MARXISMO
E GRAMSCISMO
Premarxismo filosofico
Presupposti teorici al Gramscismo
Lotta di classe e teoria dello "spirito di scissione"
Sul movimento dei consigli
Funambolismo ideologico
Egemonia e democrazia
Consigli e controllo operaio
Correnti d'opinione e la nuova metafisica
Lo stato
Premarxismo
filosofico
Può sembrare inopportuno e tutt'altro che agevole parlare
del pensiero filosofico e politico di Gramsci in un momento in cui i chierici
del neoumanesimo hanno posto il suo nome, dopo la recente e dolorosa vicenda
della sua vita, sull'altare dell'esaltazione più irriverente e della credenza
più irrazionale e acritica: soprattutto in una situazione in cui questo suo
pensiero ha trovato e trova tuttora la giustificazione storica della sua
affermazione.
Tuttavia ci imponiamo questa messa a punto critica del Gramscismo come un dovere che va inteso e compiuto al di sopra d'ogni sentimento anche se umano e giustificato.
Si è ubbidito ad una specie di sacro furore che a volte ha rasentato la mania nel riunire ed affastellare gli scritti di Gramsci che man mano vengono alla luce. Uno di questi, e precisamente II materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce è apparso particolarmente interessante perché ci consente di trarre alcune considerazioni conclusive rispetto al modo e ai fini con cui Gramsci ha trattato la filosofia della prassi.
Per la verità il lavoro si presenta quanto mai frammentario ed eclettico: non precisa un vero e proprio corpo di dottrine filosofiche ma offre tuttavia sufficienti note orientative per rintracciare la vera anima di Gramsci, quella almeno che avevamo avuto agio di conoscere, di ammirare anche ed anche criticare e respingere ai tempi della comune milizia politica.
Se viene perciò a mancare una visione d'insieme, quella di scorcio è pur viva; come facilmente individuabile è il filo conduttore di quello stato spirituale che anima il libro e che, in Gramsci, uomo di cultura e di avvertita sensibilità, è tutto.
Se fosse preliminarmente necessario situare la posizione dottrinaria di Gramsci nella geografia del pensiero filosofico, noi la collocheremmo senza alcuna perplessità in quel solco del pensiero europeo che ha preso le mosse dall'idealismo hegeliano ed ha trovato la propria continuità nell'indirizzo neoidealistico dello storicismo, dopo aver attinto nutrimento e stimolo dalla potente affermazione della filosofia della prassi che, sorta da questo stesso solco, è apparsa come negazione dialettica in confronto a tutta la filosofia e come suo superamento.
Dopo Marx non è pensabile infatti un filosofare che rifletta una esigenza storica ed esprima una particolare visione del mondo in cui gli interessi materiali e le forze politiche e sociali della classe non appaiano spinte all'esplosione rivoluzionaria.
In questo senso il pensiero di Gramsci non devia dal marxismo per defluire nel solco della filosofia tradizionale; non compie lo sforzo di rompere con essa ma sì serve di tutte le sue premesse ritenute criticamente valide per orientarsi in qualche modo verso una particolare interpretazione del marxismo. Come si vedrà più innanzi la vera matrice di questo pensiero non si trova nell'affermazione della dialettica rivoluzionaria di Marx-Engels, ma in quelle correnti anti intellettualiste e di reazione allo scientismo positivista che pur essendo sorte dopo Marx si riannodano per mille capi all'idealismo pre-marxista; il neorealismo filosofico e politico è andato invece alimentandosi, e assai abbondantemente, alle scuole, da Bergson a Croce, che si erano poste il problema di riabilitare i diritti della ragione e sotto questo rapporto di trovare la connessione tra pensiero e vita.
Gramsci stesso precisa, delimita, localizza quasi il suo pensiero quando afferma che:
Afferma in altre parole che la filosofia della prassi non soltanto è la sola conseguente in confronto a tutta la filosofia immanentistica ma serve da testa di ponte nella lotta su due fronti, contro la filosofia speculativa da una parte e contro ogni formulazione di positivismo e di materialismo deterministico dall'altra.
Precisa inoltre la derivazione della filosofia della prassi dalla concezione immanentistica
Ma allora tutta la filosofia ereditata dal Rinascimento è allo stesso modo immanentistica e soggettiva: l'infinità dei mondi di Bruno, il razionalismo di Cartesio e l'empirismo, la monade di Leibniz, l'illuminismo e la filosofia classica tedesca; tutte queste correnti di pensiero sono pervase dalla concezione immanentistica e soggettiva perché immanentisticamente e soggettivamente si è espressa l'esigenza del moto della moderna borghesia e l'epoca storica del formarsi delle moderne nazionalità. Allo stesso modo è immanentistica e soggettiva la dialettica formale dello storicismo che concepisce la storia come svolgimento, come corrente e come flusso perenne entro cui ininterrotta circola l'attività della provvidenza o, che è lo stesso, dello spirito di cui è sempre così pieno l'immanentismo umanistico.
D'altro canto come può considerarsi immanentistica e soggettiva la dialettica rivoluzionaria che il singolo annulla fondendola nel collettivo, che alla continuità e al progressivo contrappone l'urto, l'eversione e il superamento violento?
Gli è che la dialettica formale dello storicismo è concezione propria del moto borghese, mentre la dialettica rivoluzionaria — concezione di una nuova società la cui apparizione come forza egemonica sarà il risultato di una profonda radicale lacerazione nel mondo delle cose prima ancora che nel mondo degli uomini — afferma che nella storia umana non vi è conciliazione di termini opposti, ma il loro contrasto in cui l'un termine deve necessariamente negare l'altro perché ne scaturisca una ulteriore affermazione di vita. «La contraddizione è ciò che spinge innanzi» ha scritto Hegel, ed è esatto.
C'è nel libro un pullulare di definizioni della filosofia della prassi: «Essa è il materialismo (quello francese del secolo XVIII) perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l'umanesimo»; più plasticamente «...è uguale ad Hegel più Davide Ricardo»; e con più precisione filosofica «...è il rapporto tra la volontà umana (sovrastruttura) e la struttura economica». Nelle quali la concezione immanentista non poteva essere espressa con maggiore evidenza e precisione.
Donde si origina per Gramsci la filosofia della prassi? Forse dall'apparizione del proletariato come classe e dal suo divenire di forza rivoluzionaria in contrasto con la classe del capitale che lo ha originato e potenziato nell'ambito stesso del proprio sviluppo? Forse dall'aver visto i termini di questa realtà storica in Marx ed Engels che hanno elaborato i principi di questa teoria che veniva a costituire lo strumento più preciso e più valido non solo del pensiero e della conoscenza umana ma della stessa conquista rivoluzionaria?
Non faceva del resto Engels, erede della filosofia classica tedesca, proprio il movimento operaio tedesco?
Ma ben altro è il suo processo formativo. Secondo Gramsci la filosofia della prassi è nata «da tutto un passato culturale i cui termini più noti e salienti sono la Rinascenza e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l'economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita». style='font-size: 12.0pt'>
E due erano i compiti che egli poneva a questa filosofia; quello di combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti e quello di educare le masse popolari la cui cultura era medioevale. Questa visione della prassi come esigenza di cultura e come riforma popolare moderna in Gramsci si amplifica e si definisce, col metodo dato dall'intuizione ricardiana del "posto che", della premessa che da una certa conseguenza si pongono i termini d'una nuova gnoseologia. Il concetto di "necessità storica" è strettamente connesso a quello di "razionalità"; ed esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia divenuta operosa, ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva. E chiarisce ulteriormente:
Quel "disgiunto" non è stato messo lì a caso, che troppo grande era in Gramsci il senso e il valore da attribuire all'uso dei vocaboli, ed esprime con chiarezza il fondo del pensiero gramsciano più di qualsiasi dissertazione. Il concepire perciò il complesso di atti individuali e di passioni e sentimenti non disgiunto dalla premessa materiale è sì concepire immanentisticamente, ma in nessun caso è porre un'istanza dialettica e tantomeno deterministica.
In tal modo il senso della storia non è dato da quel procedere dal basso, dalla struttura, dal mondo delle cose e dalla tecnica e dagli interessi legati a questo mondo, e infine dai rapporti di classe che ne caratterizzano la vita sociale, politica e culturale, ma ciò che nella storia è realmente vivo, ciò che conta, anche se riferito al materiale e al quantitativo, per giungere ad una concezione storicistica del razionale, deve provenire da quel complesso e fluido mondo della cultura, degli stimoli intellettuali, dei sentimenti e passioni a cui attinge la volontà, che in definitiva è la sola atta ad indurre all'azione "a tutti i costi". Nella quale concezione è del resto assai palese l'influenza esercitata su Gramsci da quella nuova metafisica sorta dal pensiero filosofico francese degli ultimi decenni dell'Ottocento.
Nell'opera di Gramsci le classi, queste tragiche protagoniste della storia, i loro interessi economici, il complesso dei loro rapporti sociali, la dinamica del loro procedere e del loro regredire non appaiono che in ombra, mentre la nota dell'individualità, della conoscenza e volontà individuale vi è dominante.
Anche quando esamina l'uomo in rapporto con gli altri uomini questa nota della individualità non si attenua ma vi trova motivo di potenziamento.
L'uomo è concepito come una serie di rapporti, e questi sono concepiti attivi e coscienti, corrispondenti cioè ad un grado maggiore o minore d'intelligenza che di essi ha il singolo uomo. «Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento» [il corsivo è nostro].
Più oltre e più chiaramente:
Momento "catartico" cioè passaggio dalla necessità alla libertà visto e sentito non in funzione della socialità e della classe ma in funzione sempre del singolo.
Non vi è dubbio alcuno che la società è formata da individui e che ogni fenomeno sociale è la risultante di volontà, di atti, di sensazioni e di sentimenti individuali. Ogni fenomeno sociale è cioè la risultante di fenomeni individuali.
Ad esempio, nella determinazione del prezzo delle merci sul mercato, noi ci troviamo di fronte ad un fenomeno sociale che risulta dall'incontro di volontà particolari, quelle del venditore e quelle del compratore. Ma questo è un fenomeno sociale che non esprime più nel suo generalizzarsi il desiderio e lo stimolo relativo a questo o quel venditore, a questo o quel compratore. Allo stesso modo avvengono tutti i fenomeni sociali che Marx ritiene indipendenti dalla coscienza, dal sentimento e dalla volontà degli uomini; e non c'è centro di annodamento che possa limitare o annullare questa indipendenza! Al contrario sentite come Gramsci idealizza la sua concezione del singolo: style='font-size: 12.0pt'>
Non si poteva segnare con più evidenza il limite estremo di questo pensiero nella sua caratterizzazione dal marxismo. Rifacciamoci ora alla nota formulazione di Marx:
A questa formulazione estremamente precisa di Marx, divenuta motivo conduttore della vera filosofia della prassi, Gramsci arzigogola questa nota di commento:
Così il pensiero di Marx evirato del motivo profondo ed essenziale che è il prius deterministico rappresentato dalla struttura, viene ricacciato nella pacottiglia della filosofia immanentistica tradizionale.
Una volta eliminata l'idea madre della determinazione non restava a Gramsci che rifarsi alla reciprocità dei fattori della storia. Sentitelo:
Ed esemplifica:
Questa idea del "blocco storico" assume per Gramsci quasi l'importanza d'una scoperta filosofica, tanto che ci ritorna su per precisare che le forze materiali sono il "contenuto" e le ideologie la "forma". E che ciò possa avere valore di scoperta e suggestione di novità, noi davvero non diremmo.
Troppo spesso, troppo appassionatamente anche se non sempre giustamente, Gramsci sì fa scudo del sano realismo di Lenin.
Contro l'idea del "blocco storico" che logicamente consegue a quella della coscienza del singolo come sede dei rapporti sociali riportiamo le sferzate che, attraverso Bogdanov, Lenin dava agli immanentisti, agli empirocriticisti e agli empiromonisti: «Noi respingiamo, scriveva, di primo acchito tutte le premesse filosofiche comuni a questa trinità».
E confutando l'assunto idealistico per il quale "l'esistenza è la coscienza" esemplifica:
Il pensiero di Gramsci ci dà invece l'uomo economico che è nel contempo uomo etico; e in quanto conosce e crede e opera è anche uomo storia; come nel vasto processo di variabilità dei rapporti sociali egli torna a darci l'idea ossessiva dell'individuo, sempre dell'individuo quale loro centro di annodamento. Croce parla di nesso dei distinti in forma di circolarità, ma il senso ne è identico. Ma chi c'è oltre l'individuo?
Vi è dunque una coscienza sociale che deve tradursi in volontà di realizzazione sociale; vi deve essere cioè un ritorno realizzatore della volontà sul complesso della struttura che l'ha suscitata.
La coscienza del divenire storico della classe è determinata, è vero, da quel particolare modo di essere delle condizioni materiali che ne costituiscono le premesse; ma se questa coscienza di classe non si traduce in una volontà di realizzazione di classe il momento dialettico dell'eversione non si opera, viene ancora rimandato nella storia.
Non si può affermare, ad esempio, che manchino oggi le premesse all'atto rivoluzionario; va soltanto constatato che il proletariato si mostra incapace a tradurre la coscienza più o meno completa del suo essere di classe in volontà di realizzazione rivoluzionaria. Ed è questa la ragione prima della crisi del nostro tempo.
Manca in una parola al pensiero di Gramsci la vibrazione della dialettica rivoluzionaria, il senso profondo dello «sdoppiamento di ciò che è uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie» [9]. Soprattutto gli manca il senso drammatico dell'urto, dell'inevitabile lacerazione, del superamento che è nella filosofia della prassi in quanto è nella società umana divisa in classi e quindi nella storia.
E aggiungiamo con Lenin che:
L'aspra invettiva di Lenin è rivolta a tutti coloro che, come Gramsci, al posto di materializzare il dominio dei fenomeni sociali hanno inteso metafìsicizzare le condizioni materiali da cui quei fenomeni si producono.
Il dissenso tra gramscismo e marxismo, come si vede, è fondamentale; e i motivi in sede dottrinaria vanno ricercati nella posizione di contrasto tra il neo-idealismo storicistico e il materialismo dialettico che per noi esprime il contrasto insanabile, tra le due classi fondamentali della storia, che andiamo vivendo.
Presupposti
teorici al Gramscismo
Lo schema di Gramsci: “intellettuali, organizzazione
del consenso, egemonia” che informa di sé e in modo determinante l'attuale
neorevisionismo di tanta parte dei partiti comunisti dell'occidente europeo,
non trova il suo presupposto teorico in nessuna scuola marxista degna di questo
attributo ma è preso di sana pianta da tutta la metodologia e da alcuni
principi filosofici del Croce. È lo stesso Gramsci a ricordarlo, precisando:
Vogliamo concludere questo schema del pensiero di Gramsci con le considerazioni che lo stesso Gramsci esprime nel fare il punto a questo stesso schema già elaborato dal Croce che rappresenta nella concezione crociana della storia, come storia etico-politica, il punto nodale del suo pensiero filosofico e precisarne così i caratteri della ereditarietà ed assimilazione a discapito della tanto conclamata originalità Gramsciana.
Che ciò non sia "futile" è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della prassi [è evidente l'allusione a Lenin, n.d.a.] nel terreno della lotta e dell'organizzazione politica, con terminologia politica, ha, in opposizione alle diverse tendenze "economistiche", rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell'egemonia [in questo caso egemonia è quella del proletariato, n.d.a.] come complemento della teoria dello Stato-forza [cioè della dittatura del proletariato, n.d.a.] e come forma attuale della dottrina quarantottesca della "rivoluzione permanente" [ipotizzata da Marx, n.d.a.] [7]
Abbiamo voluto che fosse lo stesso Gramsci a dire di sé e della sua vicenda culturale e storico-filosofica; tra questo groviglio di correnti varie contraddittorie espresse in modo eclettico, ora è possibile trarre l'essenziale che caratterizza il nucleo teorico su cui Gramsci modellò il suo modo di concepire la politica in generale negli anni '20 e quella del partito rivoluzionario in particolare. Si tratta di un nucleo di formazione composita; vi si trova in origine Croce con i tre canoni fondamentali del blocco storico; intellettuali, organizzazione del consenso ed egemonia, che divengono fondamento della tematica Gramsciana con in più un pizzico di influenza di certo neoidealismo francese, soprattutto di Sorel.
Il marxismo nell'ispirazione e realizzazione leniniana, vi entra di scorcio, quasi per incidente e sempre come momento di curiosità intellettuale, quanto mai viva ed attenta in Gramsci, teso ad ogni forma di indagine speculativa.
Questo spiega il tentativo, del tutto arbitrario, di inserire persino l'esperienza teorico-politica, quella della rivoluzione di Ottobre, nel quadro del pensiero crociano come se la dittatura del proletariato, ad onta della sua transitorietà, degli "effetti disgreganti" del vecchio "blocco storico" non ancora completamente disgregato, fosse compatibile con l'assunto crociano della storia come storia della libertà, che considerava antistoria ogni forma di dittatura e conseguentemente estranea alla storia. E non è che Gramsci ignorasse che Marx teorizzò la necessità di una fase di transizione sulla base di una ferrea egemonia di classe, che è poi la dittatura del proletariato, insegnamento che ci proviene dalla Comune di Parigi e che Lenin realizzò con la rivoluzione d'Ottobre. Ma era necessario uscire da un'indagine soprattutto culturale ed imboccare la via di una valutazione di classe non sempre presente e mai prevalente nel mondo ideologico-politico Gramsciano.
La parte più sconcertante in questo accostamento di Lenin a Croce fatto dal Gramsci non possiamo certo intenderlo futile in quanto ne deriva che Croce e quindi... Lenin «ha, in opposizione alle diverse tendenze economichtiche, rivalutato il fronte della lotta culturale» venendo così a spezzare il nesso tra i due termini della contraddizione, il dato obiettivo economico, il prius della determinazione e il mondo della sovrastruttura, dividendo così con un solco incolmabile la dialettica rivoluzionaria del marxismo dalla dialettica formale propria di tutti i trasformismi "innovatori".
A questo punto c'è da chiedersi non tanto quali e quanti sarebbero stati gli sviluppi ulteriori del pensiero filosofico e politico di Gramsci se una fine prematura e drammatica non ne avesse spezzato il corso ma, sulla base di un esame obiettivo degli scritti e del comportamento del dirigente politico, quali responsabilità gli vanno attribuite, a suo merito o demerito, per il nuovo corso imposto al PCI e realizzato, più o meno correttamente, in suo nome.
Se è vero che per noi italiani, come affermava Gramsci, essere eredi della filosofia classica tedesca significava «essere eredi della filosofia crociana che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca», bisogna dare atto a Gramsci che lo svolgimento degli accadimenti posteriori è la conferma viva dell'esattezza della sua previsione. Solo che è certamente vero in chiave idealistico-liberale, cioè croce-Gramsciana, ma è certamente non vero in chiave marxista; l'una indica soluzioni liberal-riformiste, l'altra indica una soluzione rivoluzionaria.
La teoria del rovesciamento della prassi della sinistra hegeliana elaborata da Marx in modo sistematico segnò il ruolo prioritario e determinante del "materiale" sull'"ideale", del mondo strutturale dell'economia su quello sovrastrutturale delle idee e della volontà umana in un processo di interdipendenza, conquista questa d'importanza fondamentale per il suo contenuto rivoluzionario che affida al proletariato il compito di portarlo a compimento e che l'eclettismo teorico di Gramsci non può né oscurare né distorcere. Abbiamo detto eclettismo perché in definitiva in Gramsci il "problema della ricomposizione del marxismo" altro non è stato che una intelligente riappropriazione di più scuole e tendenze mai completamente fuse in unità. Bisogna allora sciogliere il nodo interpretativo in cui si è impigliato il pensiero di Gramsci e rifarsi alle fonti del materialismo dialettico per vedere il ruolo di fondo attribuito all'economico (mondo della struttura) nel nesso dialettico col pensiero umano (mondo della sovrastruttura). E cominciamo con un aforisma di Feuerbach «il vero non è ciò che è stato pensato ma ciò che è stato, nello stesso tempo che pensato, ugualmente visto, inteso e sentito».
Così Feuerbach poneva in essere concettualmente i termini del rovesciamento anche se poi perverrà all'errore di una determinazione materialistica, errore esattamente uguale ed opposto a quello del suo maestro Hegel, in una concezione materialistica assoluta priva di sviluppo per l'assenza di un vivificante rapporto dialettico.
Spetterà a Marx il compito di storicizzare il rovesciamento precisando, in confronto con la concezione hegeliana, la differenza esistente tra la dialettica materialistica e la dialettica idealista.
E sempre Marx che precisa:
L'atteggiamento tattico e l'obiettivo strategico del partito rivoluzionario di fronte agli intellettuali in genere e alle classi medie da cui gli intellettuali generalmente provengono, hanno in ogni epoca interessato, quando non appassionato, l'attenzione dei centri direzionali dei partiti che si sono susseguiti nelle varie fasi delle lotte del proletariato dissolvendosi, ogni volta, nelle nebbie di molteplici esperienze che non sono andate oltre l'utilitarismo politico più pragmatico e contingente dei blocchi e dei compromessi più o meno "storici" in un clima socio-politico come quello che ha sempre dimorato nel nostro paese in cui il pasticcio, l'intrigo, l'amore per l'aggregazione più sterile e opportunistica sono di casa.
Nella nostra storia più recente, gli anni '19-26 assegnano la fase particolarmente più viva e significativa che consente di affondare nel concreto un'analisi del duplice processo di scissione e di aggregazione per quanto riguarda il ruolo degli intellettuali.
Per Gramsci sono gli anni della indecisione, della ricerca di un orientamento valido che fosse base e centro focale alla tormentata ansia d'una maturità ideologico-politica che si è avuta sì, ma su un piano diverso e per buona parte distorto in confronto a quello offerto dalla dottrina rivoluzionaria del marxismo, pagina certo singolare anche se parziale e inadeguata alle istanze della lotta operaia che stava per uscire dalle strettoie della guerra.
Conclusa la fase consigliarista del primo ordinovismo, indeciso sul problema di fondo del partito, Gramsci passa qui inosservato attraverso lo sforzo formativo del partito rivoluzionario tanto ad Imola che a Livorno, succube in buona o cattiva fede della potente e prepotente personalità di Bordiga. Ma la comunanza di lavoro e di responsabilità al centro del partito ebbe vita breve e non poteva accadere diversamente. A differenza di un Bordiga bonariamente estroverso, poliedrico, che nel dialogo andava al centro dei problemi sulla linea rigida della metodologia marxista e con la certezza assiomatica del matematico che non attende obiezioni ma solo di essere ascoltato, Gramsci all'opposto era per natura assai meno loquace, in tutto vegetativo ma con una prodigiosa capacità di vita interiore e di fervida e varia creatività spirituale sotto l'aspetto esteriore di un'estrema modestia e timidezza e, nel contempo, una sottaciuta volontà di potere personale, dati questi non necessari ma certo non fortuiti in chi ha poi dato la prova di avere appreso l'arte della politica in funzione dello Stato moderno dalle pagine del Principe di Machiavelli.
Lotta
di classe e teoria dello "spirito di scissione"
In Gramsci l'analisi della storia, del corso cioè
delle vicende umane, è particolarmente basata sull'osservazione dei processi
molecolari che si sviluppano nell'interno della società in un succedersi di
spinte di forze in movimento che provocano una serie ininterrotta di aggregazioni
e disgregazioni, una visione immanentistica che egli definisce "spirito
di scissione".
Non siamo, è evidente, ad un tentativo di elaborazione teorica di un modo nuovo e organicamente definito di analizzare la storia e pervenire ad una diversa e originale visione del mondo ma è una costante negli scritti di Gramsci privilegiare il particolare, l'aneddoto, l'episodico come confluenti attivi e caratteristici nella formazione d'ogni seria spinta scissionistica in fase di crescita. Potrebbe essere questo un metodo valido di analisi del particolare, non fine a se stesso ma come approfondimento di conoscenza del ruolo che giocano le forze subalterne nel loro muoversi e polarizzarsi tra le due classi storiche che si contendono la supremazia:
L'errore sta nell'aver fissato l'attenzione critica sul ruolo delle stratificazioni marginali, classi medie e piccola borghesia, mancanti per loro natura di una connotazione precisa di classe e di non averle considerate come forze socio-politiche il cui comportamento tattico è del tutto episodico e contingente, espressione cioè del variare di situazioni obiettive nel contesto della classe dominante operante unicamente ai fini di soluzioni parlamentari, secondo una strategia di consolidamento del sistema e dei suoi organi di potere. L'errore cioè, è di aver sottovalutato l'urto permanente ed insanabile tra le due classi fondamentali, preminente in questa fase di crisi profonda del capitalismo decadente, e di non far convergere la somma dei centri di disgregazione e insieme di scissione dal terreno della classe in disfacimento a quello della classe opposta, divenuta polo di attrazione e di convergenza per una liberazione totale; che è poi superamento rivoluzionario ed avvio al socialismo. Si tratta in una parola, di imboccare e percorrere la strada opposta a quella parlamentare — che riduce i centri di disgregazione e di scissione periferici della classe a motivi di trasformismo del sistema, per rimanere nel suo ambito nella illusione di farne una cosa diversa —, la strada così indicata dalla storia che non trasforma ma rivoluziona, la strada dello scontro della classe contro classe.
La teoria Gramsciana dello spirito di scissione sottintendeva una linea politica del Partito Comunista d'Italia non più coincidente con i motivi ideali, con le strutture organizzative, con la tattica e la strategia del partito di Livorno. Si è andata così precisando la linea di netta separazione tra una politica che si sviluppa nel senso del marxismo rivoluzionario e mira ad investire con una lotta permanente le forze politiche e gli istituti della classe avversa e la politica dei revisionisti che intendevano spostare l'asse sul piano d'una realtà democratica in cui si riteneva possibile lo sviluppo d'una linea politica di crescita del partito aggregando a sé le forze intermedie che nel corso delle crisi cicliche del sistema si trasformano in forze di disgregazione e di scissione da cui nasce la tattica delle alleanze e del fronte unico. Si stanno precisando tutte quelle premesse teoriche, care all'ordinovismo prima maniera, con gli adattamenti imposti dalla nuova situazione, messi in evidenza dallo scontro teorico accesosi con l'iniziativa del Comitato d'Intesa e che avrà il suo compimento con il Congresso di Lione (1926). Sono in tal modo presenti e operanti i coefficienti che daranno vita a quel processo degenerativo le cui tappe si caratterizzeranno come qualche cosa di più e di peggio, almeno nella sua fase iniziale, di un semplice appiattimento dell'analisi marxista.
Ciò che è estremamente chiaro nel discorso Gramsciano è che alla teoria della contrapposizione dualistica del procedere della storia, propria del marxismo, ha posto come problema centrale a tale procedere la concezione pluralistica del succedersi progressivo, quasi per legge fisica, del movimento molecolare delle forze sociali, storicamente subalterne; in altre parole alla visione catastrofica del superamento dialettico che presupponeva come inevitabile la chirurgia dell'atto rivoluzionario, contrappone quella di una serie di passaggi, idealisticamente ad infinitum, da forze in fase di disgregazione in forze in fase di aggregazione secondo una dinamica di linearità progressiva. Altra considerazione distintiva e d'importanza fondamentale è che il marxismo dà funzione di priorità al fattore economico, che riflette le proprie spinte nel mondo della sovrastruttura, mentre per la metodologia Gramsciana tutto si svolge sul piano della sovrastruttura attraverso un processo molecolare dei fattori socio-economici e politico culturali, tutti confluenti, indistintamente, al compimento della vicenda storica. Ed è questo il processo che Gramsci ama definire, con termini tra loro contradditori, la fase della "rivoluzione passiva" che, al massimo, modifica e trasforma, nel bene come nel male, ma non spezza il tessuto economico e politico di un sistema, per crearne un altro diverso ed opposto. Insomma il senso della passività dà alla rivoluzione un carattere di permanenza, "rovesciata" in confronto a quella elaborata da Trotsky, perché lanciata lungo i binari del sistema vigente che non sarebbe mai pervenuta alla stazione di partenza della rivoluzione attiva. Non a caso i riferimenti storici su questo tipo di rivoluzione passiva sono prevalentemente legati, in modo episodico e contingente, ad una rivoluzione mancata (né attiva né passiva quindi quella) del Risorgimento italiano.
Che il trasformismo sia stato e sia tuttora una costante non secondaria nella storia dei partiti parlamentari non esclusi quelli che si richiamano alle masse lavoratrici, è caratteristica di fondo di ogni regime parlamentare e lasciamo ai Gramsciani di oggi il rammarico per il tardivo riconoscimento di considerare tale pratica della politica come forma di sviluppo storico.
Data una tale premessa teorica (di considerare il trasformismo come una componente indifferenziata delle vicende politiche dei partiti), c'è da chiedersi fino a che punto Gramsci sia stato presago e responsabile insieme delle future vicende del partito che, nato a Livorno come partito del proletariato rivoluzionario, è finito nella melmosa pratica politica del più spregevole e ingannevole trasformismo parlamentare pur di accedere all'area del potere come ultima trincea di difesa dell'attuale sistema di produzione capitalistica.
In questo quadro quali sono le forze sociali che vi operano e, su di esse, quale la funzione e le reali influenze degli intellettuali? Dobbiamo tenere presente che a questo argomento Gramsci ha dedicato largo spazio, forse troppo, di ricerca storica e di particolare attenzione critica, con la stessa passione e unilateralità con cui ha espresso quel ruolo di intellettuale sia nell'esame della questione meridionale sia nella funzione dei Consigli sul piano della lotta operaia nell'ambito prevalentemente industriale; si può dire che il ruolo dell'intellettuale, organico e no, costituisce il motivo conduttore di tutta la problematica Gramsciana che, svuotata da questo protagonista quanto mai mutevole e infido, anche nella teoria "dello spirito di scissione" verrebbe a mancare del suo maggiore pilastro di sostegno e si ridurrebbe a semplice flatus vocis che è quanto dire a semplice esercitazione letteraria.
Sul
movimento dei consigli
Abbiamo già detto della frammentarietà dell'opera
complessiva di Gramsci, ma dobbiamo riconoscere che essa è percorsa nel suo interno
da un motivo cardine che sorregge il tutto in una visione d'insieme il cui
filo conduttore è l'egemonia con tutte le sue implicazioni e sfaccettature
contingenti e contraddittorie che perviene alla sua logica conclusione
chiarendo, senza equivoci, la sua natura ideale che non si identifica né con la
metodologia marxista né tanto meno con il fine rivoluzionario della classe. Ed
è questo nodo centrale che deve essere sciolto una volta per sempre per dare a
Gramsci, non mistificato, quel che in realtà è di Gramsci.
Per Gramsci il problema centrale è il modo di uscire dalla lunga serie delle scissioni originate dal moto molecolare di aggregazione e di disgregazione delle forze sociali, dal susseguirsi delle rivoluzioni passive e dalle guerre di posizione. È qui il centro focale di tutta la tematica Gramsciana che dovrebbe concludersi con l'egemonia delle forze sociali, la nuova classe fondamentale, dando il via ad un ordine nuovo. Quale e soprattutto come? C'è in Gramsci, costante, una irrequietezza spirituale, la mania di concludere, costantemente inappagata, e una inestinguibile ansia del potere: il problema dello Stato. Si era nel primo dopoguerra; la situazione portava in sé tutti i motivi di una crescente disgregazione; le istituzioni in parte spezzate e quelle rimaste in piedi non erano in grado di darsi un programma e tanto meno di metterlo in esecuzione; un cumulo di contraddizioni, di impotenza e di disperazioni in cui tutto e il contrario di tutto era possibile che accadesse.
Su tutto e su tutti incombeva il trauma della rivoluzione d'Ottobre, enorme spinta psicologica positiva per chi aveva tutto da rivendicare e da conquistare, negativa e fatta di paura per chi temeva di perdere le proprie posizioni di privilegio.
I centri di produzione erano centri di scontri e di agitazioni disarticolate e permanenti: non mancavano iniziative sindacali ma nel contempo era in discussione la validità dello stesso sindacato come strumento di azione politico-sindacale: i vecchi partiti apparivano in stato di profondo disorientamento nel ritrovare la propria identità ideologica e politica. Come per il sindacato anche per i partiti tutto era messo in discussione con la tendenza prevalente a estremizzare sia a destra che a sinistra. Notevoli i conati per esperienze nuove anche nel grembo delle vecchie strutture dei partiti tradizionali, come il Partito Socialista Italiano nel quale trovarono terreno fertile per una distinta area d'azione i due poli di maggior spicco ideologico e di più matura e approfondita elaborazione dottrinaria del marxismo: il gruppo del Soviet della corrente della Sinistra italiana e il gruppo dell'Ordine Nuovo della corrente consigliarista. È questa l'esperienza dei Consigli che interessa il nostro esame.
Nel cuore della guerra, nell'ampiezza e profondità della prima guerra imperialista, i Consigli avevano dato la dimostrazione, soprattutto nell'esperienza aperta dalla rivoluzione d'Ottobre, d'essere gli organi del potere reale. L'organizzazione dei Consigli nel grande complesso industriale torinese ha ben altra origine e formazione, ha obbedito più ad una suggestione imitativa di una formula politica nuova che a spinte oggettive tradotte in termini perentori d'azione rivoluzionaria che non si è verificata più per la insipienza degli organi dirigenti del partito socialista — che avrebbero dovuto capire la situazione e guidare le masse all'azione — che per l'immaturità delle condizioni obiettive. Sotto questo rapporto i Consigli dell'esperienza torinese, non saldati al moto rivoluzionario, non erano né potevano essere che organismi di un potere fittizio e delimitato nel tempo.
Il fatto della disponibilità delle Commissioni interne dei maggiori complessi industriali ad una politica antiriformista, e quindi già inclini ad accettare iniziative della sinistra, non è motivo sufficiente e tantomeno valido perché tali organismi, sorti in funzione sindacale, si trasformassero in organismi del potere operaio, quali sono i Consigli, senza che questo potere esistesse né in potenza né di fatto.
All'atto rivoluzionario non si perviene con atti notarili del genere che segnano, semmai, un banale passaggio da una ragione sociale ad un'altra, sempre nell'ambito sindacale, ma dal salire impetuoso dal basso di immense forze sociali, coagulo di sofferenze immani di sfruttati, di potenza distruttiva, di rabbia troppo a lungo repressa, persino di odio con la volontà, precisa e irrimandabile, di spezzare una volta per tutte le strutture di una classe corrotta, quella capitalistica, perché storicamente finita.
Prefigurare la città futura e operare su questo piano di irrealtà non rientra nella logica del socialismo né in sede di dottrina e tantomeno in sede della pratica politica; sarebbe come riproporre un ritorno al socialismo utopistico nel momento stesso in cui il proletariato rivoluzionario sta vivendo la conferma storica della verità effettuale del socialismo scientifico. Non deve destare meraviglia se dopo ogni sconfitta nel conflitto di classe, con un proletariato prostrato e incapace d'azione propria di difesa e di offesa nei confronti del nemico di classe, si dia spazio all'azione fantastica, alla fantapolitica dei sognatori, degli acchiappanuvole anche se, in buona parte, in perfetta
buona fede. È la inevitabile e quanto mai pericolosa epoca delle inversioni di tendenze improvvise e mai giustificate, dei contorcimenti strani e dei crolli paurosi; vi predomina costante un ibrido nichilismo fatto ora di distruzioni e ora di patologiche mitiche costruzioni che durano lo spazio di un mattino.
Nella prefigurazione della città futura Gramsci ha dato il meglio della sua opera di studioso e di politico, ma ha anche dato l'avvio a forme devianti a volte dalle sue stesse premesse, predominanti oggi in quello che fu anche il suo e nostro partito.
"L'ottimismo della volontà", aforisma derivato dalla filosofia del neospiritualismo francese, egli deve averlo concepito dopo un esame introspettivo della sua stessa esperienza che si conclude nell'arco di tempo che va dal '19 al '26, cioè dall'epoca dei Consigli alla promulgazione delle leggi eccezionali, che relega il partito e la sua direzione nelle galere e nei campi di concentramento o all'espatrio clandestino da cui prende inizio il secondo periodo di storia a cui si legherà, completandolo, l'altro aforisma più realistico e dolorosamente vissuto, quello del "pessimismo della intelligenza".
Puntualizziamo i tratti di questa volontà protesa a realizzarsi non sui dati obiettivi d'un dato momento della crisi della società capitalista ma sotto la spinta emotiva quale può essere espressa da un certo grado di ottimismo; volontà e ottimismo riecheggiano nelle pagine dell’Ordine Nuovo; argomento di fondo: i Consigli, come cellule viventi d'una nuova società. Sentiamo, come è nostro metodo interpretativo, lo stesso Gramsci:
L'esperienza, più teorica che pratica, dei Consigli, verrà affossata ufficialmente da Gramsci al convegno della frazione comunista di Imola (1920) e non se ne parlerà più nei termini ipotizzati dagli ordinovisti, come organi del potere proletario; spetterà ai futuri epigoni, i manovali della degradazione del partito nato a Livorno, di abbassare ancor più il ruolo dei Consigli riducendolo a strumento permanente della politica sindacale che, per sua natura, non va oltre la pratica del rivendicazionismo, obiettivamente corporativo, al di fuori d'ogni pratica e prospettiva rivoluzionaria.
AI culmine della crisi che si avrà con l'occupazione delle fabbriche, il proletariato industriale non è ancora la forza egemone ma ancora forza soggetta, se non uscirà dalle fabbriche occupate per attaccare frontalmente lo Stato e colpire così nel cuore il capitalismo. Il fatto che la Fiat sia occupata da maestranze che lavorano non si sa per chi e per che cosa e la facile soddisfazione di sapere che un bravo compagno, il metallurgico Parodi, siede sulla poltrona di Agnelli, non assicurano davvero dignità alla funzione egemone del proletariato industriale quando lo Stato mantiene comunque intatte le sue strutture e l'industriale Agnelli è sempre padrone della Fiat. E gli avvenimenti di questo periodo storico hanno dato ragione alla linea della Sinistra italiana che per bocca di Bordiga affermava che il nodo da sciogliere non era quello di occupare la fabbrica per rimanervi prigionieri se non si conquistano e non si spezzano le strutture dello Stato.
Gramsci non riteneva che tale ruolo potesse essere assegnato al PSI ma non poneva, come prospettiva immediata, la necessità del partito rivoluzionario; lui che sentiva tutta l'urgenza di un organo di guida alle spinte molteplici, contraddittorie e in parte irrazionali che salivano dal basso, affidava ai consigli, ideologicamente e politicamente immaturi con tutte le influenze negative e inceppanti dello spirito di categoria a sfondo corporativo, il compito immane di portare a compimento l'eversione rivoluzionaria che non è solo atto di violenza, ma è costruzione di una nuova società, e tutto questo in una sola città, sia pure industriale come Torino.
La sconfitta operaia dell'occupazione delle fabbriche chiude di fatto e miseramente l'esperienza dei Consigli. Ed è il fascismo.
Sarebbe impensabile una tale sequenza di errori di impostazione tattica e di strategia se il tutto non fosse sorretto da una idea madre, costante, che in Gramsci assume forma ossessiva allorché considera i Consigli come la prefigurazione dell'egemonia della classe consolidantesi sulle strutture stesse degli organi istituzionali dello Stato capitalista. Il progressivo e il regressivo coesistono e concrescono nello Stato come due momenti della stessa realtà. In questa vicenda di crescita e di decrescita i riflessi sono visibili nella maggiore o minore influenza e determinazione che verrà esercitata sugli organi dello Stato, palestra materiale del conflitto tra le forze egemoni della storia.
Nasce da qui il problema del come Gramsci considerava lo Stato.
Funambolismo
ideologico
Anche la constatazione che stiamo per formulare
sembra esprimere una strana contraddizione che è solo apparente: il marxismo,
come dottrina, è esigenza universalmente sentita e un inevitabile punto di
approdo di tutta la cultura filosofica e politica del nostro tempo; tuttavia,
mai come ora, esso è stato sottoposto, anche nella formulazione del
linguaggio, alle interpretazioni più arbitrarie e accomodanti e ne è venuto fuori
un marxismo di maniera, buono cioè a tutti gli usi anche i più illeciti e
aberranti.
Se da un lato tutto ciò si spiega con certe esigenze di basso mercantilismo politico, dall'altro serve come misura di un certo livello morale e della degradazione a cui è stato piegato il ruolo della cultura.
E se la constatazione è ovvia se riferita all'intelligenza borghese democratica, non dovrebbe esserlo per chi, come i teorizzanti del PCI, afferma a destra e a manca di attingere al marxismo rivoluzionario come a fonte ideale nella elaborazione della propria ideologia e nella definizione della propria condotta politica.
Nella storia, quella vera, di questi cinquant’anni dell'Unità, questa appare come un arco teso a ritroso verso ideologie che riportano al premarxismo, al superamento d'ogni tematica marxista per un sempre più vasto inserimento del proletariato nel dispositivo capitalista come la marciante punta avanzata della spinta progressista del composito fronte borghese. È quanto sta, infatti, accadendo, in modo più o meno palese, sotto i nostri occhi. Bisogna proprio riconoscere che anche la via percorsa dall'opportunismo ha obbedito alle esigenze tattiche del progressismo.
Ricordiamone le tappe più significative.
L'onore di aver dato l'avvio spetta indiscutibilmente a Gramsci che già nella complessità e vastità della sua preparazione filosofica maturata nel clima suggestivo e corruttore del neo spiritualismo francese dei Bergson, dei Sorel e di quello italiano dei Croce, portava questa predisposizione e inclinazione intellettuale ai valori della contingenza, al senso del concreto e al gioco alterno della sperimentazione anche se non sempre aderenti ai veri, reali interessi del proletariato, quello, si intende, dei grandi centri come Torino, dove erano vive e operanti le punte avanzate del moderno capitalismo.
Chi ha avuto modo di conoscere Gramsci nel vivo della sua personalità intellettuale e umana, sa quanto del suo mondo, ch'egli credeva saldamente ancorato nel cuore delle masse operaie nella fabbrica, fosse vissuto invece fantasticamente, per quella sua facoltà di soggettivizzare tutto, le sue idee, i suoi sentimenti, le stesse vicende della lotta operaia e della politica militante.
Chi non ha afferrato questo lato della personalità intellettuale e politica di Gramsci non può aver capito l'essenza dell'"ordinovismo" nei pochi lati positivi della sua breve esperienza, ma soprattutto nei suoi lati negativi lasciati a sedimentare, purtroppo, nel folto stuolo degli epigoni.
Ed è proprio per questa tendenza che era portato a pensare e a operare sotto la spinta di una volontà realizzatrice ad ogni costo; giovanissimo, affidava un potere quasi taumaturgico e in ogni caso determinante alla teoria e alla pratica dei "consigli"; fatto più adulto e passato alla direzione del Partito Comunista, considerava la tattica dell'inserimento nella lotta politica come un tuffarsi nella realtà quotidiana per trarre da questa il materiale umano da convogliare nella linea politica del partito e le suggestioni che avrebbero a loro volta influenzato il dato soggettivo della stessa azione politica.
Tali premesse teoriche, a cui Gramsci faceva seguire iniziative anche sul piano organizzativo, non si allacciavano in nessun modo con una visione dialettica del conflitto delle classi, con la legge, cioè, della determinazione che affida al sostrato economico una funzione preminente negli accadimenti della sovrastruttura, il ruolo della volontà umana determinato anch'esso e a sua volta determinante nel suo ritorno sulla base della stessa determinazione; in una parola l'essenziale della tematica marxista gli era allora quasi del tutto estranea se non ostile.
L'esperienza torinese dei Consigli di fabbrica porta i segni evidenti di questa ideologia improntata a intuizionismo mistico, ad acceso volontarismo "creatore" più che alle ferree leggi del materialismo dialettico del marxismo.
Senza nessi ideali con la tradizione socialista delle masse prese nel loro insieme di classe, senza una saldatura con le forze del partito socialista, le sole che allora rappresentavano anche se in modo manchevole le aspirazioni e la forza organizzata dei lavoratori italiani, l’"ordinovismo" doveva precludersi ogni possibilità di seria guida rivoluzionaria e concludersi come episodico tentativo ideologico-politico fecondo solo per i futuri revisionisti di destra del movimento operaio.
Con questi precedenti e data la sua notevole statura politica, Gramsci doveva apparire ai dirigenti bolscevichi del periodo post-leninista, l'uomo a cui affidare proficuamente il compito di dirigere il partito nella fase, assai complessa e delicata, della "bolscevizzazione" che avrebbe dovuto adeguare, anche strutturalmente, il partito nato a Livorno nel solco della tradizione della Sinistra italiana alle mutate esigenze dello Stato russo, imposte dal nuovo corso della sua economia e della sua politica. Bolscevizzare il partito voleva significare frazionarlo, spezzare la sintesi delle sue varie componenti sociali e di categorie, spersonalizzarlo e disperderlo nelle fabbriche, sui posti di lavoro con l'inconfessato obiettivo di dominarlo dall'alto con una salda rete funzionaristica e spegnere in esso ogni capacità di visione critica, d'iniziativa e di spinta di classe.
Spettava a Togliatti, numero uno della mala compagnia degli epigoni, di portare alle estreme conseguenze, deformandole il più delle volte, certe formulazioni teoriche che la sorte non ha consentito a Gramsci di vedere tradotte in prassi politica e organizzativa.
È del periodo di Gramsci, è forma embrionale del suo "blocco storico" la politica del fronte-unico antifascista, ma Togliatti si servirà poi dell'apporto quantitativo dato da questa politica antifascista per farne un suo strumento di lotta incanalandolo sul piano della seconda guerra imperialista, della guerra di liberazione nazionale e del moto partigiano, chiamando tutto ciò guerra popolare rivoluzionaria per il compimento del secondo Risorgimento italiano.
Ma il capolavoro tattico e strategico di Togliatti sarebbe stato il secondo e definitivo esperimento del Gramsciano "blocco storico", quello del potere, con la scalata al governo della Repubblica da parte della variopinta sinistra parlamentare.
Che tale piano riesca o no, non avrà in sé e per sé gran peso, ma potrà produrre un fatto positivo: la fine cioè del partito di Togliatti come partito "per eccellenza" della classe operaia e d'ogni richiamo propagandistico, che possa ancora avere presa, alla ideologia di classe, al marxismo rivoluzionario e alla dittatura del proletariato. Questo futuro "partito nuovo", sarà il partito che esprimerà più concretamente gli interessi del neocapitalismo e del capitalismo di stato e come tale sarà al governo in rappresentanza di questo settore avanzato del capitalismo monopolistico e della sua matrice sociale che è la borghesia progressista.
Se non altro, la tendenza bloccarda di Gramsci, se trovava una sua validità storica in questo suo riallacciarsi allo spirito federativo così vivo e ricco di fermento nelle tendenze politiche risorgimentali e nello spirito regionalistico della nostra gente, non lasciava certo supporre la concezione del partito unico operaio come federazione dei partiti comprendente la democrazia laica e clericale.
Ricordiamo a questo proposito l'appassionata insistenza con cui Gramsci considerava il fallimento della borghesia e poneva come non dilazionabile la necessità storica che il suo ruolo di guida passasse al proletariato, ciò che è in evidente contrasto con l'imparaticcio teorico e l'estrema banalità con cui Togliatti ieri e Berlinguer ed epigoni oggi, questa stessa borghesia rivalorizzano in ogni loro atto. Un partito così variamente composito sarà senza principi, un abborracciamento di ideologie contrastanti, cucite insieme con il filo nero dell'opportunismo e del miraggio del potere.
Bisogna riconoscere che il cretinismo parlamentare in un trentennio di esperienza democratica è divenuto davvero adulto se si considera forza capace di far da trincea avanzata contro il temuto assalto del proletariato rivoluzionario sotto la guida del partito di Lenin, il solo che turba la coscienza degli opportunisti e pone nel dispregio che meritano i valori della democrazia e delle istituzioni parlamentari che costituiscono per loro i pilastri imperituri della civiltà occidentale borghese e cristiana.
Tra i non pochi frammenti e appunti sul concetto dell'egemonia, la cui frequenza e insistenza ricorrenti nell'opera stanno a dimostrare come l'argomento fosse al centro dell'attenzione dell'autore e ne condizionasse in parte la formulazione teorica e la decisione pratica, in evidente contrasto con il marxismo della sua militanza politica, abbiamo scelto Egemonia e democrazia che riteniamo più significativo e più completo, pur nella sua schematicità.
Forse il maggior impegno di elaborazione teorica di tutta l'opera Gramsciana, il punto focale della sua dottrina va ricercato in questo tentativo di approfondimento critico, che è poi l'egemonia, quel turbinoso processo molecolare che rende possibile il passaggio da gruppi o classi diretti a gruppi o classi dirigenti.
È proprio in questo nucleo di pensiero che prende via via corpo l'idea della "egemonia" che finisce per trovare la sua vera, anche se mai completa, collocazione prima nei Consigli come prefigurazione della futura società comunista, quindi nel partito concepito su base cellulare di fabbrica, e infine nel ruolo "prioritario" affidato agli intellettuali e in genere alle classi medie nella visione del blocco storico.
Incominciamo con i Consigli. Per la verità ci siamo più volte, e per ragioni polemiche, riferiti a questi punti nodali della dottrina dei Consigli soprattutto per ciò che concerne la tesi cara a Gramsci del carattere di prefigurazione della società comunista che si voleva attribuire a questo tipo di organizzazione già inserito nel contesto delle strutture della vecchia società che si voleva distruggere.
I termini della nostra polemica con Gramsci allora sottintendevano l'interpretazione che del ruolo dei Consigli sarebbe stata data dall'opportunismo: i consigli (soviet) sono sorti e sorgono storicamente come organi del potere operaio in perfetta sintonia col partito rivoluzionario, nascono quindi da una spaccatura rivoluzionaria e mai da un processo riformista di riconciliazione tra le classi. È proprio per questo netto spartiacque teorico posto dalla nostra lontana disputa, quanto mai viva e attuale, che ogni rilettura di Gramsci deve essere fatta criticamente, alla luce cioè di quanto viene fatto oggi dai tardi epigoni del Gramscismo in nome del suo insegnamento.
Par di leggere un brano preso di sana pianta da una pagina di un qualsiasi scrittore del periodo del socialismo utopistico tanto la crescita d'una coscienza del gruppo soggetto è intrisa di «collaborazione per produrre bene» e «utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza», e il passaggio molecolare al gruppo dirigente è tanto palesemente indolore.
Gramsci conclude il suo pensiero in questi termini:
Trascurando in questa sede ciò che invece Gramsci non trascurava affatto, cioè la ricerca dell'effetto che chi scrive cerca di ottenere dall'uso o abuso di un certo mezzo espressivo, quel che colpisce in questa nostra rilettura è l'impressionante assenza, nella funzione dei Consigli, d'una pur minima comprensione dei termini di una contrapposizione di classe che nel biennio '19-20 aveva raggiunto i suoi punti limite con la rivoluzione d'Ottobre in Russia e con la sconfitta del moto spartachista in Germania.
Ma vediamo più da vicino il problema dei Consigli nella esperienza personale di Gramsci. E a Torino che egli ne vive il suo maggiore episodio teorico-pratico: una rapida fioritura di Consigli avutasi nel settore più avanzato dell'industria metallurgica, sotto la spinta stimolante degli avvenimenti della rivoluzione russa, fa da supporto pratico-organizzativo al gruppo di Ordine Nuovo che ne diviene il centro di elaborazione teorica.
I Consigli dell'esperienza torinese, più che di una situazione nazionale dove era inesistente una fase d'azione immediatamente rivoluzionaria, erano il riflesso di una situazione internazionale che manteneva tuttora delle possibilità di sviluppi in senso rivoluzionario, era quindi inevitabile che tutta l'impostazione inizialmente data ai Consigli, notevole per apporto intellettuale e per un certo malcelato afflato mistico più che per ponderata analisi dei dati obiettivi, dovesse finire con giravolte teorico-tattiche di non facile giustificazione.
Nella situazione italiana, pur non essendo all'ordine del giorno una prospettiva immediatamente rivoluzionaria, nel suo complesso era tuttavia viva una fase montante nella quale i Consigli potevano trovare ossigeno sufficiente per vivere nella ipotesi di una possibile e non lontana prospettiva di soluzione rivoluzionaria. Ma avevano i Consigli una struttura, una organizzazione nazionale, una rete efficiente di quadri intermedi e soprattutto una raggiunta omogeneità organica tra teoria e pratica? L'originalità dell'Ordine Nuovo e della prima esperienza dei Consigli è stata quella torinese e non ha oltrepassato nella pratica, triste esperienza italiana, i limiti della provincia.
Nella ricerca, tra il '17 e il '19, di una egemonia valida alle esigenze della situazione ancora piena di incognite, Gramsci si è dovuto accontentare delle false egemonie o delle egemonie imperfette.
L'errore di fondo di tutta la tematica Gramsciana va individuato in quella sua pretesa, del tutto idealistica, di attribuire agli organi di fabbrica, per loro natura contingenti, mutevoli e ancorati ad interessi particolari, funzioni permanenti e statiche che sono proprie del partito di classe.
Che l'organizzazione dei Consigli non sia riuscita negli anni dell'esperienza ordinovista ('17-'20) a comporre la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa, lo dimostra il fatto della sua organica incapacità a recepire una funzione di egemonia politica pur nei confronti di un partito come quello socialista non certo concorrenziale sul piano della lotta rivoluzionaria; e infine, come ipotetici organi del potere proletario, i Consigli, nati asfittici, hanno potuto avere una fine onorevole al Convegno di Imola (1920) che, oltre a gettare le basi del partito di classe, è stato anche la naturale sede di approdo e di autoliquidazione delle due maggiori egemonie imperfette esistenti nello schieramento politico italiano, divenuto ormai adulto nello spazio vitale del Partito Socialista: quella dell'Ordine Nuovo, con la fine dei Consigli e quella del Soviet, con la fine dell'astensionismo.
E nel partito che si formerà a Livorno Gramsci porterà, era inevitabile che ciò avvenisse, la sua forma mentis consigliarista, la concezione cioè di un partito che basa la sua egemonia su di una struttura cellulare di fabbrica.
Subito si confonderà, ma senza compromettersi troppo, con la sinistra tradizionale del partito per attendere, dal conflitto latente tra alcune posizioni fondamentali tipiche della "Sinistra italiana" e le esigenze russe del centro della Internazionale, la messa in moto di un processo interno di spostamento di forze (il passaggio molecolare) che avrebbe favorito la formazione di una nuova direzione.
Lo scontro avverrà sul falso e opportunistico problema della scissione (Comitato d'Intesa, 1925) ma all'ordine del giorno del vasto e a volte violento dibattito erano in realtà la politica del fronte unico e la trasformazione della organizzazione del partito dalla sua base territoriale a quella cellulare di fabbrica.
Portare la caratteristica di fabbrica propria dei Consigli nelle strutture del partito, significava per la sinistra contaminarne ideologicamente la natura di organismo unificante le varie e a volte contraddittorie istanze che dal seno della classe salgono fino al partito in un processo di lenta decantazione socio-politica, dalle categorie alla classe, sotto il pungolo costante della vasta gamma delle lotte rivendicazioniste tra capitale e lavoro di cui veramente si sostanzia una propedeutica autenticamente rivoluzionaria.
Nella fabbrica dominano gli interessi che le sono propri e che per loro natura non vanno oltre la rivendicazione corporativa e a questa piegano l'attenzione, i desideri, il comportamento degli operai che vi lavorano.
Portare il partito nella fabbrica significava per noi spezzare il nesso dialettico che deve sempre intercorrere tra partito e classe.
Si voleva dare il valore di scoperta, combattere ogni tendenza corporativa portando il partito nelle fabbriche e si è finito poi con l'immiserire il partito costringendolo sul binario opposto a portare avanti cioè una politica corporativa (comitati di gestione, ecc).
La nuova direzione improntata alla linea Gramsciana che guiderà il partito fino alle leggi eccezionali (novembre 1926) sarà ancora un pallido esempio di egemonia imperfetta, data l'incapacità del vertice di riuscire ad allargare la sua base di influenza potenziando l'apparato dei funzionari ma perdendo sempre più credito dalla parte della reale maggioranza del partito che, ad onta delle manovre condotte senza scrupoli e delle protezioni internazionali sfruttate da buoni mercanti della politica, era tuttora sentimentalmente sul terreno della sinistra.
Tuttavia va riconosciuto a Gramsci la capacità di avere seguito in questo arrembaggio al potere, molto da vicino e con acuto e spregiudicato senso politico, la fase del processo molecolare interno di cui ci stiamo occupando, dimostrando nella pratica, anche col perfido ricatto amministrativo, di sapere attingere più ai metodi appresi dalle pagine di Machiavelli che da quelle di Marx e Lenin.
Del resto non ebbe titubanza nel riconoscerlo rispondendo ad una nostra amara constatazione fattagli in proposito.
Nella storia del movimento operaio si tornerà a parlare dei Consigli ma in modo più dimesso e in termini meno esaltanti, svuotati del contenuto originario che Gramsci attribuiva loro e che di fatto non avevano mai avuto, quello cioè di «essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia» [13]. Questa egemonia i Consigli non l'hanno mai raggiunta né quando Gramsci scriveva queste righe né tanto meno, come organi del potere rivoluzionario, ridotti ormai dagli epigoni al rango di organi permanenti del sindacato di fabbrica, una specie di sostituto, forse più rappresentativo, delle vecchie commissioni interne. Nessuno nega che non si sia verificata con ciò una crescita di potere egemonico, ma a favore dell'apparato sindacale, in nessun caso dei delegati al Consiglio anche se questi sono stati eletti dalla base con tutto il rispetto delle regole democratiche.
Si tratta comunque di una egemonia sviluppatasi su un piano di gerarchia sindacale che solo il fervore di certi epigoni e di certo pressapochismo culturale, oggi in auge, possono considerare nel quadro dell'originaria concezione Gramsciana.
Non vorremmo che si pensasse, con questo nostro richiamo, alle esperienze più recenti, ad un nostro tentativo di servircene come dimostrazione pratica di errori che troverebbero la loro matrice ideale nel pensiero di Gramsci, o più esattamente nella sua frammentarietà; ma è nostra cura mettere in evidenza questa fase dei Consigli che precede la conquista del potere, che sta tutta entro la dinamica del conflitto di classe e che vede il proletariato e i suoi organi di lotta, compresi i Consigli, in condizione, per usare la terminologia di Gramsci, di gruppo diretto (noi diremmo di classe soggetta e subalterna). In questo passaggio molecolare, più o meno celebre, tipico del periodo di crisi profonda in cui sorgono i Consigli, ipotizzare un loro processo di sviluppo organico sul tronco marcio del sistema capitalista, che la rivoluzione dovrà distruggere, è una formulazione per lo meno mitizzante in quanto non trova alcun legame con la realtà del contesto socio-economico. Due momenti diversi per tattica e per strategia che non possono essere confusi.
A proposito di metodologia ci piace ricordare ciò che scrive Lenin di Marx:
Consigli
e controllo operaio
Era inevitabile che il revisionismo più deteriore del
secondo dopoguerra si impossessasse e facesse sua l'arma dei Consigli rifacendosi,
si capisce, all'ordinovismo del primo dopoguerra secondo l'elaborazione teorica
e l'impostazione politica datane da Granisci. Tuttavia il vizio di origine,
quello di considerare la fabbrica come la «cellula d'un organismo», nella quale
«l'economia e la politica confluiscono», nella quale «l'esercizio della
sovranità è tutt'uno con l'atto della produzione» e nella quale «si realizzano
embrionalmente tutti i principi che informeranno la costituzione dello stato
dei consigli», è presente in questa riedizione dei consigli e consegue, come in
Granisci, ad una sottovalutazione se non addirittura ripulsa della funzione
storica del partito di classe. Ma con questa fondamentale differenza: la
strutturazione dei Consigli, il loro inserimento nel processo produttivo, la
loro abilitazione tecnica, la loro stessa politica produttivistica erano visti
da Gramsci nella fase del primo Ordine Nuovo (1919/20) in funzione della
conquista del potere, come momento iniziale e formativo dell'esercizio della
dittatura di classe del proletariato, mentre per i revisionisti tutto ciò è
visto come naturale, pacifico, democratico inserimento delle forze del lavoro
nello Stato; il problema del potere si concretizzerebbe così in una crescente
abilitazione di queste forze alla gestione del potere in collaborazione con
quelle storiche del capitalismo che di fatto detengono questo potere in posizione
di forza egemonica e intendono sì accettare quelle collaborazioni che servono
in definitiva a conservare e rafforzare il potere economico esistente, ma non
intendono spartirlo con chi mirasse ad incidere sui diritti acquisiti d'una
egemonia di classe. Sotto questo rapporto si giudichi oggi la politica del
preteso controllo operaio tentata, con i risultati che tutti conoscono,
attraverso i comitati di gestione e le teoriche postulazioni della cogestione,
che è servita a spingere gli operai a produrre il maggiore sforzo produttivo
nella fase più delicata e difficile del riassestamento del potenziale economico
capitalista. Di fatto i comitati sono finiti nel ridicolo, spazzati via dal
processo produttivo nel momento in cui i padroni hanno ritenuto che la loro
opera di collaborazione era stata portata a compimento e potevano perciò
sentirsi di nuovo veramente padroni.
È interessante seguire il tentativo di teorizzare il problema del controllo operaio che
La lotta del proletariato servirebbe così «ad acquistare giorno per giorno nuove quote del potere, nel senso di contrapporre al potere borghese la richiesta, l'affermazione e le forme di un potere nuovo che venga direttamente e senza deleghe dal basso».
La derivazione dal pensiero di Gramsci è evidentissima in questa impostazione dovuta ad alcuni giovani dell'apparato del PSI ("Sette tesi sulla questione del controllo operaio", Mondo Operaio n. 2, 1958). Ma più evidente è il distacco che separa questo schema, intellettualistico e dilettantistico insieme, dalla visione finalistica e di superamento rivoluzionario del primo Gramsci.
In questi giovani è vivo l'impegno idealistico che li porta a concepire la questione del controllo operaio in astratto, senza tener conto dell'esperienza che essi stessi hanno fatto, negativamente, nella milizia attiva delle formazioni politiche che si richiamano al proletariato. Essi concepiscono infatti fabbriche ideali e ideali legami organizzativi di fabbriche sul piano nazionale; concepiscono istituti a cui affidano il compito di scavare in profondità nel terreno economico-sociale del capitalismo, azione che dovrebbe comportare una evidente lacerazione nel suo diritto di proprietà, e postulano nuovi diritti basati su conquiste operaie che aumenterebbero di potenza materiale in misura proporzionale all'aumento del grado di conoscenze strumentali; prospettano insomma una realtà capitalistica d'interessi economici ben determinati che si fa realtà socialista per virtù insite al processo produttivo, specie di slancio perenne di vita che si articolerebbe per di dentro dalla singola fabbrica al complesso delle fabbriche su su fino al vertice dello stato; molecola di natura socialista della fabbrica dilatata fino a divenire realtà socialista nello stato. Avviene così che il «passaggio pacifico al socialismo invece che verificarsi attraverso il parlamento, va verificandosi ogni giorno, in questo maturare della classe [senza scosse violente, senza rivoluzione, insomma, n.d.a.] attraverso l'opera di questi nuovi istituti di fabbrica».
Par quasi che questi compagni non siano mai entrati in una fabbrica e non conoscano, anche per sentito dire, in quale clima di costrizione morale e di paura gli operai siano oggi costretti a vivere. Non è tanto il ricorso poliziesco al "reparto confino" istituito nei grandi complessi industriali, che esprime l’animus del capitalismo, quanto l'obiettiva possibilità di cui questo liberamente dispone di cambiare, quando e come vuole, la stessa natura sociale delle proprie maestranze, mettendo al posto dell'operaio qualificato di origine e tradizione proletaria, lavoratori reclutati nelle tante zone depresse dell'economia italiana, quando non lavoratori più adatti a spezzare gli scioperi che a far funzionare una macchina.
Va da sé che in questa concezione — in cui un progressismo indefinito delle conquiste operaie si alterna ad una propedeutica riformista della lotta e tutte e due si completano su di un piano nel quale dialettica, metodologia marxista e visione catastrofica del salto rivoluzionario sono del tutto banditi — il partito non poteva ridursi che a semplice «funzione di strumento della formazione politica del movimento di classe (strumento cioè, non di una guida paternalistica, dall'alto, ma di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l'unità di classe)».
Ma le teorie che non coincidono con la realtà sono teorie "fasulle". E riportiamoci alla realtà.
Anche là dove i Consigli e il controllo operaio hanno avuto recenti realizzazioni, hanno vissuto giornate di potenza e di gloria nel clima arroventato dell'insurrezione come in Ungheria e in Polonia, o vengono stroncati dal ritorno offensivo del regime contro cui questi organismi erano sorti e insorti (Ungheria) oppure vengono accortamente svuotati di ogni contenuto classista e rivoluzionario e piegati alle esigenze del regime imperante (come sarebbe avvenuto in Ungheria, se Imre Nagy avesse avuto la possibilità materiale di instaurare il suo regime così come in Polonia ha operato Gomulka, così come in Jugoslavia ha operato Tito).
Dunque anche il controllo operaio esercitato dai Consigli o esplica il suo compito nel momento dell'azione rivoluzionaria in quanto arma di battaglia o si riduce ad un mezzo banalissimo di conciliazione per allestire la solita truffa riformista.
Mentre Gramsci aveva concepito questi organismi di fabbrica, a parte la critica da noi formulata alla loro impostazione teorica, nel quadro di una prospettiva rivoluzionaria, gli epigoni di Gramsci li hanno concepiti e li concepiscono tuttora nel quadro di una prospettiva riformista e dichiaratamente controrivoluzionaria.
Concludiamo il nostro esame affermando che i Consigli sono gli organi del potere e opereranno come tali quando la questione del potere proletario sarà posta all'ordine del giorno della storia.
Ma anche allora non potranno operare da soli, non diventeranno autosufficienti per virtù di nessuna costrizione teorica; non perverranno cioè agli obiettivi per cui sono sorti se non funzioneranno da canali vettori dell'ondata rivoluzionaria imbriglianti l'impeto disordinato e irrazionale delle grandi masse in movimento alle quali tuttavia viene a mancare la coscienza storica del fine e la concezione universale della rivoluzione che sono proprie del partito della classe operaia.
La rivoluzione dell'Ottobre russo fu possibile perché ebbe il partito bolscevico più i Consigli.
La rivoluzione dell'Ottobre ungherese è fallita perché ebbe i Consigli meno il partito bolscevico.
La crisi della IV Repubblica ha fatto riemergere De Gaulle perché il proletariato francese si è trovato davanti a questa svolta senza partito bolscevico e senza Consigli.
Correnti
d'opinione e la nuova metafisica
Una corrente d'opinione che intenda rimanere tale,
che volutamente eviti di legarsi ad una esperienza e neghi ogni partecipazione
attiva e conseguente agli accadimenti di ordine economico, sociale e politico
quali la storia va perennemente intessendo, potrà anche dar adito ad una
problematica ingegnosa e forse interessante nel mondo della pura cultura ma è
destinata a durare lo spazio d'un mattino e rimanere praticamente infeconda
come sono risultate infeconde nella storia del pensiero anche le più ardite
costruzioni metafisiche. E di metafisica è lecito parlare ogni qualvolta la trama
d'una costruzione teorica non si intenda far coincidere con la trama delle
vicende umane, quando cioè si ipotizza un mondo di idee astratte, geometricamente
ordinate, una specie di Città
del Sole con in più richiami, intelligentemente vagliati, ai classici
del marxismo e una fitta, aggiornatissima scelta di dati statistici.
Vogliamo dire in sostanza che una corrente di opinione che si estranea per principio dal vivo degli accadimenti e non conferma la validità di ciò che afferma come dato teorico al fuoco delle lotte che caratterizzano il nostro tempo, si preclude ogni possibilità di trasformarsi in una minoranza operante, inserita concretamente nel solco degli avvenimenti, capace di sentirne le esigenze sul piano di classe e di tradurle in termini di lotta rivoluzionaria.
Una corrente di opinione così concepita e articolata, anche quando si richiama alla ortodossia marxista, non può essere considerata che "tendenzialmente" marxista perché svuota questa dottrina nel suo più alto contenuto, facendo della dialettica una semplice astrazione, un gioco di idee puramente formale e dimentica che nella mente degli uomini vivono riflesse tutte le contraddizioni che sono proprie della società organizzata sul modo di produzione capitalista.
Nei primi anni del secolo questa tendenza si materializzò nelle forme di un empirismo operaistico "schifato" della politica quietista e parlamentare dei partiti e finì per perdersi tra gli ingranaggi di un grigio corporativismo di categoria come avvenne per il sindacalismo barricadiero dei Corridoni e dei De Ambris condotto sul filo dell'anarchismo o per quello dei Labriola ed Enrico Leone, improntato ad un estremismo volontarista.
Più vicina a noi è significativa l'esperienza ordinovista dei Consigli di fabbrica, che ebbe il suo centro d'attrazione a Torino, più particolarmente nel complesso industriale Fiat, per quel tanto ch'essa elaborò in sede di dottrina e tentò sul piano organizzativo al di là e contro il Partito Socialista, che si riteneva strutturalmente vecchio e incapace di una iniziativa rivoluzionaria, nella illusione che non nei quadri di un partito e nella forma della sua organizzazione ma sul posto di lavoro e nel cuore delle masse industriali potessero autoformarsi la coscienza e le forze di una eversione rivoluzionaria congeniali al proletariato moderno.
L'errore commesso dall'ordinovismo consiste nell'aver voluto considerare sul piano d'una teoria generale ciò che era soltanto una esperienza di categoria e fare della fabbrica il microcosmo in cui si riflettesse tutto il complesso e contraddittorio moto della economia.
Ma questo concrescere della coscienza operaia negli organi dello sviluppo strumentale del capitalismo serve più a legare strettamente l'operaio al processo della produzione che a favorirne la liberazione. Gramsci vedeva infatti l'unità laddove avrebbe dovuto vedere il punto nevralgico del contrasto di classe e trovare lì le ragioni obiettive per le quali le forze del lavoro alienato poste contro quelle che impongono tale alienazione tendono a negare e a rompere questa falsa unità. Era implicito l'invito agli operai da parte di questa corrente di considerare la fabbrica come se fosse casa loro. Su questo errore di prospettiva sarà poi orientata la politica socialcomunista della guerra di liberazione antifascista che costringerà le masse operaie a battersi per esercitare un controllo diretto sulla produzione (comitati di gestione) e, quel che è peggio, a difendere le fabbriche, le macchine e a ricostruire quelle distrutte dalla violenza della guerra.
Che poi l'ordinovismo si sia ridotto ad un semplice tentativo nel quadro di un insorgente neoidealismo allora di moda senza alcuna seria rilevanza sul piano di una nuova strategia proletaria, è materia che meriterebbe d'essere studiata al lume d'una più severa critica marxista.
E sintomatico comunque, e non farà meraviglia, che l'ordinovismo debba più tardi trovarsi a suo agio al vertice del Partito Comunista uscito dal Congresso di Livorno per servire da veicolo cosciente a quella bolscevizzazione che doveva aprire la fossa alla rivoluzione d'Ottobre e sbarrare la strada ad ogni seria ripresa di classe su scala internazionale. In posizione polemica con quella torinese dell'ordinovismo si situa l'esperienza realizzata attorno al Soviet di Napoli per la quale il toccasana infallibile risiedeva nell'astensionismo come reazione al parlamentarismo cafone, corrotto e corruttore che dominava la politica italiana e particolarmente quella meridionale.
Aver creduto nell'astensionismo come ad un correttivo di classe capace di preservare le masse operaie e il Partito Socialista da ogni contaminazione parlamentaristica, era quanto di più arbitrario, astratto e malinconicamente intellettualistico poteva capitare tra i piedi del proletariato italiano.
Si è trattato ancora una volta di ridurre un modesto e contingente, pur se necessario, momento di tattica, quello astensionista, a canone politico sempre vero e sempre valido, di costringerlo a camminare sulle malferme stampelle dell'idealismo, commettendo così un madornale e imperdonabile errore: quello di vedere i problemi del partito e della rivoluzione partendo dall'angusto angolo visuale dell'astensionismo e non inversamente.
Nell'ordinovismo come nell'astensionismo, per non riferirci che ad episodi di maggior peso, la politica di classe non è uscita dal gabinetto di analisi teorica e ognuna di queste esperienze, a modo suo, è servita in definitiva a ritardare il processo di formazione del partito che avrebbe dovuto operare in quella fase storica come l'indispensabile motore della rivoluzione socialista.
Da allora e per questi motivi, il corso del movimento operaio italiano è stato faticoso nel suo procedere, distorto e contraddittorio, fino a condurci alla presente, grave stagnazione. Un movimento politico di classe non sorge mai come semplice corrente di opinione ed è partito di classe non tanto per quel che pensa e dice di pensare ma per la dimostrata volontà e capacità di passare concretamente dalla teoria alla pratica riducendo l'enunciato teorico a termine d'azione di classe nei limiti obiettivi della sua realizzabilità.
Il marxismo, si sa, non è mai stato un corpo di dottrine di tipo illuministico, non ha mai preteso di impersonare l'assoluto vero e non si è mai attribuito carattere di indiscriminata universalità ma la sua interpretazione è strettamente legata alla contingenza e alla relatività, dialetticamente espresse, del momento capitalista.
C'è qualcosa di "necessitato", di organico, di strutturalmente inevitabile e inconfondibile nell'atto del sorgere, quale che sia il momento della storia in cui si inserisce, di un movimento dal complesso della classe e che alla classe si richiami per averne fatte proprie le esigenze, i metodi e gli obiettivi.
A questo riguardo è particolarmente notevole e significativo un esame del nostro movimento [15], il solo che nelle tormentate e mutevoli vicende della politica italiana sia rimasto ancora, a volte con la forza della disperazione, alle ragioni storiche del proletariato e alla ideologia rivoluzionaria del marxismo.
È tanto più significativa questa constatazione quando si sa che tutto ciò avveniva in mezzo alla violenza della II Guerra Mondiale, a cui doveva poi far seguito l'attuale abbrutimento delle masse operaie operato dalla ideologia borghese della democrazia parlamentare cui si sono piegati i partiti ad origine cosiddetta operaia, i quali vorrebbero ora dar ad intendere alle masse che questa democrazia rappresenta una fase storicamente necessaria, sulla cui base il socialismo germoglierà spontaneamente come frutto maturo della più vigorosa e feconda pianta della libertà cresciuta sul terreno del capitalismo e concimata col sudore e col sangue del proletariato.
Con l'esaurirsi del mito dei Consigli per l'intima e organica incapacità di irradiarsi su scala nazionale e limitatamente al settore industriale, il ruolo egemonico, così come concepito da Gramsci e dal gruppo ordinovista, si sposta nel partito attraverso un processo di formazione che Gramsci non ricerca nella storia del movimento operaio e nella tematica marxista, ma nell'intuizione non estatica, non lirica, non artistica ma soltanto politica attinta alle fonti del neoidealismo francese (Bergson).
Sempre sullo stesso argomento Gramsci attenua la funzione del "capo" e pone l'accento sull’"organismo" preoccupato forse della precarietà del singolo più soggetto ad azione compiuta, a processi di erosione per l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo che possono distruggere il carattere "carismatico" del condottiero, come la storia largamente dimostra. Scrive:
Questo precostituirsi e immedesimarsi nel divenire stato è al centro del pensiero di Gramsci il quale precisa ancora meglio tale visione politica del partito-stato:
Non è di secondaria importanza notare il nesso esistente tra le due concezioni del potere: al vecchio principe di Machiavelli affidava il compito di liberare l'Italia dal dominio straniero dando così inizio allo stato moderno, precisando le norme, lecite o no, purché atte a mantenere lo stato; mentre al nuovo principe, cioè il partito politico, non la classe che lo esprime, Gramsci affida il compito della trasformazione della società. La sola affinità in questo paradossale accostamento consiste nel tipo di esercizio del potere che nell'un caso o nell'altro è basato sulla dittatura dall'alto sia nella persona di un capo sia in quella di un partito politico. Aleggia su tutta l'impostazione teorica del principe-partito politico, come nebulosa, il principio leninista della dittatura proletaria la cui funzione egemonica di classe finisce per attenuarsi e svanire in una funzione «egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi», in una mistificazione vera e propria tipica come in un qualsiasi stato di diritto della tradizione democratico-borghese.
Per avere una conoscenza più approfondita di come Gramsci senta il problema dello stato bisogna riandare a quella forma-sintesi del suo "blocco storico" in cui si attua la socializzazione della scienza politica e della scienza economica. In un passo delle Lettere dal carcere Gramsci, nel tentativo di precisare il concetto di intellettuali in quanto mediatori del consenso indispensabile ad ogni esercizio di egemonia, scrive:
Prima ancora di prendere in esame la distinzione gramsciana tra egemonia e dittatura, ci preme chiarire il perché della nostra sottolineatura fatta nel brano sopra citato e lo facciamo con le parole di Marx che definisce in modo lapidario e per noi definitivo, la reale natura dello Stato:
Dal che si deduce in linea di massima, che chi dissente da questa visione dello stato propria di Marx e di Lenin non ha i piedi nel marxismo e conseguentemente non potrà né aspirare né operare in funzione di prospettive storiche quali sono ipotizzate dalla dottrina e dalla prassi rivoluzionaria rigidamente di classe proprie del marxismo.
Tutto Gramsci è da esaminare partendo dall'angolo visuale della classe fondamentale, ciò che la miriade di intellettuali che si sono cimentati fin qui ad esaminare le mille facce del gramscismo non hanno fatto.
Il problema dello stato, a cui approdano necessariamente tutte le filosofie politiche, mette a nudo il vero volto del gramscismo nel suo contenuto impregnato di neo-moderatismo e di pragmatismo a sfondo pedagogico. E la logica conclusione d'una faticosa, sofferta e a volte distorta concettualità che avrebbe voluto mirare, senza riuscirvi, alla definizione d'una nuova visione del mondo a cui mancava un suo particolare e caratteristico retroterra culturale e politico, un nucleo teorico originale e unitario, fortemente radicato in una realtà viva da plasmare, imposta da una svolta nuova e concretamente feconda della storia, quella viva e creatrice che attende, per esprimersi, il suo profeta. Ma non di un profeta che si orpellasse del ciarpame liberaldemocratico d'un pur grande Croce e dello spiritualismo mitico e decadente dei Bergson e dei Sorel.
Rifacciamo a ritroso l'iter percorso dal pensiero di Granisci. Inizia con l'idea che è l'organizzazione dei Consigli, come prefigurazione della società futura, la forza motrice della rivoluzione; poi questa idea-forza si sposta nel partito di classe, quale che sia il modo gramsciano di concepirne l'organizzazione. Fin qui la fase che si chiude col crollo del partito per la promulgazione delle leggi eccezionali fasciste. Nel carcere inizia la seconda fase, quella del ripensamento critico sorretto dall'approfondimento della sua già vasta cultura, il tutto filtrato attraverso gli alti e bassi di una cupa e dolorosa solitudine che ha in buona parte condizionato ed esasperato quella potente macchina pensante, ch'era il suo cervello, in un organismo sempre più corroso dal male. È questo il periodo fecondo della sua maggiore e più smarrita elaborazione in cui è evidente il segno di una visione teorica che vien fuori da acute e attentissime letture più che da una realtà effettuale: teoria della scissione, processo molecolare, rivoluzione passiva, guerra di posizione, consenso, egemonia e blocco storico come momento di sintesi del lungo processo di sviluppo democratico che si identifica e si placa nello spirito assoluto, punto limite della filosofia-politica che vedrebbe così risolto il passaggio dal regno della necessità e della coazione al regno della libertà che si concretizza nel governo dei produttori.
C'è chi ha osato definire questo schema come la "nuova, originale ed organica via al socialismo" cosa che sul piano dottrinario non può neppure essere definita revisionismo al marxismo scientifico, neppure teoricamente ad esso parallela, ma come la sua fondamentale contrapposizione.
Nei Quaderni del carcere Marx e Lenin assumono pressappoco la stessa importanza d'un qualsiasi abate Bresciani.
È quindi sul problema dello Stato che avviene la verifica della validità d'una dottrina filosofico-politica. In contraddizione a Marx e Lenin, Gramsci scrive:
Compito
educativo e formativo
dello
Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà [anche
lo Stato capitalista? notiamo noi], di adeguare la "civiltà" e la
moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo
dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente
dei tipi nuovi di umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a
incorporarsi nell'uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui
singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare
"libertà" la necessità e la coercizione? [12] .
In un altro passo affronta il problema della concezione del diritto a mezzo del quale lo stato esprime l'essenzialità vitale del suo essere stato:
E insiste a martellare questi stessi concetti-base intorno allo stato che considera come ente a cui attribuisce il compito primario d'ordine pedagogico:
Ma si tratta d'una lezione di diritto costituzionale sempre e comunque valida e a cui bisogna non solo credere ma anche sottostare, sulla base del rispetto personale, ad una storiografia integrale, anche se in questo contesto è evidente il contrasto con le verità parziali ed episodiche che tale diritto negano in quanto fittizio e del tutto inesistente?
Quando Gramsci scriveva tutto ciò sul diritto in una cella del carcere fascista, vittima del conflitto di classe, aveva forse coscienza di dare il sacrificio di se stesso e di tanti altri come momento espiatorio dovuto a tutta l'attività positiva di incivilimento svolta dallo stato? Questa specie di statolatria, così ricorrente negli scritti di Gramsci, è dovuta al bisticcio teorico sul modo di concepire la storia, tra una storia "integrale" cioè universalisticamente intesa, e una storia "polemica" quindi unilaterale; appunto critico, quest'ultimo, che lo stesso Granisci faceva ad esempio al volume di Salvemini sulla Rivoluzione Francese, ma soprattutto al persistere in lui della tendenza al convogliamento delle nuove forze sociali emergenti (consigli, partito) sull'asse portante dell'attività positiva di "incivilimento" che egli attribuisce allo stato e il loro concrescere con tale attività. Aveva infatti scritto:
È un rieccheggiamento dei motivi di fondo già sostenuti all'epoca dei Consigli con l'idea fallace del loro coinvolgimento e crescita sul tronco dello stato.
E ora di iniziare, in questo nostro excursus del pensiero di Granisci, a tirare i remi in barca e a formulare le prime conclusioni critiche.
Le considerazioni intorno ad un incompiuto Risorgimento con un capitalismo appena incipiente, senza una seria connotazione di classe, senza un proletariato moderno con precisa fisionomia economica e politica, perciò confuso genericamente nel popolo, ancora esso stesso popolo, con la pluralità diversamente caratterizzata delle classi medie e degli intellettuali, in una parola un Risorgimento nazionale senza una vera e propria coscienza nazionale e soprattutto senza la capacità obiettiva di darsi le idee quindi i mezzi d'una rivoluzione democratica borghese. Tali considerazioni risospingono Granisci alle influenze culturali gobettiane e a certe loro affinità intellettuali, con questa differenza: che l'intuizione politica di Gobetti era assai più ardita, lineare e conseguente di quanto non lo fosse quella di Granisci; l'uno affidava al proletariato il ruolo di protagonista della rivoluzione liberale; l'altro era culturalmente irretito nella permanenza d'una rivoluzione passiva e della guerra di posizione, caratteristiche del Risorgimento italiano, che poteva al massimo concludersi in una Costituente repubblicana sempre quindi nel quadro istituzionale borghese. Motivi ideali e politici che riemergeranno nel cuore della II Guerra Mondiale con protagonisti diversi ma con non diversa conclusione.
Tutta l'opera di Gramsci, pur nella sua disorganicità e incompiutezza, dà l'impressione d'una ammirevole girandola di problemi di filosofia, di politica, di letteratura, un po' meno di economia, di cui preferiva esaminare i riflessi sovrastrutturali che non offrono la possibilità di sintesi organica da cui trarre un preciso insegnamento. Eppure gli anni che stiamo vivendo portano in buona parte il segno della sua personalità forse perché, più d'ogni altro è rimasto imbrigliato nella rete non solo culturale della decadenza capitalista, incapace perciò di vederne i segni premonitori del superamento rivoluzionario.
Ma due trattazioni caratterizzano in pieno il suo mondo ideologico e politico, quella sua "egemonia" a cui ci siamo ampiamente riferiti e quella della "guerra di posizione" che rimangono i pilastri su cui poggiano più o meno validamente le sue più rilevanti conclusioni politiche.
Tutto il periodo di tempo preso in esame da Gramsci è la storia risorgimentale la cui connotazione maggiore è quella della rivoluzione passiva che ha per corollario, in termini "militari", la guerra di posizione in cui il proletariato gioca il ruolo di classe sottoposta che tende all'egemonia come fine storico ma non è né può essere egemone; anzi come classe antagonista è aperta al conflitto di classe per difendere il diritto alla sopravvivenza e sotto questo rapporto la lunga serie delle lotte rivendicative hanno più carattere corporativo che di vera e propria lotta di classe, aperta perciò tanto agli slanci offensivi fino all'uso episodico della violenza quanto alle repressioni feroci e ad ogni forma di contaminazione ideologica, politica e religiosa esercitata dagli intellettuali e dal clero, strumenti tradizionali dell'avversario di classe.
Non vi è dubbio che, in questo inarrestabile conflitto di classe, il proletariato è protagonista essenziale quanto lo è il capitalismo, ma non è egemone dal punto di vista del potere reale e quindi dello stato che lo esprime perché è fuori e contro questo stato in quanto antagonista della sua classe dirigente che tende a sopraffare per di venire esso stesso dirigente.
Il perenne processo molecolare di aggregazione e disgregazione che ora ristagna, ora ribolle entro gli argini della rivoluzione passiva, se da una parte dà l'impressione di un supposto immobilismo storico, dall'altra parte è scarsamente decifrabile quali siano, in questo mare magnum della politica italiana che va dal Risorgimento ad oggi, i fattori progressivi e quali i regressivi. Se, ad esempio, l'esperienza fascista è posta da Gramsci sul piano delle forze progressive della rivoluzione passiva e non su quello della controrivoluzione, sul perché aveva intravisto un embrione di grandismo monopolistico nell'ambito dell'industria di stato.
In quest'ampio spazio temporale il processo molecolare trova la molla del suo procedere in un disordinato susseguirsi di piccole scissioni nessuna delle quali perviene ad una vera e propria scissione tale da cambiare il corso della storia cui gli spostamenti di forza danno senso e contenuti nuovi. In una parola, per Gramsci siamo tuttora imprigionati in una guerra di posizione in cui la tattica è tutto e la strategia è nulla.
È tuttavia chiaro che il gioco, del tutto formale, delle piccole scissioni che caratterizzerebbero la fase della rivoluzione passiva non ha nulla a che vedere con la teoria marxista del perenne conflitto, con le sue inevitabili alterne vicende, tra le due classi fondamentali protagoniste in tutto l'arco storico del capitalismo, dalla fase della sua ascesa a quella attuale del deperimento e della crisi insanabile che Gramsci non aveva previsto, nei termini almeno, che sono propri della previsione marxista.
La stessa egemonia, nella formulazione gramsciana, dà adito a interpretazioni varie e tra loro contraddittorie: ora si afferma l'egemonia della classe fondamentale che la esercita già prima ancora della conquista del potere, ora la classe fondamentale la si vede esercitare il potere dello stato e non è dittatura e si tace sul come e con quali mezzi si passa dalla rivoluzione passiva a quella attiva che distrugge e crea, dalla guerra di posizione a quella di movimento.
Il passaggio avverrà per via pacifica e parlamentare, a suon di voti, per una specie di osmosi politica lenta e senza colpo ferire oppure lo scontro storico tra le due classi egemoni, una in fase calante e l'altra in fase ascendente, avrà il suo epilogo in una insurrezione armata e quindi nella conquista violenta del potere che comporta la distruzione dello stato e l'instaurazione d'un nuovo ordine?
Gramsci procede per accenni su questi problemi di fondo ed elude ogni impegno di approfondimento. E soprattutto evita, volutamente, lo scioglimento del nodo teorico dell'egemonia della classe fondamentale che come tale non può essere che una (fase dei consigli e del partito) in confronto al blocco storico di forze e ideologie diverse che, per sua natura, è molteplice.
E proprio della mistica religiosa l'uno e trino, e più in generale l'inconciliabilità tra unità e molteplicità, l'uno potrà fondersi e annullarsi nel molteplice ma non inversamente se non si vuoi tornare alla scolastica.
In termini politici se l'uno si identifica con la classe fondamentale, il proletariato, il suo affermarsi come classe egemone che esercita transitoriamente la sua egemonia (dittatura del proletariato) tende a superare se stessa con tutte le sue strutture, sovrastrutture che sono gli strumenti dell'esercizio della sua dittatura. Nella tematica gramsciana tale ipotesi non trova posto per la elementare constatazione che il suo blocco storico è per sua composizione, non uno ma molteplice, non è d'una sola classe, pur con le sue diversificazioni strutturali, ma d'una alleanza di forze di ispirazioni diverse per natura e grado socio-economico che, data la sua forma composita, obbedisce alla dinamica del pluralismo.
Chiuso nel groviglio delle contraddizioni, un concentrato sovra-strutturale di idee diverse, di diversi comportamenti e impulsi che non trovano soluzione in un punto d'unità concettuale, Gramsci è l'intellettuale classico che rivive dentro di sé, volta a volta, le influenze di ciò che esamina e se ne impossessa come d'una sua creazione originale e non certo il politico che si avvale dei dati offertigli da un esame critico dei fenomeni che emergono dal tessuto sociale e politico in continuo movimento per riunirli in una visione d'insieme per la realizzazione d'una politica che, comunque, anche nelle sue pagine, non è mai di classe, di quella classe che porta in sé la ragione storica e la forza strutturale del superamento rivoluzionario. Teorizza una visione del mondo basata su un indistinto movimento molecolare in un perenne intreccio di forze emergenti e di quelle destinate a scomparire, che per Gramsci è la fase della rivoluzione passiva affossata nelle salde trincee della guerra di posizione. Ne risulta un progredire degli uomini e delle cose ad infinitum, lungo una linea mediana di piccole scissioni che si ricompongono senza un punto terminale di sintesi, neppure come ipotesi di lavoro, che concretizzi l'atto chirurgico della violenza rivoluzionaria. Tradotto in termini di politica attiva, tutto si riduce ad un processo lineare di democrazia progressiva che nel contingente può avere il suo momento catartico nella Costituente repubblicana che placa l'ansia del suo Storicismo assoluto, modulato su quello crociano, nel quadro istituzionale del capitalismo, al di fuori e al di sopra d'ogni trauma che un trapasso rivoluzionario inevitabilmente porterebbe con sé.
Lo stesso Nicola Badaloni, che così appassionatamente e faticosamente ha tentato l'opera di ricomposizione politica d'un supposto marxismo di Gramsci, posto di fronte all'interpretazione del duplice senso dello "storicismo" quale emergenza politica d'una nuova civiltà (il socialismo) finisce con l'individuare il senso più ovvio e conseguente scrivendo:
Passaggio dunque indolore, democratico, parlamentare al socialismo o ricorso obbligato all'uso della violenza rivoluzionaria? Andiamo a sondare ciò che è avvenuto in certi momenti della storia del conflitto tra le classi e l'insegnamento che ne hanno tratto i maggiori studiosi dei fenomeni socio-economici della scuola marxista.
«Procedere in linea retta, non andare che da una parte, con l'andatura da fantoccio, secondo la pratica, da ciechi del soggetivismo; ecco i procedimenti e le maniere ideologiche dell'idealismo»[19]
E Plekhanov:
Lo stesso cittadino dovrà difendere sulle barricate nelle giornate di luglio 1830 i diritti della sua classe contro il potere assolutistico dell'antico regime.
Lo stesso cittadino, fatto ora operaio dell'industria, prima espressione del moderno proletariato, difenderà da solo ancora sulle barricate parigine del 1848 la sua ragione di vita, il divenire dello stesso proletariato internazionale di fronte all'assalto della stessa borghesia divenuta, nella sua essenza politico-sociale e al vertice della sua organizzazione, conservatrice e alleata contro di lui con le forze della nobiltà e del clero.
E si batterà nella Comune di Parigi (1871) fatto ormai adulto alla scuola del socialismo scientifico, della I Internazionale e della guerra civile; in coerenza quindi con le istanze permanenti della rivoluzione continuerà a battersi nella grande Rivoluzione Russa che dal 1905 al 1917 ha espresso i caratteri e il fondamento della rivoluzione internazionale del proletariato ponendolo definitivamente all'ordine del giorno della storia del mondo.
In questo profilo degli accadimenti la linea generale di sviluppo può sembrare la linea ascendente d'una evoluzione verso un tipo superiore di vita sociale e politica; in realtà questa linea assomma una serie di urti di forze in contrasto in cui il passaggio da una fase all'altra non avviene per effetto di un'armonica conciliazione dei termini contrapposti, ma per effetto d'un loro superamento dialettico che ogni volta implica lacerazione e ogni lacerazione implica violenza. E un accumularsi in ogni caso di ondate confluenti tutte in una immensa, irrefrenabile ondata sulla cui cresta è condensata la violenza di tutte le contraddizioni che ogni periodo dato della storia porta nel suo seno.
La trasformazione del modo di produzione sarà il risultato d'un rovesciamento compiuto con la violenza. Non esiste epoca storica in cui la violenza non sia apparsa come la sola inevitabile levatrice della storia e soprattutto non esiste cambiamento di regime fatto con altri mezzi che non siano quelli della distruzione delle fondamenta di una società che ha portato a compimento la sua esperienza e non ha più nulla da dire nella storia del progresso umano. Sta di fatto che nessuna società, nessuna classe è disposta a rinunciare al proprio ruolo dirigente. Da qui torrenti di sangue, da qui la violenza che inevitabilmente chiama altra violenza.
Provino i teorici del revisionismo a dimostrare un diverso cammino delle vicende umane e soprattutto ci diano i precedenti storici che al lume della dialettica marxista dimostrino la possibilità obiettiva d'una coesistenza pacifica e competitiva tra capitalismo e proletariato che renda superfluo, inutile e soprattutto impossibile l'uso della violenza rivoluzionaria.
La tesi di questi signori per cui l'esistenza d'un vasto e consolidato "campo" di economia socialista in pieno sviluppo nel cuore dell'economia capitalistica, è sufficiente per evitare guerre e rivoluzioni, dato e non concesso che tale campo esista, dovrebbe semmai legittimare la prospettiva d'una soluzione catastrofica del dualismo per la inconciliabilità di due regimi i cui interessi sono spinti ad annullarsi vicendevolmente e mortalmente e in nessun caso quella dei placidi tramonti cari ai politici delle riforme.
E siamo alle conseguenze pratiche del capovolgimento operato in sede dottrinaria, che consiste nel conquistare una salda maggioranza nel parlamento e trasformarlo da organismo della democrazia borghese in quello della volontà popolare: strumenti di lotta la competizione elettorale e la scheda.
Per giustificare l'ennesima svolta si è fatto appello nientemeno che a Marx e più precisamente al suo discorso tenuto alla sezione dell'Internazionale dell'Aja l'8 settembre 1872 con il quale affermava che «la rivoluzione è inutile là dove il proletariato abbia modo di far valere la propria voce con mezzi democratici» citando a titolo di esempio alcuni paesi (Stati Uniti, Inghilterra e probabilmente altri). E chi ha scritto queste righe aveva la piena coscienza di barare ai danni della serietà dottrinaria del marxismo e d'una sua esatta interpretazione.
Si gioca sulle parole, si ricorre al sillogismo al posto d'una valutazione dialettica, si va alla ricerca dell'episodio in sostituzione alla visione d'insieme dell'esperienza di classe e degli strumenti di difesa e di offesa offerti alla classe dirigente dall'esercizio del potere basato su un enorme potenziale di autorità e di violenza.
Di tutta la vasta e complessa opera di Marx, di tutti gli insegnamenti che costituiscono quel complesso monolitico del suo pensiero cui, a dire di Lenin non si può togliere nessuna premessa fondamentale, nessuna parte essenziale senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese, i neorevisionisti vanno a tirar fuori il congresso dell'Aja per coprire nel nome di Marx l'avariatissima mercée della "molteplicità delle vie del socialismo" che per loro è poi, in definitiva, la sola via parlamentare.
Non importa che il richiamo a Marx ci riporti al 1872, in evidente e fondamentale contrasto con la fase storica attuale; non importa che Marx stesso abbia nel contempo fornito il modo della sua esatta interpretazione; non importa nemmeno che tutto il pensiero filosofico, storico-politico di Marx prima del 1872 e dopo, come la sua stessa opera d'uomo politico e di rivoluzionario contrasti violentemente con l'interpretazione che han voluto darne i politici del parlamentarismo della II Internazionale e i tardi epigoni dell'odierno e assai peggiore parlamentarismo, ancora più corrotto e corruttore.
Conosciamo in proposito l'interpretazione di Lenin: «Nell'epoca in cui Marx faceva questo rilievo, in Inghilterra e in America appunto, e appunto nel decennio 1870-1880 quelle istituzioni [militarismo e burocrazia, n.d.a.] non esistevano (oggigiorno invece esistono tanto in Inghilterra quanto in America)» [21]. Ed è per lo meno curioso che Lenin facesse questa constatazione in polemica con Kautsky, quando lo stesso Kautsky, sempre sullo stesso argomento, scriveva nella prefazione alla quinta edizione tedesca (1904) del suo Programma socialista: «Quando nacque il programma di Erfurt, la possibilità che il proletariato conquistasse il potere politico senza catastrofi, appariva, in parecchi Paesi, per esempio in Inghilterra, molto più verosimile che non oggi». Si era nel 1904, agli inizi cioè, della politica imperialista nel mondo.
Ma ai "cafoncelli" della cultura in genere e di quella marxista in particolare, va ricordato che al Marx del Manifesto, al Marx della visione dialettica della storia e del rovesciamento della prassi e dell'analisi critica della Guerra civile in Francia, non si possono in nessun caso riferire le teorie della coesistenza pacifica e competitiva tra capitalismo e proletariato, la pluralità delle vie del socialismo, e l'avvento del socialismo col rispetto della legalità democratica quale sancita dalla costituzione quando si è opposizione e quando si è maggioranza. Queste teorizzazioni sono i miasmi che appartengono ad una società putrescente qual'è il capitalismo nella fase attuale della sua decadenza sia esso nella forma di capitalismo di Stato russo come in quella del capitalismo americano.
I nostri "catoncelli" si sono dimostrati al di sotto dello stesso opportunismo di Kautsky.
Ma è bene precisare che neppure nel famoso discorso tenuto alla sezione dell'Internazionale dell'Aja, Marx ha voluto dare alle sue parole il significato che l'opportunismo internazionale ha voluto loro attribuire.
Ci riferiamo ai dati storici di quel periodo che i neo-revisionisti fingono di ignorare. L'8 Settembre, il giorno dopo la chiusura del Congresso dell'Aja, ad Amsterdam si ebbe una riunione della sezione regionale. Vi presero la parola Marx, Engels, Lafargue, Sorge ed altri. Nel suo discorso Marx così riassumeva i risultati del Congresso:
Nel 1881 Marx precisava il suo pensiero a Hyndman con queste parole:
Engels ripigliava qualche anno dopo la morte di Marx lo stesso argomento nella prefazione alla traduzione inglese del Capitale.
NOTE
4. Plechanov, Les questions fundamentales du marxisme.
6. Engels, Ludovico Feuerbach.
7. Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.
8. Marx, Prefazione a: Per la critica dell'economica politica.
9. Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.
10. Marx, Il Capitale, «Poscritto alla II Edizione».
11. Gramsci, Passato e Presente.
12. Gramsci, Note sul Machiavelli.
13. Gramsci, L'Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell'ottobre 1919.
14. Lenin, Stato e Rivoluzione.
15. Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.
16. Gramsci, Lettere dal Carcere.
18. Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.
19. Labriola, Del materialismo storico.
20. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.
21. Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.
22. Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.
Ultima modifica 13.01.2004