Raccolta di scritti pubblicata nel 1988
Riguardo la situazione determinatasi con il delitto Matteotti che
costituì allora il banco dì prova per la linea politica delle due maggiori
componenti del partito (Sinistra e Centro) attestate su posizioni diametralmente
opposte nel giudicare gli avvenimenti e gli obiettivi su cui indirizzare
l'azione del partito stesso, ripubblichiamo l'articolo,
Dopo Matteotti, apparso su l'Unità del
gennaio 1926 firmato O. Damen.
Trascitto da Mishù, settembre 2004
È quanto è avvenuto dopo Matteotti, nel duello fittizio tra dittatura e democrazia prima; tra dittatura e liberalismo poi, nel duello reale sempre esistente, sempre più acuto, tra borghesia e proletariato.
Cerchiamo di spiegarci come e perché un periodo di lotta estremamente acuta tra questi due veri e naturali antagonisti della storia si sia potuto trasformare — badate bene — non nella realtà rivoluzionaria della situazione e nei reali rapporti di forza allora esistenti, ma nelle elucubrazioni dei filosofi del pessimismo e dell'impotenza, in un periodo "democratico", perché caratterizzato dall'orientamento delle grandi masse verso i partiti della democrazia.
Errori di valutazione ed errori di metodo ne troveremo a iosa, checché ne dicano i difensori di se stessi e della Centrale.
La politica della Centrale del nostro partito dopo il delitto Matteotti non ha avuto come mira un'azione autonoma di Partito né una soluzione proletaria e rivoluzionaria della crisi ma ha agito per favorire una soluzione di centro, borghese, a carattere antifascista.
Il nocciolo del problema tattico è tutto qui, come qui è la ragione essenziale della nostra recisa opposizione. Per noi il delitto Matteotti rompe in modo netto i rapporti di forze precedentemente esistenti: il fatto è così grave e avviene in un momento così intenso, così acuto della vita politica italiana che tutti, indistintamente uomini politici, partiti politici e masse, sono presi come da un senso profondissimo di smarrimento e di panico.
In questa fase tipica in cui la chiaroveggenza e l'audacia possono e quasi sempre riescono a dare qualche orientamento, è per lo meno arbitrario subordinare l'azione di un partito rivoluzionario al fatto di fissar prima i rapporti delle forze organizzate di classe. Chi ragiona così dimostra di essere più atto al sillogismo che a dirigere le forze della rivoluzione.
D'altronde, quali sono gli elementi per poter fissare i rapporti delle classi organizzate? Vediamo: a delitto avvenuto il partito fascista è paralizzato da tale avvenimento imprevisto: le sue forze si sfaldano; l'opinione pubblica, fino al giorno prima solidale o passivamente solidale con esso, lo isola, quasi con ostilità; il centro dirigente fascista è incapace a mobilitare la resistenza; il governo si sente perduto e patisce.
Nel paese, allo stato iniziale di smarrimento subentra un vago senso di aspettazione. La stampa, il chiodo fisso nel cervello del compagno Gramsci, con la campagna scandalistica alimenta inconsciamente uno spirito rivoltoso. Fino a questo momento non si può ancora parlare di vere e proprie forze politiche predominanti nel paese o comunque di orientamenti politici. Tutto è pervaso da spirito antifascista ed è in istato di formazione e di sviluppo un vasto movimento di forze capaci di lottare. Chi primo plasmerà queste forze? Quale ne sarà l'indirizzo?
In questo momento nessun partito ha osato lanciare la parola d'ordine dell'azione. La stessa Centrale del nostro partito si è servita di un impreciso incitamento all'azione, fatto a scopo polemico, ma non ha neppure tentato di iniziare una vera e propria mobilitazione delle masse.
All’infuori di qualche riuscito movimento sporadico, sprigionato più dalla situazione locale e dalla maggiore sensibilità delle masse di alcune zone, che avvenuto per effetto di ordini impartiti dall'alto, la Centrale ha dimostrato chiaramente di non saper vivere la vita delle grandi masse, non ne ha comprese le necessità, non ha sentito quale fosse l'imperativo categorico dell'ora, ha dimostrato, in sostanza, di essere qualcosa di avulso persino dal resto del partito.
Esisteva in tale epoca un partito comunista come forza inquadrata? Certo è che si era in un periodo di ripresa e di riorganizzazione; ma ciò che più lasciò a desiderare, ciò che fu maggiormente condannabile nei compagni della Centrale, fu l'assenza non del partito, come entità numerica più o meno solidamente organizzata, ma di tutti quegli organismi sussidiari senza i quali un partito comunista non può né potrà mai adempiere alla propria funzione storica di partito rivoluzionario. In ultima analisi il difetto di una seria azione nel paese, subito dopo il delitto Matteotti, i centro-destri la attribuiscono alla mancanza di un partito rivoluzionario fortemente organizzato e quindi alla proporzione esistente nei rapporti di forza tra i partiti della conservazione ed il partito della rivoluzione.
È da questa premessa erratissima che si parte per vedere la situazione con occhio diverso, per applicare una politica diversa e per iniziare e giustificare una manovra che si è dimostrata opportunista. È in base a tale premessa che si proclama essere la situazione "democratica" e che perciò il problema immediato del partito è problema di organizzazione e non di azione.
Con estrema facilità si deduce da un superficiale e cerebralissimo esame della situazione politica un certo pacifismo delle masse e tra l'insurrezione proletaria e l’Antiparlamento borghese non si sa vedere, tra i compiti immediati dell'unico partito di classe, che un semplicistico problema organizzativo e... la solita mitica conquista della maggioranza.
D'altronde poteva, o meglio, doveva il nostro partito porsi senz'altro il problema dell'insurrezione immediata per la conquista del potere? Ci si è domandato. Nessuno della sinistra ha mai pensato di rimproverare la Centrale di non aver fatto... la rivoluzione. Non è così d'altronde che va posto il problema e ripetiamo: tra l'insurrezione e la manovra politica effettuata, poteva e doveva essere sviluppata dalla Centrale un'azione autonoma di partito che permettesse di marcare in modo netto i due raggruppamenti politici veramente in contesa (borghesia conservatrice — proletariato rivoluzionario) e consentisse la polarizzazione verso queste due sole entità economico-politiche della società moderna, le forze vive e operanti del paese, messe in moto ed esasperate al massimo dal delitto Matteotti.
Seguiamo invece le tortuosità tattiche della Centrale la quale, per suo uso e consumo, ha saputo così bene suddividere la borghesia in classi e sottoclassi, in specie e sottospecie; in buoni, meno buoni e reprobi, da ridurre il metodo di indagine marxista ad una esemplare pagina di... storia naturale.
L'inerzia delle masse nel paese, voluta di fatto anche dalla Centrale del nostro partito, ha permesso lo svilupparsi di una manovra dei partiti borghesi di centro su di un terreno diverso da quello del paese, il terreno parlamentare.
Ancora una volta, in una situazione rivoluzionaria, non è l'azione della massa a determinare una soluzione, ma sono i partiti politici, o meglio, le direzioni, i direttori, gli esecutivi, ecc. dei partiti (pratica socialdemocratica) che si servono dello scacchiere di Montecitorio come base di manovra per limitare o paralizzare del tutto l'influenza delle masse.
Ed è su questo terreno caratteristico — ripetiamo — della pratica socialdemocratica, che è scivolata anche la nostra Centrale. A delitto avvenuto «l’ondata popolare antifascista trovò una forma politica nella secessione dall'aula parlamentare dei partiti di opposizione» [1].
E la Centrale dispone che il gruppo parlamentare si accodi al movimento delle opposizioni borghesi-socialdemocratiche.
E perché la Centrale subisce così tacitamente la manovra aventinista? Sentite il perché: è una ragione politica di importanza capitale:
L'assemblea delle opposizioni divenne di fatto un centro
politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese; la
crisi scoppiata nel campo sentimentale e morale acquistò così uno spiccato
carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato: un Governo
antifascista contro il Governo fascista.
E più avanti:
Le opposizioni rimangono ancora il fulcro del movimento
popolare antifascista; esse rappresentano politicamente l'ondata di democrazia
che è caratteristica della fase attuale della crisi sociale italiana. Verso le
opposizioni sì era orientata all'inizio anche l'opinione della grande
maggioranza del proletariato
[1].
Chi è quell'operaio comunista che non veda oggi in tutto ciò, più che una esagerazione e più che un artificio, un grave ed imperdonabile errore di valutazione politica?
Antonio Gramsci, in settembre, diagnostica per la Centrale la situazione italiana con lo stato d'animo di colui che ha paura del gravissimo malessere sociale, che analizza e non trova un rimedio se non cullandosi tra le risorgenti velleità democratiche della piccola borghesia. Sarebbe bene che la Centrale ristampasse questa relazione e la ponesse tra i documenti in distribuzione per la preparazione del Congresso del Partito.
Per conto suo la sinistra ha già detto che cosa pensava e che cosa pensa circa la nostra uscita dal parlamento, sulla nostra entrata nel comitato delle opposizioni e sulla ormai "barbosa" proposta dell'Antiparlamento.
Per noi è pacifico, come dovrebbe essere pacifico per tutti i marxisti non degeneri, il fatto che la borghesia, in una situazione gravissima, davanti al pericolo reale della propria esistenza come classe dirigente e privilegiata possa, debba anzi, giocare con dei diversivi per la propria conservazione.
E in questo caso i diversivi politici della classe dirigente in pericolo sono quelle tali concessioni su cui si adagiano naturalmente strati di masse apparentemente (solo apparentemente) differenziate dalla stessa classe che dirige di fatto la manovra.
Nel caso specifico, la borghesia fascista, visto il serio pericolo del diretto intervento del proletariato nella lotta, ha manovrato di fianco con le forze, con le proprie forze della piccola borghesia, le quali sono così sfociate sulla nuova piattaforma politica (secessione parlamentare - Aventino) con l'impudente maschera della democrazia e sbandieranti l'offa della "questione morale", prima ancora che le masse proletarie avessero potuto orientarsi dietro una parola d'ordine chiara e una precisa linea politica tracciata dal Partito rivoluzionario di classe. Parola d'ordine non lanciata, linea politica non indicata, solo perché la Centrale del Partito non credeva o meglio non vedeva la necessità dell'intervento del terzo fattore: il proletariato, e alla iniziativa di classe preferiva la presenza nel comitato delle opposizioni per un lavoro di critica e di sbloccamento.
Quindi la Centrale del Partito, così agendo, ha condotto le sue forze nel momento più propizio non alla lotta ma le ha adagiate sul terreno comodissimo offerto dalla stessa borghesia. E questo per noi è opportunismo, non dissimile da quello del Partito Massimalista.
Andiamo ora alla proposta dell'Antiparlamento.
La secessione parlamentare è avvenuta per una questione morale. La questione morale è stata la ragion d'essere di tutta la politica dell'Aventino. La proposta comunista dell'Antiparlamento si innestava perciò in questa pregiudiziale morale. L'Aventino non è mai partito, nella lotta contro il fascismo, da una ragione di classe, non poteva: non era d'altronde con una pregiudiziale di classe che la Centrale del Partito Comunista ha manovrato dentro e fuori dal comitato delle opposizioni.
Gramsci ebbe persino ad affermare in una riunione di gruppo, che il partito sarebbe ritornato a far parte del blocco delle opposizioni solo se si fosse accettato il criterio di dare all'Aventino come base di funzionamento il semplice regolamento della Camera dei deputati.
E madornale ciò ma è perfettamente logico per Gramsci: non vedeva egli nell'Aventino l'episodio decisivo della crisi a carattere istituzionale? Lo Stato nello Stato? Il Governo antifascista contro il Governo fascista? Riuscire perciò a far funzionare, in un modo qualsiasi questa specie di Antiparlamento, doveva essere l'obiettivo massimo, rivoluzionario, dei tattici della Centrale del Partito.
Noi modestamente osserviamo. I comunisti non partono mai da pregiudiziali morali nella lotta contro la borghesia. Nel caso specifico del delitto Matteotti i comunisti dovevano partire da un presupposto di classe e non cercare di far propria la questione morale e tanto meno porsi sul terreno offerto da una tale pregiudiziale.
È in base a questa erronea valutazione politica che i comunisti entrarono nel Comitato delle Opposizioni e ne uscirono senza neppure battersi per una vera e sana questione di principio, ed infine proposero ed insistettero nella proposta dell'Antiparlamento.
L'Aventino è la sintesi politica di tutta una manovra conservatrice e alla sua base sono gli interessi specifici della controrivoluzione: esso è un aspetto della strategia borghese che si serve di un apparente dissidio interno, che fa dello scandalo, che esce e non ritorna per uno spazio di tempo nel parlamento legale per una "visione" e non per una "realizzazione" democratica. E la valvola di sfogo che deve risolvere la crisi in senso borghese. Ve lo immaginate allora, un Aventino trasformato per opera della nostra Centrale in Antiparlamento e con obiettivi insurrezionali? Entrare nell'Aventino o lavorare attorno ad esso per attirare a noi nuovi strati di masse?
La prima parte del presente articolo risponde esaurientemente a tale quesito. Il cavallo di Troia è una figura di mito buona per delle esercitazioni letterarie; ma proprio dobbiamo figurarcelo qualche "leader" del partito, aggrappato malamente ad un alquanto monotono cavallo, di ritorno, marciante nel campo nemico, con nel ventre lo specifico infallibile della rivoluzione bolscevica? Bando all'ironia, ma è per lo meno arbitrario attribuire alla "saggia" manovra che è culminata nella proposta dell'Antiparlamento, il fatto che strati sempre nuovi del proletariato si siano in quel periodo orientati verso il nostro partito.
Solo la eccezionalità del momento politico ha permesso lo spostamento di strati di masse verso l'unico Partito del proletariato. E se a questo spostamento sensibile di forze non è seguito il concretizzarsi di una qualsiasi esperienza, di una qualsiasi conquista operaia, lo si deve esclusivamente al gravissimo errore tattico della Centrale attuale che ha guardato più ai centri parlamentari che al paese.
font-weight:normal'>La sopravalutazione delle forze di centro per una soluzione di centro borghese a carattere antifascista voleva, se non la eliminazione, la attenuazione certa dell'intervento diretto e autonomo del proletariato. Così è avvenuto.
Ed ecco una delle ragioni del nostro profondo dissenso [2] .
Ecco come Togliatti, che aveva vissuto da dirigente del partito, tali avvenimenti li sintetizza non certo da politico ma da cronista, solito a vedere dall'esterno senza calare nel vivo degli accadimenti, e non da protagonista:
Questa tattica, basata sul principio leninista e stalinista, secondo il quale bisogna dirigere le masse attraverso la loro esperienza mentre poneva i comunisti all'avanguardia nella lotta per vendicare i delitti del fascismo e rovesciare la dittatura fascista, facilitava il distacco di vasti strati di lavoratori dai partiti democratici e dalla socialdemocrazia, gettava le basi dell'alleanza tra il proletariato e i contadini, faceva uscire il partito dall'isolamento e lo spingeva sulla via della trasformazione in partito di massa.
Tattica veramente intelligente e ardita, soprattutto ardita.
La verità è che si era talmente traumatizzati dalla semilegalità concessa, bontà sua, dal regime, da non accorgersi d'essere seduti su una immensa polveriera di risentimento popolare, formatasi nel tempo per accumulo spontaneo di soperchierie, prepotenze, offese della personalità umana oltre che politica e violenze d'ogni sorta che umiliavano, fino a invigliacchire, e che bastasse accendere un fiammifero perché tutto saltasse in aria, ma nessuno ha osato accenderlo e neppure pensato che si potesse accendere. Gramsci, particolarmente, pensava che se un processo di combustione fosse in atto, esso dovesse esplodere per processo spontaneo. Se questo non si è verificato, non era da farne colpa al centro del partito.
Siamo al biennio 1924-25, così pieno di avvenimenti da assumere particolare importanza nello sviluppo ulteriore del movimento operaio. Con la rimozione, imposta dall'alto, della sinistra italiana dalla responsabilità di guida del movimento comunista italiano, nuove forze direttive più flessibili, più disposte al compromesso, si fanno avanti, i cui esponenti: Gramsci, Togliatti, Terracini, Scoccimarro, erano pure stati con la sinistra nella fase formativa del Partito Comunista d'Italia. E parlando di nuova direzione non si fa che precisare posizioni e responsabilità che si riferiscono soprattutto all'opera e al pensiero di Gramsci; intendiamoci, non un Gramsci mitizzato, ma un Gramsci uomo, uomo che ha vissuto le nostre stesse esperienze, anche se osservate da un angolo visuale del tutto personale, ciò che non salva Gramsci dalla precisa accusa di avere aggiogato il partito alle esigenze non di una autentica internazionale rivoluzionaria ma a quella di una politica contingente dello Stato russo, anche se operaio.
Il primo sintomo del nuovo orientamento gramsciano è apparso nell'editoriale che dà inizio alla seconda serie de l'Ordine Nuovo, quando cioè, Gramsci, rivedendo criticamente l'opera compiuta a Imola e a Livorno, arriva alla conclusione che il taglio a Livorno era stato operato troppo a sinistra, conclusione per lo meno impensabile in un uomo che aveva partecipato responsabilmente a Imola e Livorno e che aveva dato la sua responsabile collaborazione alle Tesi di Roma; conclusione, quindi, a sfondo opportunistico in quanto non preparata da una sua adeguata e approfondita revisione critica e da un necessario riesame degli accadimenti che hanno preceduto Livorno. E a proposito di tagli, va ricordato che di fronte alla stessa operazione tattica era convincimento della sinistra che il taglio, a Livorno, fosse stato operato troppo a destra. Questa diversa valutazione implica già una visione tattico-strategica difforme che divide il centro del partito già alla sua origine.
Si tratta forse di un ritorno puro e semplice al dannato tatticismo dei partiti socialdemocratici o non piuttosto di un ripiegamento tattico dettato in ogni caso da un uguale ripiegamento teorico che il Comintern aveva imposto sotto la spinta di mutate situazioni oggettive e che aveva per obiettivo immediato la politica del fronte unico?
Per la nuova direzione del partito e quindi per l'esecutivo dell'Internazionale, il problema del momento era quello di guadagnare spazio a destra; di potenziare la politica del partito allargando innanzitutto la propria sfera d'influenza in quella nebulosa politica che si era costituita in frazione terzinternazionalista che dal seno del Partito Socialista mirava a tracciare un ponte ideale verso l'Internazionale comunista e, per conseguenza, verso il nostro partito. Si stava per realizzare così l'obiettivo gramsciano di rimediare al taglio troppo a sinistra voluto dalla corrente di sinistra allora dominante nel partito.
Perché abbiamo parlato di nebulosa politica riferendoci alla frazione capitanata da Serrati, Maffi, Riboldi, Malatesta, ecc. nutrito gruppo di generali senza soldati, non disponendo essi di una seria organizzazione tale da potersi caratterizzare come vera e propria frazione?
I "terzini" non portavano e non potevano portare una loro particolare e compiuta e originale elaborazione teorica dei problemi della rivoluzione; non disponevano di una forza apprezzabile di base, si riducevano ad alcuni quadri parlamentari e dell'apparato politico e sindacale del Partito Socialista. Nel complesso si trattava di un raggruppamento senza storia, di scarso rilievo ideologico, soprattutto di scarsa importanza organizzativa. Tuttavia è significativo il fatto che la maggiore preoccupazione dei terzini era quella di accampare il diritto ad una loro rappresentanza negli organi direttivi del partito. Indicativi a questo proposito il fervore e le manovre sotterranee con cui Fabrizio Maffi, uno degli esponenti del movimento, tendeva a varare la candidatura di Malatesta alla segreteria del partito; evidentemente miravano molto in alto, dopo che erano riusciti ad assicurare la loro presenza negli organi federali di tutta l'organizzazione del partito e alla direzione del movimento sindacale.
Quando rotture organizzative, come questa dei terzini, si determinano e non sono originate da profonde insanabili lacerazioni di ordine ideologico non rispondenti a condizioni obiettive di maturazione reale, e soprattutto quando non avvengono per uno scontro frontale sul diverso modo di concepire i problemi di fondo dell'ideologia e della tattica politica, quasi sempre si palesano come fratture infeconde e appesantiscono sempre, quando non contaminano, l'organismo verso cui questi gruppi scissionisti si dirigono. Era necessario porre un particolare accento sull'uscita dei terzo-internazionalisti dal Partito Socialista e sul loro ingresso nel partito per riconfermare oggi, a distanza di tempo, la esattezza dell'impostazione data dalla sinistra al problema in genere, delle adesioni ad un partito rivoluzionario che può essere così sintetizzata: processo selettivo; decantazione di residue incrostazioni dal punto di vista ideologico; assoluta adesione ad una disciplina rivoluzionaria, soprattutto necessità di frantumare nella sua entità organizzativa quel dato raggruppamento che si orientasse verso il partito rivoluzionario.
Gramsci si è fatto allora esecutore fedele di una politica tale e quale veniva o ispirata, o dettata dal Comintern. E questo va detto non ad elogio della sua personalità politica e della sua duttilità manovriera. Comunque Gramsci, preso il nuovo indirizzo, ha assunto la responsabilità di imporlo al partito; ma va constatato che il Partito Comunista nel biennio in esame, ha sì un organo direttivo, anche se per investitura, ma senza una base, soprattutto senza una base che avesse capito il perché del nuovo indirizzo imposto al vertice del movimento; una base ancora legata, nella sua maggioranza, alla tradizione di sinistra.
Esaminiamo ora il problema dell'apparato. È nella normale strategia politica di gruppo e di corrente tendere ad impossessarsi dell'organizzazione del partito, attraverso il controllo del suo apparato. Per Gramsci e per la nuova direzione il problema immediato e fondamentale era dunque quello di impossessarsi dell'apparato del partito attraverso il quale ramificarsi alla base dell'organizzazione. Tuttavia le decisioni prese al Convegno di Pian del Tivano (Como) e il carattere ideologico-politico impresso alla nostra affermazione nelle elezioni del '24 indicavano che il partito si muoveva ancora sulla sua struttura originaria, sulla piattaforma elaborata dalla sinistra italiana. E questo, Gramsci, lo capiva esattamente, lui che aveva assai vivo il senso realistico della situazione; si trattava di un avvertimento assai valido per non vedere in tutta la sua urgenza la necessità di conquistare l'apparato. E come effettuare tale conquista? O si usa l'arma ideologica, e ciò comporta in ogni caso un processo lunghissimo di persuasione, un aperto dibattito ideologico-politico con le forze contro cui si vuol operare, e infine, conquistarsi la fiducia; oppure c'è l'altro sistema, quello amministrativo, che consiste nel far sentire sugli uomini dell'apparato il peso della responsabilità politica che, mentre assicura la continuità professionale, allontana il pericolo per un rivoluzionario di professione, di dover dare da un momento all'altro alla propria vita una diversa sistemazione economica. L'apparato assume così la parvenza di un mito che non ha nome; di una organizzazione economico-politica sfuggente, occultata quasi sempre dietro la cortina fumogena del privilegio di casta; di una corporazione di manovalanza politica che non si precisa mai in una fisionomia e si propaga e allunga i tentacoli come una piovra fino ad assumere un proprio costume di vita che viene a caratterizzarlo e a distinguerlo dal resto della stessa organizzazione di partito.
Gli apparati che oggi conosciamo nella veste di forze onniscienti, onnipresenti e onnipotenti, hanno avuto origine proprio allora, nel '24. Il rivoluzionario professionale il più delle volte è un compagno che ha avuto una dura esperienza di lotta, che si è forgiato al lume di una dura disciplina ideologica e politica, un compagno che ha conosciuto di persona che cosa vuol dire sacrificio, tuttavia è proprio lui destinato a diventare l'uomo dell'apparato e, come tale, costretto ad obbedire professionalmente e quindi ciecamente a tutti gli imperativi che provengono dal centro del partito, qualunque essi siano. Di questo potente strumento, nato dal coagulo di "certi" uomini e di "certi" interessi, il centro del partito si avvale per toccare la base e per muoverla secondo le necessità subiettive e obiettive della sua politica.
Intanto la nuova direzione porta avanti l'opera di scardinamento della tradizionale organizzazione del partito. In questo frangente, nel cuore del '24, esplode l'episodio Matteotti. L'eliminazione violenta di Matteotti è l'espressione della profonda crisi che ha investito nei suoi gangli vitali lo schieramento del capitalismo italiano e non esistendo la possibilità obiettiva di operare apertamente nel paese, la politica allora era paralizzata nel solo ambiente parlamentare, è su questo piano che bisogna osservare e giudicare l'azione delle forze politiche sommosse dalla crisi. Si tratta di una crisi che vien su dal basso, dal seno delle grandi masse nelle quali l'avversione al fascismo, il profondo disagio economico e l'ansia per un ribaltamento generale e radicale della situazione stavano toccando il limite di rottura. La biscia della reazione stava rivoltandosi all'incantatore colpendo al vertice lo stesso fascismo tanto che Mussolini riteneva l'operazione Dumini come ispirata da forze interne al regime che miravano alla sua stessa eliminazione. In realtà l'episodio Matteotti si inquadrava in una situazione di fatto nella quale episodi del genere potevano determinarsi in qualsiasi momento e a danno di chiunque che non fosse fascista, tale era lo stato di precarietà e di smarrimento incombente sugli organi del regime.
Era nella logica delle cose che a questo punto i partiti antifascisti, democratici, liberali, socialisti, che erano di fatto più vivi sul piano della lotta parlamentare che nel paese, attraverso una rete di cospirazione attiva per una soluzione di forza, prendessero la via dell'Aventino ritenendo incompatibile la loro ulteriore permanenza nel parlamento il cui governo, identificato nella persona di Mussolini, portava la responsabilità morale dell'assassinio di Matteotti. Con l'Aventino si veniva così a creare, almeno sul piano costituzionale, uno Stato nello Stato, una specie di separatismo politico con conseguente vuoto di potere in cui il partito avrebbe potuto inserire e sviluppare una iniziativa di classe se gli amori aventiniani prima e quindi la indecisione sul da farsi, non l'avessero impedito.
Ma l'Aventino si è dimostrato tale e quale era e doveva essere per sua natura, un coagulo di forze protestatarie; si riunisce, discute, decide una attività di violenta denuncia ma rifiuta coscientemente il ricorso alla piazza perché questa, degenerando, potrebbe passare nelle mani dei comunisti. Non dunque ricorso alle masse operaie ma all'esercito e alla polizia. Gli strateghi dell'Aventino ponevano al centro della propria politica la Corona; la polizia e l'esercito si sarebbero mossi se la Corona si fosse mossa. Ma la Corona non si è mossa e con essa non si è mosso l'esercito, non si è mossa la polizia. È rimasta all'Aventino la pretesa di dirigere lo stato ipoteticamente liberale al di fuori della dura realtà dello stato fascista.
Che cosa intanto fa il Partito Comunista? Il gruppo parlamentare in obbedienza alle decisioni della direzione del partito si rifugia anch'esso, in un primo luogo, sull'Aventino. Posti di fronte, bruscamente, ad una situazione non prevista i dirigenti hanno scelto la solita soluzione tattica: andiamo sull'Aventino così come andremmo ad una riunione di fronte unico; per loro era una politica di fronte unico andare sull'Aventino.
Ma a un certo momento, anche qui le disparità di vedute non potevano non esplodere. L'Aventino socialdemocratico, liberale e socialista mal sopporta che la pedina comunista operi nel suo seno perché non conforme ai metodi ed ai fini costituzionali dell'Aventino stesso.
In questo rapido susseguirsi di avvenimenti bisogna riconoscere che mentre le forze coalizzate dell'Aventino avevano, se non altro, capito che la loro fortuna politica risiedeva unicamente nell'uso dei metodi legali offerti loro dalla possibile convergenza tra conservazione democratico-liberale e tradizione monarchica e agivano conseguentemente, il Partito Comunista annaspava tra legalitarismo parlamentare e fraseologia massimalista. Se da una parte la direzione gramsciana subiva la suggestione della questione morale che l'Aventino avanzava come sufficiente a liquidare Mussolini e con lui il fascismo, dall'altra subiva passivamente l'iniziativa della sinistra del partito che si dissociava dalla politica della partecipazione all'Aventino e demistificava di fatto la questione morale con il discorso di Ruggero Grieco elaborato non sotto il controllo della direzione del partito, ma in casa di Bordiga e per sua diretta ispirazione.
Aumenta intanto la pressione dal basso delle masse, soprattutto del partito, che chiedono una posizione responsabile; nel contempo si insinua anche nel gruppo parlamentare la tesi dell'antiparlamento; era soprattutto il buon Riboldi che si affannava a sostenere la legittimità legale e politica dell'antiparlamento, intendendo fare di esso una piattaforma di lotta parlamentare a cui chiamare le forze dell'opposizione aventiniana.
Rimanere agganciati ancora a soluzioni parlamentari, significava allora non avere sentito la spinta che proveniva dal paese; tanto in sede di gruppo parlamentare come in sede di Comitato Centrale allargato, la sinistra ha sostenuto una visione tattica e strategica diametralmente opposta che comportava lo spostamento dell'asse dell'azione del partito dal parlamento, dal centro cioè della vita politica nazionale, al paese, alle masse operaie, suscitando con tale prospettiva di lotta indifferenza, incomprensione, quando non ironia.
Secondo i compagni della nuova direzione e dello stesso gruppo parlamentare, i compagni della sinistra erano dei presuntuosi, dei barricadieri, vedevano sempre rosso e si illudevano di poter spostare l'asse della politica basando la prospettiva non sul concreto, non sulle possibilità obiettive, ma sul nulla.
In una riunione del Comitato Centrale allargato Gramsci diceva, a conclusione di un ampio e dettagliato esame, che la situazione non era immediatamente rivoluzionaria e che se la sinistra avesse lanciato una parola d'ordine di azione rivoluzionaria, anche la parte più sana del proletariato non l'avrebbe ascoltata; a comprova di questa sua tesi ricordava che in conseguenza della guerra milioni di fucili erano rimasti in mano agli italiani e se i fucili non sparavano voleva dire che non c'era una prospettiva rivoluzionaria. Oh se i fucili potessero sparare da soli!
Chi in questo periodo aveva contatti organizzativi con la base del partito sa che da ogni parte del paese, particolarmente dalle zone meridionali, giungevano notizie di una situazione che si aggravava di giorno in giorno per cui esistevano possibilità enormi per imprimere all'azione del partito una prospettiva di soluzione di classe di immediatezza rivoluzionaria; è mancata l'audacia di un inserimento del partito in una situazione di crisi di tale gravità per vedere nel vivo fino a che punto ci fosse coincidenza tra l'esame che veniva fatto della situazione e la rispondenza delle masse italiane, ma nessuno ha avuto chiaroveggenza e coraggio di tentare.
Viene finalmente deciso il rientro del gruppo parlamentare con un'altra "trovata" tattica, quella di mandare allo sbaraglio Repossi, a cui era demandato il compito di leggere una dichiarazione prefabbricata di tono demagogico e in parte provocatorio, anche se gli estensori del documento sapevano molto bene che in quella situazione sarebbe stata follia assumere la responsabilità di un secondo episodio Matteotti. Quando poi si è tentato, su iniziativa del partito, lo sciopero generale in polemica con la CGIL, con l'Aventino e in modo particolare con il Partito Socialista, era evidente che si sarebbe andati incontro ad un inevitabile insuccesso.
Granisci e la politica del
fronte unico
In tal modo entrava in crisi la tanto decantata tattica del fronte unico dal basso. Le masse operaie legate per tradizione al loro organismo sindacale e al loro partito politico non sono generalmente diposte ad accettare inviti ad azioni dirette che provengono da altre organizzazioni se non è chiaro alla loro coscienza che la loro organizzazione sindacale e il loro partito si sono posti apertamente al di fuori del solco di classe e in contrasto fondamentale con i loro interessi e con gli obiettivi finali della loro lotta. A questo scopo nessuna opera di convincimento, nessun approfondimento critico erano stati seriamente intrapresi dal Partito Comunista presso le masse sindacate e quelle più politicizzate del Partito Socialista; soprattutto nessuna parola d'ordine era stata lanciata che precisasse il vero volto della crisi che aveva praticamente inchiodato il regime in uno stato di impotenza, incapace persino di mobilitare le sue stesse forze armate in quantità sufficiente per organizzare una qualsiasi difesa se una iniziativa di attacco armato si fosse determinata in quel momento in qualsiasi punto del paese.
Situazioni simili non si approfondiscono previa intesa di vertice, tipiche della politica di fronte unico, ma vanno affrontate tempestivamente con forze e strumenti idonei per qualità e chiarezza d'intenti a prescindere da valutazioni del tutto quantitative che sono quasi sempre in funzione ritardatrice e tarpano le ali all'azione rivoluzionaria. Sono queste, infatti, le iniziative della strategia rivoluzionaria che aprono la strada ad allargamenti del fronte della lotta, spostando in avanti strati nuovi di combattenti ed accendono volontà nuove che non entrano nel calcolo degli strateghi parlamentari e di certi capi partito che attendono... che i fucili sparino da soli.
In tante manovre tattiche senza né capo né coda che trovano la base teorica nella legge delle spontaneità più che in una costante della metodologia marxista, è evidente il diverso modo di esaminare la situazione e le forze sociali e politiche che in essa si muovono tra la corrente assai omogenea della sinistra e quella che si è andata formando, in modo alquanto estemporaneo e privo di ogni seria unità ideologica, attorno alla personalità di Gramsci.
In questo contesto il problema di fondo prende forma e sostanza nella diversa interpretazione della strategia rivoluzionaria applicata al fenomeno fascista; se cioè il fascismo era da considerare come una escrescenza del capitalismo che andava eliminata avvalendosi di tutti i mezzi che a questo scopo lo stesso capitalismo offriva alla lotta politica condotta dall'antifascismo considerato come un tutto pur nella diversità delle sue componenti (Gramsci e compagnia), oppure, come pensava la sinistra, il fascismo era da considerarsi come l'involucro ideologico-politico più sicuro, nella specifica situazione italiana, per garantire la conservazione del capitalismo nel suo complesso, per cui colpire il fascismo, spezzarne violentemente le strutture, significava colpire nel cuore il capitalismo e spazzar via le sue strutture tanto economiche che politiche.
Tutto ciò, tradotto in termini di concretezza politica, significava per Gramsci e compagnia rompere con le formulazioni fisse e troppo rigide della tematica rivoluzionaria della classe contro classe; piegare questa strategia a momento tattico per la soluzione di esigenze contingenti e particolari della lotta antifascista nell'ambito della più vasta e consistente esperienza capitalista, teoria gramsciana che considerava il fascismo episodio di "folclore paesano" da estirpare come mala pianta dallo stesso terreno del capitalismo sul cui tronco si sarebbe casualmente germinata. Soltanto così e con questi elementi così scarsamente conosciuti, perché volutamente sottaciuti, è possibile seguire il filo conduttore della politica del fronte unico con la inconcludente e contradditoria tattica di avvicinamento all'Aventino e conseguente allontanamento; con l'uscita dal parlamento e conseguente rientro e infine con la puntata solitaria di Repossi per saggiare il terreno, escogitata soprattutto per salvare la faccia ad una politica deludente e fiacca e persino priva di fantasia. Se questa è la linea tattica di Gramsci, non dissimile nella sua essenza sarà quella adottata da Togliatti fin dal suo rientro in Italia e che tuttora guida le sorti del PCI. Enorme tuttavia è la loro differenza di fondo; Gramsci, che nella veste di responsabile del partito aveva più o meno apertamente e opportunamente abbandonato la prospettiva ideologica e politica dei Consigli, era tuttavia portato a far rivivere nel nuovo indirizzo tattico impresso al partito la sua tipica, originaria forma mentis di una prefigurata civiltà dei Consigli da realizzarsi nel tronco della stessa civiltà capitalista. Si trattava, in ogni caso, di una elaborazione teorica, anche se idealistica e quindi assai discutibile sotto il profilo marxista ma tuttavia elaborazione teorica che lo avrebbe posto al di sopra di quella aberrante paccottiglia tattica nazional-comunista e clerico monarchica che porterà il partito di Livorno nella palude parlamentare per seguire una chimerica via italiana democratica, pacifica, elettorale al socialismo.
Sotto questo rapporto, a mezzo secolo di distanza da quegli avvenimenti, è davvero tempo di riscoprire un Gramsci più vero, più aderente alla realtà che la storiografia, o meglio l'agiografia di partito e della cultura oggi di moda, ha così ignobilmente sfigurato, sfruttando ai propri fini l'aspetto emotivo e sentimentale della sua dolorosa vicenda umana.
Verrà il discorso di Mussolini del 3 gennaio e con esso la politica della smatteottizzazione e il rientro nella semi-illegalità, ma la gravità della situazione e dell'esperienza vissuta impone un necessario ripensamento critico: quando si determinano situazioni come questa di Matteotti con evidenti possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria e non si è capaci di legarsi al moto ascendente che la crisi pone in atto, alle aspettative delle masse e di obbedire agli imperativi che ogni crisi profonda della società porta con sé, inevitabilmente; in questo caso bisogna riconoscere apertamente che si è stati al di sotto dei compiti perché si è stati non la forza dirigente di una situazione favorevole, ma al suo rimorchio; ciò che ha finito per ridicolizzare la politica del partito nella fase più grave della crisi abbattutasi sul regime fascista, in quanto regime della conservazione capitalista.
Ma intanto la direzione gramsciana continua il sordo lavoro di penetrazione e di conquista dell'apparato del partito; chi, infatti, non sa o non vuole muoversi nel fuoco della lotta, è sempre maestro nell'intrigo politico. La fisionomia del partito nella fase Matteotti e immediatamente dopo non è praticamente cambiata; il centro è sempre avulso dalla base, è sempre più apertamente legato al centro di Mosca e dell'Internazionale mentre la base del partito è ancora sotto l'influenza ideologica e politica della sinistra; l'apparato è ancora parzialmente inoperante; si procede alla defenestrazione di alcuni compagni della sinistra dagli organi direttivi dell'organizzazione; tutto questo coincide con l'apertura del dibattito per il congresso di Lione.
Ma anche in casa nostra, anche in casa della sinistra italiana c'è qualche cosa da rivedere criticamente e da rimuovere; non si lascia una base organizzativa come quella della sinistra e soprattutto quadri saldamente formati in balia degli eventi senza una direzione, senza una responsabilità organizzativa.
Il compagno Bordiga, defenestrato d'autorità dal centro del partito, si era praticamente autodefenestrato dalla vita politica attiva e non assumeva nessuna responsabilità ufficiale, neppure nell'ambito della sua stessa corrente.
Si andrà a Lione; Lione sancirà la sconfitta "elettorale" della sinistra, ma la sinistra italiana dovrà difendersi, soprattutto dovrà difendere il suo patrimonio di idee e di esperienze, la sua base organizzativa e la forte caratterizzazione data al movimento dopo Imola e Livorno fino al 1924.
Il Comitato d'Intesa nasce in questa grave situazione e col preciso compito di salvare quanto ancora era salvabile nel partito di Livorno.
Tale linearità di sviluppo può facilmente trarre in inganno per il brillare della sua logica del tutto formale che non va oltre il suo aspetto libresco, non affonda cioè l'analisi nel processo reale offerto dalla storia in cui ogni scissione dà l'avvio ad uno svolgimento di disgregazione e di aggregazione molecolare in cui l'elemento originario e determinante va ricercato nel momento economico che fa da spinta alla distinzione e all'urto delle molecole in movimento nella loro caratterizzazione data dal conflitto di classi opposte.
Tutta la storia del capitalismo è un susseguirsi di scissioni, di rivoluzioni passive e di guerre di posizione; ma con scissioni che non spezzano i legami istituzionali col vecchio mondo e non pongono le condizioni materiali ed umane per trasformarlo nel suo opposto, si rimane nel progressivo o regressivo, a seconda dell'angolo visuale da cui si parte, nell'alveo saldamente arginato della conservazione.
Ogni scissione che non spezza non solo ha un significato anomalo ma sul piano dello svolgimento generale dei flussi e deflussi politico-sociali è di fatto semplice increspatura di superficie che il mare risucchia e annulla nella normalità del movimento. Così le rivoluzioni continuano ad essere passive e le guerre di posizione rimangono tali come se non esistesse più spazio per guerre di movimento. Su questo piano e con lo stesso metodo Gramsci ha affrontato lo studio del nostro Risorgimento che gli offriva una grande messe di riferimento e di esemplificazioni a favore della sua definizione di rivoluzione passiva data anche la esigua presenza, in tale fase storica, di profonde conflittualità di classe.
La validità della nostra critica alla cosiddetta rivoluzione passiva si fa più viva e pertinente se messa al vaglio degli accadimenti più vicini a noi che noi stessi abbiamo intensamente vissuto; li elenchiamo per ordine di tempo; nel primo dopoguerra l'occupazione delle fabbriche (1920) diede il via ad una vasta e potente dislocazione di masse operaie sul piano del conflitto di classe che solo eventi molteplici e storicamente noti inchiodarono nelle fabbriche e tarparono le ali ad una soluzione rivoluzionaria: guerra, quindi, di posizione e rivoluzione passiva con il rientro nella normalità conservatrice; scissione con processo di disgregazione più che di aggregazione anche se erano prevalenti i dati di aggregazione delle forze rivoluzionarie attorno ad un partito, il PSI, che rivoluzionario non era.
Il rapimento e l'assassinio di Giacomo Matteotti ha aperto e messo in evidenza la crisi profonda che travagliava il regime fascista. E stato l'episodio più drammatico e rivelatore della vera natura del regime che ha scosso nel profondo la coscienza delle grandi masse e creato la condizione d'una scissione che non ha trovato lo spazio politico su cui operare. Da una parte un regime che vedeva salire da tutto il paese e da tutti i ceti della popolazione un invincibile odio per l'accaduto e una volontà, seppure repressa, di farla finita col fascismo e con le sue istituzioni e che si sentiva di fatto incapace di mobilitare la propria milizia armata; dall'altra un caotico schieramento antifascista miseramente arenato e reso imbelle sull'Aventino e, in coda, una direzione del Partito Comunista smarrita di fronte ad avvenimenti più grandi delle sue capacità di muoversi secondo una tattica e una strategia di classe, indecisa se uscire o rimanere nel parlamento, se dar vita o meno all'antiparlamento, se porre o meno la questione morale puntata non tanto contro il regime nel suo complesso quanto sulla persona di Mussolini.
Si è sopravalutato quanto avveniva sul piano politico parlamentare in attesa di svolte che non si sono avute e non si è posta l'attenzione dovuta alla acutissima tensione che sommoveva le masse specie delle zone più povere; una rivolta morale incapace, per forza propria, di trasformarsi in rivolta politica. Ciò che avemmo modo di rimproverare a Gramsci, come maggiore responsabile dell'esecutivo, il quale attendeva passivamente che si verificasse una qualche iniziativa dal basso come se non fosse compito del partito rivoluzionario seguire da vicino e verificare in una atmosfera rovente quale si era determinata nei primi giorni dopo l'assassinio di Matteotti, lo stato delle masse e la loro reale volontà di lotta anche se non apertamente espressa. C'erano sì, i rapporti degli interregionali, ma quanti di questi, quelli soprattutto che provenivano dalle zone più calde del meridione, sono finiti al macero per aver riferito l'esistenza di segni premonitori che andavano esaminati criticamente, sono stati ritenuti frutto di acchiappanuvole di sinistra, quando non del tutto provocatori, perché il funzionario estensore del rapporto non era, in un certo modo, in odore di santità centrista.
E pensare che era stato proprio Gramsci a scrivere sulla Questione meridionale che "il mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale". Ebbene quando questa grande disgregazione sociale entra in fase di sommovimento ed il blocco organico dei tre strati sociali in funzione egemone entra in fase di dissolvimento per la diserzione degli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, era compito della direzione gramsciana di affondare una più avvertita attenzione critica in questo enorme potenziale umano della rivoluzione di classe.
Quando si determinano situazioni di crisi di eccezionale gravità come quella che stiamo esaminando, ed è allo stato latente una volontà generalizzata di cambiare tutto, il problema centrale per i rivoluzionari è quello del loro inserimento per aiutare lo stato latente a svolgersi, a divenire stato reale ed esprimersi sul piano che in quel momento si riteneva più idoneo, per incominciare l'opera del cambiamento.
È in questo ambito di visione critica che si sostenne da parte della sinistra la necessità dello spostamento dell'asse d'azione del partito dal piano d'una politica polarizzata su quanto stava accadendo tra le forze parlamentari, a quello delle masse operaie e contadine e delle loro istanze per operarvi dentro come forza di orientamento di classe, di organizzazione e di pungolo. Quando si decise di fare i primi passi in questa direzione era troppo tardi: il momento magico, quello che vede il nemico di classe schiacciato sotto il peso di un delitto infame della bancarotta economico-politica e per di più isolato e quasi del tutto indifeso, era obiettivamente passato. Mentre la vecchia tattica del partito era caratterizzata dall'attesa più o meno incerta di soluzioni immediate, la nuova tattica mirava a riprendere il contatto con le masse dei grandi complessi industriali con l'utilizzo dei compagni deputati coperti, per modo di dire, dalla immunità parlamentare. Chi scrive ebbe il compito e la soddisfazione di fare da cavia dando inizio ad una serie di comizi volanti che, per la verità, non avevano, e del resto non potevano avere, il pregio di una preparazione adeguata al rischio che ognuno correva. L'esperimento-cavia funzionò egregiamente: un comizio improvvisato in piazza Mastai, nel cuore di Roma, all'uscita delle maestranze dalla Manifattura Tabacchi, nel popoloso quartiere di Trastevere, davanti ad un pubblico più meravigliato che impaurito, l'oratore esaminò la crisi del regime e la necessità d'una ripresa di classe, ottenendo segni di consenso soprattutto quando dichiarò che aveva parlato come rappresentante del Partito Comunista. Ritornò rapido alla Camera dei deputati per sottrarsi così alle inevitabili reazioni. Il ghiaccio della paura e soprattutto della sfiducia era così rotto e i lavoratori, uomini e donne, potevano tornare a guardare al loro partito con la speranza d'una ripresa. In realtà in quel momento era il fascismo che, superato il pericolo, era in grado di riordinare le sue forze. La politica del partito, da un attendismo inerte alimentato fino allora dalla speranza che tutto si sarebbe risolto per grazia ricevuta da una improvvisa e provvidenziale politica di rivalsa della Corona passava ad un attivismo, il più spericolato e irresponsabile, buttando allo sbaraglio compagni senza un minimo di copertura e di difesa personale forse sperando che, come deputati, fossero assicurati contro ogni infortunio; già, dopo Matteotti!
Sta di fatto, comunque, che i compagni designati a questa missione l'hanno portata a compimento con profondo senso del dovere. Il rischio affrontato era il rischio di tutto il partito, tale, quindi, da assumere il carattere della necessità per tutti.
Tra i vari episodi vale la pena ricordare: il comizio davanti alla Marelli di Sesto S. Giovanni, finito per la violenta irruzione di squadre fasciste e conseguente scontro con non pochi feriti d'ambo le parti; l'imponente raduno formatosi all'uscita delle maestranze alla Diatto Fiat, a Torino, dove l'oratore fu interrotto a colpi di rivoltella da parte fascista che ferirono gravemente un operaio presente al comizio; una affollata riunione all'uscita delle maestranze d'un grande complesso tessile nel biellese ebbe il suo normale svolgimento quando si sparse la voce che un camion di fascisti messi in allarme dalla direzione dello stabilimento, era di fatto in arrivo. Se il compagno che aveva tenuto il comizio poté rientrare in Biella si dovette all'iniziativa e al comportamento fermo e generoso di un giovanissimo compagno che era intenzionato a ripetere l'impresa nella stessa giornata e nella stessa Biella già percorsa da squadre fasciste sguinzagliate alla ricerca degli importuni che avevano osato turbare la "quiete" politica imposta alla città e farla in barba a quelle autorità.
Non dissimili, nei modi di svolgimento e nelle conseguenze, i comizi volanti avvenuti un po' ovunque davanti alle fabbriche, miranti tutti a riaprire il discorso di classe con gli operai, che allora come sempre nel regime del capitalismo, erano i soli interlocutori validi in quanto portatori delle istanze della classe rivoluzionaria proiettata nel futuro, in tempi più o meno lontani.
La rievocazione di questi episodi e di altri di importanza non dissimile e non meno significativi pone inevitabile la domanda del come giudicare l'altro modo o il modo diverso dell'indirizzo tattico datosi dal centro del partito e come tutto ciò si inquadri con il pensiero di Gramsci che li aveva vissuti come dirigente, con il Gramsci che li ripensa poi nel chiuso del carcere mentre rielabora la teoria, del resto non sua, della rivoluzione passiva e della guerra di posizione.
La domanda impone una precisazione preliminare che investe il problema della definizione del fascismo, della sua reale natura e del suo ruolo come forza motrice d'una esperienza ventennale.
La cosa che impressiona è la estrema leggerezza e la ostentata noncuranza del fenomeno presente nei maggiori esponenti del partito: Bordiga, ad esempio, riteneva, mentre era a Mosca per l' "allargato", impossibile un tentativo di marcia su Roma delle camicie nere e proprio nel momento che tale marcia era in pieno svolgimento, Gramsci se l'è cavata ora con la dichiarazione di "folklore del tutto episodico e paesano", ora affrontando il problema del "cesarismo nella storia".
E Mussolini dove situarlo? Una indicazione Gramsci la dà ma deludente e nello stesso tempo sorprendente. Scrive infatti:
Ma, in avanti, ci chiediamo, o all'indietro? Mistero!
NOTE
1. Dalla Relazione tenuta da Gramsci al Comitato Centrale nell'agosto 1924.
2. L'articolo citato è stato ripubblicato anche su Prometeo n. 9 III serie, 1967 e su Battaglia Comunista nn. 3, 4, 5, 1980; unitamente alla Postilla di Togliatti pubblicata sullo stesso numero de l'Unità citato.
3. Gramsci, Note sul Machiavelli..
Ultima modifica 14.09.2004