Raccolta di scritti pubblicata nel 1988
Trascitto da Ivan A., gennaio 2004
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PREMESSA
L'ora di Gramsci
Spontaneismo e ruolo della personalità
L'ora
di Gramsci
II destino di Gramsci,
meritato o no, non è certo da invidiarsi da tutti coloro che, insieme a lui,
hanno vissuto il tempo dell'ascesa rivoluzionaria nel clima infuocato della
Rivoluzione di Ottobre. La sua vicenda personale è divenuta, nelle mani di uno
spregiudicato apparato di partito, uno strumento di infezione ideologica e
politica per le nuove generazioni di combattenti che volevano far propria la
causa del proletariato e conoscere la teoria rivoluzionaria.
Diciamo subito che un conto è la sua vicenda umana che va ricordata nel quadro di una situazione eccezionalmente grave e dolorosa per il proletariato ma soprattutto per i militanti del partito comunista che erano in prima fila nella lotta contro il capitalismo fascista per dare una soluzione rivoluzionaria alla crisi che aveva investito le strutture economiche e politiche del primo dopoguerra, e un conto, invece, la sistematica e interessata strumentalizzazione del sacrificio di Gramsci per coprire una politica di capitolazione e di tradimento.
Il Gramsci messo in circolazione dagli uomini che siedono da padroni in via delle Botteghe Oscure è costruito su misura, proporzionalmente alla loro statura di politicanti che hanno bisogno d'un nome e di un sacrificio per farne motivo di pubblicità e di imbonimento di crani disposti al lavaggio, qualunque esso sia. Una tale bisogna, che dovrebbe suscitare ripugnanza, affatica invece biografi ed esegeti, storiografi ed agiografi, letterati e persino poeti che all'unisono hanno riempito e riempiono il mercato librario di quest'ultimo ventennio, a profitto di un partito che li mobilita, con la ricostruzione di un Gramsci di maniera, episodico e dal profilo ideologico tra i più deteriori.
Chi ha conosciuto molto da vicino Gramsci ed ha vissuto con lui l'epoca della sua maggiore maturità politica, approfondendo poi tale conoscenza con lo studio accurato ed obiettivo dei suoi scritti posteriori, non può concludere il suo giudizio che in un modo solo, quello cioè di non ritenere l'opera di Gramsci incentrata nel marxismo e realizzata con mente di marxista, con gli strumenti offerti dal suo metodo di interpretazione e con gli obiettivi che gli sono propri.
Se in lui era prevalente l'interesse per i problemi contingenti e l'urgenza per le soluzioni immediate e concrete, amava tuttavia idealizzare tutto ciò con fervida creatività quasi volesse equilibrare in tal modo la carica idealizzatrice con la fisica incapacità ad una seria e costante condotta realizzatrice.
Tra il materialismo dialettico e la filosofia generata dal mito, Gramsci era in apparenza per il primo, ma di fatto era legato per educazione, per gusto e per tendenza alla seconda. Ciò vuoi dire forse che la speculazione fatta e che si continua a fare, da parte dell'opportunismo, sulla personalità di Gramsci trova nella incompiutezza, nella insufficienza della sua elaborazione teorica e nell'empirismo delle sue indicazioni politiche la sua ragione d'essere e la sua giustificazione? Si può affermare che questa macabra vivisezione da tavolo anatomico dell'intellettualismo di "sinistra" su Gramsci in realtà ha trovato nel suo pensiero e nella sua opera vasta messe di presupposti e di prospettive inconciliabili col marxismo.
Alcune precisazioni, anche se affrettate, si rendono necessarie. Di fronte alla I Guerra Mondiale Gramsci non solo è indeciso sulla strada da prendere e non vede la reale natura della guerra, ma è incapace di sentire e giudicare il fenomeno stesso dell'imperialismo dall'angolo visuale di classe e della strategia rivoluzionaria negli stessi anni in cui Lenin e la Luxemburg portavano un contributo d'importanza fondamentale alla elaborazione della teoria rivoluzionaria sul problema della guerra.
Sempre sul problema della guerra, nel suo primo articolo apparso sul Grido del Popolo (ottobre 1914) Gramsci scriveva:
È questa posizione attivistica di "neutralità attiva ed operante" che porterà Mussolini alla teoria della guerra rivoluzionaria, preludio logico al fascismo, ma non porterà Gramsci né alla teoria né alla pratica del disfattismo rivoluzionario.
Del resto non è un mistero che non riuscisse a Gramsci di concepire il marxismo se non in chiave idealistica per essere egli rimasto ancorato allo storicismo crociano (la storia come creazione dello spirito) e al suo concetto della libertà. Nell'esaminare la rivoluzione d'ottobre (L’Avanti! 25 luglio 1918) Gramsci scriveva infatti che: «lo sviluppo storico è governato dal ritmo della libertà» la quale «è la forza immanente della storia che fa scoppiare ogni schema prestabilito».
La stessa inclinazione idealistica lo porta a vedere nei Consigli la possibilità obiettiva di precostituire sul tronco stesso del capitalismo le forme e gli istituti della società socialista, mentre rimaneva cieco e sordo di fronte alla necessità storica della formazione del partito rivoluzionario.
Il Gramsci posteriore, quale lo abbiamo conosciuto dal Congresso di Livorno a quello di Lione, dal delitto Matteotti alle leggi eccezionali, nel ruolo di capo-partito, è assai meno originale e meno conseguente.
Spontaneismo
e ruolo della personalità
Per chiarire la distinzione tra partito e classe in
quanto momenti dello stesso processo, va ricordato il noto riferimento di Lenin
al pensiero di Kautsky, riferimento
che trovava allora, era l'epoca del Che fare? (1902), la sua
giustificazione nell'aspra polemica condotta contro la tendenza economicista e
spontaneista. Kautsky negava che la «coscienza socialista sarebbe il risultato
necessario, diretto della lotta di classe proletaria» e affermava che
socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all'altra e non uno
dall'altra; sorgono da premesse diverse. La coscienza socialista contemporanea
non può sorgere che sulla base di una profonda conoscenza scientifica. Infatti,
la scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una
condizione della produzione socialista e il proletariato, per quanto lo
desideri, non può creare né l'una né l'altra; la scienza e la tecnica sorgono
entrambe dal processo sociale contemporaneo. II detentore della scienza non è
il proletariato ma sono gli intellettuali borghesi; anche il socialismo
contemporaneo è nato nel cervello di alcuni membri di questo ceto ed è stato da
essi comunicato ai proletari più elevati per il loro sviluppo intellettuale, i
quali in seguito lo introducono nella lotta di classe del proletariato, dove le
condizioni lo permettono. La coscienza socialista è quindi un elemento importato
nella lotta di classe del proletariato dall'esterno e non da qualche cosa che
ne sorge spontaneamente [1].
E di rincalzo
Lenin:
Come si vede i termini della questione sono stati posti in modo estremamente drastico e unilaterale quale si addice al linguaggio polemico ma come sempre una verità polemica è soltanto parziale e non esclude, non nega, anzi pone l'esigenza di una verità più generale e conseguente. Commetteremmo un grave errore se riducessimo i termini della questione alla distinzione rigida tra chi, per non avere ancora maturato la "coscienza del fine" è solo in grado di elaborare una coscienza tradeunionista e coloro, gli intellettuali della borghesia, che per essere detentori della scienza e della tecnica sono portatori della coscienza socialista, si finirebbe per cadere in una valutazione quanto mai scolastica, fondamentalmente dualistica, lontana perciò da una visione dialettica del problema. Socialismo e lotta di classe, che, anche se sorgenti da premesse diverse, sono tuttavia il risultato dell'intrecciarsi di due momenti necessari di un unico processo, quello delle vicende di classe.
E più chiaramente: dal processo sociale sorgono, è vero, scienza e tecnica, ma non vi sarebbe processo sociale se in esso non operassero forze umane e se queste, a loro volta, non aderissero nella loro azione intimamente al processo stesso e, sotto la spinta di interessi diversi, non esprimessero situazioni di contrasto e di lotta. È in tale ambiente che è nato e si è sviluppato il senso della differenziazione tra le diverse categorie sociali fino a cristallizzarsi in antagonismi di classe.
Vi è stata un'accumulazione della conoscenza teorica e della scienza, su cui è andata modellandosi una parallela accumulazione della conoscenza umana, presa questa nel significato di aumento di cognizioni in generale, di affinamento del gusto, della sensibilità e di esigenza di una più acuta curiosità verso il nuovo e lo sconosciuto e il tutto come indice di una sempre più alta manifestazione di vita.
In una parola al nesso delle cose si è intrecciato il nesso degli accadimenti umani. Il socialismo non è nato dalla scoperta di una formula, sia pur essa genialissima, non è il risultato di indagini di laboratorio, non è soltanto scienza ma è anche un nuovo modo di porsi il problema della vita, una nuova visione del mondo sorta dallo sviluppo del moderno capitalismo e maturata via via sotto il pungolo delle sue stesse contraddizioni.
Se il socialismo è la meta verso cui tende la dialettica della stessa organizzazione economica del capitalismo, è anche la meta a cui sono rivolti gli uomini nella loro insopprimibile aspettativa di uguaglianza e di libertà.
Nel momento in cui ad esempio uomini di scienza come Marx ed Engels hanno affondato il loro esame critico nel mondo della produzione capitalistica, si sono avvalsi, essi, figli della borghesia, degli strumenti di indagine che la borghesia stessa aveva approntato in decenni di trasformazioni tecniche e di conquiste scientifiche. C'è solo da chiedersi se questa prodigiosa ascesa, apparsa così particolarmente dinamica sotto la spinta del regime di produzione capitalistica, sia da considerare come dovuta al solo capitalismo o non piuttosto al lavoro umano in cui la classe borghese non appare davvero fattore determinante in confronto al proletariato. Non basta; quand'anche considerassimo l'apporto di Marx e di Engels come opera di studiosi provenienti dalla borghesia, avremmo posto un problema di estrema banalità se mancassimo di situare storicamente la loro critica scarnificatrice e demolitrice del sistema capitalistico sottoposto ad esame.
E situarla storicamente significa sentire l'opera critica di questi maestri non solo in termini di scienza ma come quella di uomini che partecipano da protagonisti alla vicenda storica, che considerano come propria la causa di quella classe nel cui destino vive in potenza il destino a venire di tutta l'umanità.
Sono gli uomini della polemica più aspra condotta contro il conformismo conservatore che hanno visto nello sviluppo storico del capitalismo la ragione d'essere dello sviluppo storico del proletariato; sono i sistematori della dottrina di classe, i teorici della eversione rivoluzionaria come sbocco naturale dell'insopprimibile lotta tra le due classi fondamentali della storia moderna. Chi ha scritto il Capitale è anche colui che ha scritto il Manifesto dei Comunisti e l'Indirizzo della I Internazionale dei lavoratori. L'uno è inscindibile dall'altro: si tratta in definitiva di transfughi della borghesia che han cessato di pensare e di operare secondo i canoni della cultura borghese ma pensano e operano alla stregua di coloro che sono soggetti al lavoro alienato, in vista della costruzione di una società socialista in cui il lavoro non sia più un peso per l'uomo ma la libera espressione della sua personalità.
Sotto questo profilo, e il problema non sopporta un'ipotesi diversa, Marx, Engels e più tardi Lenin e con loro e dopo di loro un esercito di pensatori, di politici, di intellettuali legati al marxismo, hanno tutti avuto il compito di «introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione» ma gli elementi formativi di tale coscienza hanno la loro matrice storica nella classe lavoratrice, si riflettono volta a volta nel cervello di alcuni uomini, come in un laboratorio di sistemazione scientifica, per ritornare quindi alla classe per aiutarla e far sua questa "coscienza del fine" in modo sempre più chiaro e distinto.
E ci pare che questo sia anche il modo più corretto, dal punto di vista del marxismo dialettico, di precisare il ruolo della personalità. Nel momento stesso in cui Marx ed Engels affermavano la validità storica della rivoluzione proletaria quale sbocco inevitabile e necessario delle contraddizioni strutturalmente maturate nel grembo della produzione e distribuzione capitalista, mettevano in luce il ruolo antagonista della classe proletaria e sui dati offerti da un'inesorabile analisi scientifica essi ponevano a se stessi, innanzitutto, l'imperativo di operare conseguentemente alle loro convinzioni, di aderire vitalmente alla classe di cui facevano propri gli interessi fondamentali e di fare della dottrina il presupposto teorico d'una milizia politica congeniale al divenire rivoluzionario della classe operaia.
La tesi iniziale del materialismo, come noi abbiamo ripetuto, dice che la storia è fatta dagli uomini. E se essa è fatta dagli uomini, è chiaro che essa è fatta, tra gli altri, dai grandi uomini. Non resta che rendersi conto perché precisamente l'attività di questi uomini è determinata. A questo proposito Engels afferma:
Sotto questo rapporto la figura e l'esperienza di Lenin assumono contorni e significati ancora più precisi. Abbiamo già visto sopra come Lenin in polemica con l'economicismo e gli spontaneismi del suo tempo, ammonisse sul pericolo tradeunionista e fondamentalmente corporativo insito nella lotta che la classe operaia conduce sindacalmente solo con le sue proprie forze contro i padroni, e affidava alla socialdemocrazia e ai suo quadri più preparati il compito di importare dall'esterno la coscienza socialista nella lotta di classe del proletariato. E ad ovviare una interpretazione unilaterale e limitativa, in una parola non dialettica, completava, sempre nel Che fare?, in questo modo il suo pensiero:
Tutto Lenin è qui, in questa nitida visione dei compiti propri d'una avanguardia concretamente socialista e rivoluzionaria. Non è soltanto il Lenin teorico, l'uomo di scienza, a contatto della realtà del suo paese e delle sue masse operaie — che per necessità ed istinto spingono innanzi la civiltà russa a rompere le ultime vestigia della medioevalità economica e politica e a fronteggiare nel contempo il nuovo asservimento alle macchine imposto dall'invadente capitalismo monopolistico — ma è il combattente rivoluzionario che sente come sua la causa di proletario e nella lotta di ogni giorno vuole trovare la riprova della esattezza teorica del marxismo come dottrina; è, in una parola, il combattente che non vuol rimanere indietro alle masse nella loro spinta innanzi anche quando è fatta d'istinto oscuro e di irrazionalità. In questo caso i Lenin, come portatori d'una aspirazione collettiva, sono tutt'uno con il partito che hanno aiutato a formarsi come teoria, come programma e come struttura, e soprattutto sono tutt'uno con la classe di cui esprimono, col partito, la più alta e la più completa "coscienza del fine", verso cui la classe operaia in vari modi e con vicende alterne cammina.
In uomini così fatti la classe operaia, quale che sia il grado dello sviluppo a cui è pervenuta, trova espressa la coscienza di sé e della sua missione rivoluzionaria, soprattutto individua in loro gli esponenti di una organizzazione permanente capace di dirigere l'insieme dei movimento.
NOTE
1. Lenin, Che fare?
3. Engels, Der Sozialistcke Akademiker, 1895, Traduzione italiana 1906
4. Plechanov, Les questions fundamentales du marxisme.
Ultima modifica 26.01.2004