguivano fieramente la nostra corsa, mentre Vladimiro Nicolaievic mi urlava nell'orecchio qualche riflessione a proposito dell'internazionalizzazione del canale di Panama o qualche cosa simile.
A cinque miglia circa da Zarskoie, incrociando una squadra
di marinai che ritornavano, ci fermammo.
— Dov'è il fronte, fratelli?
Colui che marciava in testa si fermò e si grattò:
— Questa mattina — disse — era a
cinquecento metri di qua. Adesso non è più in nessuna parte, l'animale. Noi
abbiamo inutilmente camminato e camminato; è impossibile trovarlo!
Salirono con noi e ripartimmo. Dopo un
miglio Vladimiro Nicolaievic tese l'orecchio e gridò al conducente di fermare.
— Colpi di fucile, — disse. — Sentite?
Per qualche minuto, un silenzio di morte. Poi un poco avanti e sulla sinistra tre detonazioni risuonarono, una dopo l'altra. Una spessa foresta fiancheggiava la strada dalle due parti. Attentissimi riprendemmo la marcia lentamente, parlando a voce bassa. All'altezza del luogo dove si era sparato, scendemmo e, poi, schierati entrammo, cauti, nella foresta.
Frattanto due compagni staccavano il cannone e lo mettevano in posizione; naturalmente lo puntarono in pieno su di noi.
Il silenzio regnava nel bosco. Le foglie erano cadute ed i tronchi erano giallastri sotto il debole ed obliquo sole d'autunno. Nulla si muoveva, solo il ghiaccio delle piccole pozzanghere scricchiolava sotto i nostri passi. Era un'imboscata? Marciammo senza nulla incontrare fino a che gli alberi si diradarono; poi ci fermammo. A qualche distanza, in una piccola radura, tre soldati, assolutamente noncuranti, erano seduti attorno ad un fosso.
Vladimiro
Nicolaievic avanzò verso di loro.
— Buongiorno, compagni! — gridò con la
sicurezza che danno un cannone, venti fucili ed una provvista di grubit, pronti
ad entrare in azione, I soldati scattarono in piedi.
— Perché si sono sparate delle
fucilate, qui, un momento fa?
Rassicurato, uno dei soldati rispose:
— Oh! siamo stati noi, compagni, che
abbiamo sparato su un paio di conigli.
Il camion ripartì
nella direzione di Romanovo. Al primo crocicchio, due soldati ci si piantarono
davanti, brandendo i fucili. Rallentammo, poi fermammo.
— I vostri lasciapassare, compagni?
Le guardie rosse cominciarono ad
urlare.
— Noi siamo delle guardie rosse. Non
abbiamo bisogno di lasciapassare... Avanti! Non seccateci!...
Ma un marinaio osservò:
— Noi facciamo male, compagni! Bisogna
rispettare la disciplina rivoluzionaria. Supponete che dei controrivoluzionari
arrivino in camion e dicano: «Noi
non abbiamo bisogno di lasciapassare». I compagni non ci conoscono.
Cominciò una
discussione. Tuttavia ad uno ad uno marinai soldati si persuasero. Mormorando,
tirarono fuori le loro carte sudice. Erano tutte eguali, eccetto la mia,
rilasciatami dallo Stato Maggiore rivoluzionario di Smolni. Le sentinelle mi
ordinarono di seguirle. Le guardie rosse protestarono energicamente, ma il
marinaio che aveva parlato prima, dichiarò:
— Noi sappiamo perfettamente che questo compagno è un vero compagno!. Ma vi
sono degli ordini del Comitato, ai quali si deve obbedire. È la disciplina
rivoluzionaria...
Per non creare difficoltà, discesi. Guardai l'autocarro che si allontanava sulla strada: tutti mi facevano dei segni di addio. I soldati discussero un momento a voce bassa, poi mi condussero verso un muro, contro il quale mi collocarono. Di colpo compresi: volevano fucilarmi
Nessuno in vista. Il
solo segno di vita era un filo di fumo che alzava da una casetta di legno, ad
un quarto di miglio sulla rada. I due soldati si diressero verso la strada.
Disperatamente, li seguii.
— Ma, compagni, guardate! Ecco il
timbro del Comitato militare rivoluzionario.
Fissarono con occhio ebete il mio
lasciapassare, poi si guardarono.
— Non è come gli altri, — disse uno di
loro, testardo. — Noi n sappiamo leggere, fratello.
Lo presi per il braccio.
— Andiamo, — gli risposi, — fino a
quella casa; vi sarà certamente qualcuno che sa leggere.
Esitarono.
— No, — disse uno.
L'altro mi squadrò.
— Perché no? — borbottò. — È sempre un grande delitto uccidere un innocente.
Andammo così fino alla porta della casa
e bussammo.
Una piccola donna grassa venne ad
aprire e si tirò subito indietro, spaventata.
— Non so nulla, non li ho visti, —
cominciò a balbettare.
Una delle sentinelle le tese il mio lasciapassare. La donna
gettò un grido.
— Vogliamo solo che voi ci leggiate
questo!, compagna.
Esitante essa prese la carta e lesse molto svelta:
Nel crepuscolo che si oscurava rapidamente, riprendemmo a sguazzare sulla strada fangosa. Ogni tanto incontravamo dei gruppi di soldati; si fermavano, circondandomi e minacciandomi con gli sguardi, e facevano circolare tra di loro il mio lasciapassare discutendo se si doveva o no fucilarmi.
Era ormai notte quando arrivammo alla caserma del style="mso-spacerun: yes"> 2° fucilieri di Zarskoie-Selo, dove la via maestra era fiancheggiata da costruzioni basse. I soldati che passeggiavano davanti alle porte si affrettarono a fare un mucchio di domande. Una spia? Un provocatore? Salimmo una scala a chiocciola ed arrivammo in una grande sala nuda. Una enorme stufa ne occupava il centro e, su dei giacigli o sul suolo, un migliaio di soldati giocavano. Nel soffitto, i cannoni di Kerenski avevano aperto una larga breccia.
Mi fermai sulla
porta: si fece di colpo silenzio nei gruppi che si volsero verso di me.
Cominciarono quindi a muoversi, dapprima adagio, lanciandosi poi con un rumore
di tuono, con i visi pieni d'odio.
— Compagni! compagni! — gridava uno dei
miei guardiani. — Comitato! Comitato!
Si fermarono, serrandosi, attorno a me
e mormorando. Un giovanotto, che portava un bracciale rosso, si aprì il passo.
— Che cosa c'è? — domandò rudemente.
Le sentinelle spiegarono.
— Fatemi vedere questo lasciapassare.
Dopo averlo letto attentamente, mentre mi lanciava delle rapide occhiate,
sorrise e mi porse la carta.
— Compagni, è un compagno americano.
Sono il presidente del Comitato e vi do il benvenuto nel nostro reggimento...
Si alzò un sospiro generale di
sollievo, che si trasformò subito in un ruggito di benvenuto. Tutti si urtavano
per stringermi la mano.
— Non avete ancora cenato? Noi abbiamo
già mangiato. Vi conduciamo nella sala degli ufficiali: qualcuno sa la vostra
lingua.
Mi condussero
attraverso il cortile fino alla porta di un altro edificio. In quel momento
stava entrando un giovanotto, dal viso
aristocratico, che portava i distintivi di tenente. Il presidente mi
presentò e, dopo una stretta di mano, si allontanò:
— Mi chiamo Stepan Georgevic Morovski.
Sono a vostra completa disposizione, — mi disse il tenente in ottimo francese.
Dal vestibolo, riccamente decorato, un sontuoso scalone, rischiarato da specchi scintillanti, conduceva al secondo piano, dove si aprivano sul pianterreno delle sale da biliardo, delle sale da gioco ed una biblioteca. Entrammo nella sala da pranzo: al centro, attorno ad una lunga tavola, avevano preso posto una ventina di ufficiali: erano in grande uniforme, con le spade dalle impugnature d'oro e d'argento, i nastri e le croci degli ordini imperiali. Tutti si alzarono cortesemente al mio ingresso. Mi fu assegnato un posto accanto al colonnello, un uomo di alta statura e di aspetto imponente, dalla barba brizzolata. Ordinanze rigide ed eleganti servivano il pranzo. L'atmosfera era quella di tutte le mense di ufficiali di Europa. Dov'era dunque la rivoluzione?
— Voi non siete bolscevichi? — domandai a Morovski.
Un sorriso girò attorno alla tavola, ma sorpresi uno o due sguardi furtivi
verso le ordinanze.
— No, — rispose il mio amico. — Vi è un solo ufficiale bolscevico nel
reggimento. È a Pietrogrado, questa sera. Il colonnello è menscevico, il
capitano Kerlov, laggiù, è cadetto. Io sono un S.R. di destra... Credo che la
maggioranza degli ufficiali dell'esercito non sono bolscevichi, ma, come me,
democratici; pensano che devono seguire la massa dei soldati...
Dopo il pranzo, vennero portate delle carte che il
colonnello spiegò sulla tavola. Tutti gli si raggrupparono intorno.
— Ecco, — disse il colonnello, indicando dei segni di matita, — dove si
trovavano le nostre posizioni questa mattina. Vladimiro Kirillovic, dov'è la
vostra compagnia?
Il capitano Kerlov mise il dito sulla carta.
— Secondo gli ordini, ci siamo stabiliti sul fianco di questa strada. Karsavin
mi ha dato il cambio alle cinque.
In quel momento la porta si aprì ed entrò il presidente del
Comitato di reggimento, seguito da un altro soldato. Si unirono al gruppo che
circondava il colonnello e seguirono la discussione sulla carta.
— Bene, bene! I cosacchi si sono ritirati per dieci chilometri nel nostro
settore. Non credo che sia necessario occupare delle posizioni avanzate.
Perciò, signori, tenete questa notte la linea attuale, rafforzando le posizioni
con...
— Permettete, — interruppe il presidente del Comitato. — Gli ordini prescrivono
di portarsi avanti con la massima rapidità e di prepararsi ad ingaggiare la
battaglia con i cosacchi al nord di Gacina, domani mattina. Abbiamo
assolutamente bisogno di una vittoria schiacciante. Vogliate prendere le
disposizioni necessarie.
Seguì un breve silenzio. Il colonnello si rivolse verso la carta.
— Benissimo, — disse in tono diverso. — Stepan Georgevic per favore...
Tracciando rapidamente nuovi segni con la matita blu, diede gli ordini, che un
sergente stenografava. Poi il sergente uscì e, dopo dieci minuti, riportò due
copie dattilografate degli ordini.
Il presidente del Comitato ne prese una copia e si mise a
studiare la 7.0pt'>carta.
— Benissimo, — disse alzandosi. — Piegò il foglio e se lo mise in tasca, poi, dopo
aver firmato l'altro e dopo averlo timbrato con un sigillo rotondo che aveva
con sé, lo consegnò al colonnello.
Adesso, riconoscevo la rivoluzione!
Tornai al Palazzo del Soviet nell'automobile dello Stato Maggiore del reggimento. Sempre la stessa folla di operai, di soldati e di marinai che entravano ed uscivano, sempre lo stesso ammucchiarsi di autocarri, di autoblindate, di cannoni, davanti alla porta e dovunque la gioia traboccante della vittoria attesa da sì lungo tempo. Una decina di guardie rosse, che aveva in mezzo un prete, si apriva il passo. Era il padre Ivan che aveva, dicevano, benedetto i caosacchi alla loro entrata nella città. Seppi dopo che era stato fucilato.
Dibenko usciva, dando rapidi ordini a destra ed a sinistra. Aveva in mano il suo grosso revolver. Una automobile lo aspettava accanto al marciapiede con il motore in marcia. Prese posto, solo, nel sedile posteriore. Andava a Gacina a battere Kerenski.
Al cadere della notte egli arrivò alle prime case della città e continuò a piedi. Ciò che Dibenko disse ai cosacchi nessuno lo sa, ma il fatto è che il generale Krasnov ed il suo Stato Maggiore, insieme con parecchie migliaia di cosacchi, si arresero e diedero a Kerenski il consiglio di fare lo stesso.
Per quanto riguarda Kerenski, riprodurrò qui la deposizione fatta dal generale Krasnov il mattino del 14 novembre:
Uscii, chiamai il cosacco Russakov, del X reggimento del Don e gli ordinai di designare otto cosacchi per scortare il Comandante supremo. Dopo mezz'ora i cosacchi vennero a dirmi che non trovavano più Kerenski e che era scappato. Diedi l'allarme ed ordinai di ricercarlo supponendo che non avesse potuto fuggire da Gacina e che dovesse nascondersi in qualche angolo. Ma fu impossibile ritrovarlo.
Così scappò Kerenski, solo, travestito da marinaio, perdendo gli ultimi resti della popolarità, che aveva potuto conservare fra le masse russe...
Ritornai a Pietrogrado sul sedile anteriore di un autocarro, guidato da un operaio e carico di guardie rosse. Siccome non avevamo petrolio, le lanterne non erano accese. La strada era ostruita dall'esercito proletario che andava a riposarsi e dalle riserve che venivano a dargli il cambio. Camion enormi, colonne di artiglieria, carri, senza lanterne come noi, sorgevano nella notte. Filavamo nella notte, malgrado tutto, con una velocità indiavolata, gettandoci a destra ed a sinistra, sfuggendo a collisioni che sembravano inevitabili, urtando altre ruote, seguiti dalle ingiurie di pedoni.
All'orizzonte scintillavano le luci della capitale, incomparabilmente più bella di notte che di giorno, come una diga di pietre preziose che tagliasse la pianura nuda.
Il vecchio operaio
teneva il volante con una mano e con l'altra indicava, in un gesto allegro, la
capitale che brillava lontano.
— Tu sei mia! — gridava, il viso tutto illuminato. — Tu sei mia adesso, mia
Pietrogrado!
NOTE
1. apotheosis and millennium without end – letteralmente “apoteosi e millennio infiniti”, in senso figurato “apoteosi e giustizia e prosperità infinite”
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Ultima modifica 2.2.2004